Il problema è il bottone e ci riferiamo qui a quello, misteriosamente scomparso, di Stefano Bonaccini. Un breve riassunto della vicenda potrà spiegare la gravità della situazione. Classe 1967, il presidente dell’Emilia-Romagna all’inizio era un tipico dirigente ex Pci della regione rossa per eccellenza: diplomato, assessore nel suo Comune in tenera età, poi l’ascesa prima a Modena e poi a Bologna, “governatore” addirittura! A livello antropologico parliamo di un Bersani meno sexy, politicamente del classico parto del “modello emiliano”, oggi declinato nell’appeasement tra gli spiriti animali del capitalismo e la capacità dell’apparato di ammanettare il conflitto sociale (un solo esempio: googlate “vertenza Italpizza”). A un certo punto della sua tranquilla vita politica, però, Bonaccini incontra gli esperti di comunicazione e inizia la storia del bottone. “Lo abbiamo reso più cool”, ha spiegato il “guru” Daniel Fishman: cranio virilmente rasato, barba a punta, occhiali a goccia, abbigliamento più sportivo e, soprattutto, il bottone. Da un paio d’anni, infatti, i suoi consulenti impediscono a Bonaccini di chiudere la camicia: come certe soubrette, per contratto deve esibire il décolleté. E qui c’è il problema: troppa aria, l’ossigenazione gli porta idee a folate, tante e tutte insieme. È così – rivela uno studio del Policlinico “San Mario da Città della Pieve” – che si spiegano le uscite a volte confuse del nostro: tipo tre giorni fa “la possibilità di aprire i ristoranti anche la sera è una richiesta di buon senso”, seguito ieri da “siamo all’inizio della terza ondata: non possiamo mollare ora” (sempre ieri, Bonaccini prima ha incontrato gli organizzatori di matrimoni che chiedono di riaprire e poi firmato un’ordinanza che fa di Bologna “zona arancione scuro”). È il bottone sparito: fu quello a fargli dire “il Nord ha bisogno di ripartire, il Sud può aspettare” o a fargli chiedere la secessione dei ricchi – aka autonomia differenziata – come fosse Zaia (salvo temere ora che i terroni del Pd gli sbarrino la strada verso la segreteria). Per capire il problema dell’ossigenazione in eccesso, basta analizzare la nostra frase preferita: “Si possono prendere ottime decisioni, ma se non sono veloci l’una vale l’altra”. A prima vista sembra un pensiero, invece è vento.
Csm, il capo dello Stato ci dica se Ermini è un vice “legittimo”
Sessantasette magistrati hanno rivolto al capo dello Stato un appello per “un intervento immediato per eliminare i fattori distorsivi della imparzialità e del buon andamento della funzione di autogoverno” e per rimuovere dai loro incarichi “coloro che non sono risultati all’altezza del compito” e mettere fine a “una diffusa inerzia”. L’appello fa seguito a una lettera aperta con la quale 27 magistrati avevano chiesto al Pg della Cassazione Giovanni Salvi e al componente del Csm Giuseppe Cascini di smentire categoricamente le accuse mosse contro di loro dall’ex presidente dell’Anm Luca Palamara nel libro intervista Il Sistema. Cascini ha smentito di aver comunicato a Palamara una (inquietante) circostanza – l’esistenza di una conversazione intercettata in cui il presidente della sezione disciplinare Giovanni Legnini avrebbe espresso giudizi poco lusinghieri sul conto del pm napoletano Woodcock – che avrebbe determinato il rinvio al successivo Csm del procedimento disciplinare a carico di Woodcock e ha preannunciato querela.
Nell’attesa dell’esito dell’inchiesta penale sarebbe stato, forse, opportuno avviare, nel frattempo, un rapido accertamento disciplinare per acclarare la falsità o meno dell’affermazione di Palamara, accertamento di cui allo stato non si ha notizia. Salvi, invece, non ha smentito che nel 2017 aveva invitato Palamara, in quel momento componente della V commissione del Csm (quella degli incarichi direttivi di cui è stato anche presidente), “su una splendida terrazza di un lussuoso albergo romano” per sostenere la sua candidatura a procuratore generale della Cassazione (nomina, poi, andata a Riccardo Fuzio). Si contesta, ancora, a Salvi di aver adottato una “generale direttiva assolutoria” che esclude come illecito disciplinare le autopromozioni dei magistrati. In tal modo, sono rimaste escluse dalle condotte ritenute disciplinarmente rilevanti sia la condotta di Salvi che quelle di molti magistrati che, per come risulta dalle chat, si raccomandavano a Palamara. Direttiva quanto meno discutibile atteso che è sicuramente scorretta la condotta di un magistrato che avvicini, nel corso di una procedura concorsuale cui partecipa – perché di questo si tratta – un componente della commissione per sostenere la sua posizione.
Di fronte all’appello dei 67 magistrati, il capo dello Stato può adottare due iniziative:
a) sollecitare il ministro della Giustizia (anch’egli titolare del potere di iniziativa disciplinare e dotato di poteri ispettivi) a disporre, tramite l’ispettorato generale, un’inchiesta, all’esito della quale – dopo aver richiesto “chiarimenti” a tutti i protagonisti delle due vicende – formulare le sue proposte (anche di ordine disciplinare);
b) far porre all’ordine del giorno del Consiglio, nella sua qualità di presidente, la discussione sulla direttiva di Salvi (sentito, sul punto, anche il Guardasigilli) per verificarne la legittimità e se sia stato osservato il principio nemo iudex in causa propria.
L’occasione può essere propizia perché il capo dello Stato faccia conoscere, se ritiene, che il vicepresidente David Ermini lo possa ancora rappresentare al vertice del Csm, essendo emerso, come è noto, che la sua elezione ha trovato la genesi in un accordo improprio, fuori dal Csm e tra persone non legittimate (Palamara, Ferri, Lotti), di cui, in quel momento, due di esse (Lotti e Palamara) indagate; e quale legittimazione abbia ancora un vicepresidente eletto con i voti (13, tra cui quello, disdicevole, di se stesso) anche di sette componenti del consiglio (3 Mi; 3 Unicost e il Pg Fuzio) che, per essere stati costretti alle dimissioni a seguito dell’inchiesta Palamara, non fanno più parte del consiglio che lo ha votato.
Governo extralarge, libertà di stampa sempre più stretta
“I mezzi di informazione italiani si sono adattati all’aria che tira e hanno cominciato ad autocensurarsi, sia sulla stampa sia in televisione”
(da L’ombra del potere di David Lane – Laterza, 2004 – pag. 205)
Non abbiamo fatto in tempo a dichiarare qui sabato scorso il timore che il professor Draghi, a capo del suo governo extralarge, non riuscirà a fare una riforma della Rai per le resistenze della partitocrazia ed ecco che il presidente del Consiglio affida la delega sull’Editoria a Forza Italia, nella persona del sottosegretario Giuseppe Moles, uno dei fondatori del partito-azienda. Che si tratti di una precisa scelta politica a favore di Silvio Berlusconi, anche a prescindere dalle persone, lo dimostra il fatto che inizialmente a quell’incarico era stato designato Giorgio Mulè, già direttore del settimanale Panorama (Mondadori); capogruppo di FI nella Commissione di Vigilanza sulla Rai e portavoce unico dei rispettivi gruppi parlamentari alla Camera e al Senato; trasferito poi all’ultimo momento alla Difesa. E la circostanza è tanto più rivelatrice perché l’opposizione di Pd e M5S a un uomo del Biscione come Mulè, senz’altro più competente di Moles in materia, non è riuscita a impedire la rimozione del dem Andrea Martella che aveva dimostrato impegno e capacità nel precedente governo Conte bis.
Non è certamente questo l’unico sfregio inferto all’immagine e alla credibilità della variegata compagine guidata da Mario Draghi. E non è neppure il più grave. Ma lancia comunque un segnale d’allarme per il sistema dell’informazione italiana, già insidiato dal vecchio “regime televisivo” Raiset; dalla doppia concentrazione pubblicitaria del duopolio tv; dal conflitto d’interessi in capo a Sua Emittenza e quindi da una crisi generale del settore che favorisce la proliferazione degli “editori impuri”, compromettendo il pluralismo e la libera concorrenza.
Sta di fatto che oggi, sotto il governo Draghi, un partito accreditato all’8% nei sondaggi controlla i gangli vitali dell’informazione. Oltre all’Editoria con il neo sottosegretario Moles, Forza Italia detiene la presidenza della Vigilanza con Alberto Barachini, ex giornalista Mediaset, che ora potrebbe cedere il posto a un’esponente unica dell’unica minoranza come Daniela Santanchè (FdI). Le mani del partito-azienda si allungano sulla Rai con la presidenza di Marcello Foa, sostenuto a suo tempo da M5S, Lega e “Fratelli di Forza Italia”, prima bocciato e poi rieletto con una votazione a dir poco controversa, di cui la presidenza del Senato – rappresentata dalla forzista Maria Elisabetta Casellati – rifiuta la verifica delle schede. E infine, il Biscione presidia lo Sviluppo economico che si occupa di telecomunicazioni, con il neo viceministro Pichetto Fratin a fianco del leghista Giorgetti.
Sembra quasi di tornare indietro nel tempo, al fatidico ventennio berlusconiano. Chi aveva cominciato a segnalare il pericolo per il sistema editoriale a metà degli anni 80, prova sentimenti misti di nostalgia e disappunto per tutto quello che nel frattempo si poteva o doveva fare e non è stato fatto. Così oggi ci ritroviamo con le maxi-fusioni e la stampa padronale che domina il mercato, salve rare e isolate eccezioni.
Se qualcuno immaginava o sperava che in questo campo Draghi si sarebbe mosso nel solco di Carlo Azeglio Ciampi, suo illustre predecessore, può mettersi l’anima in pace. Evidentemente, il presidente del Consiglio ha ben altro per la testa: dai vaccini che non arrivano alla ripartizione dei fondi europei fra i vari potentati politici e ministeriali. E se “Mister Bce” non fosse già da tempo il candidato più quotato per il Quirinale, verrebbe da pensare che anche lui deve fare la sua campagna elettorale per precostituirsi un’ampia e solida maggioranza.
Draghi, restaurazione sulle macerie dei partiti
Non dubito della buona fede con cui il presidente Mattarella ha compiuto la scelta d’imperio del governo Draghi (“democrazia dall’alto”, l’ha chiamata Gustavo Zagrebelsky), considerandolo un male minore rispetto a elezioni anticipate da svolgersi in piena emergenza.
Suppongo anzi che il capo dello Stato abbia sgradito il moto di sollievo in cui si sono accomunati i tanti parlamentari a rischio di doversi cercare un altro mestiere e i portavoce del padronato che ormai da tempo vedono nel suffragio universale un fastidioso ostacolo ai loro auspici. Sintomatico è l’uso smodato e mistificatorio che si sta facendo della parola “populismo”, in questi giorni, per celebrarne la sconfitta. Perfino il Pd si è beccato l’accusa di populismo per il solo fatto di aver riconfermato l’intenzione di prolungare l’alleanza con il M5S. Se ne deduce che si macchierebbe di populismo chiunque denunci il ripristino del primato della tecnocrazia; intesa, quest’ultima (mai nominata come tale) quale unico efficace agente regolatore del conflitto fra blocchi d’interessi diversi, che la politica si è dimostrata incapace di rappresentare.
Mi chiedo però se Mattarella abbia valutato, soppesando i pro e i contro della soluzione Draghi, anche l’effetto nefasto prodotto fra i cittadini comuni dai clamorosi voltafaccia in cui si sono esibiti troppi protagonisti della nostra politica. Lo si presenta come senso di responsabilità, addirittura felice resipiscenza, ma appare fin troppo evidente che si tratta di faccia tosta. Nessuno crede all’europeismo di facciata di un Salvini così come all’improvvisa folgorazione moderata, liberale e atlantista di un Di Maio. Quanto al Pd, l’unica cosa che si capisce è la sua impossibilità a concepirsi altro che partito ministeriale. Al pari delle forze minori di centro, Berlusconi in testa, fortunosamente rientrate nel gioco.
I partiti ne sono usciti a pezzi, chi più e chi meno afflitti da ulteriori lacerazioni. Sottovalutare gli effetti futuri di questa dissoluzione, ben visibile nei rancori che si manifestano all’interno dei loro gruppi dirigenti, a me sembra pericoloso. Si potrebbe obiettare che il trasformismo è da sempre una caratteristica della politica italiana. E che anche di recente abbiamo assistito a trasformazioni virtuose di personalità, come Giuseppe Conte, rivelatosi capace di assumere una fisionomia diversa da quella meramente subalterna assegnatagli nel 2018 da M5S e Lega. Ma resta il fatto che l’incoerenza al potere è diventata la cifra prevalente della nostra democrazia malata, acuita al massimo grado nel governo dell’emergenza.
Davvero improponibile è il paragone con i governi di unità nazionale del dopoguerra, nei quali coabitavano partiti politici protesi alla ricostruzione del Paese dopo aver combattuto insieme, nel Cln, il regime fascista: un profilo comune, sociale e culturale, pur nelle grandi diversità che presto si manifesteranno, oggi del tutto assente. Non a caso nella storia d’Italia, i governi di unità nazionale hanno sempre avuto vita breve (a differenza della grosse koalition tedesca) e sono stati caratterizzati da scarsa capacità riformatrice, in quanto paralizzati dai veti reciproci. Perfino la scelta dei sottosegretari, che ha messo in imbarazzo anche i più devoti cultori dei superpoteri di Draghi, lascia intendere che questo governo non farà eccezione. Sicché riesce davvero temerario illudersi che il banchiere trasformatosi in politico possa diventare il riordinatore di un sistema fondato sull’alternanza democratica fra una destra e una sinistra di matrice europeista.
Gli stessi moti di esultanza che hanno accompagnato la nascita di questo governo segnalano che non si tratta di un’innovazione bensì di una restaurazione. Esso non prefigura, cioè, la formazione di una nuova classe dirigente democratica, bensì il ritrovato protagonismo di funzionari e notabili che nel passato recente pretesero e ottennero, solo per fare un esempio, l’inserimento dell’obbligo di pareggio di bilancio nella nostra Costituzione. Sia detto per inciso: il relatore di quella riforma votata a larga maggioranza nel 2012 si chiamava Giancarlo Giorgetti, che poi non ebbe niente da ridire quando la Lega due anni dopo si scatenò in una campagna elettorale al grido “Basta euro”. Analoghe contraddizioni hanno costellato il passaggio del M5S dal fautore della Brexit, Nigel Farage, al voto per Ursula von der Leyen; e da Salvini a Zingaretti. Il rifiuto di riconoscere validità alla distinzione fra destra e sinistra è la causa principale della sua deflagrazione. Resta il fatto, però, che pur con tutte le accuse di dilettantismo che il governo Conte bis si è tirato addosso, i suoi ministri hanno svolto un ruolo determinante nella svolta impressa all’Unione europea nel luglio del 2020. Un merito che in futuro nessuno potrà togliergli.
Golden Globes farlocchi, cani che abbaiano, Brigitte Bardot e il nulla
E per la serie “Chiudi gli occhi e apri la bocca”, eccovi i migliori programmi tv della settimana:
Rai 5, 21.15: Sartre e Camus, gli esistenzialisti, documentario. I due più noti scrittori francesi del XX secolo erano molto amici, ma il loro rapporto si interruppe nel 1952, dopo un furibondo litigio riguardo Brigitte Bardot: perché non rispondeva alle loro lettere? Era solo distratta, oppure ostile? Sartre si vendicherà col saggio Cos’è la Bardot, in fondo, dove teorizza che la Bardot si identifica col nulla se non c’è un Sartre a percepirla come Bardot.
Iris, 23.20: Donnie Brasco, film drammatico. Con Dustin Hoffman, interpretato da Al Pacino.
Sky Cinema Family, 21.00: Il Signore degli Anelli, film fantasy. Quando questo blockbuster uscì nelle sale, qualche fan, deluso dalle libertà che il regista si era preso rispetto al libro di Tolkien, dichiarò che l’avrebbe visto al massimo 80 volte.
Rai 1, 10.15: La Santa Messa, fiction. Sulla riva del lago di Galilea, Gesù incontra Pietro. Per entrambi è un colpo di fulmine.
Sky Atlantic, 23.00: Golden Globe Awards. Da 70 anni, l’Associazione Stampa Estera di Hollywood (Hfpa) premia film e programmi tv. Nel 2016, il feroce Ricky Gervais, presentando la cerimonia, disse: “Un periodico di Hollywood ha scritto che la mia presenza potrebbe indurre qualche star a evitare questa serata, per timore della mia presa in giro. Come se le star potessero rinunciare alla possibilità di vincere un Golden Globe! Specie dopo che le loro produzioni l’hanno già pagato”. Harvey Weinstein scoppiò a ridere, come Matt Damon e Brad Pitt. Tutti sapevano, e due giorni fa il New York Times e il Los Angeles Times sono tornati sullo spinoso tema deontologico. L’Hfpa ha 87 membri. I 60 che votano sono molto corteggiati: le società di produzione li invitano sui set ospitandoli in alberghi 5 stelle, con omaggio di champagne e vini costosi, oggetti d’arte firmati, coperte di cachemire, giradischi ecc., poiché un Golden Globe spesso si traduce in un Oscar. Nel 1982, l’attrice Pia Zadora vinse il Golden Globe per un film che la critica stroncò e fu un flop: poche settimane prima, il produttore del film, nonché marito della Zadora, Meshulam Riklis, aveva invitato membri dell’Hfpa al suo casinò di Las Vegas. Sta facendo discutere anche l’inclusione della sitcom Emily in Paris fra i nominati di quest’anno, poiché per i critici tv è di gran lunga inferiore all’innovativa I May Destroy You, che invece è stata esclusa. Due coincidenze: 1) dozzine di membri dell’Hfpa visitarono il set parigino di Emily e furono alloggiate all’Hotel Peninsula, un cinque stelle; 2) l’Hfpa non ha membri di colore, e I May Destroy You è la storia di una giovane londinese di origini ghanesi. Non sono stati nominati neppure film candidati all’Oscar con protagonisti di colore (Da 5 Bloods, Ma Rainey’s Black Bottom e Judas and the Black Messiah). Nel 1996, il Washington Post sminuì la credibilità giornalistica dei membri dell’Hfpa, fra cui figuravano un ingegnere in pensione, giornalisti freelance di piccoli periodici in Lituania e Bangladesh, uno che gestiva un noleggio auto e un venditore di elettrodomestici a Burbank. Per i critici, i Golden Globe ingannano il pubblico facendogli credere che riconoscano un merito vero, e siano insigniti da giudici imparziali e competenti. Morale: il destino ha alcune parti immutabili, e altre che devono essere sollecitate da noi. Ma adesso basta, parlare di Draghi.
Discovery, 6.00: Cani che abbaiano per un’ora, documentario. Non fatevi ingannare: non è sul Festival di Sanremo.
Ti licenzio, ma è per il tuo bene
Bonomi e Bonometti sono due furbacchioni. Giocano a fare uno quello dotto, l’altro quello più grossier. Così, il primo, presidente di Confindustria, scrive a Repubblica e fa scrivere al Sole 24 Ore, di cui è il proprietario, che è ora di smetterla “di dire sempre no”, che siamo tutti sulla stessa barca, bisogna stare uniti e sui licenziamenti occorre agire, non di colpo, certo, “con una norma transitoria” al termine della quale, però, riformato il mercato del lavoro, tutti a casa. Un bel vantaggio, no?
L’altro, presidente di Confindustria lombarda, se ne esce con frasi del tipo: “Il blocco dei licenziamenti non tutela i lavoratori, ma il posto di lavoro”. “Finalmente sta emergendo (dove? ndr) la consapevolezza che prorogare sine die il blocco dei licenziamenti sarebbe un grave errore, e non solo per le imprese, ma soprattutto per i lavoratori stessi, la cui tutela deve essere una priorità disgiunta da quella dello specifico posto di lavoro”. Provate ad andare dentro una linea di montaggio, tra i reparti della logistica o tra i fattorini della G-Economy, quelli che secondo Marco Bentivogli, sacerdote dei nuovi “costruttori riformisti” – cioè lontani dai “populisti” e amici di Confindustria – “guarda ti licenzio, ma non preoccuparti non ce l’ho con te, solo con il tuo posto di lavoro”. I lavoratori possono stare in pace, attendendo chissà quali mirabolanti coperture dai nuovi ammortizzatori sociali. Con un establishment che non riesce a nascondere l’odio per il Reddito di cittadinanza, e che si è ricompattato dietro al governo Draghi, è una garanzia.
Draghi sprizza competenza a colazione
• Il senso di Mario Draghi per la competenza. Saper fare la domanda giusta, costruire consenso attorno alle proprie posizioni e tradurlo in atti concreti.
Daniele Manca (7 Corriere)
• Un nuovo corso è iniziato a Palazzo Chigi. E anche i ministri, che con Conte facevano a gara a spararla più grossa, sembrano più timorosi. Al massimo parlano dei fatti propri.
Simone Canettieri (il Foglio)
• Il realismo generoso di Draghi. Possono arrivare anche dopo. Possono dare ragione anche dopo. Certo è che il più americano dei banchieri centrali europei, Mario Draghi, si rivela anche il più americano dei capi di governo europei.
Roberto Napoletano (Quotidiano del Sud)
• Mario Draghi fa colazione con cappuccino e cornetto integrale. L’aperitivo è con Aperol Spritz.
Huffington Post
Birkenstock passa all’impero francese del lusso Lvmh
Lvmh prende il controllo dei sandali tedeschi Birkenstock, la cui suola di sughero è diventata ormai iconica. L’operazione è stata annunciata ad Handelsblatt dall’amministratore delegato di Birkenstock, Oliver Reichert, che non ne ha però svelato il prezzo, indicato dagli analisti intorno a 4 miliardi di euro. A concludere l’accordo è stato L Catterton, veicolo d’investimento legato al colosso francese, insieme al numero uno del gruppo Bernard Arnault. “Otterremo un eccellente accesso al mercato asiatico tramite i nuovi comproprietari, e potremo proseguire la nostra crescita a un ritmo accelerato”, ha dichiarato Reichert. In un comunicato si precisa che la maggioranza della società è stata acquistata dai fondi L Catterton e da Financière Agache, finanziaria della famiglia Arnault. Birkenstock ha già conosciuto diverse vite: da produttore di solette ortopediche si è convertito ai sandali, guadagnandosi poi progressivamente il suo posto nelle vie della moda, nelle sfilate e ai piedi delle star.
Torna l’inflazione? Magari, ma in Ue non c’è pericolo…
Quando succede un terremoto, le scosse che lo seguono, quelle in genere di debole intensità, possono provocare ugualmente seri danni. Quello capitato all’economia mondiale con l’arrivo della pandemia è stato un terremoto. Adesso che cerchiamo di uscirne arrivano le scosse di assestamento e lo si vede sui mercati. I prezzi delle materie prime hanno ripreso a salire, i costi dei container per il trasporto dei beni prodotti in Asia hanno raggiunto prezzi esagerati per la mancanza di spazio e tratte. Sono attesi nuovi piani di stimolo dell’economia e il risparmio dei privati cresciuto finora in modo sostenuto come contropartita dei deficit pubblici, troverà via via il modo di generare consumi una volta che le restrizioni saranno allentate.
I mercato iniziano a scontare lo scenario. Da inizio 2021 hanno preso una chiara direzione, puntando sul ritorno dell’inflazione. I rendimenti dei titoli di Stato americani sulle scadenze più lunghe sono saliti (il Treasury Bond con scadenza 5 anni è passato da rendere lo 0,36% a 0,8% e quelli a 10 anni da 0,9% a 1,50%). L’effetto si vede anche nell’Eurozona: il rendimento dei Bund tedesco, l’ancora su cui si fonda l’intera struttura dei tassi cosiddetti risk-free, è salito di 35 punti da inizio anno, trascinando al rialzo i rendimenti di tutti i titoli governativi dell’euro, compresi i nostri Btp.
I rialzi dei rendimenti hanno accelerato soprattutto giovedì determinando i primi scricchiolii sul mercato monetario americano. Più salgono i rendimenti più diminuisce il valore dei titoli di Stato e questo riduce la liquidità nel mercato. Negli Stati Uniti, peraltro, a fine marzo scadrà l’esenzione per le banche di conteggiare i titoli di Stato come attività sulla quale accantonare capitale. Se la Federal Reserve non cambia idea, il ruolo delle banche nell’assorbire i bruschi movimenti del mercato si ridurrà ancora. Da più parti si inizia a chiedere un intervento di stabilizzazione della Banca centrale. Il governatore Jerome Powell si è limitato a ripetere che l’inflazione non spaventa e si augura perfino di raggiungere il target di un aumento del 2% entro 3 anni.
Il ritorno dell’inflazione è un tema che non riguarda solo il mercato. I grandi economisti di area democratica, in queste settimane, sono stati protagonisti di un acceso dibattito sul fatto che le dimensioni del pacchetto fiscale del presidente Biden possa surriscaldare l’economia e portare l’inflazione ben oltre il target, medio, del 2%. Larry Summers, ex Segretario al Tesoro di Clinton, e Olivier Blanchard, ex capo economista del Fondo monetario, ritengono che il piano di stimolo sia troppo elevato. Secondo i Nobel Paul Krugman e Joseph Stiglitz, nonché l’attuale capo economista del Fmi, Gita Gopinath, il pericolo dell’inflazione è invece ancora limitato. Il nuovo Segretario al Tesoro, Janet Yellen, lo ha detto chiaramente: con una disoccupazione ancora al 10% (contro il 6% delle stime ufficiali), la politica deve assumersi il rischio di sbagliare facendo troppo anziché troppo poco.
Una distanza siderale dal dibattito in seno all’Eurozona. Il punto che solleva Yellen è proprio quello che deve esser tenuto presente: in un’economia con così tanti disoccupati da riassorbire ha senso preoccuparsi dell’inflazione? In questi anni abbiamo visto negli Usa e, soprattutto, in Eurozona che il potenziale di funzionamento dell’economia è ampiamente sottostimato. Se veramente ci dovesse essere uno stimolo fiscale sufficiente a riportare l’economia a funzionare, crescendo e facendo crescere i salari in modo che l’inflazione sia coerente con l’obiettivo del 2%, sarebbe veramente un male? Purtroppo al momento questo dibattito ha senso solo negli Stati Uniti, perché in Europa tra ritardi nell’emanazione dei fondi del Recovery Plan e una congenita timidezza nel ruolo della politica fiscale, le aspettative di inflazione, sebbene migliorate rispetto ai minimi dello scorso anno, sono ancora, come si usa dire, subdued.
“Draghi farà l’austerity come chiede la Germania”
L’economista Yanis Varoufakis ha guidato il ministero delle Finanze greco da gennaio a luglio 2015, nel governo di sinistra di Alexis Tsipras. Sei mesi intensi in cui il Paese, già prostrato da una lunga crisi economica, deve contrattare con la Commissione Ue le nuovi condizioni per ripagare gli ingenti debiti. Varoufakis viaggia tra Londra, Bruxelles, Berlino, Francoforte, Washington per promuovere un accordo con condizioni sostenibili. Merkel, Schäuble, Draghi, Dijsselbloem non vedono di buon occhio l’atteggiamento combattivo del nuovo ministro. Benché alcuni leader europei condividano in privato le tesi di Varoufakis, nessuno prenderà ufficialmente le sue parti. Nel referendum del luglio 2015 la maggioranza dei greci si esprime contro un accordo alle dure condizioni poste dalla Troika (Fmi, Bce e Commissione Ue). Varoufakis lascerà l’incarico subito dopo il voto per dissidi nel governo, che finirà per accettare le condizioni di Bruxelles. L’ormai ex ministro torna all’università e fonda, con Noam Chomsky, il movimento DiEM25 che si batte per una maggiore democratizzazione delle istituzioni europee.
Nel libro Adulti nella stanza, uscito nel 2018, lei è molto critico nei confronti di Mario Draghi. Lo accusa di aver posto alla Grecia, da presidente della Bce, dei “ricatti”.
Questi sono i fatti. Pochi giorni dopo che avevo assunto la carica di ministro delle Finanze, e mentre le azioni delle banche greche crollavano in Borsa, mi sono recato a Londra per un incontro con la comunità finanziaria. Volevo spiegare le politiche che avevo in mente e ripristinare la fiducia nel nostro sistema bancario. L’incontro fu un successo e la mattina seguente i titoli delle nostre banche recuperarono il 20% del loro valore. Quello stesso giorno, Draghi annunciò però che la Bce si accingeva a tagliare fuori le banche greche dalle linee di credito, costringendole così a finanziarsi sui mercati a tassi molto più onerosi. Naturalmente, dopo la notizia, le banche persero tutto quello che avevano recuperato.
Che spiegazione si è dato?
Ritengo che comportandosi in questo modo, Draghi abbia violato ogni principio che dovrebbe guidare l’azione di un banchiere centrale. Il compito di una Banca centrale dovrebbe essere proprio quello di garantire la sostenibilità finanziaria, quel giorno Draghi fece esattamente l’opposto. Non direi però che si sia trattato di un ricatto, lo ritengo più un atto di sabotaggio. Si trattò dell’inizio di una campagna da parte della Bce per asfissiare il nuovo governo e costringere il popolo greco ad accettare un nuovo enorme prestito in cambio di nuove misure di austerità che avrebbero ulteriormente indebolito l’economia del Paese. Quando il 5 luglio 2015 il nostro governo chiese alla popolazione, attraverso un referendum, se volesse accettare le condizioni imposte dalla Troika i “no” vinsero con il 61% dei voti. A quel punto Draghi negò alle banche greche l’accesso alla liquidità, causandone la chiusura. Draghi non ricattò direttamente, ma fu lo strumento di ricatto utilizzato dalla Troika e, in particolare dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, per spingere il popolo greco a votare sì.
Lei pensa che Draghi avrebbe davvero avuto la possibilità di comportarsi diversamente, opponendosi alla linea tedesca, a cui si erano accodati tutti i governi, compreso quello italiano di Matteo Renzi?
La mia opinione è che non volesse personalmente asfissiare la Grecia. Credo che però avesse una sorta di accordo con la signora Merkel: lei lo avrebbe sostenuto contro la Bundesbank nell’acquisto di titoli di Stato italiani (cosa che effettivamente aveva iniziato a fare col Quantitative easing avviato nel marzo 2015, ndr). In cambio avrebbe contribuito a mettere Atene spalle al muro.
C’è stato un momento in cui si è sentito personalmente tradito?
No, certamente no. In fondo lui non mi ha mai promesso che si sarebbe comportato come una brava persona e che avrebbe fatto quello che era giusto per l’Europa. Ha tradito il popolo europeo e anche quello italiano, non me.
Più in generale qual è la sua valutazione dell’operato di Draghi nel ruolo di presidente della Bce? Condivide l’opinione che sia stato il “salvatore dell’euro”?
Draghi è intelligente e ha capito meglio di qualsiasi altro componente della Troika quanto sia disastrosa l’attuale architettura dell’euro. È stato determinante per salvarlo? Sì, certamente. Ma questo salvataggio è stato fatto in un modo che ha provocato un’inutile e gigantesca sofferenza a una gran parte della popolazione europea, gettando le basi per una stagnazione secolare.
Nell’intervento sul Financial Times del 25 marzo 2020, Draghi sottolinea la differenza tra debito buono e cattivo e la necessità che gli Stati sostengano attivamente l’economia in questa fase di emergenza. Nel 2012 affermava che il modello sociale europeo era già morto e che quello che era stato fatto in Grecia era l’esempio da seguire…
Essendo intelligente, Draghi capisce bene la differenza tra operare per conto di Berlino nel ruolo di “signore supremo” della Banca centrale ed essere a capo del governo italiano. Quando era alla Bce è stato molto chiaro sulla necessità di imporre politiche di austerità alle popolazioni e contemporaneamente fornire denaro gratuito alle oligarchie finanziarie. Come presidente del Consiglio di un grande Paese e di un popolo orgoglioso bloccato in una stagnazione che dura da decenni, sceglierà di presentarsi come socialdemocratico. Penso che non esiterà neppure a incolpare Berlino e Bruxelles per le difficoltà economiche dell’Italia e a invocare quelle stesse politiche di stampo keynesiano contro cui si è duramente opposto quando era alla Bce. Dietro le quinte penso che avverrà però il contrario. Continuerà a favorire fedelmente le politiche austere che Berlino si attende da un capo di governo italiano.
Lei, quindi, non giudica positivo per l’Italia avere Draghi a Palazzo Chigi. Pensa che anche da noi seguirà la ricetta liberalizzazioni e privatizzazioni?
Non esiste una sola Italia come non esiste una sola Germania o una sola Grecia. C’è l’Italia dei finanzieri e quella di chi vive di rendite, che con il governo Draghi consoliderà e accrescerà il suo benessere. Le imprese di medie e grandi dimensioni beneficeranno dei soldi del Recovery fund. Il resto, la maggioranza della popolazione, continuerà a soffrire le conseguenze di una delle peggiori crisi economiche di sempre.