“Quelle mie prigioni”: Gualino. L’imprenditore al confino

Il modo più gradevole per capire chi fosse Riccardo Gualino è visitare il Grand Hotel dei Castelli. Negli anni 30 era la sfarzosa dimora estiva dell’imprenditore. Per costruirla ha comprato l’intera penisola di Sestri Levante, sopra la Baia del Silenzio, e rimosso l’antico cimitero. Tra colonne di porfido, mosaici, loggiati e scale, l’anfiteatro e la palestra di danza sul mare, sembra la residenza di un principe.

Gualino si muoveva con al seguito una corte di artisti e intellettuali come il ritrattista di famiglia Felice Casorati e il critico Lionello Venturi, uno dei professori che rifiuterà il giuramento fascista, consigliere per gli acquisti della collezione che comprendeva sette Modigliani e una Venere del Botticelli. Diversamente dalle altre dimore gualiniane, qui niente quadri. Come spiega Piero Laguzzi, portiere di notte e cultore delle memorie del luogo, i quadri sono i paesaggi che compaiono alle finestre. Non c’è stato il tempo di goderseli. La crisi del ’29 e altri rovesci finanziari mettono in ginocchio il socio francese, Albert Oustric, i debiti crescono e l’imprenditore cade in disgrazia.

Trascinato in un mortificante “viaggio invernale” – alias confino – a Lipari, Gualino – allora uno degli uomini più ricchi d’Europa – passerà diciassette mesi sotto la sorveglianza delle guardie che gli tolgono il sonno: “Tre colpi secchi alla porta: ‘Gualino!’. ‘Presente’. Una sghignazzata, si allontanano. Ritorneranno fra due ore”. Poi il regime gli concede di riavvicinarsi stabilendosi a Cava dei Tirreni e infine di tornare a casa: “Dopo ventun mesi di confino, tornando a Torino, trovai Agnelli e i maggiori dirigenti dell’industria piemontese muniti della classica cimice, che giustificavano con inderogabili esigenze industriali o familiari”.

Definito “Cagliostro” dal Duce, Gualino non individua nei debiti la causa della condanna. Pensa che Mussolini abbia voluto dare un segnale agli imprenditori torinesi per convincerli ad abbandonare ogni ambiguità politica. Durante il confino dà alle stampe la prima e meno sincera autobiografia, Frammenti di vita. Con la fine della guerra potrà rimettersi in piedi diventando produttore cinematografico e scrivendo le memorie più sincere, Confessioni di un sognatore, a lungo inedite. Finché Marini, editore collegato all’omonima galleria che ha curato la vendita di alcune oggetti rimasti agli eredi, le ha pubblicate. L’uscita avviene in parallelo a quella di un altro volume: Mio nonno Riccardo Gualino. Autore: Riccardo Gualino junior. Trasferito in Spagna per curare gli interessi di famiglia, cioè i diritti di distribuzione dei film prodotti dal nonno con la Lux e gli stabilimenti che producevano insetticidi, il nipote viene sorpreso in macchina con volantini di propaganda e riceve un colpo di pistola in faccia. Solo un molare lo salva dalla morte fermando il proiettile. Tornato in Italia tenta di gestire un campeggio in Calabria ma deve desistere a causa della ’ndrangheta e accontentarsi delle briciole della ricchezza che la nonna Cesarina, donna egoista e molto longeva, gli lascia.

Se alcuni ritratti di famiglia, fatti da Casorati, sono visibili a Palazzo Reale a Milano (nella mostra Realismo magico, fino al 27 febbraio), la collezione Gualino è custodita alla Galleria Sabauda di Torino. O meglio quel che resta dopo furti e tentativi di appropriazione “istituzionale”: i Modigliani svenduti e dispersi per il mondo, le sculture orientali alla Banca d’Italia… In Confessioni di un sognatore Gualino parla del rapporto con Giovanni Agnelli. Lo ammira per la freddezza e la capacità organizzativa, ma lo descrive come arido e privo di fantasia. Ha saputo ingraziarsi Mussolini restando in una dimensione nazionale e autarchica mentre Gualino spingeva perché si globalizzasse facendo concorrenza a Ford. Sarà lui a fargli comprare La Stampa, fino ad allora giornale molto critico con la Fiat, e ad affiancarlo in molte imprese.

Dopo la guerra, Agnelli subisce un processo per collaborazionismo e muore. Il tempo rende onore a Gualino e al suo poetico spirito imprenditoriale e mecenatesco. Ma pochi ne ricordano il nome forse a causa di una cortina di oblio calata su di lui a partire dall’epicentro Torino dove la Fiat mette tutto il resto in ombra. Mirafiori, per dire, erano le ex scuderie di Gualino. Se la più nota è la Snia, alcune imprese, ricordate oggi, sembrano invenzioni: le immense produzioni di legname nei Carpazi rumeni e in Ucraina, l’espansione residenziale della capitale russa: una specie di “Pietroburgo 2”. Per non parlare del progetto di un triangolo industriale Torino-Milano-Genova collegato da un treno ad alta velocità (180 km/h).

Poco amante della ordinaria amministrazione e bisognoso di nuove sfide, Gualino è stato un imprenditore visionario e vulcanico. Forse troppo. Ha tentato di costruire una biografia alternativa e cosmopolita dell’Italia destinata però a prendere la strada del nazionalismo fascista. Tra i suoi collaboratori (nel cinema) ci fu un giovane Mario Soldati, che dopo la morte gli dedicherà un profilo a tratti perfido nel romanzo Le due città, rivelando le passioni lesbico-danzanti della moglie e descrivendolo come un “Creso” dentro il quale albergava uno scaltro piazzista di Biella (Gualino era cresciuto su un ballatoio di quella città). Forse si voleva vendicare di essere stato cacciato dalla Lux per le avance insistenti ad Alida Valli. Secondo i pettegolezzi, l’attrice folleggiava sul set con tutti tranne che con lui.

L’atlantismo di Draghi impotente in Ucraina

Salvo ripensamenti più o meno notturni (è una specialità di Enrico Letta, quando prima approvò poi rifiutò la candidatura di Elisabetta Belloni al Quirinale) sembrerebbe che il “campo largo” potrebbe sostituire l’alleanza prospettata a suo tempo fra Democratici e Movimento 5 Stelle di Conte. Essendo largo, il campo includerebbe Pd, Lega, Forza Italia, Azione, Italia Viva e micro-centristi vari. Resterebbero fuori 5 Stelle e Fratelli d’Italia, che Renzi e Calenda giudicano equivalenti. Negli anni ‘70 l’Italia fu chiamata alla riscossa contro gli “opposti estremismi”. Prima ancora, nel secondo dopoguerra, fu imposta la “conventio ad excludendum”: i comunisti andavano esclusi dai governi, per volontà non degli elettori ma di Washington e della Nato.

Quello scenario si ripete, adesso che la guerra fredda ricomincia e addirittura si riscalda in Ucraina, solo che la quarantena politica –morto il Pci– è riservata al leader di 5 Stelle: inaffidabile perché ebbe la sfrontatezza di aprire alla Via della Seta e di nutrire dubbi sulle sanzioni. Ecco dunque rispuntare i raggruppamenti centristi, sempre rassicuranti perché sempre allineati: quadripartiti, pentapartiti, e via allargando nella speranza che alle prossime elezioni il M5S perda più voti di quel che già perde per conto proprio.

Se nel descrivere la resurrezione di vecchi scenari citiamo Nato e Usa è perché il nuovo “campo largo” (si dice centrosinistra ma s’intende centrodestra) è andato rafforzandosi man mano che cresceva la tensione Usa-Russia sull’Ucraina. Tensione sfociata nella rabbiosa mossa di Putin che riconosce e garantisce militarmente l’indipendenza delle regioni del Donbass (Donec’k e Luhans’k) e alimentata per anni dall’afonia europea e, in Italia, dall’accresciuto appiattimento sulle bellicose posizioni statunitensi e britanniche. Macron almeno si è adoperato perché i negoziati riprendessero; Scholz ha sospeso ieri l’autorizzazione del gasdotto Nord Stream 2– un disastro per gli europei – ma prima aveva almeno ammesso che l’ingresso di Ucraina e Georgia nella Nato “non è all’ordine del giorno” (cruciale obiettivo strategico di Putin). Draghi invece niente. Ha perso il treno del pomposamente annunciato viaggio a Mosca, e ieri ha definito “inaccettabile” la mossa russa: aggettivo futile, perché chi dice inaccettabile senza metter subito mano alla pistola ha già accettato. Prima ancora, il 17 febbraio, ha emesso commenti piuttosto sbalorditivi. Nessun accenno alle richieste di Putin, né agli accordi di Minsk-2 (ampia autonomia delle autoproclamate Repubbliche di Donec’k e Luhans’k, mai concessa da Kiev), ma in cambio smilzi appelli al dialogo e un peculiare compiacimento: “Il punto numero uno è riaffermare l’unità atlantica. Questo è forse il fattore che ha più colpito la Russia! Inizialmente ci si poteva aspettare che essendo così diversi avremmo preso posizioni diverse, invece nel corso di tutti questi mesi non abbiamo fatto altro che diventare sempre più uniti. Il dispiegamento di quest’unità già di per sé è qualcosa di importante”.

Il Presidente del Consiglio dimentica che nel 2003 Parigi e Berlino si scontrarono con gli Usa e non parteciparono alla rovinosa guerra in Iraq. Lo spirito e gli interessi europei furono salvaguardati da un memorabile intervento all’Onu del ministro degli Esteri Dominique de Villepin, e il conflitto con Washington fu benefico. L’unità atlantica non è rassicurante a priori, nei rapporti con Mosca o anche Pechino. E per quanto ci riguarda: se la Nato non rispetta gli interessi di tutti gli europei vale solo il primo paragrafo dell’articolo 11 della Costituzione: “L’Italia ripudia la guerra”.

Non pochi commentatori, istupiditi dalla “fermezza atlantista” di Palazzo Chigi, scoprono con otto anni di ritardo che nel Donbass c’è guerra tra forze ucraine (compresi battaglioni neonazisti) e popolazioni russofone che Kiev si limita a definire russofile. Temo che conoscano poco la situazione, nonostante le puntuali precisazioni offerte da esperti per niente estremisti come l’ex ambasciatore Sergio Romano o lo storico Gastone Breccia (“La Nato non è stata concepita per arrivare fino al Dnepr. Riconoscere le ragioni geopolitiche dell’avversario e i propri limiti strategici non significa tradire i principi fondativi dell’Occidente, ma soltanto applicarli con realismo e saggezza”).

Su questo punto Letta jr. è più realista del re. Il 25 gennaio giudicò improponibile la candidatura al Colle di Franco Frattini – ventilata da Conte e Salvini– per il solo fatto che l’Improponibile menzionava i millenari interessi russi (evocati con insistenza da Putin, lunedì) e sconsigliava altri allargamenti della Nato, in memoria delle promesse fatte a Gorbachev nel 1990.

Se così stanno le cose tuttavia, e se anche in politica interna il patto Pd-M5S si sbriciola, sarebbe ora di smettere il termine “centro-sinistra”. La sinistra non c’è, nel campo largo detto nuovo centro-sinistra. L’attributo non può essere accampato a vanvera per l’eternità. E non perché Conte rappresenti la sinistra. Ma su alcuni punti la tiene in vita: sul lavoro precario, il salario minimo, la corruzione, la giustizia, il reddito di cittadinanza, e non per ultimo sulla visione di un ordine mondiale multipolare, che metta fine all’unipolarismo Usa e al suo costante bisogno di nemico esterno. Il campo largo liquida questa sinistra, per sintonizzarsi con un atlantismo che cura interessi industriali-militari contrabbandandoli per Valori. Della storia russa (Leitmotiv significativo nel discorso di Putin) Italia e Occidente non sanno più nulla, da quando Clinton e Obama vollero allargare la Nato a Est. Nell’agosto 1991 Bush padre avversò l’indipendenza dell’Ucraina; nel 2014 Helmut Schmidt ricordò che “fino ai primi anni ‘90 l’Occidente non dubitava che Crimea e Ucraina fossero parte della Russia. Il comportamento del leader del Cremlino è comprensibile”. Sono saggezze perdute, da ritrovare.

Le larghe intese –la formula Draghi senza Conte – fanno comodo a tutti coloro che ritengono bifolco ogni partito che non abbia, come unica cultura, quella “del governare”, non importa se nelle vesti di vassalli. Fa bene Conte –definito sull’Espresso “un ambizioso avvocato, scialbo e opportunista, privo di afflato politico”– a rispondere che “creareaccozzaglie per puntare solo alla gestione del potere senza la reale prospettiva di un governoche serva davvero a cambiare il Paese a noi non interessa”. Si spera che non interessi troppi dirigenti, nel suo partito.

Stalker ferisce gravemente ex moglie: il pm chiese custodia in carcere, ma il gip la negò

Ha accoltellato l’ex moglie e il suo nuovo compagno, ferendoli in modo grave. Per questo Pellumb Jaupi, 53enne albanese, è stato arrestato a Rimini. Su di lui c’era già un’indagine per stalking alla donna e il pm Davide Ercolani aveva chiesto invano la custodia cautelare in carcere: il gip, però, aveva disposto solo il divieto di avvicinamento.

 

Ammazzarono il genitore violento Condannati 2 fratelli: 21 e 15 anni

Alessio Scalamandrè ha assistito a tutte le udienze ed è rimasto impassibile anche quando la Corte d’assise di Genova, presieduta dal giudice Massimo Cusatti, ha pronunciato il verdetto, due giorni fa: 21 anni di carcere per l’omicidio del padre Pasquale.

Il tribunale ha condannato anche a 15 anni il fratello minore Simone. A conti fatti, è il minimo previsto dalla legge sul Codice rosso, che in caso di omicidio commesso da un familiare inserisce un’aggravante che neutralizza (quasi) tutte le altre attenuanti e impedisce il ricorso al rito abbreviato perché si tratta di un reato punito fino all’ergastolo. È il motivo per cui gli avvocati dei due giovani, Luca Rinaldi e Nadia Calafato (quest’ultima storico legale che assiste i centri antiviolenza e donne maltrattate), avevano chiesto senza successo un ricorso alla Corte Costituzionale per manifesta sproporzione delle pene erogate. Il paradosso è che quella norma era stata pensata per situazioni opposte a quella in cui è stata applicata: l’aggravante mirava a colpire uomini violenti con le donne. “Ragionando per assurdo – spiega Rinaldi – potremmo ipotizzare che se una figlia abusata dal padre arrivasse a ucciderlo, in assenza dei presupposti di legittima difesa, non potrebbe essere condannata a meno di 21 anni”.

Come nella vicenda di Collegno, anche a Genova siamo in presenza di una vittima maltrattante: Pasquale Scalamandrè aveva maltrattato per una ventina d’anni la moglie Laura Di Santo, più volte l’aveva anche minacciata con una pistola regolarmente detenuta. In questo caso però la donna aveva trovato la forza di denunciare il suo aguzzino: il primo gennaio del 2020, dopo l’ennesima scenata avvenuta al veglione di Capodanno, Laura Di Santo aveva denunciato il marito ed era scappata. Per ragioni di sicurezza era ospitata da una comunità protetta in Sardegna. Il marito era stato allontanato da casa, ma aveva continuato a cercare i figli per chiedere loro, in particolare al maggiore, di ritirare la testimonianza che lo inchiodava.

Qui finiscono le analogie fra le due storie. L’omicidio di Genova, avvenuto il 10 agosto, anch’esso dopo il primo lockdown, ha due sostanziali differenze: la vittima delle persecuzioni non era a casa; e il padre, per quanto insistente, non era armato. Il figlio lo ha colpito prima con un cacciavite e poi con un mattarello. E la richiesta di perizia psichiatrica, che avrebbe potuto abbassare la pena a 14 anni in caso di vizio parziale di mente, non è stata concessa.

“Se non l’avesse ucciso, il padre avrebbe compiuto una strage”

Ha ucciso il padre violento dopo averlo colpito 34 volte, con sei coltelli diversi. Per la Corte d’Assise di Torino Alex Pompa, 19 anni, è innocente perché “ha agito per legittima difesa”, “traumatizzato e sotto choc”, nella convinzione che la sua fosse “una lotta per la sopravvivenza” e in uno stato di “angoscia incombente della strage che il padre prima o poi avrebbe provocato”. In gioco non c’era solo la sua vita, per i giudici, ma anche quella della madre, nascosta in bagno, e del fratello minore, “paralizzato” dalla paura. Ad avere un ruolo, secondo il tribunale, è stato anche un “vizio parziale di mente”, un “disturbo post traumatico da stress” che il ragazzo viveva proprio per colpa del comportamento del padre e che spiegherebbe una sua parziale amnesia. La vittima, Giuseppe Pompa, 52 anni, era un marito ossessionato dalla gelosia. Quella sera era completamente ubriaco, e prima di avvicinarsi al cassetto delle posate, aveva minacciato di morte i familiari: “Vi faccio a pezzetti”, “fatevi sotto”, “vi trovano in una bara”, “se chiamate i carabinieri, sto dentro 2 o 3 anni, poi esco e vi ammazzo”. Le motivazioni della sentenza con cui il tribunale di Torino ha assolto il 19enne escono un giorno dopo un pronunciamento che a Genova, per un caso che presenta alcune analogie, è finita all’opposto: Alessio Scalamandrè, omicida del padre maltrattante, è stato condannato a 21 anni.

È il 20 aprile 2020.Alle 22.42 Alex Pompa chiama il numero d’emergenza, in lacrime e in stato confusionale. Dice di aver ucciso il padre e attende i soccorsi nell’appartamento di via De Amicis, a Collegno, in provincia di Torino. I medici provano invano qualche manovra di rianimazione. I carabinieri non cercano molte altre tracce: c’è già un reo confesso. Alex, assistito dall’avvocato Claudio Strata, viene arrestato. I domiciliari gli vengono revocati a ottobre, quando gli inquirenti ricostruiscono il contesto. In quella casa, si legge nella sentenza firmata dal giudice Melania Eugenia Cafiero e dalla presidente Alessandra Salvadori, regnava “un clima di tensione, ansia, paura e maltrattamenti dovuti alla eccessiva gelosia e ai problemi caratteriali del padre, che pretendeva di esercitare un controllo assolutamente pervasivo su di loro e soprattutto sulla moglie, e che era solito urlare e usare violenza e minacce nei loro confronti”.

Così accade anche quel giorno. La moglie, Maria Cotoia, dipendente dell’Ipercoop, trova 101 chiamate del marito sul telefono. Non è la prima volta: lui la spia, convinto che lei abbia un amante. La costringe a rapporti sessuali contro la sua volontà, spesso dopo litigi furibondi. I due figli Alex e Loris la scortano come fossero bodyguard. Hanno un codice silenzioso per difenderla. Quella sera, ad esempio, svuotano la bottiglia di vino del padre e gli tolgono il coltello con cui lui sta giocherellando.

Non basta a disinnescare il crescendo di minacce, che Giuseppe Pompa ribadisce anche in una telefonata di mezz’ora al fratello Michele, il quale, nonostante l’appello dei nipoti, non interviene. L’uomo a un certo punto va verso la cucina. Alex si convince che stia per prendere un coltello e lo anticipa. Lì comincia un duello che il tribunale divide in “due fasi distinte”: la prima è una lotta tra pari, “per la sopravvivenza”, tra due persone “alla pari”, perché entrambe armate. Ad avere la meglio è Alex, che dopo aver cambiato arma, piegata nella colluttazione, sferra al padre un colpo mortale. Non ne è consapevole, dicono i giudici. E questo giustificherebbe la seconda fase, quella in cui il figlio infierisce sul genitore, compiendo azioni “oggettivamente non indispensabili a difendersi”: lo fa perché “terrorizzato”, “convinto di avere a che fare ancora con un padre ferito e furioso”.

Il pm aveva chiesto 14 anni. Alla fine resta l’impressione che in questa tragedia familiare abbiano perso tutti. Anche un sistema che non è riuscito a impedire questa spirale di violenza. A chi le ha domandato perché in passato non avesse mai denunciato il marito, Maria Cotoia ha risposto: “Sarei già morta se lo avessi fatto”.

Tribunale condanna Caterpillar per condotta antisindacale

Vittoria amara per la Fiom Cgil contro la Caterpillar: il Tribunale di Ancona ha condannato l’azienda di Jesi per “condotta antisindacale”, ma non ha revocato i 189 licenziamenti decisi dalla multinazionale dell’automotive a dicembre. Secondo il giudice, Caterpillar avrebbe dovuto dare preventiva informazione ai sindacati, per permettere azioni a tutela dei livelli occupazionali. Ora dovrà risarcire la Fiom con 50 mila euro. I lavoratori restano aggrappati al progetto di rilancio da parte della Imr, partito al Mise.

Anac, allarme appalti: “I costi delle materie prime rischiano di far saltare in aria il Pnrr”

“È urgente un intervento normativo sulla revisione dei prezzi negli appalti per far fronte agli esorbitanti incrementi delle materie prime nei contratti in corso di esecuzione riguardanti servizi e forniture”. Questa la richiesta del presidente dell’Anac, Giuseppe Busia, a governo e Parlamento per evitare il possibile fallimento del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) a causa del boom dei prezzi delle materie prime usate nei cantieri che rischia di azzerare i margini delle imprese che partecipano alle gare pubbliche. In caso contrario, avverte l’Authority Anticorruzione, “o le gare vanno deserte” o “favoriranno i furbetti che punteranno subito dopo l’aggiudicazione a varianti per l’aumento dei prezzi”. Per questo, spiega Busia, “l’Autorità sta aggiornando il bando tipo digitale per tutte le stazioni appaltanti prevedendo l’obbligo di inserimento nei bandi di gara delle clausole di revisione dei prezzi. Molto meglio – aggiunge – stabilire dei meccanismi trasparenti e sicuri di indicizzazione, così da favorire un’autentica libera concorrenza e apertura al mercato plurale, e serietà in chi si aggiudica l’appalto”. Senza interventi si rischia di “vanificare lo sforzo del Pnrr, per cui resta imprescindibile l’individuazione normativa della percentuale di scostamento, oltre che delle modalità operative e dei limiti della compensazione”. L’Autorità ha chiesto, quindi, che l’intervento normativo venga inserito nella conversione del decreto legge sul green pass prevedendo espressamente all’articolo 29 un meccanismo di compensazione e non soltanto per i lavori pubblici, ma anche per servizi e forniture. Anac ha anche effettuato la “verifica dei prezzi standard della guida operativa (espressamente richiamati come riferimento per la revisione dei prezzi), che non risultano indicizzati, alcuni dei quali non sono aggiornati da anni. Ciò a vantaggio delle stazioni appaltanti, applicando un’opportuna indicizzazione basata su dati Istat”. Per esempio: il lavanolo (fondamentale nel settore ospedaliero), fermo al 2013, con una rivalutazione oggi del +6,1%, i servizi di pulizia e disinfestazione, con una rivalutazione del +10,6% rispetto ai prezzi pubblicati nel 2013, e i servizi di ristorazione, con una rivalutazione del +4,4% rispetto ai prezzi pubblicati nel 2016. “In questo momento non dobbiamo guardare al risparmio immediato, ma riconoscere che bisogna avere clausole di adeguamento dei prezzi che tengano conto dei costi reali”, sottolinea Busia.

Ergastolo ostativo, dalla Commissione Giustizia sì al testo

Più vicina la riforma dell’ergastolo ostativo per chi non ha collaborato. La Commissione giustizia della Camera ha approvato ieri il testo che, dopo il mandato formale che verrà dato domani al relatore, il presidente Mario Perantoni, M5S, approderà in Aula. Il Parlamento ha tempo fino a maggio per adempiere all’obbligo di legiferare, impartito dalla Consulta che ad aprile stabilì che è incostituzionale escludere a priori gli ergastolani mafiosi o terroristi dal poter accedere alla libertà condizionale se non abbiano collaborato.

Ieri, la Commissione ha approvato l’emendamento secondo il quale sarà il tribunale di Sorveglianza e non il giudice monocratico a pronunciarsi su ciascun beneficio, per evitare la solitudine pericolosa del magistrato. Per poter accedere ai benefici, anche ai permessi premio che la Consulta in autonomia aveva sdoganato nel 2019, il mafioso o terrorista deve aver scontato 30 anni di pena, deve aver avuto una buona condotta, non deve essersi limitato alla semplice dissociazione ma deve aver “dimostrato l’integrale adempimento delle obbligazioni civili e delle riparazioni pecuniarie o l’assoluta impossibilità” di farlo nonché deve portare “congrui e specifici elementi concreti che consentano di escludere con certezza l’attualità di collegamenti” con l’associazione e con “il contesto nel quale il reato è stato commesso” e “il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi”. Se il parere del pm è negativo, spetta al detenuto portare “idonei elementi di prova contraria”.

Paghe basse e la beffa dell’indennità: ispettori del lavoro verso lo sciopero

La situazione è paradossale e il governo rischia una figuraccia: nel 2021 più di tre persone sono morte ogni giorno sul lavoro, 1.221 in tutto (stando solo ai dati ufficiali); Mario Draghi e i ministri coinvolti promettono di ridurre il fenomeno, eppure il 4 marzo, senza novità, andrà in scena il primo sciopero dei lavoratori dell’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl), infuriati per i mancati aumenti in busta paga. La mobilitazione è partita lunedì e si concluderà il 4 marzo con lo sciopero nazionale. Per la prima volta la protesta vede tutte le sigle compatte, dai Confederali fino all’Usb.

Ce l’hanno con un pasticcio normativo che va a sommarsi alla situazione complicata in cui opera l’Ispettorato, nato nel 2016 accorpando le funzioni di vigilanza di ministero del Lavoro, Inps e Inail e che dall’autunno scorso ha assunto anche compiti di vigilanza sulla sicurezza, prima affidata solo alle Asl. Di fatto i suoi oltre 4mila lavoratori (più i 100 in capo all’Anpal, l’agenzia per il lavoro) sono stati tagliati fuori dall’aumento della cosiddetta “indennità di Amministrazione”. La norma è prevista dalla legge di bilancio 2020, che ha stanziato 80 milioni per “armonizzare” i trattamenti accessori dei dipendenti dei ministeri mettendo fine a una giungla in cui ogni ministero fa a modo suo con delle differenze enormi tra una struttura e un’altra. Questa situazione verrà sanata da un Dpcm ormai al traguardo (manca il bollino della Corte dei conti). Problema: il ministero della Funzione Pubblica e il Tesoro hanno dato un’interpretazione restrittiva della norma vincolandola solo al personale ministeriale, tagliando fuori tutte le agenzie strumentali dei ministeri, tra cui l’Ispettorato. La cosa è imbarazzante perché il suo personale per la stragrande parte viene dal ministero del Lavoro e ha lo stesso contratto dei ministeri. L’Inl, peraltro, è subentrato al ministero in tutti i rapporti giuridici, ereditandone anche l’indennità di amministrazione, che infatti risulta in busta paga. Il danno non è poca cosa. Parliamo di aumenti annui che variano dai 1.500 per le fasce di inquadramento più basse ai 2.500 euro per quelle più alte. Vale la pena di ricordare che un ispettore, nei primi anni di lavoro, ha uno stipendio intorno ai 24 mila euro lordi annui, che non si alza molto nel corso della carriera. Insomma, quei mancati aumenti pesano non poco.

La situazione è complicata dalle difficoltà già in capo all’Ispettorato, che in questi anni ha operato con una forte carenza di organico (in alcuni strutture territoriali superiore anche al 40%). “Il personale lavora in condizioni difficili. Gli incidenti sul lavoro aumentano, ma spesso gli ispettori sono costretti a svolgere anche lavori di ufficio per mancanza di personale – spiega al Fatto Matteo Ariano della Fp Cgil Inl –. Specie nelle sedi del Nord, sono costretti a dividere la settimana lavorativa riservando pochi giorni alle ispezioni sul campo. L’Ispettorato ha bisogno di personale, anche altamente qualificato. Gli ‘ispettori tecnici’, per esempio, devono verificare la sicurezza dei cantieri: si tratta di ingegneri o geometri, e per attirarli dal privato servono stipendi adeguati. Al momento ne abbiamo solo 200 per tutta l’Italia”.

Solo negli ultimi mesi si è deciso di accelerare con i concorsi per l’assunzione di personale. Per 900 posti da ispettore, banditi nel 2019, si è in attesa della graduatoria; graduatoria che è invece uscita per i 300 funzionari amministrativi (dovrebbero prendere servizio a marzo), mentre a metà febbraio è partito il concorso per 1.174 ispettori tecnici” avvalendosi delle procedure semplificate del ministero di Renato Brunetta.

“La protesta dei lavoratori è giusta e legittima – spiega al Fatto Bruno Giordano, da luglio alla guida dell’Ispettorato –. C’è un vuoto normativo che va colmato. Sono lavoratori impegnati in prima linea a contrastare un fenomeno terribile, con sacrifici personali e meritano un trattamento economico pari a quello degli ispettori Inps e Inail (che hanno stipendi quasi doppi, ndr)”. Giordano ha chiesto un intervento del ministro Andrea Orlando, che a sua volta ha chiesto a Brunetta di aprire un tavolo tecnico. Il governo ha tempo fino al 4 marzo per evitare una figuraccia.

Il Bonomi dei mille mestieri: sulla Lega calcio fa sul serio

Carlo Bonomi si candida davvero a guidare la Lega di Serie A. Lo ha fatto sapere al mondo del calcio con un’intervista di due pagine al Corriere dello Sport in cui ha però inviato messaggi contraddittori.

Da un lato, infatti, chiede un consenso molto ampio: “Un’elezione con sei, sette contrari” non sarebbe abbastanza. Subito dopo, però, accusa senza fare nomi, quel calcio basato ancora sui “piccoli feudi”, su “un interesse miope” che invece di fare affari con i diritti tv esteri preferisce “prendere gli spiccioli su Youtube” e che è diviso tra chi vuole rilanciare il calcio “e chi vuole coltivare il suo orticello”. Lui, tifoso dell’Inter e sponsorizzato dal Milan di Paolo Scaroni, sembra picchiare soprattutto sulle squadre che lo osteggiano, come il Napoli di Aurelio De Laurentiis o la Lazio di Claudio Lotito. A questi fa sapere di essere contrario a una politica di “ristori” integrale – i club oggi chiedono circa 1 miliardo allo Stato – ma solo circoscritta alle “spese sanitarie”. Non è chiaro come pensi di poter convincere quei sei o sette voti che sicuramente gli mancano almeno fino a oggi. Ma, allo stesso tempo, nell’intervista concessa al vicedirettore del Corriere dello Sport, Alessandro Barbano, sembra voler fare sul serio quando sciorina alcune idee di riforma. Indica il modello della Nba americana, l’associazione di basket nota in tutto il mondo e che pur nelle divergenze “converge sempre su un obiettivo comune”. Pensa ai “play-off” per la Serie A, ma solo se tutti sono d’accordo. Parla, sia pure genericamente, di gestione manageriale come la sua in Confindustria dove ha ridotto le spese e gestito gli esuberi con il classico accordo sui prepensionamenti al Sole 24 Ore.

Talmente fiero dei risultati da non voler lasciare la guida di Confindustria, convinto di poter fare entrambi i lavori e “se qualcuno teme che mi distragga vuol dire che sto facendo bene il mio mestiere”. Del resto, aggiunge, su 20 squadre di Serie A dieci sono già iscritte all’associazione imprenditoriale, quindi è come se le guidasse già.

L’intervista parla più al mondo del calcio e non sembra davvero rassicurare chi in Confindustria è preoccupato di questa manovra azzardata. Chi fa notare che il presidente che non ha incarichi operativi in nessuna azienda, gestisce già la Fiera di Milano con i 145 mila euro di compenso annuo previsto sulla carta e non disdegnerebbe i circa 300 mila da presidente di Lega. Chi è preoccupato, soprattutto, che questa ennesima capriola non faccia che dimostrare urbi et orbi che Confindustria è una associazione in crisi. Motivo che più di tutti aiuta a capire il salto nel buio di Carlo Bonomi.