Freedom day l’1 aprile. “L’emergenza è finita”

E alla fine, anche in Italia, arrivò il Freedom Day. O almeno il suo annuncio. È stato direttamente Mario Draghi a comunicarlo ieri a Firenze al Teatro del Maggio Fiorentino: “Il governo – ha detto – è consapevole del fatto che la solidità della ripresa dipende prima di tutto dalla capacità di superare le emergenze del momento. La situazione epidemiologica è in forte miglioramento, grazie al successo della campagna vaccinale e ci offre il margini per rimuovere le restrizioni residue alla vita dei cittadini e imprese. Voglio annunciare che è intenzione del governo non prorogare lo stato di emergenza”. Una grandinata di applausi ha quindi sigillato la prima tappa dell’“operazione simpatia” che i media raccontano essere nei programmi immediati del premier.

Dunque dal 1° aprile si cambia, un passo verso la normalità pre-Covid. Lo stato di emergenza fu introdotto dal governo Conte-2 il 31 gennaio 2020, 21 giorni prima del “paziente uno” di Codogno ed è stato prorogato più volte, anche oltre i due anni previsti dalla legge sulla Protezione civile.

L’istituzione del Cts, il commissario all’emergenza, le mascherine, il distanziamento, il sistema dei colori delle Regioni, lo smart working eccetera sono tutti figli dello stato di emergenza.

Ma certo non basta annunciarne la fine per risolvere ogni cosa. Restano prima di tutto le questioni green pass e super green pass: “Metteremo gradualmente fine all’obbligo di utilizzo del certificato verde rafforzato – ha detto Draghi – a partire dalle attività all’aperto, tra cui fiere, sport, feste e spettacoli”. Un’indicazione chiara, ma limitata ad alcune attività, senza una data e, soprattutto, senza riferimento all’obbligo di super green pass al lavoro per gli over 50 e alle categorie indicate dalla legge (sanità, scuola, forze dell’ordine, militari), che dunque sembra destinato a rimanere in vigore, come previsto, fino al 15 giugno.

La fine dello stato di emergenza, sempre secondo quanto annunciato da Draghi, comporterà altre importanti novità: “Le scuole – ha detto – resteranno sempre aperte per tutti: saranno infatti eliminate le quarantene da contatto. Cesserà ovunque l’obbligo delle mascherine all’aperto e quello delle Ffp2 a scuola. Dal 31 marzo non sarà più in vigore il sistema delle zone colorate, ma continueremo – ha precisato in un giorno in cui si registrano ancora 40.040 contagi e 252 morti – a monitorare la situazione pandemica, pronti a intervenire in caso di recrudescenza”.

Il Pd accusa i pm di eversione, poi fischietta

A sentire il senatore pd Dario Parrini in aula e il deputato Piero Fassino a Otto e mezzo, non si capisce perché accapigliarsi tanto sul voto di due giorni fa in Senato che ha spedito davanti alla Corte costituzionale i pm che indagano sulla fondazione renziana Open. Dice Parrini che si vuole solo “fare chiarezza con la Consulta” sull’articolo 68 della Costituzione, quello sulle immunità dei parlamentari. Lo ripete Fassino su La7: “Si è votato per una cosa molto chiara. Si è chiesto alla Corte costituzionale di pronunciarsi in maniera definitiva se forme di comunicazione digitale che oggi sono di uso generalizzato (basti pensare che oggi i primi ministri fanno un tweet o un Whatsapp quando devono comunicare) che hanno sostituito la corrispondenza scritta tradizionale, siano sottoponibili oppure no alle stesse regole previste dall’articolo 68, che prevede che la corrispondenza scritta sia sottoposta a una certa modalità di tutela”.

Verrebbe allora da credere che il Senato abbia affrontato una noiosissima questione tecnica, la cui specificità rimanda più a un perito informatico che a un parlamentare. E invece il conflitto di attribuzione sollevato da Palazzo Madama è una scelta presa su nomi, cognomi e fatti ben precisi. Tanto è vero che Paola Taverna, presidente di turno in Senato all’inizio dei lavori, lo ha detto senza equivoci: “Nella seduta di oggi si passerà all’esame e alla votazione della relazione della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari sulla proposta di attivazione di un conflitto di attribuzione per gli atti relativi a un procedimento penale nei confronti del senatore Renzi”.

Il Senato si è espresso quindi sulla relazione della Giunta, presentata in Aula dalla relatrice forzista Fiammetta Modena. La relazione contiene una visione del mondo – e dell’indagine su Renzi – tutt’altro che da anonimo manuale di istruzioni, a differenza di quanto lascia intendere Fassino. Come ha detto Modena in Aula, il tema è “la lesione che ha o avrebbe subito il Senato” da parte dei pm che indagano su Renzi.

La relazione cita “la difesa del senatore”, secondo cui una mail “inviata da Renzi ad alcuni parlamentari” sarebbe stata utilizzata “dalla Procura per sostenere la tesi secondo cui la Fondazione Open avrebbe agito come vera e propria articolazione di partito” e “l’intero impianto accusatorio ruoterebbe attorno al riconoscimento di un ruolo direttivo di Renzi nella Fondazione”.

Il testo redatto dalla forzista stigmatizza persino il sequestro dell’estratto conto dell’ex premier senza “preventiva autorizzazione del Senato”, facendolo rientrare tra le corrispondenze da sottoporre alle tutele costituzionali. La relazione ricorda come Renzi ritenga che dall’uso dei suoi messaggi Whatsapp con l’imprenditore Ugo Manes in occasione di un viaggio a Washington, emerga la “palese violazione delle prerogative parlamentari”. A dimostrazione dei dissensi nel Pd, c’è anche qualche assenza di troppo tra i banchi dem al momento del voto, come quella della responsabile Giustizia Anna Rossomando. Il giorno prima, Letta aveva intuito che il gruppo non avrebbe retto su una eventuale indicazione di astensione, visto che gran parte dei senatori Pd sono ancora in ottimi rapporti con Renzi. Da lì la scelta di dare lo scudo a Matteo, facendolo poi passare come una grigia formalità cui mancava solo il timbro del Senato.

Voto anti-pm e salario minimo: paletti di Conte al campo largo

L’avvocato e Enrico Letta, giurano dal M5S, si sentono e si telefonano come prima: spesso. Però “sono tutti gli altri a essere agitati e a chiedere spiegazioni su quello che vuole fare il Pd”. Tutti gli altri sono anche molti dei big dei Cinque Stelle, che spingono per una riunione ristretta dei vertici, quella che nel Movimento chiamano cabina di regia, per discutere del rapporto con i dem e di questo centrosinistra dal campo troppo largo. E Conte pare pronto a convocarla, perché ha fiutato l’aria. Per questo in un pomeriggio già primaverile, appena arrivato in Senato per alcune riunioni, recapita un segnale: “Campo largo? Formule astratte, ma se significa politiche per i cittadini annacquate, io non ci entro”.

Deve dirlo, perché proprio a Palazzo Madama, martedì, i dem hanno salvato Matteo Renzi sul caso Open, senza imbarazzi e senza preoccuparsi di lasciare i 5Stelle e LeU soli a dire no. “Mi interessa sapere come intendiamo l’etica pubblica – giura allora l’ex premier ai microfoni – I politici hanno dei percorsi preferenziali, sollevano un conflitto di attribuzione? Dicono che i pm hanno violato la Costituzione? Non ci interessa”. Piuttosto gli interessa, molto, il disegno di legge dei grillini sul salario minimo, ancora spiaggiato sempre lì, in Senato. “Voglio sapere chi lo firmerà” afferma Conte, che da giorni ne parla ovunque. È il varco a cui attende il Pd. Certo, nella direzione dem Letta ha definito il salario “una priorità”. Ma sul tema il suo partito rimane gelido. E dire che Conte ieri per rafforzare il concetto si è concesso a un selfie a favore di fotografi con un rider, uno dei tanti ragazzi che trasportano cibo. “Chiedetegli quanto guadagna all’ora” insisteva con i cronisti. Dietro i clic però c’è l’insofferenza di tanti grillini. I sorrisi e le promesse di Letta al congresso di Azione, la creatura di Carlo Calenda (“Vinceremo assieme le Politiche”) dilatano i timori: “Il Pd ci vede come una ruota di scorta?”.

Mentre all’orizzonte c’è la grana di governo chiamata Mes: tabù per il Movimento, tutt’altro per i dem. Il trattato va ratificato alla Camera da qui a poche settimane, e Mario Draghi, pressato dalla Ue, ci tiene moltissimo. Ma diversi 5Stelle hanno già il mal di pancia. Così Conte prova a cavarsela con una frase sghemba: “Se le modifiche sono sostenibili le appoggeremo”. Però “ il trattato ormai resterà quello” gli fanno notare gli ex 5S di Alternativa c’è. “Non sarà semplice gestirlo” ammette un veterano del M5S, dentro il Senato dove martedì è riapparso un avversario di Conte, Davide Casaleggio. Diversi eletti, tra cui la capogruppo Mariolina Castellone, l’avrebbero pure incontrato. Mentre ieri la sua compagna e socia in Rousseau, Enrica Sabatini, era a Palazzo Madama per accusare Conte di “trasformismo” e nequizie varie. Casaleggio tifa perché l’avvocato affondi nel processo a Napoli. Ma Conte pare fiducioso nel ricorso contro l’ordinanza che lo ha congelato come leader. E nel frattempo ha convocato per il 10 e 11 marzo una nuova assemblea degli iscritti per rivotare il suo statuto, con dentro le modifiche per accedere ai fondi del 2 per mille, negati in prima istanza dalla commissione di garanzia degli statuti.

Mossa che fonti qualificate spiegano così: “La nuova votazione, a cui saranno ammessi tutti gli iscritti da più di sei mesi, rafforzerà lo statuto e quindi Conte. Una volta riapprovato, per contestarlo dovranno ricominciare daccapo con i ricorsi, anche in via cautelare”. Questa è la tesi del M5S, dove sperano di ottenere dal giudice di Napoli l’accoglimento del ricorso, il 1 ° marzo, ma anche lo spostamento del processo a Roma. E i fondi del 2 per mille? Per averli si dovrà chiarire meglio chi deciderà sulle liste elettorali, punto nodale per la commissione. Verrà quindi eliminato il riferimento “ai limiti e alle modalità stabiliti da regolamenti esterni”. A decidere sarà il presidente, Conte. Ma il via libera finale dovrà arrivare dagli iscritti.

“Sul Green pass fine graduale”. Ma M5S e Lega non ci stanno

Bene, bravo, bis. Ma ancora non ci basta. Si potrebbe riassumere così la reazione dei partiti di maggioranza – Lega e Movimento 5 Stelle su tutti – all’annuncio di Mario Draghi di porre fine allo stato di emergenza il 31 marzo. Tutti, almeno a parole, condividono la scelta del premier. Matteo Salvini arriva a ringraziarlo intestandosi la decisione (“è stata auspicata dalla Lega”), Giuseppe Conte si dice “soddisfatto” perché così “si ripristina la normalità”.

Epperò l’asse gialloverde non si accontenta. Perché, come ha precisato Draghi nella sua trasferta fiorentina, il green pass per il momento rimarrà. Sarà allentato gradualmente a partire dalle attività all’aperto, certo, ma non smantellato. E ieri il sottosegretario alla Salute, Andrea Costa, ha confermato che, per gli over 50 e per le categorie tenute al vaccino, l’obbligo del certificato per andare a lavorare rimarrà almeno fino al 15 giugno. Una prospettiva che non piace per niente né alla Lega né a un pezzo del M5S, che infatti oggi faranno già trovare una mina pronta a esplodere: in aula alla Camera proveranno il blitz per abolire il green pass insieme alla fine dello stato di emergenza con due ordini del giorno identici. Entrambi, uno a firma Lega e l’altro M5S, recitano così: “Le disposizioni in materia di certificazione verde sono abrogate alla cessazione dello stato di emergenza”. Quello del Carroccio è firmato dal deputato triestino Massimiliano Panizzut, mentre quello del M5S da Davide Serritella insieme ad altri 22 colleghi pentastellati. Serritella ieri ha annunciato fuoco e fiamme in aula: “Non ritirerò il mio odg sul green pass – ha detto – serve la fine dell’obbligo dal 31 marzo e tutela dei lavoratori senza certificato verde affinché non perdano l’occupazione”. Anche Panizzut è sulla stessa lunghezza d’onda: “Bene l’apertura di Draghi ma noi chiediamo una data certa per la fine del certificato verde – spiega il deputato leghista – il nostro obiettivo ora è quello di abolirlo a partire dall’1 aprile e lo chiediamo al ministro della Salute Speranza”. Un emendamento per abolire il pass, di matrice leghista, aveva già creato il caos lunedì in commissione Affari Sociali spaccando la maggioranza.

Ma Salvini non si fa tanti problemi sulla tenuta del governo, tant’è che ieri lo ha ripetuto anche al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un faccia a faccia al Quirinale per “esprimere soddisfazione per la sua rielezione”: “Se migliorano i dati, via le restrizioni” ha detto il leghista al Capo dello Stato. Posizione condivisa dai capigruppo del Carroccio, Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo, che ieri sera hanno avvertito il governo: “Ora Draghi tolga anche il green pass che non ha più senso”. Ai due ordini del giorno di Lega e M5S ne aggiungerà uno di FdI che non perde occasione per agitare l’esca del pass con gli alleati leghisti e far traballare la maggioranza.

Il governo però ha già fatto capire che da quell’orecchio non ci sente, tant’è che per evitare spaccature ha posto la fiducia sul decreto di gennaio che introduceva l’obbligo vaccinale per gli over 50. Scelta che ha fatto infuriare i deputati di Alternativa (gli ex 5S) che ieri hanno occupato i banchi del governo. Il voto sulla fiducia di oggi è scontato anche se, nonostante le rassicurazioni di Salvini (“La fiducia la votiamo sempre”), nella Lega si annunciano già una ventina di assenze tattiche. Ma poi arriveranno gli ordini del giorno e lì saranno dolori per la maggioranza.

I partiti in difesa di Matteo pensando ai loro indagati

Salvare Matteo Renzi è come accendere un cero per i tanti fratelli sottoposti a martirio dai magistrati. Silvio Berlusconi, Armando Siri, Matteo Salvini, Attilio Fontana. Tutti meritevoli di una preghiera dalla Camera più alta, ovvero quel Senato che due giorni fa ha votato per sollevare il conflitto di attribuzione sull’indagine Open.

Nelle dichiarazioni di voto, i partiti che hanno detto sì allo scudo per Matteo ci hanno tenuto ha mandare qualche pizzino ai colleghi. Come a dire: noi oggi siamo caritatevoli, ma in futuro ricordatevi di noi e delle nostre disgrazie. Ché tanto, si è capito, il mal è più che mai comune.

E così, a metà pomeriggio di martedì, la forzista Fiammetta Modena approfitta della seduta spiritica dell’impunità per evocare il totem dei perseguitati: “Consentitemi di dire, credo che il nostro presidente Berlusconi abbia oggettivamente (sic) subito una tale persecuzione che rende difficile pensare che qualcuno potesse reggerne altre come quella che egli ha subito”. Renzi però pare essere sulla buona strada, se è vero che il conflitto di attribuzione era già stato chiesto da Silvio undici anni fa, quando convinse la Camera che Ruby fosse stata rilasciata dalla Questura di Milano per evitare una crisi internazionale con l’Egitto.

Nella giostra parlamentare in soccorso di Renzi capita pure di sentire la Lega spacciarsi per custode dei valori democratici e costituzionali. La premessa del salviniano Emanuele Pellegrini è enfatica: “Siamo qui a tutelare la Costituzione”.

Poi però si finisce al bazar giudiziario di cui sopra: “La questione di specie non deve riguardare il senatore Renzi, deve riguardare qualcosa di più ampio”. E cioè? “Oggi dobbiamo ricordarci questa premessa, come probabilmente dovevamo fare anche in altre votazioni che hanno visto esprimersi il Senato. È evidente il richiamo al presidente Berlusconi, ma io non posso non rammentare l’esempio che ha riguardato il senatore Salvini”. Ecco cos’era, la difesa della Costituzione: “Anche in quel caso abbiamo visto come il nome e il cognome di un senatore possano far cambiare il voto di un’Assemblea”. Messaggino finale, a futura memoria: “Ricordiamocelo sempre. Basta un avviso di garanzia per mettere in croce una persona. Cito, solo per contemporaneità, il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, crocifisso per un avviso di garanzia”.

Pure Fratelli d’Italia sceglie la via dei ricordi. Alberto Balboni cita Armando Siri, l’ex sottosegretario leghista su cui la Procura da anni deve dribblare attese e paletti del Senato: “Quando la Procura di Milano, nel caso Siri, si è trovata di fronte a una corrispondenza tra un terzo e un senatore, ha immediatamente sospeso le sue operazioni e ha chiesto l’autorizzazione al Senato per procedere”. Così si fa, giacché “per Fratelli d’Italia la Costituzione è sacra”.

Ma siccome c’è aria buona per la sindrome di accerchiamento, dalla difesa di Renzi Balboni finisce pure a parlare delle polemiche (“l’hanno violentata!”) sulla decisione di Giorgia Meloni di non vaccinare la figlia piccola: “Non dobbiamo vergognarci solo quando si pubblicano lettere private tra padre e figlio, ma anche quando un giornalista si permette di chiedere a una madre se ha o non ha vaccinato la sua bambina”. Senza falsa modestia, è Dario Parrini del Pd a chiosare: “Per noi chiedere che la Consulta si pronunci significa muoversi con compostezza e sobrietà nel solco del costituzionalismo migliore e del più fecondo pensiero liberal-democratico”. Sia salvato Renzi, dunque, purché con “compostezza e sobrietà”.

“Pretesa abnorme che non ha nulla a che fare col diritto”

Senatore Grasso, che impressione le ha lasciato il voto dell’aula?

Il Senato è stato trascinato in una contesa che non ha nulla a che fare col diritto. La destra ha voluto dare un ulteriore colpo alla magistratura in vista dei suoi referendum sulla giustizia. A sinistra si è badato più alle relazioni che al merito della questione.

La questione è che da ieri l’operato dei magistrati di Firenze è stato deferito alla Consulta. Lei riteneva non ci fossero margini per sollevare conflitto di attribuzione e i renziani non hanno gradito.

Il mio intervento è stato volutamente tutto sul piano tecnico-giuridico, come dovrebbe essere sempre per i casi trattati in Giunta per le autorizzazioni, che in teoria sarebbe un organo paragiurisdizionale e non politico.

E non è così?

Non lo è praticamente mai.

Ma il centrodestra in tandem con Iv e Pd cosa hanno fatto passare col voto dell’aula?

Che i magistrati debbano chiedere un’autorizzazione preventiva prima di sequestrare un dispositivo anche a un non parlamentare se al suo interno ci sono scambi con un parlamentare. Come se la magistratura avesse la palla di vetro e potesse sapere prima cosa troverà nei dispositivi che sequestra. Si tratta di una pretesa abnorme.

Però in molti hanno parlato anzi di un sussulto di dignità e di coraggio da parte della politica.

Non mischiamo le carte: qui si tratta di voler estendere le prerogative dei parlamentari oltre quanto stabilito dalla Costituzione. Il tutto allo scopo di enfatizzare il conflitto tra politica e magistratura.

Cioè?

Secondo la consolidata giurisprudenza della Cassazione non sono corrispondenza né i messaggi, né gli scambi su whatsapp, e nemmeno la posta elettronica. Il Senato invece ha detto il contrario, sostenendo che i magistrati dovevano chiedere preventivamente l’autorizzazione della Camera di appartenenza di Renzi.

Questa è un po’ difficile da spiegare.

Giuridicamente per corrispondenza si intende ciò che è in transito: una lettera dopo che è stata inviata e finché non arriva è corrispondenza, se invece è aperta sulla scrivania diventa un documento. Vale anche per i messaggi whattsapp o le email: se sono scaricati nella memoria del dispositivo sono documenti. Può sembrare una sottigliezza ma questa al momento è la giurisprudenza consolidata. Invece il Senato ha stabilito che sono corrispondenza e ha sollevato il conflitto di attribuzione ritenendo che i magistrati di Firenze abbiano leso le sue prerogative.

Questo voto che effetti potrà avere?

Faccio un esempio: la magistratura sequestra il telefono di un mafioso e, tra i messaggi, ce ne sono alcuni con un parlamentare. Per quel che ha votato il Senato, in caso di mancata autorizzazione da parte del Parlamento quei messaggi sarebbero inutilizzabili non solo nei confronti del parlamentare, come nel caso di intercettazioni casuali, ma anche nei confronti del mafioso.

Nemmeno l’estratto conto è corrispondenza?

Anche qui qualcuno ha voluto marciarci. Non stiamo parlando dell’estratto conto che la banca invia al titolare, tipo quello che Renzi sventolava in tv anni fa. Qui parliamo di un documento che la magistratura ha chiesto all’istituto di credito a seguito di una segnalazione di operazione sospetta, che viene gestita dalla Banca d’Italia. Il fatto che questi dati siano stati resi noti semmai è un problema di riservatezza e di segreto istruttorio.

Si è anche evocato il precedente relativo ad Armando Siri per dire che i magistrati fiorentini hanno sbagliato.

Ma che c’entra? Lì si investigava direttamente sul senatore leghista e “le prove” erano nei suoi uffici e nei dispositivi del suo collaboratore, e infatti è corretto che sia stata chiesta l’autorizzazione per l’utilizzo. Qui la situazione è del tutto diversa.

“Lo scudo pure ai mafiosi”: il voto su Renzi fa sperare tutti i criminali

Tra qualche tempo, la Corte costituzionale dovrà decidere se i magistrati della Procura di Firenze hanno violato l’articolo 68 della Costituzione, depositando agli atti dell’indagine sulla fondazione Open alcuni messaggi di Matteo Renzi che risalgono a un periodo successivo alla sua nomina a senatore, nel 2018. È una decisione importante che potrebbe avere parecchie conseguenze. Una l’ha sottolineata Piero Grasso, ex pm e oggi presidente di LeU, che come il M5S, ha votato contro il conflitto di attribuzione sollevato dalla Giunta per l’immunità. Al centro della discussione ci sono anche alcuni Whatsapp captati dal cellulare di un terzo, non indagato, che a giugno del 2018 parlava con Renzi, e dunque finiti agli atti. Anche di questo si è discusso al Senato due giorni fa. Secondo la Giunta per le immunità, come ha sottolineato la forzista Fiammetta Modena, per poter acquisire quelle chat la Procura di Firenze avrebbe dovuto chiedere un’autorizzazione preventiva del Senato, “altrimenti lo stesso viene leso nelle proprie attribuzioni”. Grasso non è d’accordo: il rischio sarebbe quello di estendere l’immunità parlamentare a chi parlamentare non è. “I documenti (…) – spiega Grasso in aula – per la mancanza di autorizzazione preventiva risulterebbero inutilizzabili anche nei confronti del terzo”. Uscendo fuori dal caso Renzi (che nulla a che vedere ovviamente con gli esempi di cui parliamo), le conseguenze sarebbero “abnormi”: “Basterebbe che in un telefonino sequestrato a un mafioso vi fosse un messaggio inviato a un parlamentare per determinare le inutilizzabilità anche nei confronti del mafioso”. Ciò vuol dire che se passasse la linea della richiesta di autorizzazione ex ante e qualora questa fosse poi negata dalla Camera, ne beneficerebbe non solo il deputato ma anche il presunto mafioso, perché le chat estrapolate magari dal cellulare di quest’ultimo, non sarebbero utilizzabili. È un principio che, in teoria, potrebbe riguardare tutti i reati: dallo stalking, alla corruzione e così via.

“Sono documenti”. Ma il senatore Grasso come arriva a questa conclusione? L’ex magistrato parte da un concetto: quelli finiti agli atti dell’indagine sulla Fondazione Open sono “documenti”. “I messaggi di cui ci occupiamo – spiega il presidente di LeU in aula – non rientrano nella nozione di corrispondenza, che implica attività dinamiche di spedizione e di ricezione, né costituiscono attività di intercettazione, la quale richiede la captazione di un flusso di comunicazioni in corso, ma hanno la natura di documenti, un tertium genus non previsto dalla legge costituzionale n. 140 del 2003”, che riguarda le disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione, quello sulle guarentigie parlamentari. Che si tratti di documenti e non intercettazioni, spiega Grasso, lo ha stabilito la Cassazione.

La Cassazione. Tra le sentenze della Suprema Corte in cui si affronta questo tema c’è ad esempio la numero 1822 del 2020. Qui i giudici fanno riferimento alla “consolidata giurisprudenza della Corte” “secondo cui i dati informativi acquisiti dalla memoria del telefonino in uso all’indagata (sms, Whatsapp, messaggi di posta elettronica ‘scaricati’ e/o conservati nella memoria dell’apparecchio cellulare) hanno natura di documenti…”. Di conseguenza, “si è condivisibilmente evidenziato come ai messaggi Whatsapp e sms rinvenuti in un cellulare sottoposto a sequestro non sia applicabile la disciplina dettata dall’art. 254 del codice di procedura penale (che riguarda il sequestro di corrispondenza, ndr) , in quanto tali testi non rientrano nel concetto di ‘corrispondenza’, la cui nozione implica un’attività di spedizione in corso o comunque avviata dal mittente mediante consegna a terzi per il recapito”.

Su sentenze come questa si basa il ragionamento di Grasso in Senato, dove l’ex pm ha anche spiegato come a oggi ci si ritrovi davanti a un vuoto normativo: “Il Senato non può pretendere un’applicazione della disciplina delle intercettazioni indirette nel caso di un sequestro di documento presso terzi”. In questo vuoto normativo può succedere che le Procure adottino iniziative diverse, tra chi di fronte a chat di parlamentari chiede l’autorizzazione alla Camera di appartenenza e chi no. E può anche succedere che la politica apra a una sorta di immunità diffusa. Indagati e non, politici o meno.

Cercansi monetine

Undici anni fa, quando la Camera si coprì di ridicolo trascinando i magistrati di Milano alla Consulta per non aver creduto alla balla di B. su Ruby nipote di Mubarak, la grande stampa dedicò a quello sconcio paginate piene di sdegno e di parole come “vergogna”, “scandalo”, “impunità”. Ieri invece, dopo che il Senato ha concesso il bis trascinando i magistrati di Firenze alla Consulta per non aver creduto alla balla di Renzi sull’immunità parlamentare di un suo amico non parlamentare, le paginate erano su ben altro: la presunta crisi sentimentale fra Totti e Ilary Blasi. Il fatto che Renzi un anno fa abbia fatto il lavoro sporco per conto dei grandi editori e che il Pd nel 2011 fosse sulle barricate contro B. e l’altroieri sulle barricate con Renzi e B. non è casuale. In Italia il “garantismo” è come il patriottismo per Samuel Johnson: “l’ultimo rifugio delle canaglie”. Basta ascoltare le miserevoli dichiarazioni di voto (tutte, eccetto quella impeccabile di Grasso per LeU e quella troppo generica della Castellone per il M5S). Tal Parrini del Pd si arrampica sugli specchi spacciando quel voto eversivo per una disquisizione giuridica per “fare chiarezza con la Consulta”, non sapendo (o, peggio, ben sapendo) che è tutto chiarissimo: per la legge e la Cassazione, le chat sequestrate sui cellulari sono documenti e non corrispondenza e l’immunità parlamentare vale per i parlamentari, non per gli amici che chattano con loro. E il Senato non ha chiesto chiarimenti alla Consulta: ha votato la relazione di FI che accusa la Procura di Firenze di violare la Costituzione.

Per il resto il Senato pare quel vecchio spot dei preservativi, col professore che ne sventola uno in classe chiedendo di chi è e tutti gli allievi rispondono “È mio!”. Il leghista dice che la Lega non difende Renzi, ma la Costituzione, perché i giudici cattivi perseguitano anche il povero Salvini. La forzista dice che FI non difende Renzi, ma la Costituzione, perché i giudici cattivi perseguitano anche il povero Silvio. Il fratello d’Italia dice che FdI non difende Renzi, ma la Costituzione, perché vabbè, i giudici cattivi non hanno ancora fatto nulla alla povera Meloni, ma un cronista cattivo le ha chiesto se ha vaccinato la figlia e con quella “domanda impertinente e fuori luogo ha violentato una madre!”. Una scena strepitosa, che mescola vergogna e ridicolo in un’aula che ha smarrito l’una e l’altro. La perfetta natura morta di una casta autistica e interessata solo alla sua impunità di gregge, che si esibisce davanti a un Paese terrorizzato dal caro bollette, dagli stipendi da fame e dalle conseguenze della crisi ucraina. Una banda larga che, se non avesse tutta la stampa dalla sua, starebbe già rimpiangendo le monetine all’hotel Raphael.

Moravia e la “patta dei pantaloni” dell’amico Pasolini: sfida d’autore

Tra i volumi dedicati al centenario di Pasolini si distingue – in uscita il 1° marzo per Einaudi Stile libero – Pasolini e Moravia. Due volti dello scandalo.

Renzo Paris sfugge alla retorica impiegatizia dell’omaggio perché, nel restituire la biografia intellettuale del poeta delle Ceneri gli contrappone, come davanti a uno specchio deformante, quella dell’autore de Gli indifferenti. Passando in rassegna vizi e virtù della “Bloomsbury romana” (scandita dalle tavolate alla trattoria La Carbonara, i bagni a Sabaudia, i caffè al bar Rosati di piazza del Popolo, le riunioni di redazione a Nuovi Argomenti) gli preme riesumare una stagione culturale, persuaso che la fraterna amicizia tra i due “lucenti eremiti” Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia conservi l’eco di una tensione etica irripetibile.

Lo fa mettendosi in mezzo, tuffandosi dal trampolino del testimone. C’è dunque un terzo volto dello scandalo in queste pagine: Paris medesimo. Se di Pasolini conserva il dattiloscritto donato di Affabulazione, del suo sodalizio con Moravia – nelle ore passate su un divano in Lungotevere della Vittoria – restano due curatele di interventi politici. “Mentre scrivo le loro ombre sono nella mia stanza” confessa.

Due scrittori agli antipodi che “giocavano a chi fosse più intelligente”. Moravia, con il suo armadio affollato di cravatte, esibiva la sua “ragione” nei salotti. Pasolini, tra partitelle di pallone e spedizioni notturne a caccia di marchette, era l’epitome del “sentimento”.

Paris ripercorre privato e pubblico dei due mostrandone in parallelo i temperamenti. Per il comune viaggio in India Moravia si prepara sulla scorta di letture selezionate, Pasolini si immerge in quella realtà esotica con lo sguardo del turista vergine. L’onda lunga del ’68 vede Moravia solidarizzare con gli studenti (sebbene egli sia un loro bersaglio) e Pasolini disdegnarli al rango di “piccoli mostri imborghesiti.”

Paris, nel rievocare le innumerevoli disfide dialettiche tra i due letterati (il punto più basso della stima reciproca sarà sul tema dell’aborto) sembra suggerire, a dispetto della damnatio memoriae nella quale è confinata la parabola di Moravia, che forse la santità laica che investe Pasolini ha più di un debito con l’amico che ebbe il coraggio di imputargli il difetto di essere “interessato troppo alla patta dei pantaloni”.

Quello di Pasolini, con i misteri sul suo assassinio all’Idroscalo, resta un romanzo senza finale e fa il paio con il dilemma che tormentava Moravia. Racconta Paris: “Spesso, nei nostri incontri, mi chiedeva quando un romanzo poteva dirsi concluso”.

“Meglio i tossici che Big Pharma: ‘Dopesick’ denuncia la strage”

“Ossicodone e cocaina sono cugini chimici: quando ho capito che stava per scoppiare una nuova epidemia di oppioidi negli Stati Uniti ho cominciato a scrivere”. Per raccontare la storia finita nel suo libro – Dopesick: Dealers, Doctors and the Drug Company that Addicted America, “Spacciatori, medici e la compagnia farmaceutica che ha reso dipendente l’America” –, Beth Macy ci ha messo quasi dieci anni. Ha seguito i giovani e le loro famiglie distrutte dal farmaco della Purdue Pharma, l’oppioide commercializzato dal gigante farmaceutico con la promessa che non inducesse dipendenza. Nell’America rurale, dove le fabbriche vengono abbandonate alla ruggine, abbondano disoccupazione e povertà: lì la crisi è esplosa e si vive sotto lo stigma di addicted, di tossico, di drogato.

Beth, ha mai avuto paura di scrivere i segreti della Purdue?

Hanno provato a intimidirmi, ma i fatti sono chiari e sono stati evidenziati anche dalle Corti. La famiglia proprietaria dell’azienda è finita sotto processo, per la prima volta per aver mentito sulla dipendenza che induceva il prodotto; la seconda volta, invece, perché dava bonus ai medici che lo usavano; una terza, infine, per bancarotta. Ma i proprietari, i Sackler, non sono in bancarotta. Sono solo così ricchi da avere i migliori avvocati e consulenti capaci di tirarli fuori dai guai.

Ancora oggi la famiglia che ha creato la crisi dell’ossicodone dice di non essere responsabile: due giorni fa ha raggiunto un accordo per mettere a tacere tutte le cause intentatele sborsando 6 miliardi di dollari. Intanto, in America ogni anno si registra un nuovo triste record di morti per overdose.

Secondo il Nida, l’Istituto nazionale dell’abuso di droga, nel 1996, anno in cui fu introdotto sul mercato il farmaco, sono morte per overdose 13 mila persone. Nel 2020 erano già diventate 100 mila. Più di un milione di morti è legato alla crisi degli oppioidi: l’Oxycontin (nome commerciale dell’ossicodone, ndr) ha cambiato la narrativa, la percezione, il marketing. Il farmaco continua a essere pubblicizzato come non pericoloso. Ci vorranno generazioni per riprenderci da questa crisi e fondi statali per la prevenzione che mancano.


Dopesick è il suo terzo libro, ma anche gli altri trattano di dipendenza.

Ho sempre scritto di underdog: i perdenti, gli sfavoriti. Sono cresciuta in una famiglia molto povera, dipendente dall’alcol da molte generazioni. Per tanto tempo sono stata spaventata dalle dipendenze, so quanto è doloroso. Quando ho cominciato a scrivere di eroina all’inizio della mia carriera da giornalista, l’ho fatto da reporter e non per ragioni personali. Oggi i cronisti raramente raggiungono i piccoli paesi, dove più che nelle grandi città i tossicodipendenti pagano il prezzo dello stigma. Anche io vengo da una factory town, una zona industriale in cui il lavoro è quasi scomparso. L’epidemia è scoppiata in posti come questi.

L’ha mai oppressa il dolore degli altri?

Sì, ma è sempre stato minore rispetto a quello delle vittime e delle loro famiglie. Quando Tess – una delle protagoniste tossicodipendenti del libro – è morta, ho riscritto la fine della storia e al suo funerale ho pensato: “Non mi occuperò mai più di questo”. Ora scrivo un libro sui volontari invisibili che stanno salvando l’America.

Nella serie, Michael Keaton interpreta uno dei dottori coinvolti dall’azienda nella diffusione del farmaco. Prima diventa egli stesso dipendente, poi comincia a salvare le vittime.

Il vero dottore della serie era sul set con noi, Keaton ha recitato al top of the game, al suo massimo. Suo nipote è morto per abuso di oppioidi e ne parla apertamente.

Le sue ricerche, durate anni, sono finite dal libro agli schermi delle tv di tutto il mondo.

La tv ha raggiunto decine di migliaia di persone che non avevano alcuna idea della crisi degli oppioidi in corso. Alcune hanno comprato il mio libro solo dopo aver visto la serie. Uno dei ragazzi che ha lavorato alla fiction mi ha detto che una volta era in fila in un supermercato e ha sentito una donna parlare di Dopesick: da 3 anni non rivolgeva più la parola a suo figlio, tossicodipendente. Dopo aver visto Dopesick, però, lo ha cercato di nuovo: per vicende e vite come questa la tv ha fatto la differenza.