Mascherine, Benotti & C. puntavano al bis. “Ci serve Bassetti per sostenere i test rapidi”

Veicolare i pareri di medici e virologi per “sollecitare l’esigenza pubblica” e tornare a mediare con il governo le forniture di presidi sanitari. A ottobre, l’ex giornalista Rai, Mario Benotti, e l’imprenditore Andrea Tommasi, indagati dalla Procura di Roma per traffico di influenze illecite, avevano fiutato il bis. Secondo i pm, grazie alla “moral suasion” operata da Benotti verso il commissario straordinario per l’emergenza Covid, Domenico Arcuri, lo Stato italiano a marzo 2020 aveva acquistato 801 milioni di mascherine dalla Cina, al prezzo di 1,2 miliardi di euro. Contratti che hanno fruttato ai mediatori provvigioni “illecite” per oltre 70 milioni, pagate dai fornitori cinesi ma, secondo gli inquirenti, “ricaricate” sui prezzi formulati alla Struttura commissariale.

In autunno, a quanto ricostruiscono gli inquirenti, il “comitato d’affari” voleva di piazzare un’altra maxi-fornitura, stavolta di tamponi antigenici rapidi. I mediatori, si legge nelle informative della Finanza agli atti dell’inchiesta, contavano di “agire tramite pubblicazioni scientifiche per sollecitare l’esigenza pubblica di tale presidio sanitario” anche “grazie alla collaborazione del prof. Heber Verri”. Quest’ultimo, non indagato, risulta consulente scientifico della Partecipazioni Spa, la società guidata da Benotti, della Diadem Research – cui il giornalista paga due bonifici da 150mila euro – e della Panakes, società co-fondata dall’imprenditore Fabrizio Landi (estraneo all’indagine), manager della Toscana Life Sciences, impegnata con il governo nello sviluppo della cura del Covid attraverso i monoclonali.

L’8 ottobre, Verri ha già scritto editoriali su alcune testate online e sta preparando una pubblicazione da sottoporre, a suo dire, alla Simit, la società italiana di malattie infettive e tropicali. Ma Tommasi non è soddisfatto. Al telefono, intercettato, gli dice: “Mi sembra che non stiamo ottenendo un cazzo perché nessuno ci sta ascoltando”. Verri gli risponde: “Quello che si deve fare lo cominciamo a fare con Benotti… Prendere un opinion leader credibile, tranquillo e sul mercato”. Si discute di un contatto con Matteo Bassetti, totalmente estraneo all’inchiesta, per arrivare al governatore della Liguria, Giovanni Toti: “Così hai fatto centro con il circuito”. Ma Verri è fiducioso: “Vedrai – gli dice – che si replicherà a Torino, si può replicare in Lombardia e in altre regioni” perché “Bassetti è amico personale di Sileri”, sottosegretario alla Salute, anch’egli estraneo ai fatti. Il consulente scientifico poi dà istruzioni a Tommasi: incominciare “a fare rumore” e “far girare questa voce con i tuoi amici” sulla validità del test pungi-dito.

Portofino, mai nato il Parco istituito da Costa. E dopo 2 anni l’area è assediata dal cemento

Legge finanziaria del 2018: il ministro dell’Ambiente Sergio Costa riconosce al promontorio di Portofino lo status di Parco Nazionale. E stanzia un milione di euro per la sua realizzazione. Due anni e mezzo dopo quel provvedimento si è perso nel pantano della burocrazia. E di quei soldi si è persa traccia. Una paralisi che venerdì ha portato varie associazioni, assistite dall’avvocato Daniele Granara, a presentare una diffida al Tar del Lazio contro governo e Regione Liguria. Nel frattempo, denunciano gli ambientalisti, il cemento assedia i confini del promontorio. A ridosso del Parco, in un’area di interesse comunitario, il comune di Santa Margherita ha autorizzato un” progetto di riqualificazione ambientale” che avvia la distruzione di un bosco, consente a un privato lo sfruttamento dell’area come discarica per materiali da scavo e la piantumazione di 60 alberi al posto di quelli appena abbattuti. Con una variante, nell’estate del 2020, il progetto è raddoppiato e sono pure comparsi 95 posti auto. Un passaggio che adesso è sotto la lente di Arpal e carabinieri forestali. E non è l’unica vicenda degna di nota. Nel 2018, con la Liguria travolta da una mareggiata, una colata di cemento aveva ricoperto il sentiero delle Gave, cammino che corre nel cuore incontaminato del promontorio. Un intervento giustificato con l’emergenza legata al passaggio dei mezzi di soccorso. Peccato che nessuna ambulanza possa attraversare una via così stretta.

Sul caso nei giorni scorsi i carabinieri hanno depositato una relazione finale al pm Fabrizio Givri. Per ora sono indagati i due rappresentanti dell’impresa che ha eseguito i lavori irregolari (mentre il committente è tuttora ignoto). Ma il via libera era passato anche da due sindaci: Paolo Donadoni e Matteo Viacava, amministratori di Santa Margherita e Portofino, entrambi vicini al governatore Giovanni Toti. Nel frattempo la Regione Liguria non ha mai risposto alla richiesta del governo di indicare un perimetro del nuovo Parco Nazionale: se restassero come sono oggi, quello di Portofino sarebbe il più piccolo in Italia. Ma i Comuni limitrofi, molti a maggioranza di centrodestra, sono contrari ad allargarne i confini. “Siamo in un limbo – denuncia Marco Delpino, presidente dell’associazione Amici del Promontorio di Portofino – con lo Stato e la Regione che si rimpallano le responsabilità la zona non ha più una vera tutela dalla cementificazione”.

FdI presenta l’ex leghista: multa per assembramento

Il cambio di casacca di Gianluca Vinci, deputato prima in forza alla Lega e da ieri rappresentante di Fratelli d’Italia, è finito in multe. Multe per assembramenti, per l’esattezza. La conferenza stampa organizzata ieri pomeriggio a Reggio Emilia per presentare il parlamentare, infatti, ha chiuso il sipario “con due bottiglie per brindare” fuori dalla sala, per strada, come racconta lo stesso Vinci. Tutti ben “distanziati”, sostiene. Ma questa non è stata l’interpretazione di due delle tre pattuglie della Polizia locale giunte sul posto, che prima hanno contestato l’assembramento e dopo concluso la festa con nove multe. Tra i sanzionati, ci sono anche il coordinatore provinciale di FdI Alberto Bizzocchi e il vice-coordinatore regionale Alessandro Aragona. Le voci dal partito di Giorgia Meloni non si sono fatte attendere per recriminare l’accaduto, considerato “gravissimo” per il capogruppo di FdI alla Camera, Francesco Lollobrigida, che invoca “un’interrogazione al ministro Lamorgese e al governo per chiedere doverose e precise spiegazioni in merito”.

Bio-on, il 5 maggio vanno all’asta ditta e brevetti

Il 5 maggio va all’asta Bio-on, la società bolognese che doveva rivoluzionare il mondo con le bioplastiche, fallita a dicembre 2019. Per comprare lo stabilimento, i marchi e i brevetti sulle bioplastiche si partirà da una base di 95 milioni. La start up creata nel 2007 da Marco Astorri, che valeva un miliardo di euro in Borsa (era quotata nel segmento Aim), è crollata dopo gli attacchi della società americana Quintessential che – come raccontato per primo dal Fatto – l’accusava di essere “una nuova Parmalat a Bologna” e un “castello di carte” destinato “al collasso totale”. A ottobre 2019 i vertici di Bio-on furono al centro di un’indagine di Procura e Guardia di Finanza, ancora in corso, per false comunicazioni sociali e manipolazioni del mercato. Astorri, assieme all’altro fondatore Guy Cicognani e ai membri del cda, è accusato a vario titolo di false comunicazioni agli azionisti e falso in bilancio e rischia di finire a processo per queste accuse. Secondo quotidiani locali, sarebbero già diversi i pretendenti nell’asta fissata dal tribunale di Bologna.

Solitudine e morte di Antonio Gramsci

La voce che esce dal telefono è di un vecchio, con un forte accento romanesco, strascicata: “Ma ancora co ‘sta storia d’er carcere de Turi e de Gramsci…. So’ Angelo Scucchia e adesso pure socialista…”. Ho raccontato sul mio giornale di allora, siamo nel ’74, l’aggressione fisica ad Antonio Gramsci già malatissimo nel carcere di Turi da parte di un gruppo di comunisti settari sino alla violenza, e un aggressore citato – che l’ha colpito con un pugno – ora se ne lamenta con me.

Ma non può negare l’episodio, del resto riportato anche nella bella biografia di Antonio Gramsci pubblicata da Peppino Fiori da Laterza nel ‘66. Nell’occasione il solo Sandro Pertini, anch’egli recluso, accorre in difesa di Gramsci. Ma Fiori non lo scrive. Eppure l’avvocato socialista di Savona era già ben noto come esponente politico, uno di quelli (Carlo Rosselli, Ferruccio Parri, nel ruolo di autista Adriano Olivetti) che nel 1926 avevano fatto fuggire il vecchio leader riformista Filippo Turati, vedovo da un anno della amatissima Anna Kuliscioff, prima in Corsica e poi in Francia sottraendolo alla violenza e al carcere fascista. Pertini aveva subito una prima condanna, con Parri, per quella fuga, poi era andato in esilio in Francia, rientrando sotto falso nome nel 1928. Era stato scoperto, imprigionato, condannato e confinato (è nota la lettera nella quale sconfessa e disconosce con parole durissime la madre che a sua insaputa ha chiesto la grazia al Tribunale Speciale fascista).

Giuseppe Fiori riferisce tuttavia quanto racconta in modo illuminante un altro recluso, Giovanni Lai, sulle discussioni e sulle liti che scoppiavano frequentemente a Turi nelle ore d’aria fra i compagni comunisti. “Lo Scucchia giungeva ad affermare che le posizioni di Gramsci erano posizioni socialdemocratiche, che Gramsci non era più comunista, che era diventato crociano per opportunismo, che bisognava denunciare la sua azione disgregatrice al partito e che pertanto lo si doveva buttar fuori dal collettivo e dal cortile di passeggio”. Fra l’altro Gramsci cercava di far capire ai compagni che le guardie carcerarie ex contadini non erano i veri responsabili di certe durezze e anche per questo, si prendeva del “legalitario”, del privilegiato che non voleva perdere la possibilità di disporre di libri e quaderni per poter leggere e scrivere anche in quella galera. I rapporti di Antonio Gramsci col partito sono ormai praticamente inesistenti, non soltanto per il contrasto oggettivo, ideologico, sviluppatosi fra lui e Togliatti anni avanti, prima della affermazione definitiva di Stalin su Trotsky, Kamenev, Zinoviev e altri, ma anche per la difficoltà oggettiva di comunicare in un ambiente inquinato di spie che manipolano anche i rapporti fra i familiari. La cognata Giulia poi è in preda ad un esaurimento psichico e fisico che la rende lontana e depressa. I fratelli sono pure distanti, Mario, il più giovane, ha addirittura sposato con convinzione, già nel 1920, le posizioni fasciste invano scongiurato dal fratello maggiore. L’altro fratello, Gennaro, gli scrive da Namur una lettera resa illeggibile dalla censura. Quindi l’ispettore Saporiti che lo visita a fondo il 3 settembre 1933 e gli parla di “motivi psichici, fra i quali l’impressione di essere stato abbandonato” dai suoi. Il terzo fratello, Carlo, ha attraversato gravi difficoltà economiche, ha dovuto chiudere il negozio di scarpe a Ghilarza, trovando un lavoro precario alle Latterie Sociali di Macomer, è andato a trovarlo promettendogli che gli avrebbe scritto, ma anche di una sola lettera non c’è traccia. L’unico che gli presta aiuto – per esempio – pagandogli a Milano i libri di cui abbisogna – risulta l’economista Piero Sraffa, che è del 1898, quindi di sei anni più giovane. Il quale anche dalla cattedra a Oxford gli rimarrà amico e corrispondente affettuoso. Sono stati entrambi allievi a Torino di Piero Cosmo (come Terracini del resto) e Sraffa ha collaborato fittamente a Ordine Nuovo di cui erano redattore capo Alfonso Leonetti e segretaria di redazione sua moglie Pia Carena. Il minore dei Gramsci, Mario, ha finalmente trovato un lavoro alla Snia Viscosa rimanendo tuttavia fascista. Una situazione per Gramsci a dir poco angosciosa. La salute di “Nino” deperisce, dorme, quando le dorme, due ore per notte, molte le passa “in bianco”. Di sé dice “giro nella cella come una mosca che non sa dove andare”. Poi cominciano gli sbocchi di sangue, gli attacchi di emottisi. Trasferito alla Clinica Quisisana di Roma, viene visitato da un luminare, il professor Cesare Frugoni, che lo trova in condizioni gravissime: morbo di Pott, una infezione osteoarticolare, tbc polmonare, ipertensione a 200, crisi anginoidi e di gotta. Eppure, a fatica, funziona quel cervello al quale Mussolini voleva “impedire di pensare” e che molti compagni consideravano fuori dal comunismo. Sono gli anni dello stalinismo più feroce e della eliminazione fisica dei principali oppositori, con i comunisti italiani, come Paolo Robotti e altri meno noti, spesso a fare da spie contro altri compagni , finiti ai lager, in Siberia, o sul Mar Nero, mai più tornati di là. E Palmiro Togliatti si salva tacendo.

Tornando all’ultimo Gramsci, va ancora a trovarlo, ogni tanto, magari per distrarlo con qualche mano di carte, l’ingegner Amadeo Bordiga l’avversario accanito del 1921, il settario che però umanamente gli vuole un gran bene e lo stima moltissimo. Ma nella prima edizione delle Lettere dal carcere (Einaudi) curate da Valentino Gerratana, l’episodio, decisamente significativo non viene in alcun modo riportato. Comparirà in quelle successive evidentemente sottratte alle forbici del censore di partito.

Sulle circostanze della morte di Antonio Gramsci le versioni imperversano. Giornalisti e saggisti si cimentano con grande fervore e anche con gli esiti più differenti. L o storico Francesco Perfetti nota che Togliatti nel necrologio su Lo Stato Operaio scrive che dietro quella morte c’è la volontà di Mussolini di spegnere per sempre quella testa pensante. In una lettera della cognata a Piero Sraffa viene adombrata l’ipotesi di un suicidio (ad uso dei censori polizieschi?). Nel 2008 lo storico Piero Melograni, ex comunista, avanza l’ipotesi che possa essere stato ucciso per ordine dei sovietici. Attorno al cadavere girava parecchia gente strana. Due fatti sono certi: il certificato di morte di Gramsci – testimonia Luigi Nieddu – non viene mai redatto né tantomeno firmato da un medico. Il cadavere sarà cremato senza che risulti alcuna richiesta espressa. Mistero nel mistero.

Quando Davide Lajolo intervista Renato Mieli, padre di Paolo, sul libro dedicato ai grandi processi staliniani contro gli oppositori del regime, gli chiede di Togliatti. Il quale, come è noto, si salvò restando sempre in silenzio. Di Gramsci fece capire che non sarebbe scampato. Non avrebbe taciuto. Dopo il ’45 la glorificazione unisce, in forma di culto, Togliatti a Gramsci. Soltanto una ventina di anni più tardi si comincerà a scavare nella vera biografia di Gramsci e nel vero rapporto fra i due.

 

Dal gelo alla calura, crescono nel mondo gli estremi climatici

In Italia – La primavera è esplosa in anticipo nella terza decade di febbraio. Tutto il Paese ha vissuto tepori anomali, ma mercoledì 24 soprattutto Nord-Est, Toscana e Lazio – con l’aiuto del foehn sottovento ad Alpi e Appennini – hanno stabilito nuovi record di caldo per il mese, 25,6 °C a Gorizia, 23,9 °C a Treviso, 22,4 °C ad Arezzo, 22,3 °C a Viterbo… valori sopra media anche di 10-15 °C e che sarebbero normali per maggio. Lo scorrimento dell’aria precocemente calda sopra al Mediterraneo ancora freddo ha generato estese nebbie marittime anche in località in cui il fenomeno è raro, come Sanremo e La Spezia. A rendere ancor più surreale l’atmosfera, dopo l’episodio del 6 febbraio è giunta un’altra nube di polvere sahariana cha ha ristagnato a lungo nell’aria ferma e stabile dell’anticiclone. Questo caldo anticipato ha pesato sul bilancio dell’intero inverno meteorologico 2020-21, che nonostante il freddo del periodo natalizio e di metà febbraio si chiude oggi con circa 1 °C sopra media.

Nel mondo – Non solo l’Italia, ma gran parte d’Europa e dell’Oriente asiatico sono reduci da una settimana di caldo memorabile. I precedenti record per febbraio (e talora per qualunque mese invernale) sono caduti in centinaia di località tra cui Amburgo (21,1 °C), Berlino (19,7 °C), Fiume/Rijeka (24,9 °C), Göteborg (12,8 °C), Pechino (25,6 °C), stabilendo anche nuovi primati nazionali in Liechtenstein (21,9 °C), Slovenia (25,3 °C), Croazia (26,4 °C), Slovacchia (20,8 °C), Polonia (22,1 °C), Svezia (16,8 °C), Pakistan (38,3 °C), Mongolia (15,8 °C) e Corea del Sud (24,9 °C). Valori che sorprendono anche in confronto al freddo intenso di pochi giorni prima, e che paiono confermare la tendenza all’estremizzazione degli eventi atmosferici: Gottinga in una settimana ha registrato uno sbalzo di temperatura senza precedenti in Germania, ben 41,9 °C dai -23,8 °C del 14 ai 18,2 °C del 21 febbraio! E anche gli Stati Uniti, dopo un evento tra i più freddi della loro storia, ora sono già in condizioni quasi estive: la neve batte in ritirata e Oklahoma City è passata da una minima di -25,6 °C il 16 febbraio a una massima di 21,7 °C il 23, +47 °C in sette giorni! Alluvioni in Amazzonia tra Brasile e Perù, in Indonesia (almeno cinque vittime nella zona di Giacarta) e nelle Filippine al passaggio della tempesta tropicale Dujuan. Secondo uno studio del Potsdam Institute for Climate Impact Research (Current Atlantic Meridional Overturning Circulation weakest in last millennium, su

Nature Geosciences) la Corrente del Golfo è debole come mai accaduto in 1600 anni, a causa del maggiore afflusso di acqua dolce nel Nord Atlantico dovuto alla fusione glaciale in Groenlandia, che altera la densità delle acque alla base della circolazione oceanica. Non vedremo le scene apocalittiche del film The Day After Tomorrow, ma ciò potrà comunque alterare il consueto tragitto delle perturbazioni e provocare più estremi climatici in Europa. Il ruolo delle acque marine nella dinamica climatica passata e futura è un punto cruciale, come ci spiega l’oceanografo australiano Eelco J. Rohling nel volume Oceani. Una storia profonda, appena uscito per le Edizioni Ambiente. L’Unione europea prova a mantenersi in prima linea nelle politiche ambientali con la nuova Strategia di Adattamento ai Cambiamenti Climatici, aggiornando nel quadro del Green Deal quella del 2013 per far fronte – con azioni di resilienza basate sulla conservazione della natura – a quella parte di stravolgimenti che saranno inevitabili nonostante la necessaria riduzione delle emissioni serra. Soluzioni che hanno il compito di minimizzare i danni climatici, ma che porterebbero pure nuovi posti di lavoro, innovazione, più salute e benessere per il futuro.

 

Rivelazione. L’esperienza della fede è una lotta continua tra l’“io” e Dio

I Vangeli mostrano come l’identità e la missione particolare di Gesù non siano state capite facilmente né dai suoi contemporanei né dai cristiani delle origini, che ne discussero a lungo e anche si divisero. La stessa difficoltà la si riscontra oggi, anche tra coloro che si professano cristiani. Nel Vangelo di Marco la questione dell’identità di Gesù si pone fin dall’inizio: i primi a parlarne sono i demoni che egli scaccia (“So chi sei: il Santo di Dio”, 1,24; Gesù “non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano”, 1,34). Per contro, sono gli esseri umani a non sapere chi sia Gesù (vedi 4,41; 6,3) oppure lo confondono con altre figure della tradizione ebraica o con nuove figure della scena religiosa della società (come Giovanni Battista in 6,14-16). La confessione di Pietro spazza ogni ambiguità: alla domanda di Gesù su che cosa pensa la “gente” che egli sia (8,27), Pietro chiarisce che per lui Gesù non è solo un profeta, ma è il Cristo (8,28), cioè il “Messia” atteso dalle tradizioni del suo popolo, il Messia della dinastia del grande re Davide. Tutto bene, dunque: a metà del Vangelo di Marco i discepoli – almeno loro – sembrano aver capito chi sia Gesù.

Ma è veramente così? Subito dopo aver riconosciuto in Gesù il Messia atteso, la fede di Pietro inciampa di fronte alla spiegazione di Gesù su che cosa i discepoli debbano aspettarsi nell’immediato futuro: “Poi cominciò a insegnare loro che era necessario che il Figlio dell’uomo soffrisse molte cose, fosse respinto dagli anziani, dai capi dei sacerdoti, dagli scribi, e fosse ucciso e dopo tre giorni risuscitasse” (8,31). Pietro pretende di correggere il Maestro: “Pietro lo prese da parte e cominciò a rimproverarlo” (8,32).

Che cosa gli dice? Il Vangelo di Marco non lo riferisce, lo fa il Vangelo di Matteo: “Dio non voglia, Signore!, Questo non ti avverrà mai” (16,22). Forse gli dice anche altro perché la reazione di Gesù è durissima: “Ma Gesù si voltò e, guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro dicendo: ‘Vattene via da me, Satana! Tu non hai il senso delle cose di Dio, ma delle cose degli uomini’” (Marco 8,33).

Pietro fa quello che facciamo noi quando pretendiamo di insegnare a Dio il suo mestiere, quando indichiamo la strada o le soluzioni che noi desideriamo o immaginiamo essere confacenti a Dio. La sua strada però è diversa da quella che indichiamo noi e le sue scelte spesso ci sorprendono e anche scandalizzano (“‘i miei pensieri non sono i vostri pensieri, né le vostre vie sono le mie vie’, dice il Signore”, Isaia 55,8). Questa specie di scambio di ruoli tra Pietro e Gesù – Pietro diventa il “maestro” che “corregge e rimprovera” Gesù, il quale diventa un “allievo” che non ha capito la tradizione teologica di Israele, mentre è invece lui, Pietro, che non ha capito la novità dell’evangelo di Gesù – provoca prima la dura reazione di Gesù (che chiama Pietro “Satana”, nel senso dell’Oppositore) e poi la riproposizione della via del discepolato come un andare “dietro” (non davanti) a Gesù (8,34) perché la guida, il Maestro, è Gesù e non Pietro.

L’esperienza della fede è una continua lotta tra un ipertrofico IO e la rivelazione di Dio. Il credente è sempre stato tentato di ritradurre l’evangelo di Gesù nel suo evangelo personale; di sostituire i piani e gli obiettivi di Dio con i propri. Ma Dio può essere accolto solo come un “visitatore” che bussa alla tua porta e chiede ospitalità nella tua vita per cambiarla. La storia della passione di Gesù insegna a rimettere le cose a posto, pur non allontanando l’essere umano dal suo bisogno di speranza, liberazione e pace.

 

Il mercato dei vaccini riscrive il capitalismo

Credo che alla Bocconi e alla Luiss dovranno al più presto riorganizzare alcuni corsi e riscrivere alcuni testi su tutto ciò che ha a che fare con il mercato. La scoperta che non esiste il mercato non ci arriva questa volta come l’ossessione ricorrente di una anziana sinistra, ma come una constatazione attuale di fatti mai accaduti da quando esistono produzione e concorrenza. Insomma, il capitalismo. Prendete il caso “vaccini contro il virus”. Ci sono le formule per produrlo, ci sono le fabbriche, c’è il personale adatto, c’è stata tutta la sperimentazione e il collaudo, del prodotto, a monte gli investimenti, a valle le ben calcolate aspettative di profitto. Ci sono centri di produzione sparsi nel mondo, alcuni da oltre 100 mila dipendenti, alcuni internazionali, tutti spinti dal grande motore dell’investimento e dalla inevitabile risposta del mercato che, ci dicono, se il prodotto funziona, non ha confini. Infatti, se necessario, moltiplichi il prodotto. E naturalmente, in proporzione, e anche in sproporzione, se le condizioni lo consentono, aumenti il prezzo. Ora noi stiamo assistendo alla negazione di tutto ciò che – nelle descrizioni e nelle celebrazioni – era il mercato. La richiesta cresce, i pagamenti fluiscono. Ma la produzione si fa rada e tende a fermarsi. A tal punto che si crea, dicono, un mercato parallelo illegale o di malavita. Fabbriche esauste? Avete mai sentito dire “Spiacente, al momento le nostre Toyota sono finite?” Il vaccino anticovid invece manca in ogni Paese che lo ha comprato sul mercato (a prezzi, si deve immaginare, di mercato) tranne quelli che avevano bloccato il proprio prodotto nazionale (Stati Uniti e Inghilterra) fino a esaurimento della domanda. Situazioni di guerra ci avevano già mostrato, in passato, decisioni come quelle americana e inglese. Ma il blocco spontaneo del mercato che fa sapere di avere esaurito la sua capacità di produzione e comunica che un adeguamento di prezzo, e dunque di profitto (pur con tutti quegli immensi impianti sparsi nel mondo) non potrebbe cambiare nulla, è un fatto del tutto nuovo. Ma non è la sola straordinaria novità di questo momento difficile che sembra costruito con domande senza risposta, come una cattiva fiaba. Abbiamo visto il misterioso limite del prodotto (prodotto di ingegno, brevetto costoso, investimenti immensi, in una catena di produzione senza capolinea).

Ma dobbiamo tener conto dell’altra stranezza. Non c’è folla che preme intorno ai luoghi di vaccinazione. Coloro che si presentano sono felicemente sorpresi dalla mancanza di fretta, di attese. Tutto è ordinato (parlo della mia esperienza nel Lazio), puntuale, condotto da persone adatte e gentili. Ma dopo il prescritto periodo di attesa, mentre ti dirigi all’uscita, non puoi non notare che c’è troppo poca gente in attesa. Poche vaccinazioni in una mattina, è possibile? Parlo ancora del Lazio per dire che le notizie dei luoghi di vaccinazione girano sui giornali, le televisioni e l’informazione online locali, dandoci due informazioni che sono altrettanto allarmanti e incompatibili. Qualcuno non ha ordinato le dosi di vaccino nel tempo e nel modo giusto, e questo qualcuno (probabilmente un organo di governo) sembra avere sbagliato tempo e dosi. Allo stesso tempo, la traballante fiducia nella scienza, non insolita in Italia (già quartier generale di terrapiattisti e no-vax), sembra aver toccato un livello più grave e pericoloso in una taciuta ma professata sfiducia nel vaccino anticovid.

Purtroppo la storia delle stranezze del momento non finisce qui. Si fa avanti e si allarga (annunciata più con orgoglio che con imbarazzo) la rete dei medici di famiglia che non vogliono vaccinare i loro pazienti con motivazioni come “Sono stanco” oppure “non sono preparato”.

Il gesto è politico ma finora è stato raccolto solo come uno sporadico incidente. Eppure lacera due punti di fiducia che hanno finora legato i cittadini al contesto sociale in cui vivono: il medico e la medicina. Difficile avere uno slancio di fiducia e di rapporto amichevole per il medico che ti spinge fuori dal suo studio. Difficile fidarsi di cure da cui il tuo medico preferisce tenersi alla larga. Se si aggiunge a questa storia non esemplare quella di infermieri e personale paramedico che (ci dicono i telegiornali) rifiutano di essere vaccinati (uno su tre), pur continuando nel loro rischioso lavoro, abbiamo il quadro di un crollo di fiducia che impedisce la coesione umana e sociale. Privo di identità, non riesce a ritrovarla, qualunque sia il governo. È vero che Salvini, componente e sostenitore del governo, ti dice di ogni decisione indispensabile che “non è rispettosa per gli italiani”, frase originale ma insensata. Ma tutti noi sappiamo che sarà difficile governare finchè c’è sulla stessa barca un sequestratore di barche.

 

Il marito numerologo finì per essere tradito dai suoi stessi calcoli

Dai racconti apocrifi di Luciano Folgore. Il ragionier Ravelli, alla mamma di Marisa, era piaciuto subito: “È un bravo giovane: impiegato al ministero, posato, metodico. Non fartelo scappare, figlia mia.” “Ti amo, Marisa” le aveva detto lui un giorno “e sento che domani ti amerò il doppio, e dopodomani il quadruplo, e mercoledì otto volte di più, e giovedì il doppio di otto…” Estratto un taccuino, fece un rapido calcolo, mentre lei lo guardava con occhi innamorati. “E fra 64 giorni, ti amerò 18.446.744.073.709.551.615 volte di più”. Si diedero così il primo bacio. Poi, subito, due. Poi quattro. Poi il doppio. Marisa aveva le vertigini. Una fissazione singolare, quella del marito per il computo. Otteneva risultati impressionanti: quante volte un uomo batte le palpebre in un giorno, in un anno, in tutta la vita. Quante volte l’umanità intera ha battuto le palpebre da Adamo alla presa di Porta Pia. A Roma, in viaggio di nozze, arrivati all’ultima loggetta della cupola di San Pietro le aveva chiesto a bruciapelo: “Sai quanti scalini abbiamo salito?” “Non saprei”. “Sei-cen-to-tren-tot-to!” E lei lo aveva guardato pensando: “Come sono orgogliosa di essere la moglie di Renato Ravelli!” Andarono ad abitare in un appartamentino nel sottotetto di un vecchio palazzo senza ascensore. Gli 80 scalini sembravano il triplo (240) quando Marisa tornava dalla spesa con le borse piene. Per consolarla, un giorno le disse: “Lo sai, tesoro, che in un anno tu sali e scendi 58.400 scalini? In dieci anni saranno più di mezzo milione!” “E tu credi che io voglia rimanere dieci anni in questa piccionaia?” pensò lei, che da qualche tempo aveva cominciato a covare desideri di ribellione. La Domenica del Corriere gli pubblicò una statistica (“Il numero esatto delle traversine di una linea ferroviaria che andasse dalla Terra alla Luna”) e in ufficio presero a trattarlo come una celebrità. Anche Marisa era diventata più allegra, spigliata, loquace, nelle riunioni in parrocchia. Lo attribuivano al successo del marito. E chissà quali altri trionfi lo attendevano: si era messo in testa, infatti, di calcolare quante vocali ci sono nella Divina Commedia, divise per cantiche, gironi, e personaggi. In quale luogo dell’Inferno c’era il massimo numero di u? Lui l’avrebbe scoperto: con la matematica si scopre tutto.

Una sera, Marisa rientrò a casa tardi. Renato l’attendeva con un foglietto in mano, trovato in uno stipo della cucina. Le disse: “Quando un uomo, il quale…” “Scusa, Renato, sono molto stanca. Me la dirai domattina la cifra”. “Te la dirò domattina? Chi cazzo è questo mascalzone che ti scrive delle frasi romantiche e ti dà degli appuntamenti?” Marisa riconobbe il foglietto, si sentì perduta. “Come hai potuto tradirmi così? In sei anni di matrimonio, io…” I numeri! Marisa intravide la salvezza. “Quante ore ci sono in sei anni, Renato?” “Ci sono 52.584 ore, calcolando un anno bisestile. È un numero elementare, lo conoscono tutti. Ma questo cosa c’entra? Stiamo parlando del tuo tradimento obbrobrioso, con un mascalzone che a quanto pare…” Marisa chinò il capo e mormorò in un soffio: “Per più di 50.000 ore ti sono stata fedele. Giuro. Il tradimento non è stato che di pochi minuti”. La mano del ragioniere, già pronta al ceffone, si arrestò a mezz’aria. Marisa non aveva torto, pensò: il tradimento che, a prima vista, sembrava così enorme, considerato invece su base puramente proporzionale… “Pochi minuti? Quanti minuti?” le domandò, strattonandola per un braccio. Marisa finse il terrore: “Venti, forse…” “Per quante volte?” “Una trentina” disse, con un’apparenza di sincerità. Renato lasciò la presa, si sedette, e cominciò a calcolare: “20 per 30, 600, che sta a 52.584 come X sta a…”

 

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La parabola di Landini, ormai imbevuto di potere

Scrivo in riferimento al bellissimo articolo di Cannavò “Riondino vs Landini, s’incrina l’immagine del leader vincente”. Che fine ha fatto l’appassionato sindacalista Landini che partecipava alla trasmissione di Santoro Annozero? Già il muro verso i M5S, che sembrava più mirato a sostenere un certo credo politico che ad ottenere migliorie per i soggetti più deboli. Poi sono arrivate le congratulazioni a Draghi per il nuovo governo che mi hanno lasciato basita. Quando, al funerale di Macaluso, diceva che l’esperienza comunista è terminata parlava probabilmente anche della sua. Infine lo spettacolino su Rai3. Mancava solo che, chiedendo le scuse, dicesse “lei non sa chi sono io”. Decisamente il potere ha compiuto una inquietante metamorfosi in un uomo che anni fa stimavo moltissimo.

Daniela Nicolis

 

Galli della Loggia sminuisce la pedagogia

Nei giorni scorsi sul Corriere della Sera è stato pubblicato l’ennesimo articolo qualunquista sulla scuola a firma di Ernesto Galli della Loggia dal titolo “Paese legale e Paese reale: la scuola parli italiano”. L’articolo si concentra sul tema delicatissimo e complesso della valutazione, operando una banalizzazione che non fa onore alla sua fama. Galli della Loggia sembra ignorare che la ricerca docimologica dimostra da decenni come il voto numerico non sia né affidabile né immediato. Il passaggio dal voto ai giudizi richiede a scuole e docenti notevole sforzo. Si tratta di riformulare obiettivi e progettare l’attività didattica. Significa partire dall’idea che i giudizi hanno senso solo se la valutazione verrà usata davvero come strategia didattica. Il 15 dicembre 2020 sono state presentate le nuove Linee guida sulla valutazione per la scuola primaria. La riforma, ispirandosi al modello finlandese, propone di formulare un giudizio descrittivo integrando la valutazione condotta durante l’attività quotidiana. L’ottica è migliorare la qualità dell’apprendimento di tutti i bambini. Questo cambiamento culturale richiede ai docenti di mettere in gioco tutte le loro competenze professionali. E lo hanno fatto. Pregherei Galli della Loggia di smetterla di usare l’espressione “pedagogichese” delegittimando e offendendo la pedagogia e i molti pedagogisti che ogni giorno si confrontano e collaborano a diversi livelli con le scuole dei territori per migliorare un sistema educativo e formativo a lungo penalizzato e trascurato.

Massimiliano Fiorucci, pres. Società Italiana di Pedagogia

 

La rubrica di Massari è una grande risorsa

Voglio fare i miei complimenti alla rubrica che cura Antonio Massari: Criminopoli. Trovo geniale la tenuta di vari conteggi che Antonio ciclicamente ci comunica. Il premio da assegnare, i nuovi indagati per corruzione… e chicca finale, il numero di giorni di latitanza di Matteo Messina Denaro.

Alfredo Grossi

 

Firenze, culla di Lorenzo il magnifico e Matteo…

A Firenze si è passati da Lorenzo il Magnifico a Giorgio il Santo fino a Matteo il bugiardo! Un trafiletto settimanale “la bugia” potrebbe fungere da valido antidoto al reiterarsi del “reato” e rinfrescare la memoria degli italiani.

Mario A. Querques

 

Caro Mario, non dimentichi il Nuovo Rinascimento del principe Bin Salman.

M. Trav.

 

Degli errori di Gabrielli se ne sono già scordati?

Buongiorno Marco, vorrei la verifica del mio ricordo riguardo Gabrielli, osannato da Repubblica. Quando ci fu il funerale spettacolare del boss dei Casamonica, chi doveva impedire che un elicottero lanciasse petali di rosa nei cieli di Roma? Potevano essere bombe?

Roberto Gioconda

 

Caro Roberto, lei ricorda benissimo. Il prefetto di Roma era Gabrielli, che dovette ammettere pubblicamente i gravi errori commessi. Ma questo è, per definizione, il governo dei Migliori e dei Competenti, quindi tutti fingono di dimenticarsi di quello scandalo e di molti altri.

M. Trav.

 

Sisto, ora alla Giustizia fino a ieri difendeva B.

Leggo che l’avvocato Francesco Paolo Sisto, che fa parte del collegio dei difensori di Berlusconi nel processo Escort, è stato nominato sottosegretario alla Giustizia. Ciò non puzza di conflitto d’interessi? O, quantomeno, è uno dei prezzi che Draghi ha dovuto pagare per avere il sostegno di B.?

Giacomo Grosso

 

Sì.

M. Trav.