Casaleggio, gli iscritti e le ultime espulsioni: le grane già sul tavolo

Il convitato di pietra, alla fine, non si è fatto vedere. Beppe Grillo aveva chiesto a Davide Casaleggio di sedersi al tavolo in cui verranno riscritte le regole che governano il Movimento Cinque Stelle. Ma lui ha rifiutato l’invito, ufficialmente perché impegnato nella sesta tappa del tour “La Base incontra Rousseau”. La verità è che ha già ben chiara una cosa: per fare posto a Giuseppe Conte, il primo che dovrà spostarsi sarà lui. Il carrozzone di Rousseau, con le sue liturgie e i conflitti d’interesse sempre dietro l’angolo, è lontano anni luce dall’idea del nuovo M5S che l’ex premier ha intenzione di provare a guidare. Lo ha spiegato chiaramente nel vertice, l’avvocato richiamato a gran voce: “Questo tema va risolto e dovete farlo voi”. E, va detto, ha affondato il coltello con una discreta facilità, visto che da tempo la casa madre milanese è nel mirino di una grossa fetta del gruppo parlamentare, stanco di versare 300 euro al mese, e pure del gruppo dirigente, arcistufo della tiritera sui dati degli iscritti “di proprietà” della piattaforma con cui Casaleggio di fatto tiene sotto scacco il Movimento.

La soluzione di un “contratto di servizio” che trasformi l’associazione Rousseau in un fornitore esterno è ancora in via definizione. Di certo, l’arrivo di Conte darebbe alla pratica una accelerazione immediata. Cosa che l’erede di Gianroberto sa bene e che lo ha spinto a segnare il suo distacco, con il mancato arrivo ieri all’assise dell’hotel Forum a Roma. Svanisce così quella pax, quanto meno apparente, che era stata siglata alla vigilia della nascita del governo Draghi, quando Casaleggio è sceso nella Capitale ed ha partecipato alla riunione in cui Grillo ha convinto i “big” a votare la fiducia. Fu proprio il Garante a farlo entrare, contro il parere di tutti gli altri, voglioso di “mediare”. Ma il rapporto con Casaleggio non è certo l’unico nodo in sospeso nel Movimento. Altrettanto ingombrante è la partita che riguarda la raffica di richieste di espulsioni, fioccata dopo che decine di parlamentari hanno disobbedito, voltando le spalle all’esecutivo guidato dall’ex presidente della Bce. Al momento è tutto in stand by: sui probiviri, che hanno aperto l’istruttoria dei provvedimenti disciplinari nonostante la contrarietà di uno dei tre membri del collegio, pesa la recentissima decisione del tribunale di Cagliari, che ha nominato un curatore speciale del M5S, ritenendo l’associazione priva di rappresentanza legale.

Tradotto, ha ritenuto che Vito Crimi, che fa il capo reggente da quando Luigi Di Maio ha lasciato l’incarico più di un anno fa, non sia più titolato a decidere alcunché, figuriamoci le espulsioni. Il 17 febbraio, infatti, gli iscritti al Movimento hanno votato sulla piattaforma la nascita del nuovo organo collegiale a cinque: da quel momento, è la linea anche di Casaleggio, il ruolo del reggente è da considerarsi terminato. I ricorsi – tra cui quelli di alcuni illustri esponenti M5S come Barbara Lezzi – sono ancora fermi: prima va capito se sono stati cacciati davvero o se tutto è illegittimo dall’inizio. Infine, resta la grande incognita dell’organo collegiale: come dicevamo, due settimane fa la base lo ha battezzato. Ma pochi giorni dopo è partito il pressing dei contiani – e di Grillo – per ricominciare daccapo: per interrompere il processo che dovrà eleggere i 5 componenti serve un intervento formale del Garante. E ormai nessuno dubita più che arriverà.

Conte dice sì: “Nuovo Movimento aperto, accogliente, intransigente”

L’avvocato ha detto sì: a Beppe Grillo, arrivato a Roma con un casco da astronauta, e a tutti i maggiorenti del Movimento. Ma è un sì con riserva, e alle sue condizioni. Perché l’ex premier vuole cambiare quasi tutto, e avere mano libera. Altrimenti “amici come prima” come scandisce con cortese fermezza nel vertice che dovrebbe valere come una svolta. Davanti al Garante e ai big del M5S in agonia, Giuseppe Conte non annuncia l’iscrizione al Movimento che pure l’aveva portato a palazzo Chigi. Piuttosto, chiede e ottiene “alcune settimane” per scrivere un “progetto rifondativo”, con cui cambiare la struttura e soprattutto le regole dei 5Stelle; troppe e astruse, a suo avviso.
Un piano per spalancare le porte del Movimento “alla società civile”, renderlo “accogliente” e trasformarlo. Al punto che nell’incontro Conte la butta lì: “Potremmo valutare anche un cambio del nome”. E i presenti si mostrano disponibili. Perché è a lui che devono aggrapparsi, all’ex premier che per accettare vuole il consenso di tutte le anime del M5S. E se lo avrà, a gestire sarà di fatto lui: da capo politico, segretario o formula similare.

Di sicuro ha chiesto e ottenuto di potersi scegliere la segreteria che lo aiuterà a “rifondare” il Movimento. Verbo centrale anche nella nota di riepilogo dei 5Stelle. E d’altronde di “rifondazione” avevano parlato la settimana scorsa sul Fatto Alfonso Bonafede e Paola Taverna. Sempre invocando Conte. Non può stupire che sia il senso della riunione con l’ex premier, fortissimamente voluta da Grillo, a cui in tarda mattinata partecipano tutti i pesi massimi: da Luigi Di Maio, Roberto Fico e gli stessi Bonafede e Taverna, per passare al reggente Vito Crimi, a Stefano Patuanelli e Riccardo Fraccaro e ai capigruppo in Parlamento. Manca solo Davide Casaleggio, che ha respinto l’invito del Garante. Tutti gli altri in una giornata primaverile si ritrovano nell’hotel Forum. L’usuale base del Garante nelle sue trasferte romane, scelta come piano b dopo la fuga di notizie sulla sede originaria del vertice, la sua villa al mare in Toscana. E all’albergo con vista sui Fori, Grillo va con uno scafandro da primo uomo sulla Luna, che pare ricordare un suo recente post (“I 5Stelle non sono più marziani”). Ma non c’è tempo per scherzare con Conte, in giacca e camicia blu. Anche perché l’ondata di ricorsi degli espulsi potrebbe rappresentare una bella grana per il nuovo capo politico, e l’avvocato Conte lo sa. Così spiega che dovrà “studiare bene” Statuto e regolamenti. E capire se è necessaria una nuova associazione giuridica, magari con un nuovo nome, oppure se si può procedere con quella attuale, cambiando lo Statuto. Crimi gli chiede di far votare comunque il comitato a cinque, già approvato dagli iscritti. Ma Conte vuole sceglierla, la segreteria. Tenendo dentro big come Di Maio, a cui ha già chiesto la disponibilità: da capo. Ma è meglio non definirlo così, almeno non ora, dicono. Perché i big notano le parole dell’ex ministro Vincenzo Spadafora, a Mezz’ora in più: “Non va fatta un’immissione a freddo di Conte, ma serve un percorso con modalità di partecipazione concrete”. Soprattutto, Spadafora sostiene: “Il M5s vive sempre di piccoli cerchi temporanei in cui si decidono le cose, ora vanno create regole democratiche e chiare”. Ergo, il timore ai piani alti è che monti l’insurrezione interna contro un nuovo leader calato dall’alto. Per questo fonti vicine all’ex premier precisano: “Conte non ha voluto alcun incarico formale, lavorerà al progetto e solo se verrà condiviso da tutti si impegnerà a realizzarlo con gli iscritti”. Un altro modo per dire che l’avvocato vuole un diffuso consenso. “Sentirò tutti” fa sapere. E potrebbe cercare anche il big che si è fatto di lato, Alessandro Di Battista. Ma a pesare ci sono anche i temi dentro “il progetto”, riassunti così: “Conte ha raccolto l’invito a elaborare un progetto rifondativo con il Movimento, per farne la forza trainante della transizione ecologica e digitale”. L’obiettivo principale, con la “lotta alla corruzione, il contrasto delle diseguaglianze, delle rendite di posizione e dei privilegi”.

Grillo già esulta sul suo blog: “Ora è arrivato il momento di andare lontano!”. E Di Maio assicura: “Questa è la strada, sono anni che ci danno per morti ma il M5S scriverà il futuro”. Prima però bisogna aspettare Conte. L’indispensabile.

Ma mi faccia il piacere

Arabia Viva/1. “Domanda: È giusto intrattenere rapporti con un Paese come l’Arabia Saudita?”. “Risposta: Sì. Non solo è giusto, ma è anche necessario. L’Arabia Saudita è un baluardo contro l’estremismo islamico… Non dimentichiamo che, fino a cinque anni fa, in Arabia Saudita – per fare un esempio – le donne non potevano nemmeno guidare la macchina. Le esecuzioni capitali stanno scendendo da 184, nel 2019, a 27 nel 2020” (Matteo Renzi, segretario Iv, intervista Matteo Renzi, segretario Iv, enews, 27.2). Com’è umano, bin Salman.

Arabia Viva/2. “Biden ha chiesto giustamente di fare di più. Soprattutto sulla questione del rispetto dei giornalisti. Difendere la libertà dei giornalisti è un dovere, ovunque, dall’Arabia Saudita all’Iran, dalla Russia alla Turchia, dal Venezuela a Cuba, alla Cina” (Renzi, ibidem). Fuorchè in Italia.

Arabia Viva/3. “Oggi è una giornata bellissima, con il sole che scalda il cuore. Non è il giorno giusto per fare polemica o per arrabbiarsi. È sempre il giorno giusto, invece, per citare in giudizio Marco Travaglio e il Fatto” (Renzi, Instagram, 28.2). Sta cercando disperatamente dei soldi puliti.

Chi offre di più? “Vaccinazioni, il piano Draghi per salire a 200 mila al giorno” (Repubblica, 28.2). “Draghi, piano con la Protezione civile: ‘Oltre 600 mila dosi al giorno’” (Corriere, 28.2). Fosse per noi, pure 10 milioni al giorno. Ma forse è il caso di sincronizzare le lingue.

Punt e Mes. “L’Italia prenda i soldi del Mes” (Carlo Cottarelli, Agi, 3.6.2020). “Il Mes non è essenziale” (Cottarelli, Verità, 22.2.2021). Ma tu guarda.

Slurp. “La M nella firma di Draghi è un segno di forza interiore e intelligenza. In quello che scrive si nota una persona che ha come tratto distintivo il non farsi sommergere dal ruolo che ha, che è un tratto tipico dell’educazione gesuita” (Gabriele Albertini, ex sindaco FI di Milano, Un Giorno da Pecora, Radio1, 23.2). Un po’ come la M di “Ma va a ciapà i ratt”.

Casa dolce casa. “La mole di lavoro un po’ mi spaventa. Non sono abituato, a quasi 69 anni, a vivere lontano da casa tutta la settimana” (Patrizio Bianchi, ministro dell’Istruzione, Repubblica, 15.2). Ma infatti, potresti sempre tornarci.

Freud dove sei? “Contagi con prudenza, in 25 anni di Porta a Porta abbiamo avuto almeno 4 miliardi di spettatori” (Bruno Vespa, Twitter, beccato da @nonleggerlo, 18.2). Peggio di peste nera, colera, spagnola, aviaria, suina e Covid-19 messi insieme.

Per dimenticare. “Ora dobbiamo concentrarci sul rilancio del Pci” (Nicola Zingaretti, segretario Pd, a Radio Immagina, web radio del partito, 14.2). “@carmelitadurso in un programma che tratta argomenti molto diversi tra loro hai portato la voce della politica vicino alle persone. Ce n’è bisogno! #noneladurso” (Zingaretti, Twitter, 24.2). Tutto pur di non parlare del Pd.

La mosca cocchiera. “Manca solo la firma del governatore e poi la Virginia sarà il primo stato nel Sud degli Usa ad abolire la pena di morte. Siamo il paese di Beccaria, questa vittoria un po’ ci appartiene” (Ivan Scalfarotto, sottosegretario Iv, Twitter, 23.2). Ecco, ora raccontalo a Bin Salman.

Il Cazzaro vero. “Il Ponte sullo Stretto? Parecchi ingegneri dicono che non sta in piedi. E il 90% delle ferrovie in Sicilia è a binario unico e la metà dei treni va a gasolio. Non vorrei spendere qualche miliardo di euro per un ponte in mezzo al mare quando sia in Sicilia sia in Calabria non ci sono i treni. Aveva ragione Renzi quando era un altro Renzi, nella vita precedente, che diceva: quei soldi usiamoli per sistemare le scuole. Sono d’accordo col Renzi vero e non col Renzi falso” (Matteo Salvini, segretario Lega, L’aria che tira, La7, 1.10.2016). “Il Ponte sullo Stretto sarebbe un salto nel futuro, un gemellaggio tra i sindaci di Genova e Reggio Calabria” (Salvini, 22.6.20). ”Nessun via libera di Salvini al Ponte sullo Stretto. Opinioni diverse attribuite al segretario della Lega Nord sono destituite da ogni fondamento. Più volte Salvini ha espresso profonde criticità sull’opera” (nota della Lega, 23.6.20). “Il Ponte sullo Stretto? Io ci credo. Potrebbe chiamarsi Ponte Draghi” (Salvini, 18.2.21). Non ho detto ciò che ho detto e, se l’ho detto, mi sono frainteso.

Senti chi pirla. “La proposta di Matteo Salvini sui ristoranti aperti anche a cena è ragionevole” (Stefano Bonaccini, presidente Pd Emilia Romagna, 23.2). “Stiamo affrontando l’inizio della terza ondata: non possiamo mollare ora. Nell’area bolognese i positivi stanno crescendo a un tasso quasi 3 volte superiore alla media nazionale soprattutto tra giovani e giovanissimi. I ricoveri crescono. Le nuove misure sono indispensabili” (Bonaccini, annunciando l’ordinanza che include tutti i comuni del Bolognese in zona arancione scura, 26.2). Ehi, dici a noi?

Il titolo della settimana/1. “Flop del Reddito: lavora 1 su 200” (Messaggero, 16.2). In effetti, se lavorassero tutti, non avrebbero bisogno del Reddito.

Il titolo della settimana/2. “La lingua nuova del premier è il realismo” (Andrea Cangini, senatore FI, Giornale, 22.2). Cangini invece lecca con quella vecchia.

“La gente la conquisto con la mia fame”. Il Tre guarda a Eminem, ma ringrazia i genitori

Ha postato su Instagram una foto a 14 anni: “Quanta paura avevo, sguardo basso per la paura del giudizio altrui, occhi di chi con nulla in mano già si credeva forte. Nove anni dopo ho gli stessi occhi ma lo sguardo è alto, ho battuto le mie paure”.

Guido Senia, in arte Il Tre, classe 1997, è schizzato al primo posto dei dischi più venduti in Italia con l’esordio Ali, terzo più ascoltato su Spotify nel mondo. Il singolo Te lo prometto è tra le canzoni più usate su TikTok. “Il messaggio che ho voluto dare è che è normale avere paura”, racconta Guido, “anzi, è positivo quando si vuole intraprendere una nuova strada. Se manca, significa o che non ci tieni abbastanza o che non la stai vivendo nel modo corretto”. Il suo quartier generale è Santa Maria delle Mole a Roma. È diverso dagli altri rapper perché lontano anni luce dagli stereotipi del genere: “Scrivo quello che sono e quello che penso, dico il vero e la gente lo capisce. Non mi piacciono i gioielli, non amo le droghe, non fumo e non bevo alcol. Mi sono sempre schierato in questo”. Legatissimo agli amici di sempre e ai genitori, con i quali ha voluto condividere il post con il disco di platino conquistato e a cui dedica l’album: “Loro ci sono sempre stati e ci saranno sempre. Per molti artisti associare i propri genitori è una vergogna, per me è un vanto. Se dovesse finire questo teatro so di poterci contare”.

Ali richiama la farfalla che ha tatuata: “È il mio simbolo, nasce da una frase del singolo Te lo prometto, ‘una farfalla vive poco ma muore volando’. Se la vita è così breve io provo a volare, metaforicamente parlando, piuttosto di vivere una vita normale”. Ma non è sempre rose e fiori. Scrive “se sapessero tutto ciò che mi ha tolto”: “Il successo toglie spontaneità, fa parte del gioco e coi social è tutto amplificato. Soprattutto è a rischio il calore dei rapporti interpersonali”. Ha vinto vari contest e racconta il suo percorso in un documentario su YouTube: “Nel video dico ‘la gente è stata conquistata dalla mia fame’. Forse non ero il più forte sul palco, ma avevo una diversa attitudine, credo si vedesse nei miei occhi”.

Nei testi prova a dipanare le nebbie dell’adolescenza: “Ciò che vuole sentire un figlio è solamente ti amerò, indipendentemente da ciò che farai”. Aforismi da tatuarsi nell’immaginario: “ho sempre pensato che chi sogna lo merita” oppure “non può nascere un fiore sull’erba sintetica”. Pioggia è la traccia più riuscita, più intensa. A scuola, il professore “Mi diceva che non avrei vissuto di musica. Giudicava il mio impegno una pagliacciata ottenendo di spronarmi a proseguire nel mio percorso. Pubblicare una canzone non è una passeggiata, è come andare in guerra senza armi e completamente nudo”. Nelle foto è spesso sopra un tetto: Tegole è una canzone di punta, quasi la metafora di uno sguardo diverso sul mondo: “Dal tetto la vista è più vasta, mi riempie di ispirazione”. In Io non sono come te parla agli adolescenti durante il lockdown, li sprona a non tarparsi le ali. E in Beethoven si scaglia contro i simboli della tv nazionale: “Un minuto di silenzio per tutti i maschietti che fanno carriera presentandosi a Uomini e donne”. La sua prima data al Fabrique di Milano l’11 dicembre. Se dovesse ospitare qualche “collega” famoso Il Tre chi chiamerebbe? “Eminem senza dubbio. Più che per tre varrebbe per trenta!”.

I sotterranei del Colosseo: un capolavoro “scoperto”

Un’insidia proveniente da dove meno te lo aspetti (il Ministero della Cultura) incombe sui sotterranei del Colosseo, o meglio sulla loro fruizione. E dire che è il più grande backstage (o forse meglio understage) che il mondo romano ci abbia tramandato: depositi di macchine e attrezzature, ripostigli per elementi scenici, ambienti in cui uomini e animali aspettavano di uscire sull’arena. Una giornata di giochi era in genere assai piena: la mattina le lotte fra gladiatori e belve, nell’intervallo di pranzo l’esecuzione “spettacolarizzata” di pene di morte, nel pomeriggio duelli di gladiatori fra loro. E là sotto si consumavano le attese di tutti.

L’arena, che era in legno, è andata perduta. Sul Fatto del 28 dicembre Tomaso Montanari ha ricordato che esiste un progetto di ricostruzione (che lui e altri giudicano negativamente) finanziato con ben 18,5 milioni di euro e di cui è uscito il bando di assegnazione dell’appalto. Il termine era fissato al 1 febbraio: ancora non si sa quante e quali proposte siano state presentate.

Al momento al Colosseo è in corso la mostra Pompei 79 d.C., fine di una storia, che espone un celebre dipinto murale di una rissa scoppiata nel 59 d.C. nell’anfiteatro di Pompei fra “padroni di casa” e Nocerini (ne parla Tacito). Comparando questo anfiteatro più antico con il più famoso Colosseo (inaugurato nell’80 d.C.), riscontriamo i progressi tecnici intercorsi: la cavea si articola in ambulacri, rampe di accesso alle gradinate e muri radiali, ed è diversa da quella del “collega” più antico, in cui le gradinate poggiano su un terrapieno e l’accesso è molto essenziale. Mentre nell’edificio pompeiano l’arena appare compatta, nell’arena del Colosseo (che non c’è più) si vedono imponenti rovine, quelle dei sotterranei realizzati da Domiziano.

Dei tanti anfiteatri del mondo romano (133 in Italia, 252 nelle province), molti si sono dotati di questo tipo di strutture, nascoste al pubblico perché sulla sommità poggiava il campo di battaglia costruito in assi e tavole. Questo mondo sotterraneo è visibile agli spettatori di oggi, e nel Colosseo incomparabilmente più che altrove.

Una serie di muri paralleli all’asse maggiore dell’arena delimita corridoi di lunghezza simmetricamente decrescente, tali da assecondare la forma ellittica dell’edificio e dell’arena. Tutto intorno girava il cosiddetto “corridoio B”, pure ellittico, attrezzato con 28 ascensori per portare in superficie uomini, belve e macchine. Appena restaurato, oltre a essere visibile dall’alto il complesso è praticabile anche dal basso (c’è un biglietto apposito).

Insomma, è proprio utile ricostruire quell’arena, che non impedisce la visita ma rende più complessa e delicata, e soprattutto “oscura”, la visione dei sotterranei dall’alto consentita a noi e non agli antichi? Rivediamo la dichiarazione del ministro Franceschini: “L’obiettivo è quello di rendere nuovamente utilizzabile la superficie del pavimento dell’arena del Colosseo, e di individuare una soluzione tecnologica compatibile e reversibile per la copertura degli spazi sotterranei. Gli interventi dovranno essere progettati in modo da offrire contemporaneamente la percezione del livello dell’arena su cui si svolgevano i giochi e la visione del complesso sistema di strutture e meccanismi sottostanti”. Commenti: il fatto che si voglia rendere “nuovamente utilizzabile” l’arena fa temere il peggio (non si potranno certo far combattere gladiatori: c’è da aspettarsi qualche eccesso di fantasia), e la proposta di farla “reversibile” è assai vaga (un’“arena levatoia”?). Inoltre, 18,5 milioni di euro per offrire una “percezione” appaiono un po’ troppi; e la visione dello straordinario complesso sottostante, anche se per le visite si impiegheranno le più costose tecnologie, difficilmente sarà più agevole dell’attuale.

“Le follie ai tempi del derby, i parrucchini di Berlusconi e gli scherzi a De Crescenzo”

Jannacci come medico che consiglia lo svenimento nei momenti di panico, Berlusconi con i parrucchini nascosti in barca.

La raccomandazione di Craxi per lavorare in Rai e i boss della malavita intorno al Derby di Milano (“E allora la droga era molto differente”).

Sesso e volentieri.

Bloody Mary come se non ci fosse un domani, ma con “poco ghiaccio, altrimenti si annacqua”.

Renato Pozzetto in mutande davanti la porta di casa, Roberto Benigni quando era ancora Roberto Benigni (“con noi si divertiva e non parlava sempre di politica”); e ancora una lunga, infinita sequenza di nomi, di vizi, sprazzi di virtù, genialità vissuta, goliardia a pioggia, day after terribili, e a volte sembra quasi e solo per vedere lo strano effetto che fa (Jannacci dixit).

È la biografia di Silvia Annicchiarico (“due ‘n’ e due ‘c’, mi raccomando”) scritta con Gabriella Mancini: la più famosa tra i meno famosi, come appare nel sottotitolo.

Artista illuminata dall’intuito di Renzo Arbore ai tempi di Quelli della notte, ancora oggi la notte rappresenta il suo paradigma, in veste radiofonica: “Ho una trasmissione su Rtl e devo ringraziare Suraci (proprietario della radio): è il mio benefattore”.

Biografia rivelatrice.

Maurino Di Francesco mi ha suggerito un sottotitolo: “Silvia parla e Milano trema”; (ride) non so quante volte l’editore ha portato alcune pagine dall’avvocato per il timore di querele.

L’imprinting alla sua vita è iniziato molto presto.

Ho una famiglia un po’ particolare: mio padre era medico, un duro, girava sempre con la pistola; una mattina mamma aveva dolori mestruali e per curarla le diede della morfina. Da quel giorno non è più riuscita a rinunciarci, e quando papà smise di passargliela, mi chiese di rubare delle ricette. Mamma venne condannata a due anni; (pausa) erano due birichini.

Nel senso…

Ci arriveremo; nel frattempo una nonna, quando avevo appena sei mesi, mi inficcò una banana intera in bocca: da allora non posso più vederne una, mi sento male; l’altra nonna mi zittiva con dei ciucci di garza pieni di zucchero. Un massacro per l’intestino.

Birichini…

Mamma gradiva le attenzioni maschili, ma anche papà non si risparmiava: aveva un’infermiera, la Mariuccia, con la quale intratteneva una storia; una sera, a una festa, mi avvicina un bel tipo, io ero già conosciuta, e si presenta: ‘Sono il figlio della Mariuccia’. E io: ‘Allora sei mio fratello’. Lui sconvolto, non sapeva nulla (Silvia Annicchiarico ha una sua traccia verbale ininterrotta: parla a profusione, non si inceppa mai, saltella tra i decenni, gli amici, le esperienze come se fosse un’unica storia, o un’unica notte. E ovviamente ne è consapevole); negli anni Ottanta ho girato 7 chili in 7 giorni.

Bene.

Quando lo trasmettono in televisione prendo 6 euro dall’Imaie, stessa cosa per Colpa del paradiso, mentre Il pap’occhio non lo passano mai.

Come ha iniziato la carriera artistica?

Incontri, casualità, amicizie e soprattutto la mia faccia tosta; (sorride) lo sa che ho conosciuto i Beatles?

Lo racconta nel libro…

Grazie a Gianni Minà, e con delle amiche, ci siamo infilate dentro la loro stanza d’albergo. Albergo blindato. Eppure abbiamo varcato la soglia, ci siamo presentate, autografo, stretta di mano, e poi siamo scappate; anzi no, una di noi è rimasta ed è uscita con Paul.

Riproviamo: come ha iniziato…

Mi ero infilata in quel mondo, frequentavo la Numero Uno di Mogol e Battisti, ero tra i ragazzi di Arbore ai tempi di Speciale per voi, fino a diventare la corista di molti cantanti; in quella trasmissione ho conosciuto tanti amici, da Cochi e Renato a Teo Teocoli.

I prodromi del Derby.

Di Pozzetto sono stata innamoratissima e uscivamo spesso insieme; quando andavamo a casa di amici si presentava in mutande con i vestiti sottobraccio, suonava il campanello, ed esclamava: ‘È qui la festa? Taaaaaaaaac!’.

Intorno al Derby c’era varia umanità…

Il giro di persone non è che fosse leggero: tra di noi si mischiavano dei veri boss della mala, gente come Angelo Epaminonda, Francis Turatello o Luciano Lutring.

Tre nomi importanti.

Epaminonda mi chiamava a casa.

Per dirle?

Anche da carcerato: squillava il telefono di casa ed era lui, e non ho mai chiesto come fosse possibile, con mia mamma raggelata; l’ultima volta che l’ho incontrato è stato due giorni prima del suo arresto, una cena con la moglie (sorride).

Una cena equivoca. Lo scrive.

L’ho raccontato in maniera sobria? Comunque puntavano a un rapporto a tre, io mi sono data; (cambia discorso) al tempo vivevamo tutta la notte, con le spaghettate alle quattro del mattino post-spettacoli, il giro della morte dei locali: entravamo, bevevamo, passavamo a quello dopo, e magari concludevamo dentro una bisca.

Ci vuole il fisico.

Prima forse, ora sto molto seduta; e poi sono zitella, sto da sola, non ospito nessuno, ogni tanto viene giusto Marina Suma, con lei siamo amiche; (ci pensa) per problemi economici ho venduto anche casa.

Quanti soldi si è sputtanata?

Molti; (sorride) il mio primo lavoro stabile, pagato, è questo con Rtl, altrimenti ho passato tutta la vita a vivere con retribuzioni saltuarie; Arbore mi ha aiutato e ho rubato il suo motto: “Libertà e salute, libertà è salute”; e pensare che non ho neanche mai fatto un vaccino anti-influenzale.

Non prende medicine?

In generale sì, sono la regina dello Xanax, lo uso da sessant’anni, da quando ho vissuto la mia prima crisi di panico. Io vivo con i medicinali. Da bambina non giocavo con i Lego ma con le scatole dei farmaci: erano loro i miei mattoni per le costruzioni.

Ha conosciuto Berlusconi quando era “solo” un costruttore.

In realtà per noi era totalmente uno sconosciuto; nei primissimi anni Settanta ero in tournée con Johnny Dorelli, purtroppo accompagnato dalla neo moglie Catherine Spaak: gelosa e appiccicata; in una tappa finimmo a Lampedusa, e mentre siamo al ristorante si avvicina un tizio: ‘Mi consenta, signor Dorelli, posso presentarmi? Mi chiamo Silvio Berlusconi, sono di Milano anch’io come lei e ho una barchetta ancorata qui dietro, all’Isola dei Conigli. Sarei molto onorato se veniste, sul mio guscio’.

Chissà il “guscio”.

Qualcosa di enorme, faraonico. Lui gentile, divertente, fissato con le canzoni francesi; a un certo punto accompagna Lalla, una delle altre coriste, sottocoperta, e quando tornano proprio lei, ridendo, mi confida: ‘Ho trovato una schiera di parrucchini’; (cambia tono) ma il top è stato al momento dei saluti: dalla barca alza il braccio e traccia il suo futuro: ‘Ricordate il mio nome… Berlusconi… oni… oni… Sentirete parlare molto di me’. Silvio poi l’ho incontrato altre volte, ci ho portato anche Arbore, e soprattutto con Craxi.

Craxi l’ha raccomandata.

Un disastro.

Esagerata.

Nel 1991 ricevo una telefonata ‘Vuoi lavorare col Berlusca o col Manca?’. ‘Fai quello che vuoi’, rispondo. Due giorni dopo Craxi alza il telefono e chiama il capostruttura di Rai2: ‘Annicchiarico deve lavorare’. Finisco a Gazebo, con Sandra Milo, e i fucili rivolti ai miei errori.

Di chi?

Tutti speravano in qualche mio scivolone, e Sandra Milo, amante di Craxi, possessiva e infastidita.

Ha nominato Arbore.

A lui rivolgo solo dei grazie e un rimpianto: non abitare a Roma non mi ha permesso di mantenere un rapporto più stretto, magari come quello che ha con Marisa Laurito.

Arbore capo-truppa.

L’unico in grado di scoprire talenti, valorizzarli e tenerli uniti. Una certezza.

Talenti veri, come Benigni.

A quel tempo era uno del gruppo, uno da goliardate, e poi non era così fissato con la politica; con l’arrivo dell’allora fidanzata, Nicoletta Braschi, è un po’ cambiato; (sorride) ma il massimo dei siparietti erano le scene con Luciano (De Crescenzo).

Cioé?

Renzo lo metteva in mezzo, lo prendeva in giro; una sera Arbore prende in disparte il cameriere: ‘Serva tutti quanti, meno De Crescenzo, lo salti con nonchalance, faccia finta di non vederlo…’. Alla quarta portata mancata, Luciano diventa paonazzo e impazzisce; per calmarlo abbiamo impiegato un bel po’. (ride ancora) un’altra volta gli ha fatto servire una cotoletta impanata, ma invece della carne c’era il cartone.

Arbore adirato, mai?

Con Marenco; eravamo alla Reggia di Caserta, Mario salta il cordone rosso di sicurezza e ruba piccoli oggetti unici, tipo quadrettini, piattini, penne rarissime. Renzo lo scopre e si incazza. E lui, per giustificarsi, confessa la sua cleptomania.

Quelli della notte.

Che periodo pazzesco, alla fine eravamo una sorta di Beatles, ovunque andavamo c’era la folla, tutti ci richiedevano, compresa la famiglia Agnelli.

E…

Arbore fu un maestro a capire che non avevamo bisogno di una scaletta: noi sapevamo il tema della puntata poco prima d’entrare, il resto era pura arte d’improvvisazione.

Voi delle star.

Una volta Maurizio Ferrini arrivò con un’ora di ritardo, Renzo imbestialito; e lui: “Ero a Botteghe Oscure per un intervento sul comunismo”.

Più volte è andata a Sanremo come intervistatrice.

E anche lì ho avuto attacchi di micropanico; ma tanto è un classico.

In che senso?

Tutti a Sanremo vivono nel panico. Tutti. Per questo c’era un’infermiera che propinava a chiunque iniezioni di ansiolitici. Si chiamava Giorgia e la sua stanza da lavoro era nei sotterranei.

Nella biografia, oltre ai suoi genitori, anche lei si definisce birichina…

Anche io mi sono divertita (e allude al sesso).

Un no?

A Sandro Ciotti; era fisso alla Bussola a giocare a carte con il patron Sergio Bernardini e altri personaggi. Ci prova, ma gli do buca due volte, alla fine scocciato estrae il suo orgoglio: ‘Tu non sai a chi hai detto di no”; non è finita: dopo anni, anni e anni mi scrive una cartolina, che ho ancora: “Hai perso una grande occasione, quella di essere considerata da Sandro Ciotti”.

Renato Zero nella postfazione la definisce “l’eterna ragazza”.

E mi conosce bene, ci frequentiamo da oltre quarant’anni, da quando veniva alla feste di Milano e lo guardavano male per il suo abbigliamento. È un grande amico.

Il suo cocktail da sbronza.

Bloody Mary salato ed è stato sempre una fonte di discussione con i barman degli alberghi: mettono troppo ghiaccio, poi chiedo sempre di abbondare con la vodka; una volta andavo a Petrus.

Il difetto che le rimproverano maggiormente.

A Milano mi chiamavano quella del “Ciuli News” perché sapevo tutto, e vengo tacciata di pettegolume: ma se le persone mi raccontano i cacchi loro, non è colpa mia.

Un grazie a…

Adesso a Suraci, un vero benefattore, poi a Renzo, sia per il lavoro che per le meravigliose esperienze e anche per qualche bonifichino nei momenti di difficoltà; poi con Renzo siamo entrambi molto legati al ricordo di Mariangela (Melato): ancora oggi quando viene a Milano lo vedo piangere per lei.

Lei oggi.

Sto bene da sola non voglio nessuno nel letto, mi arrotolo tutta e a volte mi do fastidio anche da sola. E se qualcuno viene a dormire da me neanche riesco a chiudere gli occhi.

Personaggio letterario preferito…

Una volta il mio amante mi ha regalato La provincia dell’uomo di Canetti, ma non sono una lettrice accanita. Topolino?

Super eroe?

Forse Peter Pan.

Lei chi è?

(Zitta per l’unica volta. Prende fiato. Cambia tono) Ah, saperlo. Mi conosco attraverso la gente, e qualcosa la sto scoprendo ora grazie a questo libro.

 

Attanasio aveva avvisato sugli spostamenti: Kinshasa nega

Tra i numerosi interrogativi che restano senza risposta sull’attacco armato nel nord Kivu che ha determinato la morte dell’ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere Iacovacci e dell’autista congolese, resta ancora da chiarire la responsabilità del governo. Kinshasa in un primo tempo aveva sostenuto di non essere al corrente della missione a Goma, il che avrebbe spiegato perché non aveva assicurato la protezione dovuta ad una missione diplomatica straniera. In realtà, il 15 febbraio, l’ambasciata italiana aveva inviato al ministero degli Esteri congolese una nota verbale (resa nota da Rfi) in cui si precisavano le date e i motivi dello spostamento. Ma è emerso anche un altro documento: una seconda nota, in data di ieri, dello stesso ministero (pubblicata in un tweet di AfricaNews Media Rdc), in cui si legge che, sempre il 15 febbraio, Attanasio aveva poi “comunicato a voce” al capo del Protocollo del ministero l’intenzione di non partire più per Goma: “La direzione – si legge – è rimasta sorpresa nell’apprendere la mattina del 22 febbraio dai media che l’ambasciatore era stato assassinato mentre era in attesa della nota che annullava la prima”. In più, si aggiunge, all’aeroporto di Kinshasa nessuno ha mai visto Attanasio imbarcarsi. La questione di chi avrebbe dovuto assicurare la sicurezza del convoglio resta aperta. Il governo congolese nega dunque ogni sua responsabilità. La moglie di Attanasio, Zakia Seddiki – che ieri era a Limbiate per l’ultimo saluto al marito – accusa il Programma alimentare mondiale: quella mattina l’ambasciatore era partito da Goma per andare a visitare delle mense scolastiche realizzate nell’ambito di un progetto del Pam. Il convoglio circolava su una delle strade più pericolose della RDC, dove operano numerosi gruppi armati. Con lui c’era il carabiniere Vittorio Iacovacci come sola scorta, e l’auto non era blindata. Il Wfp ha sottostimato il pericolo della regione? Nello stesso nord Kivu appena ieri c’è stata notizia di un triplice attacco in cui, in poche ore, sono rimasti uccisi 23 civili. Un attacco attribuito alle milizie della Allied Democratic Forces (Adf), un gruppo islamista ugandese. È in questo contesto che i carabinieri del Ros a Goma stanno cercando di portare a termine gli accertamenti. Il primo rapporto dell’intelligence italiana non esclude il coinvolgimento delle Adf nell’attacco. Non è neppure stata esclusa l’ipotesi del fuoco amico, in relazione alla sparatoria fra i rapitori e i ranger del parco Virunga.

Pechino rieduca Hong Kong. A scuola il pensiero unico

Circolare n 2/2021 dell’Ufficio Istruzione della Regione Amministrativa Speciale di Hong Kong: implementazione e risorse per l’insegnamento della sicurezza nazionale nel curriculum scolastico. A tutti i supervisori e presidi delle scuole primarie e secondarie.

“La sicurezza nazionale è parte di, e inseparabile da, l’istruzione nazionale. I suoi principi fondamentali sono lo sviluppo negli studenti di un senso di appartenenza alla nazione [cinese], dell’affetto per la popolazione cinese, e un senso di identità nazionale, insieme alla consapevolezza e al senso di responsabilità nella salvaguardia della sicurezza nazionale”. Le nuove linea guida sono state diffuse alle scuole all’inizio di febbraio.

Allegati, sei documenti che riscrivono il curriculum scolastico in altrettante materie, fra cui geografia (ai più piccoli vanno dati libri illustrati con le meraviglie della madrepatria cinese, dalla Grande Muraglia alla Città Proibita), inclusi due moduli: uno di introduzione alla sicurezza nazionale, l’altro sui “rapporti fra le autorità centrali cinesi e la regione amministrativa”. Sui sei link, solo uno ha una versione in inglese, mentre gli altri sono esclusivamente in cinese. È la nuova frontiera della repressione del dissenso: la rieducazione dei giovanissimi. Dimenticare la democrazia, atrofizzare il senso critico, imparare solo fatti a uso e misura di Pechino, obliterare l’identità specifica di Hong Kong, il suo melting pot unico, al crocevia fra culture, la sua libertà per decenni garantita da istituzioni democratiche, versione autoctona dell’eredità coloniale britannica. Libertà che da tempo ormai Pechino, tramite il governo fantoccio di Carrie Lam, smembra un pezzo per volta: dalla repressione violenta delle manifestazioni pro-democrazia dal 2014 a oggi, agli arresti di attivisti, ad interventi legislativi come l’obbligo, per candidarsi alle elezioni, di giurare fedeltà alla legge sulla “sicurezza nazionale” approvata da Pechino a giugno scorso, foglia di fico per giustificare ogni forma di repressione del dissenso mascherandola da protezione degli interessi nazionali da ogni ‘interferenza straniera”. È una azione sistematica, cambiamenti legislativi che scavalcano cioè che resta dell’assemblea dell’isola, svuotano la rappresentanza e sostituiscono parlamentari indipendenti con soldatini di regime. Ma non basta, di fronte alla resistenza pacifica del movimento pro-democrazia: bisogna riscrivere la Storia, come Pechino ha fatto durante la Rivoluzione Culturale maoista degli anni Settanta, gigantesca eradicazione di millenni di tradizione, e più di recente con la rimozione di qualsiasi riferimento alla rivolta studentesca e popolare di piazza Tien An Men nel 1989, di cui ormai due generazioni di cinesi non hanno memoria.

Il ben oliato meccanismo? Tacciare la realtà storica di ‘disfattismo’, sanzionare ogni dissenso come anti-patriottico. Stavolta, oltre all’intervento sugli studenti, Lam vuole censurare l’identità stessa della città: il suo governo sostiene la pubblicazione delle “Cronache di Hong Kong”, 66 volumi, 100 milioni di dollari per garantire il racconto “completo, sistematico ed obiettivo” di 7.000 anni di storia dell’isola. Lo scopo? Lam lo ha detto esplicitamente: “Aiutare i residenti, specie i più giovani, a capire meglio la strettissima relazione fra Hong Kong e la Cina”. Dal primo volume di 800 pagine, pubblicato a dicembre, è sparita la marcia dei 350mila che, nel 2014, ha dato il via ai movimenti pro-democrazia.

Ne ha scritto, in una lunga analisi di Vivian Wang, il New York Times, che ha intervistato il direttore del progetto Lau Chi-Pang, storico della Lingnan University e direttore del progetto delle “Cronache di Hong Kong”, di cui Carrie Lam ha il patronato onorario. “Sono sempre stato visto come favorevole al governo, e non nego di esserlo” ha ammesso. “I nostri studenti devono solo imparare gli eventi, non il contesto. Devono sapere che, dal 1997 [l’anno in cui il Regno Unito ha ceduto la sovranità dell’isola alla Cina in cambio di precise garanzie di mantenimento delle sue istituzioni e libertà democratiche], Hong Kong è parte della Cina. È l’unica cosa che devono sapere. Non vogliamo che analizzino altro”. Gli attivisti hanno reagito usando i social per la loro narrazione alternativa. Wang intervista Amy Lam, che ha partecipato alle proteste del 2019. Sua figlia, 15 anni, ha già il senso critico necessario e terminerà gli studi all’estero. Ma, dice Amy: “Mi dispiace per i bambini e per i loro genitori. Per loro sarà dura”.

La gag col morto in diretta e altri “disastri” narrativi

Nella puntata precedente abbiamo visto che lo schema narrativo di Greimas (1966) concentra temi di notevole interesse per un comico. I suoi quattro momenti sono il contratto, la prova qualificante, la prova decisiva (performanza) e la prova glorificante (sanzione): strutturano tutte le storie e, dunque, tutte le gag, dato che queste sono storie in miniatura. E poiché un comico incarna il capro espiatorio, una gag termina di solito con una sanzione negativa: combinato un disastro, il comico viene ucciso dalle risate. A volte un comico devia da questo cliché: smette di essere minaccioso e si concede una sanzione positiva, che muta la qualità del riso da aggressivo a benevolo: in una gag celeberrima, Keaton, ignaro e immobile, centra perfettamente il buco della finestra nella facciata di casa che gli è precipitata addosso (https://bit.ly/2NvoqUX): si sorride di quanto è distratto, ma soprattutto perché l’ha scampata bella in un modo sorprendente che, come spesso capita nelle gag di Keaton, ha del gioco di prestigio (https://bit.ly/ 3bHFyiv). Deviando dalle formule della gag, Chaplin glorifica Charlot alla fine di Luci della città: la graziosa fioraia che ha riacquistato la vista grazie a Charlot riconosce il suo benefattore in un pezzente, di cui ride perché la sta fissando (“Ho fatto una conquista!”), nel momento in cui, impietosita, gli mette una moneta nella mano. Lo identifica al tatto, un’agnizione che ci commuove ogni volta, come quando Euriclea, l’anziana nutrice di Ulisse, lo riconosce da una cicatrice nel mendicante a cui sta lavando le gambe. Le commedie antiche che terminano con un’agnizione risolutiva sfruttano quell’emozione gloriosa.

Il soggetto di molte opere pittoriche del passato riguarda uno dei quattro momenti dello schema; per esempio, dipinti di Bouguereau (1849) e di Boulanger (1849), come già certe pitture vascolari del periodo ellenistico (IV sec. a. C.), illustrano quell’episodio dell’Odissea. Lo stesso accade con le vignette umoristiche, che possiamo classificare in quattro gruppi a seconda che immortalino il contratto, la prova qualificante, la performanza o la sanzione. Classificare aiuta a comprendere. Il 15 aprile 1984, il comico inglese Tommy Cooper morì d’infarto al Her Majesty’s Theatre durante una diretta tv, e il pubblico in sala scoppiò a ridere, poiché tutti interpretano gli eventi applicando inconsapevolmente lo schema narrativo di Greimas: il contratto era la diretta tv; la prova qualificante era il prestigio di Tommy Cooper; la prova decisiva era l’esibizione; la sanzione della gag era un’altra, ma arrivò l’infarto, e il pubblico lo scambiò per il finale della gag. Anche gli episodi di cui è composta la nostra vita, e la vita stessa, seguono lo schema narrativo di Greimas, quando li raccontiamo. Applaudire ai funerali è da coatti in più di un senso.

Uno schema astratto come quello di Greimas può essere riempito da un’infinità di cose diversissime, in quanto esistono innumerevoli modi per svolgerne i quattro momenti, come mostrano le vignette di oggi. Buon divertimento!

(45 – Continua)

Oggi il vertice con Grillo e i big per convincere Giuseppe Conte

Il vertice per convincere Giuseppe Conte a prendersi il M5S si terrà oggi, come previsto. Forse proprio a Marina di Bibbona, nella villa in riva al mare di Beppe Grillo, che pure si era infuriato per la fuga di notizie. “Ma non è da escludere un’altra sede, cambiano idea di continuo”, sussurrava ieri una fonte di peso del Movimento. La certezza è che, salvo ripensamenti, in giornata Grillo riunirà Conte e i big dei 5Stelle, da Luigi Di Maio e Roberto Fico fino a Paola Taverna, Stefano Patuanelli e Alfonso Bonafede.

Un incontro per fare il punto sulla situazione nel Movimento e dare all’ex premier le rassicurazioni che chiede per entrare nel M5S, a cui non è neppure iscritto. Con ogni probabilità da capo politico, che verrà affiancato dalla segreteria di cinque membri, ancora da eleggere sulla piattaforma web Rousseau, la creatura di Davide Casaleggio. E proprio Casaleggio ieri ha incontrato alcuni attivisti per il tour digitale di Rousseau. “Stiamo costruendo un processo di decentralizzazione per dare agli attivisti più strumenti per autodeterminarsi e incidere sulla vita politica” ha dichiarato. Un altro segnale ai maggiorenti del M5S, con cui è da tempo in rotta. “Dobbiamo risolvere in fretta questo problema” dicono non a caso dal Movimento. Lo stesso Conte vorrebbe ridefinire il rapporto con la piattaforma, preoccupato dalla guerra tra la casa madre di Milano e i parlamentari. Un altro nodo di cui si dovrà discutere nel vertice. Stando ai sussurri si potrebbe parlare anche del tema dei due mandati, un totem che molti dei big del M5S sono decisi a rimuovere. E Conte non avrebbe motivi per opporsi, assicurano. Quel che gli preme è aprire il Movimento alla società civile, prima che arrivi “una slavina” a travolgere tutto, come ha confidato ai suoi nelle ultime ore. Ma per farlo deve prima accettare l’investitura. Perché ha ancora molti dubbi, l’avvocato. Più che comprensibile, visto il caos a 5Stelle.