Roma, requiem per uno stadio

 

 

“Peccato siamo rimasti col plastico”.

Daniele De Rossi sull’ex stadio della Roma

 

Non fu difficile paragonare la trattativa sullo stadio della Roma a Totò e Nino Taranto che in “Totò Truffa 62” vendono la Fontana di Trevi a Decio Cavallo, ingenuo e danaroso italoamericano a caccia di “bisiniss”. Fu circa quattro anni fa che avemmo la certezza di una strepitosa stangata (altro celebre titolo) ai danni di un italoamericano facoltoso assai ma per nulla ingenuo di nome James Pallotta. Quando una soprintendenza capitolina bloccò per l’ennesima volta l’inizio dei lavori (che non cominceranno mai) dichiarando di fondamentale interesse culturale l’Ippodromo di Tor di Valle. Sì, proprio il sito scelto dal bostoniano, proprietario dell’As Roma, per l’edificazione del Colosseo del calcio. Scrissero in un’apposita bolla i funzionari addetti che era soprattutto la tribuna a costituire “un unicum dal punto di vista dimensionale”. E fu in quel momento che la gens giallorossa, notoriamente poco assidua ai convegni d’architettura scoprì l’esistenza di Julio Lafuente, celebre progettista e autore dell’unicum dimensionale. Anche se i soliti tifosi poco acculturati, recatisi in perlustrazione, riferirono che sicuramente di unicum si trattava circondato com’era da erbacce, rifiuti umidi e solidi, carcasse di auto e fameliche zoccole (nel senso dei sorci). A questo punto i film di riferimento diventano tre e anche il cast si arricchisce perché dopo Totò, Nino Taranto, Robert Redford e Paul Newman entrano in scena “Er Pomata” Enrico Montesano e “Mandrake” Gigi Proietti. Protagonisti 44 anni fa del celeberrimo “Febbre da cavallo”, girato in quelle lande quando però la famosa tribuna era stipata di deliranti scommettitori. A contenere la lussureggiante umanità che ha frequentato lo stadio fantasma (e pascolato in esso) – palazzinari e truffatori, corrotti e corruttori, magistrati e politicanti – forse non basterebbe il remake di “Roma” di Federico Fellini. Anche se le dimensioni del bidone tirato al povero James superano il fantasy più travolgente: ottanta e forse anche cento milioni finiti nelle tasche di chissà chi, e in cambio di neppure mezza palizzata. Geniale. Per nostri limiti non abbiamo capito quanto la sindaca Raggi possa essere effettivamente dispiaciuta per la fine ingloriosa dell’opera. O quanto ne sia sollevata alla luce delle risse grilline in Campidoglio e a pochi mesi dalle elezioni dove si è ricandidata. Tutto sommato dopo la desertificazione degli spettatori causa pandemia l’edificazione di nuovi stadi non sembra essere la priorità nella testa dei cittadini/tifosi. Se proprio si vogliono investire risorse si cominci dall’abbattimento delle barriere architettoniche per i disabili, poiché le immagini di quel signore in carrozzina issato da braccia compassionevoli lungo una delle tante scale mobili fuori uso è intollerabile cara sindaca. Leggiamo, infine, che, malgrado tutto, i nuovi proprietari del club giallorosso, Dan Friedkin e suo figlio Ryan, non rinunciano a costruire lo stadio da qualche altra parte. Ci sembra di sentirlo il grande Gigi Proietti (alias Mandrake) romanista doc: “carissimi Dan e Ryan date retta, lassate perde”.

Antonio Padellaro

Siamo indietro ma è un buon inizio

Sono ottimista. L’ho sempre dimostrato, anche rischiando critiche da parte dei colleghi virologi. È il mio codice genetico stabile, senza speranza di “varianti”. Faccio parte di una generazione di ottimisti, praticamente un cluster! Mentre monitoriamo le varianti che sembrano fiorire giornalmente, credo che potremmo anche interpretare il fenomeno positivamente. Oggi si conoscono almeno sei varianti (UK, Sudafricana, scozzese, brasiliana, napoletana, olandese). Perché appaiono tutte ora? Perché non le abbiamo cercate a sufficienza. Solo il Regno Unito ha un centro nazionale ben organizzato che sforna in continuazione migliaia di genotipizzazioni al giorno. Nel resto dell’Europa, la genotipizzazione è stata confinata a studi limitati e poche sequenze sono state inserite nella banca dati mondiale. Adesso, finalmente, si sono attivati network di laboratori (il laboratorio del Sacco è uno di questi) che sequenziano giornalmente e si scambiano i dati. SarsCoV2 è un virus ad Rna (il suo acido nucleico) e dobbiamo aspettarci che muti continuamente, come l’Hiv e tanti altri. Le varianti sono mutazioni complesse, potrebbero vanificare sia i test diagnostici sia i vaccini. Entrambi sono stati messi a punto utilizzando il virus iniziale, quello erroneamente, ai tempi, chiamato virus cinese, in parte diverso da quello che circola oggi. Malgrado le mutazioni, l’efficienza dei test a disposizione e la validità dei vaccini non è al momento significativamente influenzata. Speriamo che sia cosi anche per nuove, inevitabili varianti. Il fenomeno, però, potrebbe diventare anche una opportunità utile. Potrebbe presentarsi una variante che “indebolisca” il virus, che lo renda meno infettante o che addirittura faccia diventare l’uomo un ospite non utile alla sua replicazione. A poco più di un anno dall’inizio dell’anno orribilis, una nota di ottimismo è necessaria. Questo è il bicchiere mezzo pieno e voglio sperare che diventi colmo, di speranza e di soluzioni.

Mario è proprio il padrone ideale

 

 

• Il nuovo stile Draghi: elegante per decreto. Un uomo naturalmente distante dagli eccessi. Un uomo in cui tutto trova misura. Ogni cosa che si accomoda in lui, si mette in regola. Perfino la scelta del cane racconta bene l’uomo: un Bracco ungherese, docile, fedelissimo al padrone.

 

 

• Di nuova musica si tratta e poco conta che fra ministri e sottosegretari ci siano ancora molti vecchi suonatori, per lo più tromboni sfiatati e anche incompetenti. I partiti abbaiano come “cani da pagliaio”: ringhiano minacciosi, ma in realtà sono inoffensivi e tornano in silenzio a cuccia all’arrivo del padrone nella speranza di ricevere almeno un osso.

 

 

• È il governo Draghi. Punto. Lavorato nei minimi dettagli a propria immagine e somiglianza. Per rispondere alla mission del mandato con una squadra calibrata che sembra essere, questa sì, “dei migliori”.

Il regime, la promessa sposa, i diritti negati: perché deve lasciare

Matteo Renzi deve dimettersi dal board del FII Institute. In verità non avrebbe mai dovuto accettare l’incarico da 80 mila dollari all’anno nell’istituto creato per decreto dell’anziano Re Salman di Arabia. Il FII Institute è nato dopo l’uccisione di Jamal Khashoggi. Teoricamente è un think tank che dovrebbe produrre eventi e idee per migliorare il futuro. In realtà serve a migliorare l’immagine del regime, acciaccata dall’omicidio del 2 ottobre 2018. Dopo la pubblicazione del rapporto Usa sull’assassinio di Khashoggi, Renzi dovrebbe scrivere due e-mail.

La prima al FII per dimettersi dal board. La seconda ad Amnesty International per donare i soldi incassati.

Nel rapporto dell’intelligence Usa, svelato dal presidente Joe Biden, si legge che “il principe regnante Mohammed bin Salman ha ordinato l’operazione di Istanbul per rapire o uccidere Jamal Khashoggi”. In realtà quel rapporto di 4 pagine aggiunge poco a quel che sapevamo già. I fatti sono gli stessi ricostruiti con gli audio e i video della Polizia turca nel rapporto dell’ispettrice speciale dell’Onu Agnes Callamard. Bastava guardare il documentarioThe Dissident per capire tutto: Khashoggi è stato attirato in una trappola al Consolato di Istanbul e un’operazione simile era inconcepibile senza un via libera. La novità è che gli Usa mettono nero su bianco le accuse contro il principe MbS un mese dopo il duetto di Renzi con lui al Future Investment Initiative a Riyadh.

Secondo la Polizia turca il corpo di Khashoggi sarebbe stato smembrato con una sega elettrica, trasportato a casa del console saudita e bruciato in un pozzetto riempito con una ventina di chili di carne bovina comprata in un ristorante del centro per confondere gli odori e far sparire il Dna.

Quindi Renzi non deve dimettersi da FII per Biden, ma per Hatice Cengiz. La 39enne turca avrebbe sposato Khashoggi. Mancava solo un documento e, solo per questa ragione d’amore, Khashoggi ha accettato il rischio di entrare in ambasciata il 18 ottobre 2018. Tutto era pronto per il matrimonio e lei attendeva fuori sperando di vedere uscire Jamal sorridente con il foglio. Invece dentro quell’edificio lo stavano facendo letteralmente a pezzi.

Hatice non parlava una parola di inglese. Ora lo ha imparato perché da due anni porta in giro per il mondo la sua battaglia per convincere i potenti come Renzi a far giustizia per Jamal. Anche Renzi cerca di migliorare il suo inglese ma poi lo usa per i salamelecchi a MbS sul Rinascimento saudita. Quando abbiamo chiesto a Hatice Cengiz un commento, lei ha replicato solo: “La storia giudicherà chi loda il regime”. Se Renzi lascerà il FII, perderà le relazioni, gli 80 mila dollari all’anno e i voli executive pagati. Chissà se migliorerà il giudizio della storia. Certamente quello di Hatice. E non è poco.

Renzi deve dimettersi anche per rispetto agli uomini e alle donne recluse nelle carceri saudite perché hanno osato dire quel che pensavano sul regime. Per i fratelli e gli amici di Omar Abdul Aziz, il 30enne vlogger in esilio, amico di Khashoggi, protagonista con la Cengiz del film The Dissident. Dovrebbe dimettersi per rispetto a Loujain al-Hathloul, l’attivista che ha pagato con 1.001 giorni di prigione la sua battaglia per i diritti delle donne. Rilasciata il 18 febbraio scorso, sostiene di avere subito torture. Renzi dovrebbe donare poi gli 80 mila dollari a Amnesty perché lui è libero di dire quel che pensa e loro no.

Il problema è che Renzi usa la sua libertà di parola per lodare il mercato del lavoro saudita. Proprio quello che per Amnesty è la prima ragione di violazione dei diritti umani in Arabia da parte delle imprese internazionali. Renzi poi dovrebbe dimettersi per tutelare l’onore degli italiani. L’ex sindaco di Firenze non può dire a davanti a MbS e al mondo che in Arabia intravede il neo-rinascimento.

Infine Renzi dovrebbe lasciare FII anche per rispetto di sé stesso. L’ex premier fa vanto della sua cultura cattolica e scout. Quante volte avrà spiegato ai suoi figli che non si sta dalla parte dei forti ma si sostengono le ragioni dei deboli? Quante volte avrà predicato che si aiuta la vittima anche se il carnefice è ricco, munifico e potente?

Se poi tutto questo non basta, almeno Renzi lasci per un suo interesse personale. Se vuole correre per il ruolo di Segretario Generale della Nato deve smarcarsi dal ruolo di paggio di MbS. A Biden non farà piacere la nomina dell’amico del mandante di un rapimento o di un omicidio.

La guerra dei ticket tolti a chi fa smart working

Da quando la pandemia ha imposto lo smart working di massa, quasi due aziende su 10 tra quelle che hanno il buono pasto come benefit hanno deciso in maniera illegittima di tagliare il ticket a chi lavora da casa. Hai voglia a raccontare che il lavoro agile ha avuto effetti positivi preservando i livelli salariali e la stessa salvaguardia dell’occupazione, come ha avuto modo di spiegare recentemente Bankitalia. E nonostante l’elogio da parte del premier Mario Draghi anche alla Pubblica amministrazione che “ha dimostrato capacità di resilienza e di adattamento grazie a un impegno diffuso nel lavoro a distanza”.

Eppure, secondo l’Anseb, la più grande associazione delle società emettitrici di buoni pasto, fino a 150mila dipendenti pubblici e privati in questo ultimo anno sono stati negati i buoni pasto. “I dati su quanti lavoratori non stanno più ricevendo i ticket restaurant sono anche più alti”, spiega il direttore del Centro studi Anseb Emmanuele Massagli. “Il calo in questo anno di pandemia dell’acquisto di buoni da parte delle aziende è stato infatti tra il 30 e il 35%, ma comprende sia le imprese che illegittimamente hanno deciso di non dare più i ticket ai dipendenti nonostante sia previsto dal contratto sia quelle che, purtroppo, non hanno mai più riaperto dopo il lockdown, circa il 15%, o che hanno ancora tutti i dipendenti in cassa integrazione. Poi ci sono anche alcune piccole realtà in cui i datori di lavoro, perlopiù piccolissimi imprenditori, li concedevano di propria iniziativa e da quando è scattata la pandemia hanno deciso di non darli più”, aggiunge Massagli. Ma se questi ultimi due casi non prevedono irregolarità, i datori di lavoro commettono un illecito in quasi il 15%, secondo le stime. Tra questi, soprattutto alcuni grandi gruppi bancari che hanno deciso unilateralmente di sospendere l’erogazione dei ticket. Le aziende sono, invece, tenute a garantire i buoni pasto per chi lavora in smart working se è previsto nel contratto di lavoro di riferimento o è stato sancito da un accordo sindacale. Ricordando che dallo scorso anno è stato abbassata la detrazione fiscale sul buono pasto cartaceo a 4 euro e innalzato il valore defiscalizzato dei buoni pasto elettronici a 8 euro.

Poi, però, ci sono anche alcune sentenze che negli ultimi mesi hanno fatto scuola. Ad esempio, la decisione del Comune di Venezia di sospendere l’erogazione dei buoni pasto nei confronti del proprio personale in regime di lavoro agile. Decisione giudicata legittima dal Tribunale di Venezia secondo cui durante lo smart working non è previsto un orario di lavoro fisso e per questo viene meno il presupposto per cui il buono non può essere usato fuori dall’orario di lavoro, come è stabilito per legge. Insomma, la solita confusione burocratica che rischia però non solo di far passare l’idea che lo smart working diventi una fregatura per il lavoratore, ma che schianti definitivamente il settore dei buoni caratterizzato da una guerra dove vincono sempre gli stessi (e a danno dei ristoratori). A spartirsi una torta da 3,2 miliardi di euro, tra pochissimi controlli, sono sempre un paio di giganti stranieri e uno sparuto grappolo di aziende italiane. Mentre gli esercenti denunciano commissioni ritenute “insostenibili” per offrire un servizio a circa 3 milioni di lavoratori, di cui un milione di dipendenti pubblici.

Jobs Act&Fornero: bel lavoro I giudici picconano le riforme

Chi negli ultimi tre anni ha seguito da vicino il mondo del lavoro si è accorto che, subito dopo la stagione delle “riforme strutturali”, è iniziata quella della controriforma a colpi di sentenze della Corte costituzionale e non solo. E ora, anche con la decisione presa l’altro ieri dalla Consulta e la nuova iniziativa del Tribunale di Roma, molte delle novità introdotte tra il 2012 e il 2015 sono state fatte a pezzi. La legge Fornero prima e soprattutto il Jobs Act dopo, nel tentativo di aumentare la flessibilità (cioè la precarietà), spesso hanno finito semplicemente per ridurre i diritti sanciti da Costituzione e princìpi internazionali. E i magistrati sono stati più volte costretti a mettere la toppa.

Le picconate giudiziarie hanno colpito la normativa sui licenziamenti illegittimi, il sistema che ha sostituito il “vecchio” articolo 18, e potrebbero non essere finite: il 17 marzo, infatti, la Corte di Giustizia europea deciderà su un ricorso che riguarda la disciplina dei licenziamenti collettivi, sospetta discriminatoria; la Corte costituzionale nei prossimi mesi affronterà la questione dei licenziamenti nelle piccole aziende. Materie tecniche, ma scaturite da scelte politiche andate in unica direzione: la contrazione delle tutele in cambio di un aumento dell’occupazione (che poi è stato ben al di sotto delle aspettative), parte della lista di richieste al governo italiano inserita nella famosa lettera Bce del 2011 (firmata pure dall’allora governatore Draghi).

La botta sonora l’ha presa nel 2018 il contratto “a tutele crescenti”. Nato a marzo 2015, ha segnato uno spartiacque: per i lavoratori assunti dopo, ha cancellato il diritto a essere reintegrati in caso di licenziamento illegittimo – salvo pochi casi – rimpiazzato da un sistema di indennizzi fissi. Due mensilità per ogni anno di anzianità, minimo 4 e massimo 24 (poi portati a sei e trentasei dal decreto Dignità). A novembre di tre anni fa, la Consulta – sollecitata dai legali della Cgil – ha detto che il meccanismo vìola la Carta: non è sufficiente a risarcire il danno subito dal lavoratore, che può essere più grave delle poche mensilità spettanti ai neo-assunti. Il problema è il ristoro fisso, predeterminato, che nelle idee renziane doveva servire a rendere prevedibili i costi dei licenziamenti ma che sottrae ai giudici la facoltà di valutare caso per caso l’entità del torto subito. Presentato come una rivoluzione in grado di ridurre la frattura tra garantiti e non, il Jobs Act ha finito per penalizzare ancora di più i giovani, con meno anzianità quindi licenziabili con meno spese. A giugno 2020, la cancellazione degli indennizzi fissi e crescenti è stata estesa dalla Consulta ai licenziamenti per vizi formali, conseguenza logica della sentenza di novembre 2018.

Un altro paradosso creato dal Jobs Act riguarda i licenziamenti collettivi. È emerso quando l’azienda Consulmarketing ha cacciato un gruppo di lavoratori assunti prima del famoso marzo 2015, tranne un’addetta che – dopo un periodo da precaria – era stata stabilizzata dopo la data cruciale. Risultato: hanno ottenuto la reintegrazione tutti tranne lei, che pure aveva un’anzianità pari a quella dei colleghi, ma l’aveva maturata in parte con contratti precari. Ad agosto 2019, il Tribunale di Milano ha rimandato le carte alla Corte di Giustizia europea: la pronuncia arriverà entro tre settimane.

A febbraio 2020, poi, è toccato al Comitato europeo dei diritti sociali sferrare un altro colpo. Secondo l’organo che vigila sulla Carta sociale europea, un altro difetto del Jobs Act è il fatto stesso di prevedere un limite massimo agli indennizzi (le 36 mensilità). Il Parlamento, però, non si è ancora adeguato.

Tre giorni fa è stato invece smontato dalla Corte costituzionale un pezzo della riforma Fornero, che per prima ha picconato l’articolo 18: quello che prevede l’obbligo di reintegra solo per i licenziamenti illegittimi disciplinari (e non per quelli economici). Nello stesso giorno, il Tribunale di Roma ha mandato alla Consulta un’altra norma del Jobs Act: l’indennizzo tra tre e sei mensilità per i licenziamenti nelle aziende con meno di 16 dipendenti. Per i giudici è troppo esiguo. Come tutte le altre norme contestate, crea una sproporzione in favore delle imprese e a danno dei lavoratori.

Addio Tor di Valle. “Ma lo stadio si farà”

Lo stadio dell’As Roma si farà. Non a Tor di Valle, ma “si farà”. E sarà “verde”, “Covid sostenibile” e “popolare”. Dopo la notizia choc sull’addio al discusso progetto avviato nel 2012 dall’ex presidente James Pallotta con il costruttore Luca Parnasi, il club giallorosso è ora impegnato a tamponare la delusione dei tifosi. La società ha chiesto al Campidoglio un confronto su un nuovo progetto. La riunione dovrebbe tenersi già in settimana e il Comune guidato da Virginia Raggi è disponibile a valutare subito altre aree.

Come spiegato dal Fatto il 7 dicembre, la nuova proprietà guidata da Dan Friedkin da tempo stava riflettendo sull’attualità di un progetto complesso, costoso e che non teneva conto – per ovvi motivi – della nuova realtà post-Covid. L’obiettivo era prendere un periodo di riflessione per ridisegnare l’impianto, con non più di 40mila posti ben distanziati (contro i 54mila iniziali), uscite diffuse, impianti di aerazione ad hoc e termo-scanner agli ingressi. Allora l’addio a Tor di Valle appariva l’estrema ratio. Così non è stato. Nel comunicato dell’As Roma si “conferma l’intenzione di rafforzare il dialogo con l’amministrazione di Roma Capitale, la Regione e tutte le istituzioni preposte”, comprese “le università di Roma e le istituzioni sportive”. Obiettivo, “realizzare uno stadio verde, sostenibile e integrato con il territorio”. Le parole chiave per scremare l’elenco delle 18 aree valutate all’inizio dello scorso decennio, sono “università” e “territorio”. Il tutto sarà corredato con il riacquisto degli impianti di Trigoria, che risolverà la necessità di realizzare il “quartier generale” previsto nel progetto di Tor di Valle.

Il piano B più suggestivo è quello del quartiere Ostiense, in un fazzoletto di terra alle spalle del Gazometro, “Colosseo industriale” della Capitale. Una specie di Highbury romanista nel cuore popolare della città, in un quadrante a maggioranza giallorossa, a due passi dalle fermate della Metro B di Piramide e Garbatella e dall’ateneo di Roma Tre. L’altro, forse più concreto, è quello di Tor Vergata, nei terreni di proprietà dell’Università. Altra area popolare, meno urbanizzata e ben collegata, ma vincolata alla Vianini Lavori del costruttore Francesco Gaetano Caltagirone, tifoso giallorosso. Impercorribile qualsiasi possibilità di abbattere e ricostruire sia lo stadio Flaminio, sia lo stadio Olimpico.

Toto-area a parte, al momento lo stadio dell’As Roma si può annoverare come l’ennesimo fallimento infrastrutturale nella storia recente della Capitale. Il primissimo progetto viene presentato nel 2012, ma la versione ufficiale si palesa il 26 marzo 2014 in Campidoglio, con Ignazio Marino sindaco. L’amministrazione Pd dà il via libera al progetto con le famose torri disegnate dall’archistar Daniel Libeskind ma pretende che la Roma si accolli i costi delle opere pubbliche. Si parte con la conferenza dei servizi in Regione, ma a novembre 2015 Marino viene sfiduciato e a giugno 2016 viene sostituito da Virginia Raggi. La sindaca deve mediare fra chi, nel M5S, vuole che il progetto vada avanti così com’è e chi ne chiede la revoca. A fine 2016 arriva il nuovo accordo con la società: calano cubatura e opere pubbliche. L’iter deve ricominciare, per dare esito positivo un anno dopo con 44 “criticità”. Il 13 giugno 2018 esplode l’inchiesta sulle presunte tangenti di Parnasi in favore di politici e funzionari pubblici. Quello, di fatto, è il momento in cui il progetto si arena.

Diritti Serie A, fari accesi sul numero 2 di Sky Italia

L’indagine della Procura di Milano sul manager casertano Massimo Bochicchio e sulla presunta truffa milionaria a noti personaggi italiani, come l’allenatore dell’Inter Antonio Conte, si sta rivelando una miniera di notizie che rischia di terremotare l’establishment politico-istituzionale vicino al mondo del calcio e al grande affare dei diritti tv. Dagli atti allegati all’inchiesta emerge una novità: un telefono usato da Marzio Perrelli, “executive vicepresidente di Sky Italia” è stato intercettato dalla Finanza anche durante un colloquio con il presidente del Coni Giovanni Malagò, il quale, a sua volta intercettato con altre persone spiega che i guadagni vantati da Bochicchio ai propri clienti sarebbero superiori a quelli forniti dai “Casamonica”. Gli investigatori, prima di mettersi sulle tracce del broker, si legge nel decreto di sequestro a suo carico, “stavano ascoltando conversazioni in relazione ad altro precedente troncone d’indagine, avente a oggetto il supposto favore riservato a Sky Italia nella procedura di assegnazione dei diritti televisivi del campionato di Serie A per il periodo 2018-2021”.

Va detto che intercettare un’utenza non equivale a iscrivere una persona nel registro degli indagati. E dunque allo stato “l’executive vicepresidente di Sky Italia” risulta “ascoltato” dalla Gdf. Di certo, il telefono con cui Perrelli il 10 luglio 2020 chiama Malagò viene rubricato come “utenza intercettata”. In quella giornata il telefono di Malagò risulta come “chiamato”. Tra loro il discorso verte sugli affari dell’amico Bochicchio, che ha lavorato presso la banca Hsbc nel periodo in cui lo stesso Perrelli, prima di approdare a Sky, ricopriva la carica di rappresentante legale. Oggi il presidente del Coni risulta indagato dalla Procura di Milano con l’accusa di “falso” in relazione all’elezione a presidente della Lega del manager Gaetano Miccichè, avvenuta il 19 marzo 2018, all’epoca in cui Malagò era commissario. Ora si scopre che quello stesso fascicolo contiene anche gli accertamenti sull’asta per i diritti tv del calcio finita a Sky per 973 milioni dopo la rescissione del primo contratto stipulato con MediaPro. Quel 10 luglio in molti parlano di Bochicchio. L’allenatore Conte che con lui ha investito 24 milioni chiama Malagò, il quale riferisce ciò che Perrelli ha detto sul broker. Malagò: “Marzio, che era il mio interlocutore, mi dice: Massimo deve andare via da Hsbc. Dico: perché? Troppe chiacchiere, Hsbc è una specie di chiesa religiosa, questo è uscito sei anni fa, ma è uscito male”. Poche ore dopo Daniele Conte, fratello di Antonio, chiama Malagò: “Questi soldi dove li ha messi? Lui si può fare 20 anni di carcere? Perché ci sono i falsi, ho tutti i documenti”. Detto ciò invia due foto a Malagò che proverebbero l’utilizzo indebito della carta intestata di Hsbc da parte di Bochicchio. In serata Perrelli chiama Malagò. Il presidente del Coni dice che Bochicchio avrebbe investito i soldi di Conte in un fondo “che non esiste”. E ancora: “Io lo conosco da 40 anni, mi sta molto simpatico ma non mi passa per l’anticamera del cervello (…) non ho investito un euro con lui”. Quindi invia i documenti ritenuti falsi di Hsbc. Perrelli è laconico: “Se l’è scritta lui”.

Sono decine le intercettazioni che riguardano Malagò non coinvolto nel caso Bochicchio. Per ora i contenuti vertono sul broker campano che si vanterà di aver gestito 1,8 miliardi di investimenti. Il 26 agosto Malagò chiama Lupo Rattazzi, figlio di Susanna Agnelli e tra i primi finanziatori del partito di Matteo Renzi, Italia Viva

. Annota la Finanza: “I due discutono della possibilità che siano coinvolti altri italiani”. Il presidente del Coni e il parente della famiglia Agnelli parlano così di “soldi all’estero non scudati, qualche fondo nero”. I commenti si sprecano. Malagò ne parla con Augusto Santacatterina, all’epoca capo dell’Ufficio servizio patrimonio della segreteria della Presidenza della Repubblica e con Renato De Angelis, direttore di chirurgia al San Giovanni Addolorata di Roma. Il 30 agosto, è scritto negli atti, “tale Massimo” al telefono con Malagò spiega il metodo Bochicchio. “Ci ha provato con tutti (…), soggetti che avevano soldi fuori”. E ancora: “Una c’aveva un milione non scudato, quei 100mila euro lasciati fuori dice li do a Bochicchio me li investe e ci guadagno un sacco di rendita”. Fino al 10%: così vantava il manager. Malagò e il suo interlocutore concludono: “Neanche i Casamonica te li danno, il 10% che ti spaccano le gambe sotto casa”.

Ferranti lascia l’Anm: “Eliminate tutte le mie chat”

Donatella Ferranti si è dimessa dall’Associazione nazionale magistrati. La consigliera di Cassazione ed ex presidente della Commissione Giustizia della Camera, del Pd, secondo quanto risulta al Fatto Quotidiano, ha lasciato il sindacato delle toghe e così non potrà essere giudicata dai probiviri che devono valutare la caterva di chat di Luca Palamara con magistrati che si autopromuovevano o sponsorizzavano, come la Ferranti, altri colleghi. I probiviri, per statuto, sono coloro che possono proporre al “parlamentino” dell’Anm diverse sanzioni, fino all’espulsione, come per Palamara, per violazione del codice deontologico.

Ferranti ci risulta abbia inviato una lettera di dimissioni alla segreteria dell’Anm pochi giorni fa: naturalmente saranno i vertici dell’Associazione a doverle formalizzare. La giudice ha pure chiesto a Perugia, dove tutto è partito con l’inchiesta per corruzione a carico di Palamara, la cancellazione delle sue chat per violazione della privacy. Le dimissioni presentate sembrano proprio intrecciarsi con questa sua richiesta a Perugia, nel senso che sia il procuratore Raffaele Cantone (ex membro del collegio dei probiviri dell’Anm) sia il Giudice per le indagini preliminari non si sono opposti alla richiesta dell’Anm di esaminare le chat dei magistrati con Palamara, a meno che non si fossero dimessi dall’Associazione, perché sarebbe venuto a cadere l’interesse dell’Anm ad averle. Ferranti, quindi, si dimette e scansa il giudizio dei probiviri.

Era il 13 settembre 2018 quando Palamara viene assillato da Ferranti alla vigilia del voto al Csm per gli avvocati generali della Cassazione: “Luca non fare scherzi oggi per avvocato generale. Avevi tu parlato con Francesco ( Salzano, ndr), non puoi abbandonarlo”. Palamara: “Infatti io non lo abbandono. Perché se si vota, io voto lui”. Ferranti: “Fanfani (Giuseppe Fanfani, ex membro laico, renziano doc, ndr) è con te, parlaci”. Palamara conferma: “Sì, lui voterebbe con me”. Ferranti: “Allora chiudi, ho parlato con Forteleoni (Luca Forteleoni, ex togato di Mi, legatissimo a Cosimo Ferri, ora componente dell’Anac, ndr)”. Ma le nomine vengono rinviate e le fa l’attuale Consiglio. Palamara, però, a Palazzo dei Marescialli c’era con lo spirito, almeno fino allo scandalo dell’hotel Champagne. E infatti la Ferranti lo richiama il 29 novembre 2018: “Caro Luca come stai? Si stanno facendo i posti di avvocato generale? Ora spunta Fimiani oltre Gaeta! Spero che tu faccia ragionare tutti dato che sai le cose come stanno veramente. Questa Cassazione è veramente un problema serio! Buona giornata un abbraccio”. Palamara: “Ciao Donatella tutto bene, spero di vederti presto. Messaggio recepito e oggi cercherò di parlarne anche con gli altri, un abbraccio forte”. Passano oltre due mesi e il 6 febbraio 2019 Ferranti può essere soddisfatta: il plenum del Csm nomina avvocato generale Salzano e anche Piero Gaeta, che ha sostenuto l’accusa contro Palamara al processo disciplinare del Csm che lo ha condannato all’espulsione dalla magistratura. Prima di Ferranti, per evitare il giudizio dei probiviri, l’anno scorso si era dimesso dall’Anm Cosimo Ferri, deputato renziano e magistrato in aspettativa di Magistratura Indipendente, tra i protagonisti dello scandalo nomine.

Covid, nomine, Asl, Crescent. Nei guai il “giglio” di De Luca

La sequenza è impressionante. Tra gennaio e febbraio una slavina di indagini si è abbattuta sull’immagine e sulla situazione giudiziaria di amici e sodali di Vincenzo De Luca. Consiglieri, consulenti, fedelissimi del governatore Pd della Campania sono stati indagati, implicati, coinvolti. Ci sono anche storie senza rilievo penale, ma ugualmente imbarazzanti.

Le inchieste fanno rumore: sull’emergenza Covid, le nomine nelle Asl, le infiltrazioni della criminalità nei servizi 118, gli appalti per la rimozione dei fanghi della depurazione, i filoni paralleli al Crescent. De Luca non compare mai in prima persona. I deluchiani sì, però. E sono tanti. E di livello altissimo. A cominciare da Enrico Coscioni, da sei anni consigliere per la sanità dello “sceriffo”: una proroga di indagini ha rivelato che il presidente dell’Agenas (l’Agenzia che coordina i servizi sanitari regionali) è indagato di turbativa d’asta per l’allargamento ai privati della processazione dei tamponi.

Coscionisi è aggiunto ai nomi già noti dall’estate: il consigliere regionale Luca Cascone (ex assessore di De Luca a Salerno), il presidente della centrale campana degli acquisti Soresa, Corrado Cuccurullo, (che ieri si è dimesso per ‘ragioni personali’), e l’ingegnere Roberta Santaniello, componente dell’Unità di Crisi della Regione e riferimento del Pd in Irpinia, tutti indagati per turbativa d’asta, chi per aver trafficato intorno agli appalti degli ospedali modulari Covid assegnati a una ditta veneta, chi per non meglio precisate ipotesi che solo le successive fasi del procedimento chiariranno. A costoro si è aggiunta una new entry, un professionista low profile, ma personaggio cardine della lotta al Covid-19: Italo Giulivo, capo della Protezione Civile e dell’Unità di Crisi antivirus.

C’è poi un nome che collega due inchieste estranee tra loro: quella di Napoli sull’emergenza Covid e quella di Salerno sulle ambulanze nell’alto Cilento. Si chiama Francesco Guariglia, imprenditore delle pompe funebri di Salerno, amico di tanti deluchiani. Per una singolare coincidenza, Guariglia è indagato per turbativa d’asta da entrambe le parti. A Napoli non si sa il perché. A Salerno è accusato di aver formato un cartello illecito con un altro imprenditore funerario e delle ambulanze, Roberto Squecco. E qui si entra in un mondo a parte, nell’Arizona della Campania. Capaccio Paestum, la piana del Sele. Dove opera il clan Marandino, di cui Squecco è ritenuto un esponente con sentenza passata in giudicato, una brutta storia di minacce camorristiche a un rivale.

Nelle informative Dia, Gdf e Squadra Mobile confluite nell’ordinanza del recente arresto di Squecco, accusato di intestazione fittizia e riciclaggio per sfuggire ai provvedimenti antimafia, ricorre un ritornello: Squecco “sostenitore politico” di Franco Alfieri, al quale ha portato i 348 voti della moglie eletta in consiglio e la vergogna del corteo notturno di ambulanze che ne festeggiò l’elezione a sindaco di Capaccio. Alfieri, l’involontario ispiratore del ‘patto delle fritture di pesce’ di De Luca, ne è stato capo della segreteria politica, e da diversi anni è consigliere del governatore, prima per i fondi dell’agricoltura ed ora per i progetti della costa salernitana. Senza essere indagato, Alfieri è stato intercettato per settimane e Giustizia di Fatto ha pubblicato un sms in cui ‘minacciava’ l’assessore regionale all’Urbanistica Bruno Discepolo di dimettersi da consigliere di De Luca se non veniva accontentato su una delibera. Rilievo penale, zero. Ma fa capire quanto ‘pesi’ Alfieri sul tavolo dei deluchiani. Per finire. C’è la compagna di De Luca, l’architetto e dirigente comunale di Salerno Marilena Cantisani, che pochi giorni fa è stata rinviata a giudizio per l’iter procedurale del progetto di deviazione del torrente Fusandola, sotto al Crescent.

A costoro va aggiunto il presidente del Consiglio regionale, Gennaro Oliviero, indagato per aver brigato a favore della proroga di un dirigente dell’Asl di Caserta poi arrestato perché accusato di intascare tangenti. Lo avrebbe fatto per un pranzo in un ristorante. Il Gip di Napoli Nord in pratica lo proscioglie, scrive che è solo una “clientela”. Come è “censurabile”, secondo il Gip di Napoli, il comportamento del vice di De Luca, Fulvio Bonavitacola, fautore dell’affidamento alla destra di Sma, la partecipata diventata un covo di mazzette sullo smaltimento dei fanghi. Lo si legge nelle carte degli arresti dei corrotti, collegati a un ex consigliere Fdi, Luciano Passariello. Bonavitacola non è indagato. Lo è in un’indagine del 2019 sulle Universiadi.