HT, l’eccellenza genomica italiana non tocca palla

Il centro di ricerca Human Technopole (HT) a gestione privata, ma finanziato dal pubblico, voluto da Matteo Renzi nel 2015 per l’area Expo a Milano, nasceva per la ricerca sulla genomica, la biologia computazionale e big data, ciò che serve per la sorveglianza a tappeto del SarsCov2 che manca all’Italia. Dal Cda di HT provengono il ministro per la Transizione ecologica Roberto Cingolani – che ha diretto HT fino al 2019 – Maria Cristina Messa (Mur) Daniele Franco (Economia) e Marcella Panucci (capo di gabinetto del ministro Brunetta) del governo Draghi. Sul sito, HT annuncia: “I nostri laboratori sono ancora in costruzione, ma Human Technopole si impegna a fornire il suo contributo per affrontare l’emergenza sanitaria. Gli scienziati di HT hanno avviato nuovi progetti con i principali istituti di ricerca scientifica in Italia e nel mondo per contribuire alla lotta contro il Covid19.”

Per ora, però, solo annunci di stampa. Uno è stato ripreso dal Corriere della Sera già ad aprile 2020. HT ha costruito la piattaforma online Data Against Covid, “realizzata,” si legge sul sito di HT, “da Florian Jug, Group Leader del Centro di Biologia Computazionale (di HT, ndr), insieme ad altri scienziati internazionali.” Il Fatto ha potuto verificare che si tratta della piattaforma realizzata dal centro di ricerca europea per la bioinformatica Embl-Ebi di Londra (UK) insieme alla Commissione europea e a Elixir, l’infrastruttura europea per le scienze della vita. Una rete lanciata proprio ad aprile 2020, in cui HT non compare. Chi ha invece partecipato, è Elixir-Italia di Bari, nodo italiano dell’infrastruttura. Ha realizzato, con i propri fondi e parte dei 2 milioni dell’Ue allocati per l’iniziativa europea, l’Italian Covid Data Portal, “la parte italiana che mira ad esporre, in modalità aperta, i dati scientifici prodotti a livello nazionale su Covid-19 e Sars-CoV-2 promuovendone la condivisione,” spiega Graziano Pesole, genetista dell’Università Aldo Moro di Bari e direttore di Elixir-Italia. Ora, chiunque può consultare in tempo reale tutti i dati fin qui disponibili sul sequenziamento genomico del virus e delle nuove varianti presenti in Italia, Regione per Regione.

I vertici di Iss invece, non hanno reso pubblici i dati del sequenziamento fino ad oggi effettuato in Italia area per area, ma solo la media nazionale del 17% di prevalenza sulla variante britannica. Ora questi dati sono accessibili grazie ad Elixir-Italia, e a gruppi di ricerca dell’università di Padova, dell’università di Milano e Cnr-Ibiom, dello stesso Iss e del Consortium Garr, la rete nazionale a banda ultralarga per l’istruzione e la ricerca. HT intanto continua a ricevere una dotazione annuale media di 120 milioni di euro, a cui se ne sono aggiunti, nel 2019, altri 77. Quelli inizialmente versati all’Istituto Italiano di Tecnologia (Itt) – diretto dallo stesso Cingolani fino al 2019 – per gestire l’avviamento di HT. Parte di quei fondi di ricerca, per ora pressoché fermi, sarebbero preziosi per avviare ora e subito il consorzio italiano per la sorveglianza genetica del SarsCov2, su cui per ora il governo non ha stanziato un euro. O per sbloccare il bando di ricerca Fisr per l’emergenza Covid: il Mur l’ha pubblicato a giugno 2020, ma non ha ancora assegnato i fondi ai progetti di università ed enti pubblici (compresi progetti di ricerca sul monitoraggio delle varianti del virus). Potevano servire per capire se e quali vaccini sono efficaci anche contro le varianti.

“Sono i test di riconoscimento degli anticorpi prodotti dai diversi vaccini nei confronti delle nuove varianti,” spiega Duccio Cavalieri, genetista del centro di Eccellenza Mur di Genomica avanzata all’Università di Firenze. Uno studio che in Italia non si fa, non ci sono i soldi. HT non ha risposto alle richieste di commento del Fatto.

La caccia alle varianti, foto vecchia di nove mesi

Il Consorzio nazionale per sorveglianza genomica delle varianti del virus SarsCov2 doveva partire il 27 gennaio scorso. “È tutto pronto”, aveva detto Giorgio Palù, presidente dell’Agenzia italiana del Farmaco. Eppure il Consorzio è ancora una chimera. Risultato, mentre nel Regno Unito si dà la caccia alle varianti del virus già da marzo 2020 con 270 mila sequenze effettuate dai campioni di virus estratti dai cittadini positivi, in Italia ne abbiamo fatte solo 3.800: siamo il fanalino di coda mondiale, a pari merito con l’Arabia Saudita. In più, molte Regioni, anche quelle più colpite come Lombardia e Veneto, non mettono a disposizione questi pochi dati genetici esistenti sui portali internazionali per la genomica, a cui la comunità scientifica internazionale si affida per studiare e prevenire i flussi di contagio e l’emergere di nuove varianti.

Il Consorzio, annunciato dal ministro della Salute, dall’Istituto superiore di sanità (Iss) edall’Aifa a fine gennaio, avrebbe dovuto seguire il modello britannico (il Cog-UK) includendo laboratori pubblici di virologia, microbiologia e di genomica, e sequenziare il virus con un campionamento causale di almeno il 5% del totale dei positivi, ossia non solo i campioni sospetti. Una strategia adottata dall’Iss solo a febbraio 2021 e su un migliaio di campioni con sospetto di variante Uk. Dalla prima indagine, è risultato che la prevalenza della variante in Italia è del 17%, ma è una media nazionale. I dati più precisi, l’Iss non li rende pubblici.

Accade anche che in Italia i laboratori di virologia e microbiologia degli ospedali Covid e i centri di riferimento regionali non gradiscano condividere il lavoro sul sequenziamento con i centri di ricerca specializzati in genomica. Secondo Palù sono stati coinvolti anche i laboratori di genomica delle università, ma risulta che ne siano stati contattati ben pochi (e non si capisce bene in base a quale criterio).

Non si tratta solo di velocità: “Per comprendere le informazioni che ci danno le sequenze genetiche dei virus, servono competenze specifiche. Non solo la genetica, ma anche la biologia computazionale e la bioinformatica, – spiega Duccio Cavalieri, direttore del centro di Eccellenza Mur di genomica avanzata all’Università di Firenze, mai contattato dall’Iss – Competenze che sono proprie delle infrastrutture di ricerca in genomica”.

Ci sono tanti centri di eccellenza pubblici in Italia, dotati di super-sequenziatori fermi, nonostante molti genetisti come Cavalieri o Michele Morgante dell’Università di Udine già da marzo 2020 scrivevano ai ministri Speranza e Gaetano Manfredi e al presidente dell’Iss Brusaferro di autorizzarli a partire col sequenziamento. Risultato? Alcuni centri regionali e istituti zooprofilattici – deputati, principalmente, all’isolamento del virus – si starebbero attrezzando per potenziare la parte genomica, acquistando nuovi sequenziatori e appaltando una parte del lavoro a ditte private. Mentre i super-sequenziatori da un milione di euro nei dipartimenti di ricerca dell’università pubblica sono fermi. Da un lato ci sono le strutture universitarie con tutto il know how che serve. Dall’altro, le Regioni che stanno pensando ad acquisti importanti e bandi per soggetti privati: “C’è un collo di bottiglia che non si riesce a superare – spiega Gianni Rezza, direttore generale della Prevenzione al Ministero della Salute – Clinici e virologi fanno capo al Ministero della Salute, i genetisti al Ministero dell’Università, due mondi che non comunicano, hanno culture diverse”.

Non basta cercare le varianti già note, Ministero della Salute e Iss si sono concentrati sul sequenziare solo i virus estratti da pazienti sospetti di aver contratto la variante britannica: “Bisogna anticipare il virus, scoprendo eventuali nuove varianti già presenti in Italia – spiega Graziano Pesole, del centro Elixir-It di Bari, nodo italiano dell’infrastruttura europea per la bioinformatica e i dati biologici coordinato dalCnr, parte di un consorzio europeo di genomica che coinvolge 23 Paesi – Bisogna sequenziare campioni casuali”.

In Uk si viaggia invece al ritmo di 10 mila genomi a settimana, il 7% del totale della popolazione risultata positiva. Un’operazione fondamentale, secondo il consorzio Cog-UK “per valutare se le nuove varianti sono resistenti ai vaccini e alle terapie anti Covid, come plasma iperimmune e anticorpi monoclonali.”

Solo l’Iss ha accesso ai dati di tutto il sequenziamento finora effettuato in Italia, campione per campione. Ci sarebbe il portale internazionale Gisaid, dove ricercatori di tutto il mondo condividono ogni genoma sequenziato, per favorire lo studio globale delle varianti attraverso la condivisione dei genomi. Ma l’Italia è tra gli ultimi posti al mondo per il tempo che impiega a inserire le sequenze su Gisaid dal momento in cui si isola il virus dal paziente positivo. La media nazionale è di 30 settimane, contro 1 settimana di Svizzera, Danimarca, Regno Unito. Abbiamo avuto accesso a un database che rivela come la maggioranza delle Regioni inseriscono le (poche) sequenze fin qui prodotte anche con 200 giorni di ritardo rispetto al giorno in cui il virus viene isolato dal paziente. Lombardia: 439 genomi analizzati, inseriti dopo 195 giorni. Veneto: 352 genomi e 124 giorni. Trentino: solo 3 genomi, 320 giorni. Toscana: 58 sequenze, 212 giorni. Piemonte: 25 sequenze, 186 giorni. Liguria, Emilia Romagna e Calabria fino a un mese fa non ne avevano inserita nemmeno una. “Eppure sono certo che le hanno effettuate” spiega Pesole. Tra le regioni più virtuose, Abruzzo (692 sequenze, 21 giorni), Friuli Venezia Giulia (108 sequenze, 20 giorni), Lazio (206 genomi, 31 giorni), Molise (26 sequenze, 7 giorni). “Con questi ritardi, si perde un’informazione fondamentale: la sorveglianza tempestiva delle varianti – aggiunge Pesole – è come avere una fotografia vecchia di 9 mesi. A cosa serve?” Gianguglielmo Zehender, immunologo dell’ospedale “Luigi Sacco” di Milano, è stato contattato per il Consorzio. Il suo laboratorio ha effettuato almeno 200 sequenziamenti, ma non sono stati inseriti su Gisaid. Spiega che i ritardi hanno a che fare anche con una mancanza di finanziamenti: “Stiamo facendo il possibile, ma non si fanno nozze coi fichi secchi”, ha detto. Ma inserire le sequenze su Gisaid non costa nulla e lo fanno in tutto il mondo.

Il metodo Draghi: decide da solo. I ministri semmai li avvisa dopo

La sostituzione di Angelo Borrelli con Fabrizio Curcio alla Protezione civile è piombata come un fulmine sul governo: nessuno conosceva le intenzioni di Mario Draghi. E nessuno adesso osa fare previsioni su quale sarà il destino di Domenico Arcuri. “Sui dossier che sono in capo a Palazzo Chigi – spiegano – decide il premier dalla A alla Z: abbiamo capito che è uno che delega, che fa prendere decisioni anche ai collaboratori. Ma se una partita la prende in mano lui, la segue a 360 gradi”.

Non è certo una buona notizia per i – tanti – partiti che siedono nel nuovo governo. La cabina di regia allargata a tutte le forze politiche esiste, ma sulle cose che contano – a cominciare dai vaccini – è il premier da solo a toccare palla. Non i 5 Stelle, che sono fuori dai ministeri chiave della partita. Non il Pd, che al contrario in questa fase soffre le posizioni del presidente della Conferenza Stato-Regioni, Stefano Bonaccini che, da governatore dem dell’Emilia-Romagna, si è schierato con la linea “aperturista” dei presidenti del Nord, guadagnandosi perfino una citazione social della “bestia” leghista. Lo stesso Roberto Speranza, ministro della Salute riconfermato anche su indicazione del Quirinale, ha saputo solo a cose fatte della nomina di Curcio alla Protezione civile.

Il nome, del resto, non lo discute nessuno, Curcio è molto apprezzato e aveva lasciato la guida della Protezione civile, nel 2017, solo per gravi motivi familiari. Ma il metodo non tutti l’hanno gradito, almeno in privato. Borrelli naturalmente ci è rimasto malissimo, sembra che abbia anche rifiutato un altro incarico propostogli dalla Presidenza del Consiglio.

Ma a Palazzo Chigi non è arrivata neanche l’eco dei malumori che agitano i partiti. Del resto la nomina del capo della Protezione civile è di competenza del presidente del Consiglio, non del governo. Come la delega ai Servizi segreti affidata a Franco Gabrielli. E se Gabrielli sarà anche un consigliere per la sicurezza del capo del governo, sembra in dirittura d’arrivo un analogo incarico in ambito sanitario per il professor Giuseppe Remuzzi, farmacologo di fama internazionale e direttore dell’Istituto Mario Negri. C’è chi ha già visto Remuzzi dietro le parole di Draghi sulla “priorità alla prima dose” come risposta ai ritardi e alle insufficienze nelle consegne delle fiale. Ma in realtà a sostegno di quell’opzione ci sono gli studi condotti nel Regno Unito e in particolare in Scozia, relativamente confortanti sulla efficacia della prima dose almeno nella prevenzione dei casi più gravi. Del resto Draghi sta cercando di usare il suo peso per spingere l’Ue a un atteggiamento più fermo nei confronti delle aziende produttrici, fino a severe limitazioni delle esportazioni fuori dal territorio dell’Unione. Ci ha già provato Giuseppe Conte, vedremo.

Ora la priorità è chiudere il Dpcm per emanarlo domani, con una settimana in anticipo sull’entrata in vigore lunedì 6 marzo: c’è da sciogliere il nodo delle scuole, affrontato ieri dal Comitato tecnico scientifico (Cts). Poi toccherà all’ufficio del Commissario straordinario, che certamente sarà spogliato di alcune competenze sulla logistica delle vaccinazioni destinate proprio alla Protezione civile. Arcuri, che intanto continua a lavorare, sembra appeso a un filo. E anche il Cts, i cui rappresentanti sono stati convocati più volte a Palazzo Chigi anche in occasione delle riunioni con i ministri, è destinato a cambiare: ci sarà un portavoce, come ha già detto Speranza alle Camere d’accordo con Draghi e gli altri ministri; probabilmente gli attuali 26 membri saranno ridotti. Il dispositivo anti Covid-19 sarà in larga parte ridisegnato, forse solo Draghi sa come.

La scuola è a rischio Cts: “Classi chiuse solo in zona rossa”

Sette Regioni cambiano colore, mentre si attendono le regole per le scuole con il nuovo Dpcm, il primo del del governo Draghi. Ieri il ministro della Salute, Roberto Speranza, ha firmato le nuove ordinanze che saranno in vigore da domani, lunedì 1° marzo. Passeranno in arancione Lombardia, Marche e Piemonte (si aggiungono a Abruzzo, Emilia-Romagna, Toscana, Umbria e Trentino-Alto Adige) e in area rossa Basilicata e Molise. La Liguria torna gialla. La Sardegna, invece, è la prima a passare in area bianca: riaperture graduali a partire da bar e ristoranti dopo le 18, il divieto di circolazione dopo le 22 non sarà eliminato subito.

Il cts. Ieri sera, fino a tardi, hanno discusso della scuola. L’indicazione del Comitato tecnico scientifico è in buona parte la fotografia di quanto già accade: chiudere tutte le scuole solo nelle Regioni rosse o in quelle arancioni rinforzate che si moltiplicano in mezza Italia in funzione anti-varianti. E farlo a livello molecolare, quindi non regionale ma anche provinciale o comunale. Si ragione anche su una soglia di incidenza: massimo 250 nuovi casi negli ultimi 7 giorni, ora la media nazionale è sui 180 secondo i dati diffusi giornalmente.

Scuole chiuse. Come un film già visto, c’è però chi ha deciso di chiudere tutto e di rispedire in didattica a distanza gli alunni a fronte non tanto del solo aumento dei contagi quanto della minaccia di varianti che sarebbero più trasmissibili tra i ragazzi. L’ultimo è stato, ancora una volta, il presidente della Campania Vincenzo De Luca, che nonostante la Regione sia arancione, ha chiuso tutte le scuole e ordinato la didattica a distanza per ogni ordine e grado. “Prima dobbiamo completare la vaccinazione del personale scolastico – ha detto De Luca – Abbiamo la possibilità di farlo entro marzo”. Passerebbe, così, un intero mese. Nelle Marche, invece, chiuse le sole scuole superiori. La Puglia (gialla) lo aveva già stabilito da giorni, chiudono anche Molise e Basilicata che diventano zone rosse. Altri governatori, da Stefano Bonaccini in Emilia-Romagna a Nino Spirlì in Calabria, hanno annunciato di essere pronti a maggiori chiusure se necessario. Per il momento, però l’orientamento del Cts è che, con la stabilità dei contagi in zona gialla, le attuali disposizioni sulle lezioni in presenza non debbano cambiare. Quanto alle zone arancioni, destinate a diventare maggioritarie, il Cts non esclude eventuali chiusure decise in sede territoriale.

I dati dell’Iss. Uno studio dell’Istituto superiore di Sanità, consegnato ieri al Comitato, traccia l’andamento dei contagi in età scolare da settembre a gennaio e, con una affidabilità minore, anche a inizio febbraio. Fino a metà gennaio non si rilevano grosse differenze imputabili alla riapertura della scuola l’accelerazione dei contagi, dopo quella data l’andamento cambia soprattutto nella fascia 10-19 anni che segna una tendenza all’aumento. Nella fascia 0-9, infatti, la curva si mantiene sensibilmente più bassa (meno di 200 casi su 100 mila abitanti), anche al momento del picco di novembre, con una crescita meno rapida nonostante scuole dell’infanzia e scuole elementari fossero aperte. Cresce meno delle altre (da 20 a 60) la fascia 10-19 anni, che però sale (diversamente dalle altre fasce d’età) da metà gennaio facendo ipotizzare che sia connessa alla riapertura delle scuole superiori o all’impatto delle varianti. Dai dati, comunque, emerge chiaramente che in tutto il periodo la fascia con tendenza ad avere incidenza maggiore sia quella 20-29 anni, escludendo gli ultra 90enni i cui contagi oltretutto risultano in forte calo per effetto dei vaccini.

I contagi.L’ultimo dato sui contagi, comunque, fotografa una situazione abbastanza stabile rispetto al giorno precedente: 18.916 i nuovi casi (erano +20.499 ieri), 280 decessi, 11.320 i guariti (con 2.357 tamponi in meno). Il tasso di positività è di 5,85%, in calo rispetto al giorno precedente (era all’8,7%). Aumentano però i ricoveri: i posti letto occupati nei reparti Covid ordinari sono +80 (erano +35), i nuovi ingressi in terapia intensiva 163 (erano +188) per lo più in Lombardia (+38), Emilia-Romagna (+22) e Veneto (+15), le prime due al limite della soglia d’allerta del 30%. L’hanno già superata Abruzzo, Friuli-Venezia Giulia, Marche, Molise, Bolzano e Trento. Nel complesso i malati in rianimazione sono aumentati dell’8,5% negli ultimi 10 giorni.

Al Mise la guerra delle deleghe. Sulle Tlc si gioca il peso del M5S

Il riordino dei ministeri si è chiuso, ma la battaglia da cui dipenderà il peso del Movimento nel governo resta aperta. La prima è quella per le deleghe al dicastero dello Sviluppo economico, guidato dal leghista Giancarlo Giorgetti. Come noto, il decreto ha creato il ministero della Transizione ecologica affidato a Roberto Cingolani e quello della Transizione digitale guidato dall’ex Vodafone Vittorio Colao. Il Mise ha perso tutta la politica energetica a favore di Cingolani. Il coordinamento delle strategie digitali spetterà a Colao ma i progetti legati allo sviluppo della rete in fibra e del 5G dovranno passare da Giorgetti, visto che restano in capo al Mise. Il ministro deve decidere a chi affidare le deleghe.

In pole c’è la viceministra 5Stelle Alessandra Todde, ex manager ed esperta del settore Itc che nel governo giallorosa si è occupata di crisi di impresa con buoni risultati. Ma la presenza, come viceministro, del forzista Gilberto Pichetto Fratin, commercialista piemontese, ha fatto salire il sospetto che le deleghe possano finire a lui per rassicurare Silvio Berlusconi, che sulle Tlc vuole da sempre avere voce in capitolo (specie ora che la sua Mediaset battaglia con Vivendi). Se avvenisse, il Movimento rimarrebbe senza presidio in un settore assai caro, tanto più che l’editoria è andata a un altro forzista, Giuseppe Moles, e che Cingolani (seppure gradito a Grillo) sull’ambiente non è molto in sintonia con le idee dei 5Stelle. Lo schema è che le deleghe vadano alla Todde, Anna Ascani (Pd) prenda le crisi d’impresa e Fratin la vigilanza su Pmi e cooperative. Ereditare di nuovo le vertenze industriali mentre i grandi dossier restano al ministro per M5S sarebbe una sconfitta. Peggio ancora lasciare le Tlc a un esponente di FI.

Minniti a Leonardo: gli altri col “vizietto” della fondazione

Mentre i tecnici si impadroniscono della politica c’è un politico che preferisce fare il tecnico. Marco Minniti, infatti, lascerà l’incarico di deputato per diventare presidente della Fondazione Med-Or creata da Leonardo, l’azienda italiana a partecipazione pubblica, leader mondiale negli armamenti. L’obiettivo, spiega una nota della società, è realizzare “un ponte per far circolare idee, programmi e progetti concreti, sia sotto il profilo del trasferimento di tecnologie tradizionali e innovative sia sotto il profilo dell’alta formazione e del trasferimento capacitivo in sinergia con prestigiose Istituzioni accademiche”.

Un incarico specialeMinniti, come spiega al Fatto chi conosce il dossier, avrà un compito di peso. Oltre al trasferimento di tecnologie si punta a lavorare con le varie sponde del Mediterraneo per formare una classe dirigente “nelle loro università”. E per creare una forte cooperazione “nella tutela e sicurezza sanitaria anche con strumenti di cyber activity”. Nel cda della costituenda fondazione ci saranno personalità internazionali, una per ogni Paese del Mediterraneo più una presenza europea e una statunitense a riprova del raggio di interessi di Leonardo. La “Or”, del resto, sta per un oriente che dovrebbe spingersi fino all’India, Paese strategico per le forniture militari dell’azienda italiana.

Minniti lascia la politica italiana, quindi, dopo venti anni di Parlamento e dieci di governo (sembra sia il politico che più di tutti ha avuto incarichi esecutivi) e chi ci ha parlato ha potuto verificarne la soddisfazione.

Il caso però ripropone la questione delle revolving doors, il passaggio da un “pubblico ufficio” a un “interesse privato” che in Italia non è mai stato regolamentato. Esiste per gli incarichi governativi la legge Frattini del 2004 e poi la legge Severino del 2012 per i dipendenti pubblici che hanno svolto “poteri autoritativi o negoziali”. Non è ovviamente il caso di un parlamentare né di chi passa disinvoltamente da incarichi istituzionali alle stanze delle grandi compagnie (per Minniti, ad esempio, la Rete Pace e Disarmo pone il problema dei rapporti tra Leonardo e l’agenzia Frontex che si occupa dei flussi migratori).

Le principali aziende italiane hanno tutte una fondazione per svolgere una influenza politica, italiana e non. Nella stessa Leonardo ne esiste già una, Civiltà delle Macchine, la cui presidenza è affidata all’ex presidente della Camera, Luciano Violante (Leonardo è poi presieduta dal generale Luciano Carta nonostante avesse diretto l’Aise, il servizio di intelligence estero). Ancora dal management di Leonardo viene il neoministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, che è anche membro del comitato scientifico di Civiltà delle Macchine insieme agli ex ministri dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza e Francesco Profumo. Quest’ultimo dirige la Compagnia di San Paolo che più che fondazione è azionista di riferimento di Intesa San Paolo.

Ancora più controverso perché riguarda la direzione effettiva della seconda banca italiana, è il passaggio dell’ex ministro e parlamentare, Pier Carlo Padoan, alla presidenza di Unicredit. L’ex ministra dell’Istruzione, la piddina Valeria Fedeli, già sindacalista e contestata per una laurea vantata e non posseduta, siede nel consiglio di amministrazione della Fondazione Agnelli.

Ci sono poi i vari incarichi di consulenza scientifica. Nella Fondazione Mattei dell’Eni, ad esempio, come presidente del Consiglio scientifico troviamo l’ex ministro Domenico Siniscalco. Il neoministro Enrico Giovannini lo troviamo nel Comitato scientifico di Enel Foundation ma anche in quello della fondazione Unipol, Unipolis, il cui consiglio di amministrazione vede anche i rappresentanti di Cgil, Cisl e Uil. Nel comitato scientifico di Poste italiane troviamo infine il professor Sabino Cassese, che non ha incarichi pubblici ma a giudicare dalla presenza mediatica potrebbe averli in futuro. Giochi di ruolo a piovere nel variegato, e sempre in sella, establishment italiano.

“Il Governo di Tutti nasce debole: la forza viene dalla coesione”

Dopo settimane di fantasiose definizioni (governo del Presidente, di salute pubblica, di unità nazionale, dei migliori), abbiamo un nuovo esecutivo: nuovo perché appena insediato e nuovo perché un governo con praticamente tutti dentro non l’avevamo ancora visto. Abbiamo chiesto lumi a Gustavo Zagrebelsky .

Professore, che giudizio dà di questo inedito scenario?

Una premessa: le istituzioni non sono un terrain vague, una landa desolata aperta alle scorribande spregiudicate di predoni politici. Nella parola c’è la radice “st”, come nella parola “stato”, che, nelle lingue indoeuropee, allude alla stabilità, accettata per forza o alimentata dalla fiducia reciproca, a seconda dei casi. Le istituzioni servono a questo: abbassare la conflittualità, garantire la durata e allontanare quella che una volta si chiamava stasis, cioè il blocco, l’implosione. La conflittualità, in una società libera, è inevitabile, perfino benefica, ma ha cittadinanza nella dimensione pre-istituzionale.

Vuol dire che non si può litigare al governo?

Proprio così. Ci si può confrontare, tanto più nei governi di coalizione. I partiti politici sono liberi nella sfera pre-istituzionale, ma quando entrano nel governo ad esempio, sono tenuti ad avere comportamenti istituzionali, nel senso che ho detto. Governare implica assunzione di limiti e responsabilità comuni. Non si può stare nella maggioranza strumentalmente, per approfittare della posizione acquisita e sabotare l’istituzione di cui si fa parte. Chi lo fa – ne abbiamo avuto e probabilmente ne avremo esempi – è un devastatore istituzionale.

Il governo attuale è sostenuto da una amplissima maggioranza: è una condizione di forza?

La forza d’un governo dipende dalla coesione. Se in tanti entrano al governo senza rinunciare alle loro scorribande e intendono compierle a partire da lì per acquisire potere e consenso e promuovere a ogni costo gli interessi particolari di cui sono mandatari, il governo nasce tarlato fin dall’inizio. Estensione ed efficacia sono due cose diverse. Possono anzi essere inversamente proporzionali. È piuttosto stupefacente che, nella formazione dell’attuale maggioranza, nessuno abbia detto a qualcuno, in nome della coesione: no, tu no.

Lei crede all’idea di un governo “tecnico” che prende decisioni non politiche, neutre?

La caratteristica di questo governo è data dal fatto che a un certo punto, per uscire da una

situazione di stallo, viene chiamato un soggetto autorevole ed estraneo al sistema dei partiti. Draghi è il deus ex machina della situazione: nel teatro classico, quando non si riusciva a sciogliere un intreccio complicato (nel caso nostro, lo stallo in Parlamento), arrivava sulla scena – spesso calato dall’alto con una “macchina”, talora in un cestino – un essere sovrumano – Zeus, Atena, Apollo – che risolveva la situazione.

Questo risolutore lo possiamo dire un tecnico?

Chiunque si affaccia alle soglie della politica, se non vuole fallire miseramente, deve saperne di tre “etiche”, tutte e tre altamente politiche: l’etica delle possibilità, l’etica delle convinzioni e l’etica delle responsabilità. Deve sapere, cioè, delle condizioni in cui opera; deve avere dei principi-guida, cioè valori ai quali essere fedele; deve essere consapevole delle conseguenze del suo agire. La prima etica è anche tecnica; la seconda è essenzialmente morale; la terza è prudenziale. L’insieme è la politica, quella che gli Antichi già denominavano téchne politiké. Separare i due aspetti è impossibile. A meno che con “tecnico” si voglia dire “non partitico” e, in certi contesti, “non “politicante”. Quando i partiti sono degradati e i politici che provengono dai partiti sono visti come politicanti, i tecnici appaiono una risorsa. Ma dire che non sono anch’essi “politici” è una sciocchezza. Spesso sono iper-politici e, proprio per questo, sono chiamati a governare.

Tra Ciampi e Monti sono passati vent’anni, tra Monti e Draghi dieci: la scorciatoia dell’esecutivo svincolato dal consenso ha cicli sempre più brevi.

Forse sta diventando una condizione strutturale della vita politica nel nostro Paese. Di tempo in tempo, il sistema dei partiti entra in fase di stallo e ha bisogno di una certa pausa per sbloccarsi. Gli esecutivi “tecnici” sembra che servano a ciò, soprattutto quando grandi minacce gravano sulla vita collettiva, minacce di natura finanziaria, sociale, sanitaria, eccetera.

La classe dirigente “politica” si sottrae volentieri alle responsabilità: non capisce il pericolo di auto-delegittimarsi?

Effettivamente, può essere come lei dice. Le grandi e urgenti difficoltà possono unire e possono dividere. Non è vero che sempre uniscono. Dipende dall’etica pubblica. Dove esiste uno spirito di comunità – ci si salva insieme o si perisce insieme – è possibile che uniscano. Dove questo spirito non esiste o è insufficiente – ed è forse il caso nostro – le difficoltà disuniscono e ciascuno cerca il proprio interesse particolare a scapito di quello generale. Da questo punto di vista, i governi “tecnici”, nel senso anzidetto, possono anche essere visti come conseguenza di carenza rispetto allo spirito di comunità nazionale.

Si è detto: l’arrivo di un’élite è una reazione all’uno vale uno. Ma l’uno vale uno (la sovranità appartiene al popolo) è il principio su cui si fonda la democrazia.

Questione complessa. Non credo che possiamo cavarcela con qualche battuta. Posso dire così: nel governo democratico, certamente uno vale uno nelle sue radici, cioè nella partecipazione politica: diritto di voto, di opinione, di associazione in partiti e movimenti, eccetera. Ma, quando si tratta di rendere concreta, continuiamo nella metafora, la linfa che proviene dalle radici, cioè quando si tratta di governare, siamo sicuri che tutti abbiano le qualità di cui dicevo sopra per essere buoni politici? Si dirà: ma non siamo affatto sicuri che le abbiano coloro che si candidano a governare. Certo, non c’è alcuna sicurezza. L’esperienza, anzi, conferma. In democrazia non esistono a priori “migliori” (e quindi “peggiori”). Nessuno può autoinvestirsi di quella qualifica. Sarebbe autocrazia e non democrazia. Però, è anche vero che non tutti sono ugualmente adatti a funzioni di governo, o a partecipare direttamente alle decisioni. Ci immaginiamo l’inferno che ne deriverebbe? La democrazia rappresentativa nasce da qui, da una sorta di divisione del lavoro. L’espressione “uno vale uno”, per dire in sintesi, coglie l’essenza della democrazia, ma si ferma alle soglie del governo. Lì, vale di più chi sa di politica rispetto a chi non ne sa niente. Qui c’è il grande rischio della democrazia: che chiunque si ritenga capace di governare e che i meccanismi di selezione, che sono nelle mani degli elettori e dei partiti (sistemi elettorali permettendo), non svolgano la scrematura necessaria per non alimentare la disillusione e il disincanto democratico.


Lei ha scritto su Repubblica che il cambio di paradigma da “democrazia dal basso a democrazia dall’alto” non è buona cosa per la democrazia ma è ottima per l’oligarchia.

Ciò che trovo preoccupante non è la nascita del Governo Draghi: date le condizioni, il presidente della Repubblica che cos’altro avrebbe potuto fare? Ciò che mi pare preoccupante è il coro di coloro che si rallegrano per il futuro: finalmente via “le scorie della costituzione materiale”. Così, quella che è stata un’operazione d’emergenza viene ad assumere il valore di paradigma per il futuro. Il che mi pare un’operazione che incide sullo spirito pubblico in senso più oligarchico che democratico.

Lui insiste: “Giusto avere rapporti” La protesta social

“Non solo è giusto intrattenere rapporti con l’Arabia Saudita, ma è anche necessario”. È questa la risposta di Matteo Renzi agli attacchi di Pd-M5S e dei social che per tutta la giornata di ieri hanno chiesto ell’ex premier di dare spiegazioni sulla conferenza a Riad di fine gennaio con il principe saudita Mohammed bin Salman in cui elogiava il regime parlando di “nuovo rinascimento”. A peggiorare le cose per Renzi è stata la pubblicazione, venerdì sera, del rapporto della Cia reso noto dall’amministrazione Biden secondo cui fu proprio MbS ad autorizzare l’uccisione del giornalista dissidente Jamal Khashoggi. Da qui, le richieste di chiarimento. Ma Renzi non si scusa né tantomeno ha intenzione di dimettersi da senatore o dal board della fondazione saudita Fii da cui percepisce fino a 80 mila dollari l’anno. Anzi: “L’Arabia Saudita – scrive sul suo sito – è un baluardo contro l’estremismo islamico ed è uno dei principali alleati dell’Occidente da decenni”. Sul compenso l’ex premier spiega che è “tutto perfettamente legale e legittimo”. Pecunia non olet, insomma. E sulla vicenda Khashoggi si difende: “Ho condannato già tre anni fa quel tragico evento e l’ho fatto anche nelle interviste su tutti i giornali del mondo – scrive – Difendere la libertà dei giornalisti è un dovere, ovunque, dall’Arabia Saudita all’Iran, dalla Russia alla Turchia, dal Venezuela a Cuba, alla Cina”.

Poi l’ex premier passa al contrattacco e ai suoi elettori spiega che gli attacchi sulla vicenda provengono da “un’alleanza”, quella tra Pd, M5S e Leu, che a suo dire “litiga su tutto” e si ricompatta “solo per sparare a zero” contro di lui.

L’autodifesa di Renzi è arrivata ieri sera alla fine di una giornata in cui i giallorosa avevano chiesto a gran voce spiegazioni da parte del senatore di Scandicci, membro della commissione Difesa. Il primoè stato l’ex ministro del Sud e vicino ad Andrea Orlando, Beppe Provenzano, che su Twitter

ha scritto: “Chiarire non è solo questione di opportunità, ma di interesse nazionale”. Idea condivisa dal vice capogruppo Pd alla Camera Michele Bordo: “Renzi chiarisca, si tratta di un tema di sicurezza nazionale”. Anche alcuni parlamentari di peso del M5S hanno attaccato il senatore di Scandicci: tra questi il vice capogruppo alla Camera Riccardo Ricciardi (“Renzi faccia luce”), il deputato Francesco Silvestri (“Spieghi agli italiani, è una vicenda inquietante”) mentre il capogruppo della commissione Esteri del Senato Gianluca Ferrara ha parlato di “roba degna del più buio Medioevo, altro che Rinascimento”. Nessuno dei leader di partito che oggi sostengono il governo Draghi insieme a Italia Viva è intervenuto sulla vicenda. Tra i renziani l’unica risposta è arrivata dal sottosegretario Ivan Scalfarotto che, a chi gli chiede lumi, risponde: “È una fissazione…”.

Ma la richiesta di spiegazioni o di dimissioni è esplosa nelle ultime ore anche sui social. Su Twitter, gli hashtag #Khashoggi e #Renzidimettiti sono stati trending topic (cioè tra i più utilizzati) per tutta la giornata con migliaia di tweet e i profili social di Renzi sono stati presi d’assalto da elettori di tutti i partiti – anche delusi di Iv – che lo contestano “Senatore chieda scusa e lasci la politica” gli scrive Angelo, mentre Santa ironizza: “Ma MbS ti invidia il jobs act?”. Secondo i dati di Google Trends, le ricerche su Google di Renzi associato alle parole “Arabia Saudita”, “Khashoggi” e “Bin Salman” tra venerdì sera e ieri hanno avuto un picco come quello del 29 gennaio: le ricerche relative al giornalista saudita venerdì sono aumentate del 250% rispetto alla media.

“Renzi si dimetta, ora serve legge sul conflitto d’interessi”

Di sera il fu rottamatore parla tramite la sua E-News, rivendicando tutto: “Intrattenere rapporti con l’Arabia Saudita non solo è giusto ma è anche necessario, perché è un baluardo contro l’estremismo islamico”. Ma per Alessandro Di Battista non può essere così semplice: “Matteo Renzi riceve soldi da un fondo saudita e adesso deve dimettersi, punto”. Per l’ex deputato del M5S non c’è alternativa, dopo quanto emerso su un rapporto della Cia, secondo cui il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman “approvò” l’operazione dell’intelligence del suo Paese “per catturare o uccidere il giornalista saudita Jamal Khashoggi”, oppositore del regime.

Renzi fa notare: “Svolgo attività previste dalla legge ricevendo un compenso sul quale pago le tasse in Italia. Tutto è perfettamente legale e legittimo”.

Non è un politico, è un lobbista di se stesso. Ma in qualsiasi Paese del mondo Renzi si sarebbe già dovuto dimettere, perché c’è di mezzo anche la sicurezza nazionale. Il rapporto della Cia conferma ciò che tutti già sapevano, e che era già noto quando il senatore si recava in Arabia Saudita. L’ex premier è stato lì per lodare il principe anche durante la crisi politica che lui stesso ha provocato. Ma essendo tornato al governo, nessuno gli chiede le dimissioni, e solo in queste ore qualcuno sta cominciando a chiedergli conto di quanto accaduto.

Sinistra Italiana pone il tema da giorni. Piuttosto fino a oggi il Movimento è stato timido al riguardo, no?

Non so, non è affar mio.

Ha battuto un colpo anche il Pd.

Vedremo cosa farà. Intanto io dico che almeno metà del Partito democratico ha aiutato Renzi a disfare la tela del governo Conte e ha contributo al momentaneo assassinio politico dell’ex premier. Sono gli stessi dem che ora invocano il suo ritorno nel partito, in nome di rapporti di potere e forse anche per masochismo.

Quali conseguenze politiche potrebbe avere questa vicenda?

Non so. Di certo il caso di Renzi dimostra che è assolutamente prioritaria una legge sul conflitto d’interessi, che impedisca ai politici in carica di prendere soldi da enti esteri e che eviti la commistione tra banche e mondi finanziari in una fase così delicata, che si presta alla speculazione. E poi c’è il tema delle porte girevoli tra la politica e le aziende. Due ex ministri del governo Gentiloni, prima Padoan e ora Minniti, sono passati dall’essere deputati a incarichi per imprese attive nei settori di cui si occupavano da ministri. È tutto a norma di legge, ma in un Paese normale non dovrebbe accadere.

Nell’attesa, i Cinque Stelle sono dilaniati dal sì al governo Draghi.

Mi dispiace, ma io ho provato fino all’ultimo a convincerli che era un errore. La storia di Draghi, antitetica ai principi del Movimento, la genesi e la composizione di questo governo fanno capire chiaramente come non fosse possibile entrare in questo esecutivo. Io sono rimasto alla linea del Movimento di un mese fa e non ho cambiato idea: loro sì.

Potrebbero risponderle che stando dentro possono difendere meglio risultati come la riforma della prescrizione. E in questi giorni lo hanno anche dimostrato, no?

Lo avrebbero potuto fare in modo più incisivo, astenendosi nel voto di fiducia e valutando ogni singolo provvedimento in Aula, senza doversi sedere accanto ai forzisti Brunetta, Gelmini e Carfagna.

Ora il M5S pare aggrapparsi a Giuseppe Conte. Lei cosa gli consiglierebbe, di entrare nel Movimento?

Il mio modo di rispettarlo consiste nel non dargli suggerimenti. Di sicuro, pur non essendo sempre stato d’accordo con lui, l’ho difeso sempre, anche quando molti tacevano.

Lo invocano da ogni parte, l’ex premier. Magari anche troppo, non crede?

Conte ragiona con la sua testa.

Lei invece si è fatto di lato. Come sta fuori del Movimento?

Trascorro giorni di grande libertà. Mi chiamano tanti attivisti e anche parlamentari.

Che programmi ha? Magari prepara il ritorno…

Da qui ai prossimi mesi scriverò e lancerò proposte politiche. Poi a settembre prenderò una decisione, in base allo stato dell’arte.

 

E se c’ero dormivo

Una pandemia di encefalite letargica, detta Variante Italiana, sta colpendo i nostri migliori giuristi (a parte uno, vedi pag. 4). L’altro giorno erano tutti eccitati perché finalmente “si torna alla Costituzione”, ”articolo 92”: ministri e sottosegretari li nomina il presidente della Repubblica su indicazione del premier, senza passare per i partiti brutti, sporchi e cattivi. Ora, visti i nomi e soprattutto le facce, dicono che Mattarella e Draghi non c’entrano nulla: quelli volano alto, mica si occupano di queste miserie, han fatto tutto i partiti brutti, sporchi e cattivi (del resto, spiega Milan di Radio Confindustria, viceministri e sottosegretari non servono). Ohibò: e il ritorno alla Costituzione? E l’articolo 92? Nel 1994 Scalfaro depennò Previti da ministro della Giustizia di B. perché era l’avvocato di B. E nel 2018 Mattarella rimandò a casa Conte perchè aveva indicato all’Economia il prof. Savona, noto kamikaze delle brigate No Euro. Un giurista degno di questo nome gli domanderebbe ora come mai abbia accettato Sisto, avvocato di B., alla Giustizia e Moles, rappresentante del padrone del primo gruppo editoriale italiano, all’Editoria. Purtroppo non se n’è trovato uno sveglio.

Martedì fonti del governo annunciavano all’Ansa il “superamento dei Dpcm”, strumenti tipici della famigerata tirannide contiana, per “coinvolgere il Parlamento nei provvedimenti anti-Covid” con più democratici “decreti legge”. Sollievo e giubilo fra i giuristi di scuola Cassese. Ma due giorni dopo ecco il primo Dpcm di Draghi, che conferma e inasprisce quelli del deposto tiranno: neppure mezzo Cassese che stigmatizzasse quel rigurgito di dittatura. Draghi ne approfittava subito per cambiare il capo della Protezione civile per gestire i vaccini, all’insaputa di ministri (incluso quello della Salute), Parlamento e cittadini. Per molto meno, fino a un mese fa si sarebbe strillato al “favore delle tenebre”. Ma la Variante Italiana non aveva ancora colpito i nostri giuristi. Né i giornalisti che intervistavano un giorno sì e l’altro pure l’Innominabile, sdegnato con Conte e Di Maio che trattavano con Haftar per liberare i pescatori. Ora che l’amico Biden accusa Bin Salman di aver fatto uccidere e disossare Khashoggi, potrebbero domandargli se si dimette dalla fondazione, restituisce gli 80 mila dollari insanguinati e ha cambiato idea sul Rinascimento Saudita. Invece tutto tace: le cronache dei giornaloni sul rapporto della Cia, lontanissime dalle pagine politiche, non fanno alcun cenno al Rignanese. Ma qui l’encefalite letargica non c’entra. È che i giornaloni italovivi (tutti) non hanno capito che il Bin Salman di Biden è lo stesso di Lawrenzi d’Arabia: sospettano un’omonimia.