“Mamma mia!” Salvare il mondo da una piccola isola dell’Adriatico

Immaginare il futuro, la liberazione planetaria, la rottura dell’occupazione globale rappresentata dal moderno capitalismo, a partire da una piccola isola, Lissa. L’isola della resistenza partigiana nel 1944 e poi, sessant’anni dopo, l’isola dell’occupazione turistica, delle riprese del musical Mamma Mia! E così, “quando la lingua dei pescatori del posto sta morendo, quando l’unica forma di economia rimasta è il turismo, possiamo chiaramente vedere che non c’è nessuna realtà che sia al di fuori del capitalismo globale, che non ci sono più isole”.

È così allora che Srecko Horvat, filosofo e attivista croato, tra i fondatori con Yanis Varoufakis del movimento europeo Diem25, espone il suo “messaggio in bottiglia” scritto da Lissa per proporre a coloro che si battono per una trasformazione del mondo di declinare questa lotta al futuro. La poesia, nel senso di poiesis, quindi produrre, fare, non va rivolta al passato, come accaduto per le rivoluzioni alle nostre spalle: Lutero faceva riferimento all’apostolo Paolo, la Rivoluzione francese all’antichità romana, i partiti della sinistra “traggono ispirazione dalla socialdemocrazia del XX secolo”. Ancora una volta, a riprova di un pensiero fecondo che alimenta rivoli diversi, si ricorre a Walter Benjamin supponendo che “una rivoluzione sociale davvero nuova deve trarre il proprio contenuto dal futuro”. E per farlo deve vivere nel presente, nell’adesso, nella consapevolezza della catastrofe imminente. Occorre comprendere “l’umanità nel complesso”, pensare a una “comunità globale” ascoltando le voci del futuro che chiedono ai movimenti del presente – dalle primavere arabe alle ribellioni contro il riscaldamento climatico – di interrompere il tempo, come i rivoluzionari francesi che sparavano agli orologi. Il tempo è finito, dice Horvat, l’umanità può essere salvata. Anche da una piccola isola lontana.

 

Poesia dal futuro

Srećko Horvat

Pagine: 326

Prezzo: 16

Editore: Bompiani

 

“Detesto gli ottimisti, meglio la frivolezza”

“L’unico posto dove l’inquinamento è diminuito è il Medio Oriente. Perché? Grazie alla guerra. Meno macchine, meno lacca per i capelli. Quando gli uomini si sterminano tra di loro, la natura sta meglio”. Parola di Anne-Marie Mille, ex attrice di ruoli secondari che rievoca il suo passato sulle scene.

La battuta affiora come una spruzzata di acido dalle 70 paginette frivole e argute di Anne-Marie la beltà, monologo teatrale di Yasmina Reza fresco di stampa per Adelphi. Ecco la cifra della sessantunenne romanziera e drammaturga francese che rifugge da qualsivoglia presenzialismo mediatico. Non si legge il suo nome sotto nessuna petizione, non firma appelli sulla stampa, non partecipa ai talk show. Non ha profili social, nessun video Youtube che catturi corpo e voce. Fedelissima a un principio: “Quello che ho da dire è già dentro a ciò che pubblico”.

Per nulla diplomatica, sul suo teatro rappresentato in Italia non è mai stata tenera. A Catherine Spaak, dopo una rottura a colpi di avvocati, ha ritirato i diritti. Mariangela Melato non apprezzata fino in fondo perché “inadatta alla parte”. Nella sua ventina di opere – quasi tutti volumetti smilzi che stanno in una tasca – c’è sempre un umorismo corrosivo che si insinua a tradimento nei gesti minimi, nei dialoghi più ordinari. In Bella figura un personaggio, con una leggerezza che sfiora il cinismo, confessa: “A me non dispiacciono le tragedie. Mi distraggono”. In Una desolazione, romanzo nel quale un padre si racconta al figlio si legge: “Io odio l’entusiasmo di massa per la bellezza. Tutta quella gente che infesta le mostre e se ne sta lì impalata per ore a guardare i quadri mi fa vomitare”. In Sulla slitta una sentenza lapidaria: “Che fatale errore mettere l’amore al centro del matrimonio”.

Nella scrittura di Yasmina Reza tutto si trasforma in psicodramma e sotto i colpi di una tenera crudeltà crollano ipocrisie e conformismi. “Quello che mi interessa è osservare la musica dei comportamenti, e riprodurla” ha affermato l’autrice. Lo ha fatto anche con Nicolas Sarkozy, seguendolo nel suo tour elettorale per le presidenziali. Nel suo L’alba la sera o la notte del 2007 c’è un ritratto che si attarda su dettagli insignificanti dell’ex presidente. “La frivolezza ci salva”, dice lei. “Per fortuna esistere è anche avere la scappatoia dello charme, delle cose buffe e ridicole, delle civetterie”. Uno sguardo sul mondo che è debitore di tanta letteratura ebraica (perimetro dentro il quale la correttezza politica non a caso è la prima a soccombere). In effetti le radici di Reza non lasciano scampo: figlia di due genitori di origine ebraica che si sono ricostruiti una vita a Parigi. Il padre era un uomo d’affari nato a Mosca con la passione della musica e la madre era ungherese, violinista mancata. “Certamente l’approccio intellettuale arriva da lì e ha influito sui miei scritti”.

Reza afferra la realtà al laccio di un disincanto, di un pessimismo, che flirta con la tempra di un Cioran o di un Bernhard. Del resto, “non si ride granché con le persone ottimiste”. Lo sghignazzo è la puntura apparentemente innocua che però immette nel sangue di lettori e spettatori un’angoscia sottile utile a svelare i meccanismi relazionali. La vita ordinaria, sotto il suo manto di banalità, nasconde tragedie pronte a deflagrare. In Arte tre amici minano il loro sodalizio per colpa di una tela bianca acquistata da uno di loro. In Il dio del massacro (pièce dalla quale Roman Polanski ha tratto il suo film Carnage) due coppie di genitori prima tentano di risolvere civilmente una lite scoppiata tra i rispettivi figli e dopo finiscono a insultarsi lasciando spazio agli istinti più bassi. In Felici i felici una coppia va in frantumi dopo un diverbio al supermercato per l’acquisto di un formaggio sbagliato. In Babilonia (romanzo scritto a Venezia dove l’autrice ha comprato casa) anche qui un equilibrio coniugale salta a causa dell’origine del pollo usato per un polpettone servito durante un pranzo.

Non c’è storia imbastita da Yasmina Reza che non celi un’inezia capace di “uccidere”. L’epigrafe scelta per Babilonia contiene tutta la sua poetica. È una frase del fotografo Usa Winogrand: “Il mondo non è affatto ordinato. È un casino. Io non cerco mai di metterlo a posto”.

Sorelle maîtresse e assassine: perfetta novella nera nel Messico rurale

S’intitola Le morte ed è una novella noir perfetta, un piccolo gioiello che incanta per la scrittura e i personaggi. L’autore è Jorge Ibargüengoitia, uno dei più importanti scrittori messicani, scomparso nel 1983. Ispirato a un clamoroso fatto di cronaca nera del Messico, Le morte racconta la parabola criminale di due sorelle, Arcángela e Serafina Baladro, tenutarie di vari bordelli e spietate assassine. A morire sono alcune signorine delle loro case. Possono contare su vari complici, tra cui l’ambiguo capitano Bedoya.

Ed è proprio l’arrivo del militare in una di queste scene macabre a rendere appieno lo stile di Ibargüengoitia, ben tradotto da Angelo Morino: “Il capitano Bedoya, che Serafina avvertì per telefono dell’accaduto, arrivò a San Pedro de las Corrientes con l’ultimo autobus della Flecha Escarlata, entrò nella sala da pranzo a metà di un padrenostro, si tolse il berretto, piegò un solo ginocchio per terra e si segnò, cosa che faceva di rado perché era ateo. Dopo un momento, quando si rese conto che il defunto non si trovava nella stanza, si sedette su una sedia”. Il registro alterna realismo rurale – siamo in due regioni povere dell’entroterra negli anni 60 – e ironia. E la narrazione romanzata di un fatto di cronaca ovviamente non può far venire in mente che Truman Capote. Rispetto alla mole di vari tomi gialli oggi in circolazione, qui non c’è un aggettivo superfluo. Ogni parola è al suo posto e finanche le descrizioni affascinano il lettore: “La gente di Ticomán è dell’interno e vive di spalle al mare. Gli uomini lavorano nei campi di mais che ci sono sulle pendici del dosso, le donne danno da mangiare ai maiali che stanno nei recinti. Nessuno sa nuotare, nessuno si azzarda a entrare in acqua, nessuno si aspetta niente dal mare”.

 

Le morte

Jorge Ibargüengoitia

Pagine: 173

Prezzo: 15

Editore: La Nuova Frontiera

 

“La vita passa, l’amore no”: che dolce, Aciman

Un sentiero scosceso conduce dove un tempo sorgeva Cuma, uno dei luoghi toccati da Enea dopo aver lasciato Cartagine. Da lì, in prossimità del lago Averno, pare si accedesse al regno dei morti. Nei campi lugentes le anime col cuore infranto narrano le loro storie ai passanti che hanno premura di ascoltarle. Come quella di Fedra, suicida dopo aver confessato al figliastro Ippolito di esserne innamorata, di Didone che si lanciò nel fuoco da lei appiccato mentre Enea la guardava bruciare a bordo della sua nave diretta in Italia, o di Procride che per errore fu colpita a morte dal dardo del suo amante. D’altronde “non è capitato anche a voi, almeno una volta nella vita, che il vostro cuore sia stato dato alle fiamme, trafitto da un dardo o violentato?” si domanda Raul.

Cuma è cara al distinto sessantenne protagonista de L’ultima estate, sesto romanzo del settantenne André Aciman, che torna a distanza di un anno da Cercami, sequel del best-seller Chiamami col tuo nome, dal quale verrà tratto il nuovo film sempre con Hammer e Chalamet. Originario del Perù, poi giramondo, Raul trascorre l’estate in Costiera amalfitana (Aciman adora l’Italia) da quando è bambino. Lì il tempo si ferma, si fa languido e i ricordi lo investono. Se da piccolo stava in una casa in collina con la famiglia, ora che l’ha affittata ad amici soggiorna in un hotel di lusso. Sta sempre in disparte, silenzioso, unica compagnia un taccuino. A movimentare un’apparente staticità è l’incontro con un gruppo di turisti americani trentenni, tra cui spicca Margot, donna di carattere che a Raul pare la reincarnazione della ribelle e scontrosa violinista Maria, figlia di uno zio inglese di cui s’innamorò perdutamente un’estate di 40 anni prima. Non sarà facile per lui conquistarne la fiducia, ma quando ci riuscirà la condurrà per mano in un passato che li lega a doppio filo.

C’è sempre un’estate rivelatrice nei romanzi di Aciman: quella dell’infanzia in Egitto nell’autobiografico Ultima notte ad Alessandria, del dottorato negli Usa in Harvard Square, di Paul che torna sull’isola italiana delle vacanze scolastiche per occuparsi della casa di famiglia distrutta da un incendio in Variazioni su un tema originale e quella, valsa un Oscar a Guadagnino e un milione di copie in Italia ad Aciman, di Chiamami col tuo nome.

Che lo scrittore egiziano naturalizzato statunitense parli d’amore in tutte le sue sfumature, pure quelle più angosciose e nostalgiche, si sa, che ad alcuni risulti melenso pure, ma gli va riconosciuta un’efficacia stilistica, la scrittura è semplice ma disarmante, fortemente cinematografica, vincente. In queste pagine, venate di magia, mistero e fantastico, conferma il pensiero che sta alla base di un suo saggio, Homo irrealis, in cui sottolinea l’importanza dell’irrealtà.

La nostra esistenza non è nel presente, è nel condizionale, dice. Così per lui, e per Raul, dotato di poteri taumaturgici e premonitori, chi abbiamo amato in passato non scompare mai davvero, ma è destinato a tornare sotto altre spoglie, a volte dopo molte vite perché tutti abbiamo svariate identità sparse nell’infinito ingranaggio del tempo.

“La persona amata torna sempre. L’attesa, però, è straziante: si aspetta non solo di vivere, ma anche di morire insieme. Vedete, è la vita a essere transitoria, non l’amore”. Così è, per Aciman, se vi pare.

 

L’ultima estate

André Aciman

Pagine: 160

Prezzo: 16

Editore: Guanda

La diseducazione sentimentale di Victor

La via di Disney al teen drama si chiama Love, Victor. Disponibile sul nuovo canale Star, questo spin-off del film del 2018 Tuo, Simon è forse la serie che meglio rappresenta la fase di transizione che sta vivendo Disney+: una piattaforma streaming nata puntando soprattutto ai giovanissimi che ora, con l’obiettivo dei 100 milioni di abbonati nel mondo sempre più vicino, guarda anche agli adolescenti e agli adulti.

Ambientato ad Atlanta, Tuo, Simon (girato dal creatore di Arrow e The Flash Greg Berlanti) raccontava il coming out di un ragazzo all’ultimo anno di liceo. Stessa scuola, la Creekwood High, qualche anno dopo. La famiglia Salazar si trasferisce in Georgia dal Texas e per Victor, interpretato dal 21enne Michael Cimino, comincia un altro viaggio: quello alla scoperta della sua sessualità. Victor è attratto sia dai ragazzi sia dalle ragazze, ma forse più dai ragazzi… Oppure no? In bilico fra l’affascinante Benji e la popolarissima Mia, il protagonista comincia a chattare con Simon (che nessuno alla Creekwood ha dimenticato) in cerca di consigli.

I turbamenti di Victor, alle prese con una nuova città, una nuova scuola e nuovi amici, s’incrociano con quelli della sorella minore Pilar e dei genitori. Presto si capisce che i Salazar non sono la famiglia del Mulino Bianco che vorrebbero far credere di essere e che il vero motivo del trasferimento ad Atlanta non è stato il cambio di lavoro, ma la scappatella di mamma con il vecchio capo di papà. Altra confusione che si aggiunge nella testa già confusa di Victor…

L’avrete capito. Con Love, Victor siamo lontani anni luce dai teen drama più crudi come Euphoria e Tredici, Elite, The Wilds e The End of the F***ing World, in cui l’adolescenza viene rappresentata come un periodo infernale e gli adolescenti come dei disagiati. Non che manchino i temi seri e gli aspetti più problematici: si parla di identità sessuale e di diversità, ci sono il bullismo, il tradimento e l’abbandono. Mancano invece, e in questo senso si tratta di un prodotto molto Disney, le scene di nudo e di violenza, le droghe e gli altri eccessi tipicamente adolescenziali. I conflitti sono edulcorati, ovattati, ammorbiditi, sia quelli fra i ragazzi che fra gli adulti (compresi i genitori di Victor).

Love, Victor è insomma un teen drama per famiglie che piacerà molto ai fan di This is Us e che nello stesso tempo, però, riesce a girare alla larga dagli stereotipi. A differenza di Simon, che è ben consapevole della sua omosessualità, Victor è pieno di dubbi, capisce e non capisce quello che gli sta succedendo, fa continuamente avanti e indietro. Bacia Mia e scrive a Simon: “Ho sentito le farfalle nello stomaco!”. Poi però vede Benji suonare sul palco e si rende conto che le vere farfalle nello stomaco sono un’altra cosa. Ha paura di deludere i genitori, molto cattolici, e di non essere accettato dai coetanei? Certamente sì. Ma soprattutto ha paura di guardarsi dentro e scoprire cosa prova davvero.

Il rapporto della serie con Tuo, Simon è stretto, e non potrebbe essere altrimenti visto che gli showrunner Isaac Aptaker ed Elizabeth Berger sono stati anche gli sceneggiatori del film di Greg Berlanti. Se tematiche e scrittura sono simili, c’è però anche una differenza sostanziale. Tuo, Simon, tratto dal romanzo Non so chi sei, ma io sono qui di Becky Albertalli, raccontava la storia a lieto fine di un teenager gay, proveniente da una famiglia benestante e progressista, che coronava il suo sogno d’amore. Love, Victor s’avventura invece nel complicato percorso a ostacoli di un ragazzo figlio di immigrati e pieno di insicurezze, che si fa tante domande ma non trova le risposte.

Al posto del bianco e del nero ci sono tante sfumature di grigio. Il che rende Love, Victor più sincera del film da cui è tratta e meno rassicurante di quanto l’atmosfera da Mulino Bianco possa inizialmente far pensare.

 

Love, Victor

Greg Berlanti

su Star (Disney+)

“Tutta colpa di Freud”, ma forse anche di Nietzsche e della prevedibilità

Se guardando i primi minuti di una serie capisci già cosa succederà negli episodi successivi, anche senza aver visto il film da cui è tratta… be’, forse c’è qualcosa che non va. È quello che succede con Tutta colpa di Freud, la comedy italiana con Claudio Bisio disponibile su Amazon Prime Video. Il protagonista è Francesco, psicanalista e padre single che entra in crisi quando anche l’ultima delle sue tre figlie esce di casa. Ma davvero sono uscite di casa? Sara si sta per sposare ma prima del matrimonio decide di concedersi un’avventura con la wedding planner; Marta rompe con il suo professore universitario nonché amante; mentre Emma rinuncia all’anno di studio a Londra per inseguire il sogno di diventare influencer. Per farla breve: tempo una sola puntata e le tre sorelle Taramelli sono tornate tutte a casa.

L’idea iniziale, uno psicanalista cinquantenne che si ritrova a vivere con le tre figlie già adulte, è la stessa dell’omonimo film del 2014 di Paolo Genovese, che della serie è ideatore e autore (il regista è Rolando Ravello). Cambiano invece l’ambientazione, da Roma a Milano, e le storie dei protagonisti: Emma per esempio, con una scelta che non brilla per originalità, da libraia si trasforma in aspirante Chiara Ferragni. E cambiano anche gli interpreti, con il comprensivo Claudio Bisio al posto del burbero Marco Giallini, e poi Max Tortora, Claudia Pandolfi, Stefania Rocca e Luca Bizzarri.

Al di là del gioco delle differenze, che impegnerà per un paio di puntate chi ha visto il film, resta però pochino. Situazioni, dialoghi, personaggi, tutto pare troppo prevedibile. Com’è prevedibile Bisio, bravo ma sempre uguale a sé stesso. Con un’operazione simile a quella di Made in Italy, Tutta colpa di Freud esce in anteprima su Amazon per poi arrivare, nel prossimo autunno, in prima serata su Canale 5. Ecco: forse l’equivoco è pensare che prodotti pensati per un pubblico generalista possano funzionare anche su quelle piattaforme streaming che negli ultimi anni hanno alzato di parecchio l’asticella.

Golino va a Los Angeles, Piccioni torna ad Ascoli

Valeria Golino è tornata a recitare a Hollywood entrando nel prestigioso cast della seconda edizione della serie rivelazione di Apple tv+ The Morning Show che la vedrà occupata a Los Angeles sino a metà maggio. I nuovi episodi, riscritti per includere le circostanze straordinarie dovute al Covid, vedranno ancora in scena Jennifer Aniston e Reese Witherspoon nel ruolo di due giornaliste rivali di un popolare notiziario tv del mattino, la veterana Alex Levy e la stella in ascesa Bradley Jackson.

Giuseppe Piccioni tornerà a girare nella sua Ascoli Piceno in cui aveva esordito nel cinema con Il grande Blek dirigendo L’ombra del giorno, un film ambientato nel 1938 all’epoca dell’introduzione delle leggi razziali in Italia. Ne saranno protagonisti da metà marzo Riccardo Scamarcio, anche produttore insieme a Rai Cinema, e Benedetta Porcaroli.

Dopo il successo di Sulla mia pelle, Alessio Cremonini dirigerà ancora Jasmine Trinca in I profeti, un nuovo lungometraggio scritto con Monica Zapelli e prodotto da Cinemaundici e Lucky Red.

Dopo oltre 5 mesi di riprese tra Bari e provincia e Lecce si sta concludendo la lavorazione della serie tv di Cinzia Th Torrini Fino all’ultimo battito, una coproduzione Rai Fiction e Eliseo Entertainment realizzata da Luca Barbareschi con il sostegno di Apulia Film Commission.

Marco Bocci, Bianca Guaccero, Violante Placido, Fortunato Cerlino e Loretta Goggi guidano il folto cast in gran parte pugliese di un’insolita fiction ambientata a Bari dove uno stimato e rispettato primario del locale Policlinico, Diego Mancini, si ritroverà a lottare per salvare la sua famiglia e recuperare la propria integrità messa in discussione da impensabili connessioni con un boss in carcere sottoposto al 41-bis.

Metti un cenone minimalista ed è “Quasi Natale”

In un tempo pandemicamente sospeso ogni giorno può essere Natale. O quasi. Per questo la visione del nuovo lungometraggio di Francesco Lagi, drammaturgo e regista fiorentino con pedigree, trova perfetta collocazione nell’anima di un presente dalle sembianze infinite. Eppure Quasi Natale è quanto di più minimalista si possa concepire per il cinema: un Kammerspiel dal budget irrisorio (lodi al produttore Alfredo “Meproducodasolo” Covelli) e quattro splendidi personaggi che indagano l’altalena dell’esistere nell’arco di un giorno e poco più.

Pensato e scritto per il teatro (coproduce la compagnia Teatrodilina) dove è andato in scena con successo, racconta la reunion di tre fratelli nella casa d’infanzia perché “c’è una cosa che la mamma deve dirci”. Il caso vuole siano i giorni precedenti alla natività, evento costruito sull’attesa, che è la ragion d’essere del film e di questo nostro tempo infettato e infettante.

Il senso dell’attesa pervade Quasi Natale dal titolo in poi. Essa nutre le speranze di Chiara, Isidoro e Michele verso le parole di una madre che ormai, intubata in ospedale, non parla più. E con l’attesa arriva la regressione in un’ostinazione infantile e superba che impone dialoghi scomposti, stuzzicando frammenti di memoria. I fratelli non sanno che la mamma è con loro, mutante nel corpo giovane e volto rassicurante di Miriam, la fidanzata di Michele. È sufficiente una manciata di polpette scongelate e una favola Navajo al lume di candela per accendere lo sguardo dei tre sulle cose dello spirito, quelle che restano. E allora arrampicarsi tra i ricordi impolverati in soffitta non fa più paura. Così come l’idea di diventare adulti.

Quasi Natale è un testo gestuale sulla parola che ha vinto la sfida del cinema: Lagi, con i suoi magnifici attori Anna Bellato (Chiara), Francesco Colella (Isidoro), Silvia D’Amico (Miriam), Leonardo Maddalena (Michele), ridefiniscono il tempo e lo spazio di una villa affacciata sul Lago di Como, ne invadono i chiaroscuri, ne evocano i fantasmi. In tal modo una sinfonia di generi si fa immagine capace di sorprendere lo spettatore paziente, attento, curioso. La parola è fragrante anche quando sembra ruotare su se stessa, inesorabilmente appoggiata alle banalità del quotidiano: la ricerca del telecomando smarrito, il cibo per il pesce nuovo, il vino che sa di aceto. Ma quando si fa rivelazione, la parola cede il passo al silenzio, o a qualche lacrima dentro l’abbraccio di quella ragazza che – nome omen – ha la grazia di una madonna, la madre per eccellenza.

Film di attese sull’assenza che muta in presenza, sulla maternità riflessa in figliolanza, sulla solitudine della fratellanza, sul passato che si fa presente, sullo stupore che inganna la ragione, Quasi Natale arriva dal successo dell’ultimo Festival di Torino (online) per conquistare quello delle platee di Sky Primafila che da ieri lo programma.

Poesie nel Bene e nel male: le liriche acerbe del genio

Da giovani tutti possono scrivere poesie. Chi continua da adulto è un poeta o un cretino. È la sintesi spuria dell’Estetica di Benedetto Croce che Fabrizio De André usò una volta per spiegare il suo impegno nella musica. Scopriamo che vale anche per Carmelo Bene, e bisogna ringraziare l’edizione dei componimenti giovanili dell’attore, che esce mercoledì per Bompiani col titolo Ho sognato di vivere!, preso a prestito da uno dei primi testi: “Ho sognato di vivere:/ era bello!/ Seguì un risveglio brusco:/ pensai alla morte/ e mi misi a ridere!”

Sessantanove liriche scritte tra il 1950 e il 1958 dal profondo Salento di Santa Cesarea Terme, dove la famiglia di Carmelo trascorreva l’estate. A riscoprirle tra le carte archivate suo nipote Stefano De Mattia.

Quelli sono gli anni della formazione dell’uomo e del personaggio. Nel 1950, quando datano le prime poesie, Bene ha 13 anni e vive in Puglia. Nel 1958, data degli ultimi componimenti, è già a Roma, si è già stufato dell’Accademia nazionale d’arte drammatica (dove si era iscritto un anno prima). Non è ancora apparso alla Madonna, ma si è già innamorato del Caligola di Camus e del teatro della crudeltà di Antonin Artaud, e ha già passato “trecentoventicinque notti nei commissariati di zona”, come dice nella conversazione biografica con Giancarlo Dotto (La vita di Carmelo Bene).

Queste liriche giovanili, scritte a penna su foglietti (il libro ne riproduce alcuni), vengono prima di tutto ciò: prima del teatro, prima del cinema, prima del successo e dell’eccesso. Raccontano la passione di Bene giovane, prima che l’attore già diventato “scandaloso” elaborasse la sua critica della rappresentazione, cominciasse a svuotare il soggetto e a scarnificare la voce in phoné.

Questi versi vengono prima che Bene lodasse la “matematicità” del trovatore del XII secolo Arnaut Daniel, per le sue canzoni costruite come “fuoco d’artificio e tuttavia essenzialissimo, di parola esplosa, campita da un lato e dall’altro anche campata in aria” (La voce di Narciso).

Di questi versi giovanili di Bene colpiscono l’entusiasmo e lo slancio passionale volentieri espresso con il punto esclamativo (forse il segno di punteggiatura più ricorrente). L’ambiente pesa: la vegetazione spampanata dall’afa, la terra scottata dal sole. Nei versi la parola “vento” compare 22 volte, il “sole” 18 e il “cielo” 17. L’opposto dello scuro delle tende pesanti della sua casa sull’Aventino degli anni maturi. Ricorrono l’amore, la bocca (che bacia o anela). Ma anche, all’opposto, le situazioni funebri, il lutto come un’ossessione.

Questa raccolta poetica allunga, se ce ne fosse bisogno, la lista dei suoi lasciti scritti. Ma cosa ci dicono di lui? Stefano De Mattia scrive nell’introduzione che “rappresentano la forma più embrionale e pura del genio che in seguito si rivelerà”. Un critico militante come Franco Cordelli (che non ha mai lesinato polemiche) recide di netto: “Le poesie non le voglio leggere, non perché mi rovinerebbero l’immagine di Carmelo, ma perché sono certo che me la confermerebbero”. Serve a poco, per Cordelli, cercare di stendere l’opera di Bene su una linea cronologica: “La verità è che non è mai mutato, dalla prima volta che l’ho visto fino all’ultima. Non è cresciuto, non è cambiato, ma non è una colpa, né un difetto artistico. Semplicemente non è stato uno di quegli artisti (per me i migliori) che maturano nel tempo. È nato geniale e geniale è rimasto: che fosse La cena delle beffe nel 1974 o Pinocchio nel 1994, lui ripeteva se stesso”.

 

Pubblichiamo stralci delle poesie giovanili di Carmelo Bene, finora inedite: la raccolta “Ho sognato di vivere” sarà in libreria da mercoledì.

D’una brutta commedia
è la fine: il mio cuore
morì al primo atto;
scordai la parte
e già scende il sipario:
è la fine!

Ho sognato di vivere:
era bello!
Seguì un risveglio brusco:
pensai alla morte
e mi misi a ridere!

Settembre: fuochi e salvia.
Nevicava sulla sera cotone.
Scendeva il silenzio coi passi
fasciati nei fianchi.
Anche i secoli lasciano cene
che un tuo gesto, un tuo passo consuma.
Serberemo per noi solo questo:
ogni morte si vive così.
E le stelle non gettano reti
sui vent’anni che sfoglia la terra.
È il motivo che insiste, si accerta
nel soffio dello Scirocco,
urta gli anni e resiste fin qui,
fino a questo settembre – vino e baci –
vola sino al tuo scoglio lontano,
al tuo sogno, e ti spegne negli occhi
tutto il mare. È una musica d’ali
che ti trova e ti danna. E ti lascia così.
Sarà festa. Il vino già dolce
che spegne canzoni.
Le ragazze che cercano il vino.
Ti svaga la luce.
Il vento è sull’aia, che arruffa i covoni.
E l’autunno disteso sul ponte
va sognando così.
Domani il suono di quest’ora
si spiumerà sul mare fra la cera
d’una mattina ardente.
Nel letto del fiume dorme l’estate
– come un pensiero fresco a la tua bocca –
che scende calda, scende,
e beve il mare…
Meridionale Agosto. Logge
incandescenti. Girasoli ubriachi.
E il gatto sembra morto…
Andiamo. Non si torna. Non si torna
al convento che non si sveglierà mai,
al paese che, a notte,
scintillava di lucciole, bianchissimo,
sotto il sole indeciso, gabbiano
ferito al cuore,
tende le ali al sonno.
© 2021 Giunti Editore Spa/ Bompiani

“Sleepy Joe” alla Trump: bombe contro gli iraniani

Sta’ a vedere che Biden non è poi così diverso da Trump: batte il primo pugno sul tavolo della sua presidenza bombardando, in Siria, postazioni filo-iraniane, come fece il suo predecessore la notte tra il 6 e il 7 aprile 2017, mentre aveva ospite a cena a Mar-a-lago in Florida il presidente cinese Xi Jinping. L’azione di Biden è più articolata e meno unidirezionale: le bombe anti-iraniane in Siria sembrano quasi bilanciare le prime mosse anti-saudite. Un modo per dire a Teheran che lui non è una “pappamolla”: che l’Iran non s’illuda che la strada del ripristino dell’accordo sul nucleare e dell’abolizione delle sanzioni sia in discesa. Il raid, la scorsa notte, alle installazioni utilizzate in Siria da milizie filo-iraniane risponde ad attacchi con missili condotti in Iraq contro postazioni militari americane, sull’aeroporto di Erbil, nel nord del Paese, nei quali rimase ucciso un “mercenario” filippino e furono feriti un militare Usa e altri 4 contractors.

Il portavoce del Pentagono John Kirby dice che Biden ha autorizzato l’azione per le perdite subìte e “per le continue e persistenti minacce al personale Usa e della coalizione di stanza in Iraq”, attribuite alle varie milizie filo-iraniane che operano in Iraq e Siria.

L’iniziativa di Biden reitera una tradizione ben salda nelle Amministrazioni statunitensi: da Reagan in poi, tutti i presidenti hanno ordinato bombardamenti su Paesi del Medio Oriente. Libia, Iraq, Siria e Yemen ne hanno subito volta a volta e in misura diversa le sanguinose conseguenze.

Secondo fonti locali, il bombardamento ha fatto 22 vittime e numerosi feriti. Sono state sganciate 7 bombe, ciascuna da 227 kg, che hanno anche distrutto edifici e camion di munizioni.

La mossa di Biden non pare preludere all’intenzione di ampliare la presenza di truppe nella regione, che Trump ha drasticamente ridotto, fino alla fine della sua presidenza, sia in Iraq che in Afghanistan, dopo averlo fatto in Siria.