Vaccino Reithera: ok Ue all’aiuto di Stato italiano da 40 milioni

La Commissione europea ha approvato l’aiuto di Stato italiano da 40 milioni di euro, da destinare alle attività di ricerca e sviluppo dell’impresa biotecnologica Reithera, con sede nel Lazio, che sta mettendo a punto un vaccino, ancora in sperimentazione, insieme all’ospedale Spallanzani. Il sostegno pubblico assumerà la forma di sovvenzioni dirette. “Scopo della misura è promuovere lo sviluppo di un nuovo vaccino contro il coronavirus”, scrive Bruxelles.

Intanto sono tanti gli italiani, ma non solo, che stanno contattato gli uffici dell’ospedale di Stato di San Marino per vaccinarsi, dalla Lombardia e dall’Emilia soprattutto, ma per tutti la risposta è sempre la stessa: “Ci dispiace, ma i vaccini sono solo per i sammarinesi”. Si tratta di 7.500 dosi di Sputnik, ancora non autorizzato in Europa dall’Ema, acquistate direttamente dalla Russia che al momento serviranno solo ai sammarinesi, a iniziare dal personale sanitario che entro mercoledì prossimo sarà tutto immunizzato. Mentre si fa strada nell’Ue l’idea di un pass Covid per salvare le vacanze estive. Una soluzione a 27 per evitare che le Big Tech riempiano il vuoto facendo da sole. L’intenzione è creare un database per la registrazione delle vaccinazioni e un codice QR personalizzato da custodire sul telefono che sia riconosciuto negli Stati dell’Ue.

Allerta fino a metà marzo, l’Rt potrebbe essere a 1,21

In Italia il rischio di una terza travolgente ondata è più forte che mai. Molti esperti già da diverse settimane stanno evidenziando alcuni segnali che lasciano presagire un imminente nuovo aumento dei contagi, come la diffusione di varianti del virus più contagiose e il repentino aumento di casi positivi in alcune province e regioni italiane particolarmente colpite negli ultimi tempi.

Io stesso, il 18 febbraio, proponevo l’abolizione delle zone gialle perché incompatibili con il nuovo scenario di una variante inglese tra il 35% e il 40% più contagiosa, che in una sola settimana è passata da una prevalenza del 20% a una del 40% sul territorio nazionale. La proposta è stata rilanciata prima dal presidente della Conferenza delle Regioni, Stefano Bonaccini, e poi ieri dal virologo Andrea Crisanti. Parole rimaste inascoltate e quando la notizia della ripresa dei contagi torna a occupare nuovamente le prime pagine significa che è troppo tardi.

Purtroppo sembra che dagli errori non si impari mai, ma i dati sono inequivocabili. Negli ultimi sette giorni, i nuovi casi sono aumentati del 29% rispetto ai sette precedenti: un aumento importante e molto preoccupante dopo ben 5 settimane di assoluta stabilizzazione dei casi. È vero che nell’ultima settimana sono aumentati anche i tamponi, ma solo del 12%. L’altro dato incontrovertibile proviene dagli ingressi giornalieri nei reparti di terapia intensiva Covid, un dato molto sensibile che per primo è capace di indicare variazioni nell’andamento epidemiologico, e molto accurato perché non risente, a differenza dei casi positivi, del numero di tamponi effettuati.

Negli ultimi sette giorni gli ingressi in terapia intensiva sono aumentati del 21%. Infine, l’Iss dice che Rt è a 0,99 ma sappiamo che questo è un dato che si riferisce ai contagi di due settimane fa, dunque vecchio e che non rispecchia la reale situazione attuale. Un parametro altrettanto affidabile e più aggiornato è il Covindex che abbiamo sviluppato all’interno della piattaforma Covidtrends.com e che dice che siamo a 1.21. E anche un’elaborazione del fisico Francesco Luchetta del nostro gruppo Coronavirus – Dati e Analisi Scientifiche, che calcola Rt a partire proprio dagli ingressi in terapia intensiva, indica un valore di 1,2.

La domanda sorge spontanea: perché non si è agito prima? Pur senza invocare gli spettri del lockdown, perché non si sono rafforzati i parametri e quindi le restrizioni in tutte le province, per far fronte al nuovo scenario? Eppure avevamo l’esempio inglese, dove la variante è nata, e che in un solo mese, da inizio dicembre a inizio gennaio, è stata capace di portare i contagi dai livelli italiani della scorsa settimana, con una media di 15 mila al giorno, al picco di quasi 70 mila casi e quasi 2.000 morti.

Cosa ci aspetta dunque? Con solo il 2,4% della popolazione vaccinata c’è poco da stare sereni. Qualsiasi misura presa oggi, ammesso che nuove misure saranno prese, non avrà effetto prima di 15-20 giorni. Questo significa che vedremo aumentare i contagi almeno fino a metà marzo e di conseguenza aumenteranno anche i ricoveri negli ospedali e i decessi. Ma quanto aumenteranno i contagi? Difficile dirlo, ma l’esempio inglese è inequivocabile.

Curcio per Borrelli: Draghi cambia la Protezione civile

Il pressing della Lega e di Italia Viva su Mario Draghi è stato fortissimo fin dal suo insediamento a Palazzo Chigi: già nelle consultazioni prima dell’accettazione dell’incarico Matteo Salvini e Matteo Renzi avevano messo sulla graticola la gestione della pandemia affidata da Giuseppe Conte a Domenico Arcuri. Messo a capo di una struttura commissariale accusata di troppa autonomia rispetto alle strutture operative della Protezione civile. Che, pare di capire, non avrebbe debitamente contrastato il suo protagonismo.

E così la nomina di Fabrizio Curcio alla guida del Dipartimento di via Ulpiano lascia intravvedere l’intenzione del governo di mettere mani alla catena di comando della gestione dell’emergenza. E non pare casuale che avvenga a poche ore dalla chiamata a Palazzo Chigi di Franco Gabrielli (a cui è stata assegnata la delega ai Servizi segreti), dati gli ottimi rapporti tra i due. Perché Curcio, quando Gabrielli terminò l’incarico alla Protezione civile per assumere quello di capo della Polizia, fu da subito il suo erede designato. Poi era stato costretto a fare un passo indietro e il testimone era passato ad Angelo Borrelli. Che ieri Draghi ha liquidato con poche parole. “Ad Angelo Borrelli i ringraziamenti per l’impegno profuso e il lavoro svolto in questi anni” è il tenore della nota di Palazzo Chigi con cui è stata annunciata la sua sostituzione in favore del suo nemico-amico Fabrizio Curcio.

Classe 1966, ingegnere promosso capo di Casa Italia, il Dipartimento che promuove la sicurezza in caso di rischi naturali, con il compito di sviluppare, ottimizzare e integrare gli strumenti destinati alla prevenzione del rischio, alla cura e alla valorizzazione del territorio, delle aree urbane e del patrimonio abitativo. Un incarico che ha accettato nel 2019 anche se era parso un ripiego per chi come lui, funzionario del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco, aveva affrontato l’emergenza del terremoto di Umbria e Marche del 1997, era stato coordinatore provinciale dei Vigili del fuoco durante il Giubileo del 2000, capo della Sezione di gestione delle emergenze presso il Dipartimento di Protezione civile in cui si era destreggiato tra le alluvioni di Messina, Liguria e Toscana, il terremoto di L’Aquila del 2009 e quello in Emilia-Romagna del 2012, oltre alla rimozione della Costa Concordia.

Insomma, nonostante il nuovo incarico, avrebbe voluto riprendere il suo posto alla Protezione civile che aveva dovuto lasciare per un serio problema familiare, ma trovando le porte sbarrate. Oramai era in sella Borrelli con cui da allora qualcosa è cambiato.

I due hanno condiviso tanti anni alla Protezione civile, ma poi i rapporti si sono incrinati nonostante il tempo passato fianco a fianco. Entrambi fedelissimi di Guido Bertolaso: Borrelli suo vice, Curcio potente capo della sua segreteria e poi via via dirigente fidatissimo.

Prima del terremoto di L’Aquila era stato proprio Curcio a mettere in guardia Bertolaso del clima nel capoluogo abruzzese, investito da giorni da uno sciame sismico che aveva mandato in fibrillazione la popolazione prima della tragica scossa del 6 aprile: “Volevo solo avvertirla – disse Curcio a Bertolaso in una delle intercettazioni agli atti del processo per i fatti dell’Aquila in cui la Commissione grandi rischi venne accusata di aver rassicurato la popolazione su ordine di Bertolaso – che mi ha chiamato Altero Leone… e io ho già parlato anche con Luca perché in Abruzzo… a L’Aquila in particolare… c’è di nuovo quello scemo che ha iniziato a dire… che stanotte ci sarà il terremoto devastante”. Quando Bertolaso chiese chi fosse, Curcio rispose: “È Giuliani, che ogni tanto se ne esce con queste dichiarazioni e trova terreno abbastanza fertile in ambito media, quindi poi là la voce corre e la gente si mette in ansia… insomma quindi… non è la prima volta che succede”.

20 mila contagi, come a gennaio. Lombardia e Piemonte arancioni

L’epidemia ha ripreso a correre con le varianti, per la prima volta dal 6 gennaio ieri in Italia abbiamo superato i 20 mila contagi rilevati (20.499) e tutti prevedono che aumentino ancora. Il monitoraggio settimanale dice che Rt, calcolato fra il 3 e il 16 febbraio, resta a 0,99 come sette giorni fa, ma “si conferma per la quarta settimana consecutiva un peggioramento”. Tre Regioni passano in zona arancione: Lombardia, Piemonte e Marche che si aggiungono ad Abruzzo, Toscana, Emilia-Romagna, Trentino e Alto Adige. Solo la Liguria riguadagna il giallo. La Basilicata con Rt a 1,51 (1,26-1,79) va dal giallo al rosso. Anche il Molise, su sua richiesta, va dall’arancione al rosso.

Si moltiplicano le zone rosse (o arancione rafforzato) disposte a livello locale, legate per lo più alle varianti: da Brescia a Bologna, da Siena e Pistoia al Frusinate e altrove. Torna però tutta arancione l’Umbria, flagellata dalla varianti e con gli ospedali in crisi. Rimane comunque rischio alto, come del resto le Regioni che cambiano colore. Mai come in questo momento bisogna guardare ai dati locali, le stesse medie regionali non bastano, ma anche su base nazionale da una settimana all’altra sono aumentati i nuovi casi rilevati (da 135,46 a 145,16 ogni 100 mila abitanti nei 7 giorni fino al 21 febbraio , con punte oltre i 500 a Bolzano, oltre i 300 a Trento, oltre i 200 in Abruzzo, Emilia-Romagna, Molise e Umbria, ma nel flusso quotidiano siamo già a 179 e l’aumento è del 29,3% su base settimanale) e i malati in terapia intensiva (da 2.074 il 16 febbraio a 2.146 il 23, ma ieri erano già 2.194 e gli ingressi nelle rianimazioni aumentano molto rapidamente: +21% negli ultimi 7 giorni). Otto e non più cinque Regioni, tra cui Lombardia e Piemonte, superano almeno una delle soglie d’allerta negli ospedali. Aumentano i casi non associati a catene di trasmissione note (31.378 contro 29.196) e crescono quelli rilevati a causa dei sintomi (36,7% contro 33,7%). Naturalmente la Lombardia ha protestato per l’arancione perché Rt è a 0,82, ma il rischio è alto per i focolai delle varianti e le terapie intensive occupate al 33%. Fino a ieri sera si è discusso di fare della Sardegna la prima zona bianca, con meno restrizioni, i numeri ci sarebbero ma le varianti sono anche lì.

La bozza del nuovo Dpcm, il primo di Mario Draghi, conferma il sistema dei colori e le misure in vigore (divieto di circolazione dalle 22 alle 5, bar e ristoranti chiusi alle 18, ecc.) con qualche restrizione in più in zona rossa. Cioè niente visite a parenti e amici, niente seconde case e barbieri e parrucchieri chiusi. Il Dpcm durerà dal 6 marzo, quando scade l’ultimo di Conte, fino al 6 aprile. Pasqua compresa. Addio allo sci.

L’unica riapertura anticipata, salvo complicazioni, l’ha strappata Dario Franceschini per cinema e teatri: come da parere favorevole del Comitato tecnico scientifico, sarà il 27 marzo, Giornata internazionale del teatro. In zona gialla musei aperti anche sabato e domenica. Rischia la scuola: visto l’aumento dei contagi in età scolare, dovuto a quanto pare alle varianti, il governo ha chiesto un parere al Cts su possibili ulteriori restrizioni della didattica in presenza, già adottate da alcune Regioni.

Queste, da ieri sera, hanno la bozza del nuovo decreto. Faranno le loro osservazioni e Draghi conta di emanare il testo lunedì 1° marzo, perché sia noto con una settimana di anticipo. Lega e Forza Italia, rappresentate da Giancarlo Giorgetti (Mise) e Mariastella Gelmini (Affari regionali), hanno ottenuto che le restrizioni entrino in vigore il lunedì, come già annunciato da Roberto Speranza, e non più la domenica in pieno weekend. Le Regioni avranno anche un tavolo tecnico in cui saranno ridiscussi i parametri: vorrebbero che Rt, calcolato con un po’ di ritardo, pesasse meno dei numeri ospedalieri. Il tavolo valuterà settimanalmente i dati che giustificano il mantenimento dei regimi più restrittivi. Il decreto Ristori, atteso in 10 giorni, metterà gli oneri a carico dello Stato per le attività danneggiate da misure regionali assunte “d’intesa” con il ministro della Salute. E Giorgetti presenterà a giorni al Cts un protocollo per la riapertura di una serie di attività produttive.

Non solo Graviano, altri 3 boss chiedono il permesso premio

La richiesta del boss della mafia recluso al regime di isolamento del 41-bis Filippo Graviano per ottenere il permesso premio non è l’unica. Solo nel carcere di L’Aquila, al Fatto Quotidiano risultano altre tre richieste di permesso premio da parte di boss detenuti al 41-bis.

Il primo è Maurizio Capoluongo, 59 anni boss di San Cipriano d’Aversa dalla fine degli anni Ottanta, vicino a Michele Zagaria, recluso al 41-bis. Capoluongo ha chiesto un permesso ad agosto, ma pur non avendo avuto risposta sa che comunque uscirà tra sei mesi per fine pena.

Più lontana la libertà per Giuseppe D’Agostino, 51 anni, boss della camorra salernitana. Ha chiesto un permesso di tre giorni il 23 settembre scorso. Dovrebbe uscire comunque per fine pena nel 2023.

Pasquale Gallo, 64 anni, detto “’O Bellillo”, boss di Torre Annunziata che per anni ha conteso lo scettro a Valentino Gionta, ha fatto richiesta di permesso il 17 ottobre del 2020. Gallo in cella ha preso tre lauree magistrali e l’istanza l’ha scritta da solo. Si accontenterebbe di 8 ore di permesso.

L’Aquila è l’epicentro del 41-bis: sono 167 in tutto i reclusi con questo regime.

Ma anche a Sassari, dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha di fatto eliminato l’articolo 4 bis che prima vietava i permessi ai boss, si sta alzando l’onda delle richieste. Come è noto non è andata bene a Pasquale Apicella, 52 anni, detto “’o Bellomm”, vicino al clan dei Casalesi. Anche lui, nonostante sia detenuto al 41-bis, ha chiesto il permesso, negato dal tribunale. Apicella ha fatto ricorso in Cassazione e la Suprema Corte ha riconosciuto che la motivazione del Tribunale era sbagliata. Non si può escludere il permesso per i boss al 41-bis automaticamente solo perché quel regime “sarebbe stato vanificato da un permesso-premio”. Ci vuole qualcosa di più per dire no.

Così a Sassari, un altro ‘casalese’, cioè Vincenzo Zagaria (non parente di Michele)recluso al 41-bis, ci ha riprovato, ma il Tribunale di Sorveglianza di Sassari non ha cambiato linea. Il 41-bis “non avrebbe più alcun senso – per i giudici di Sassari – se il detenuto sottoposto al regime penitenziario differenziato potesse uscire dal carcere per tenere rapporti anche fisici con i propri familiari e conviventi (…) ne discende che fin tanto che Vincenzo Zagaria rimarrà sottoposto al regime sanzionatorio differenziato di fatto non potrà mai avere accesso al beneficio premiale invocato”.

Le richieste sono basate sul cambiamento di personalità e sul comportamento corretto in carcere. La dissociazione è la nuova frontiera. Per ora compare nella richiesta di Filippo Graviano, classe 1961, recluso dal 1994. Il boss palermitano ha presentato la sua richiesta, scritta dall’avvocato Carla Archilei, il 5 gennaio del 2021. Graviano chiede un giorno di permesso.

Il boss (condannato come mandante per le stragi del 1992 e del 1993 e per l’uccisione del beato don Pino Puglisi) come gli altri boss fa leva sulla sentenza della Corte costituzionale n. 253 del 2019, presidente Giorgio Lattanzi, redattore Nicolò Zanon, membro della Corte, con Giuliano Amato e altri anche Marta Cartabia.

La sentenza ha dichiarato incostituzionale l’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario nel punto in cui di fatto impedisce che un mafioso possa accedere ai permessi premio se non collabora.

Marta Cartabia, poi presidente della Corte, ora è ministro della Giustizia e per uno dei suoi primi appuntamenti istituzionali ha incontrato il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, lanciando un segnale preciso.

Filippo Graviano cita la sentenza ma nell’istanza si autocita con un passo della sua dichiarazione del 6 maggio 2010, quando era detenuto a Parma. Già allora vantava con i magistrati il suo cambiamento e scriveva che “la conclusione del suddetto percorso è la mia dissociazione dall’organizzazione criminale”. Filippo Graviano si dice cambiato. “Le motivazioni del mio miglioramento – scrive il boss – possono essere attribuite alla mia predisposizione al cambiamento”.

Ok alla riforma dello Sport: salta la “manina” amica di Malagò

Una riforma dello sport, senza ministro e neppure sottosegretario dello Sport. È uno dei miracoli del governo Draghi: ancora non si sa chi si occuperà di questo mondo che muove milioni e porta consensi, ma già c’è una legge che lo cambierà (bene o male, lo dirà il tempo).

L’esecutivo si è ritrovato a dover approvare i decreti della delega voluta dall’ex sottosegretario Giorgetti e firmata dall’ex ministro Spadafora, ultima ratifica dopo il passaggio con Parlamento e Regioni. Una pura formalità. Se non fosse spuntato all’ultimo momento un articolo in più sul prezioso Istituto di Medicina dello Sport, che la riforma ha assegnato in gestione alla partecipata governativa Sport e Salute e il Coni (che detiene l’immobile) rivuole per sé.

Il blitz, disguido, manina è stato subito sventato, ma è emblematico. Oggi lo sport è un impero senza padrone, dove tutti provano ad allargarsi, e più di tutti il Coni di Giovanni Malagò, che ha appena incassato il decreto che gli restituisce autonomia e dipendenti, ma evidentemente non gli basta: ha esultato per l’assenza di un ministro, ora prova a completare l’opera spingendo per un sottosegretario amico.

La casella sembrava indirizzata verso Forza Italia, ma si aperta una partita interna al centrodestra fra Gianni Letta (che di Malagò è fidato consigliere) e Giorgetti, che ha già provato a ridimensionare il Coni e continua a vigilare anche dal Mise. Mentre il M5S si lamenta e Pd e renziani reclamano il loro turno. Troppe pressioni e veti incrociati: alla fine Draghi la delega non l’ha assegnata. Potrebbe non farlo mai, ma è più probabile sia solo un rinvio. Ora, però, chiusa la partita dei sottosegretari, risalgono le quotazioni di un tecnico, perché la delega a un politico rischierebbe di rompere il delicato equilibrio in maggioranza. Intanto lo sport aspetta e resta in balia di manine e appetiti. Serve mettere qualcuno a guardia del pollaio. Meglio che non sia la volpe.

E Giorgia vuole il vertice Rai. Saxa Rubra: sinistra sparita

“E adesso con chi parliamo?”. In queste ore tra Viale Mazzini e Saxa Rubra si vivono momenti di profonda angoscia. Tra attacchi d’ansia e crisi di nervi. Perché un governo che nelle posizioni apicali vede dei tecnici, in un mondo che si nutre di un rapporto amniotico con i partiti, è una variante peggiore di quella inglese e brasiliana messe insieme.

Così si compulsano gli smartphone per vedere se si ha qualche contatto con Mario Draghi e la sua corte. “Ma tu la conosci Paola Ansuini? Che tipo è? Mi giri il contatto?”, è la richiesta che si sono visti fare i cronisti economici dei telegiornali, gli unici ad avere rapporti con Bankitalia. E infatti i loro telefoni trillano in continuazione. “Da giorni è un assedio. Chiamano tutti, dai redattori semplici ai direttori”, confida un cronista economico di uno dei principali tg.

Così si guarda ad Antonio Funiciello, neo capo di gabinetto del premier, come a una boa in mezzo alla tempesta. Quando stava nel Pd e poi con Paolo Gentiloni, qualche conoscenza in Rai Funiciello l’ha coltivata. “Carissimo, come stai? Ti ricordi di me? Volevo complimentarmi”, è il tono di alcune chiamate ricevute dal neo capo di gabinetto a Chigi.

Perché il vento è cambiato e, come sempre, tocca riposizionarsi. Ai più maliziosi, per esempio, non è sfuggito un commento assai benevolo nei confronti di mister Bce comparso sul Sole 24 Ore a firma di Francesco Giorgino. “Consapevolezza, visione e voglia di sistema nel discorso di Draghi”, è il titolo. “Quando ci sarà da nominare il nuovo direttore del Tg1, magari qualcuno se ne ricorderà”, ridacchiano a Saxa. “La corsa ad accreditarsi è già partita. Vedremo chi saprà muoversi meglio. Con Draghi bisognerà cambiare stile: non esporsi troppo, altrimenti si rischia l’effetto contrario”, continua la nostra fonte. Insomma, se prima bastava una telefonata a Rocco Casalino, non è più così. E a proposito di Casalino, come sempre nella tv pubblica è scattata la rimozione di chi c’era prima. “Casalino chi?…”, sorride un importante autore televisivo. Per non parlare di Conte, tornato a essere solo l’allenatore dell’Inter.

Tutti, comunque, si muovono. Un certo pressing viene segnalato su Giancarlo Giorgetti, principale collaboratore politico di Draghi. E un contatto considerato importante è quello con Vittorio Colao. La Rai, par di capire, non sarà però in cima ai pensieri di Mario Draghi. E questo ridà spazio di manovra alla politica. Per cui chi è interessato a un posto al sole dovrà parlare coi soliti interlocutori: Dario Franceschini (Pd), Maurizio Gasparri (FI), Michele Anzaldi (Iv), Alessandro Morelli (Lega), il consigliere Giampaolo Rossi (quota FdI). Mentre Stefano Buffagni (M5S), fuori dal governo, è dato in calo.

Nel frattempo, a sinistra, c’è malumore. “Sui sottosegretari il Pd non ha toccato palla e siamo finiti nelle mani della destra”, sussurra quella parte del mondo Rai targata dem. Che poi enumera le sconfitte: al Mise, con la delega alle comunicazioni, c’è la Lega con Giorgetti; l’editoria è andata a Forza Italia con Giuseppe Moles (e per un pelo s’è scampato l’ex Mediaset Giorgio Mulè); alla Vigilanza c’è sempre l’azzurro Alberto Barachini (pure ex Mediaset). Con Giorgia Meloni che, da unica opposizione, ora ne reclama la presidenza. E vuole anche “più spazio nell’informazione, almeno un terzo”, come hanno scritto Mollicone e Santanchè alla Vigilanza.

I bene informati, però, sanno che il pressing meloniano sulla Vigilanza è una falsa pista. FdI, infatti, opterà per la presidenza del Copasir, con Adolfo Urso, perché sulla tv punta a un bersaglio ben più grosso: la presidenza della Rai nella prossima governance, che sarà rinnovata a luglio. Con Giampaolo Rossi che già si vede al posto di Marcello Foa. Rossi in questi anni è stato assai abile a tessere la sua tela, ponendosi come fidato alleato di Fabrizio Salini, che gli ha concesso molto. “Restando coerente e fuori dalle tattiche camaleontiche, Meloni dimostra di essere una vera leader”, ha sottolineato Rossi qualche giorno fa. Giorgia ringrazia e, quando ci sarà da presentare un candidato, il nome che farà sarà il suo.

Consiglio di Stato: l’affollata truppa pronta per Chigi e i ministeri chiave

La seduta a Palazzo Spada è iniziata con il ricordo commosso di Antonio Catricalà: un suicidio inspiegabile per molti suoi ex colleghi del Consiglio di Stato. Che in passato Catricalà aveva lasciato di stucco solo un’altra volta, quando aveva deciso di abbandonare la casacca da grand commis per darsi alla libera professione. Un gesto pure questo inspiegabile nel tempio del potere romano che ieri ha celebrato i suoi riti: una raffica di delibere con cui i papaveri della giustizia amministrativa sono stati autorizzati a ricoprire i ruoli più delicati nel governo di Draghi.

Tornano a casa appena in tre che non sono stati riconfermati dopo il governo Conte: Luigi Carbone e Hadrian Simonetti (che smetteranno i panni di capo di gabinetto e capo del legislativo del ministero dell’Economia) ed Ermanno De Francisco (di ritorno dal Dipartimento per gli Affari giuridici di Palazzo Chigi). In compenso un’intera truppa è in partenza, non senza polemiche. Perché a un certo punto nel plenum dell’organo di autogoverno si fa notare che si è passato il segno. È il caso di Giampiero Lo Presti che rappresenta i magistrati del Tar, considerati figli di un Dio minore: “È inutile che denunciamo la grave carenza di organico se poi autorizziamo tutti questi incarichi” sottolinea mentre il brusio in sala aumenta di livello. E fioccano astensioni e qualche no ai colleghi destinati a prendere il volo per altri lidi, mentre crescono i mal di pancia verso la categoria.

Nei giorni scorsi qualcuno in Parlamento si è fatto andare la mosca al naso: Andrea Colletti, ex deputato del M5S oggi in Alternativa c’è, nel corso dell’approvazione del Milleproroghe ha denunciato una “manina” collegata al Consiglio di Stato per creare “una nuova ambita presidenza per Palazzo Spada. Sarà sicuramente un caso che molti capi di gabinetto e legislativi siano anche consiglieri di Stato, ma sarebbe interessante capire cosa c’entri tale provvedimento con le disposizione urgenti in materia di proroga termini”.

Ma a Palazzo Spada si tira dritto. Serviranno il governo Giuseppe Chinè, Gerardo Mastrandrea, Alfredo Storto e Paola Di Cesare al Mef, Roberto Garofoli e Roberto Chieppa (uno sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, l’altro segretario generale), Carlo Deodato (al Dagl lasciato da De Francisco dove andrà anche la consigliera Maria Rocchetti), Luca Monteferrante (che resta capoufficio legislativo alla Salute), Roberto Proietti (legislativo al Turismo), Claudio Contessa all’Ambiente, Alberto Di Nezza alla Pubblica amministrazione, Giulio Veltri al ministero del Sud, Floriana Di Mauro al Mibact, dove ci sarà Paolo Aquilanti: consigliere per i rapporti col Parlamento.

Salvini, B. e Meloni: il governo Draghi ingrassa tutta la destra

C’è già chi aumenta di peso e chi dimagrisce dopo l’avvio dell’esecutivo Draghi. Il governo di salvezza nazionale per alcuni, e qui è una questione di vero talento, si traduce nella salvezza della propria ditta. Per altri invece nella disgrazia. In mezzo chi provvede alla fuga solitaria. Di seguito, i volti e le azioni di quelli che più si sono distinti.

 

Giorgia Meloni (+++)

Mirabile nel districarsi dall’orda dei salvatori della Patria, si è fatta di lato investendo nella rendita parassitaria di opposizione. Picco di popolarità grazie agli insulti violenti di alcuni professori di sinistra. Solidarietà universale a lei, riprovazione universale ai prof. Uguale misura di concordia nazionale non si è avuta quando era lei a insultare e altri, non del suo rango, a essere insultati. La Meloni è come un Bot a interessi bassi ma costanti. Cresce di poco, ma sempre.

 

Matteo Salvini (+++)

Era fuori dalla barca, con l’acqua che gli stava arrivando al collo. Raccolto e rifocillato, si è sistemato a prua. Travestitosi da europeista, fa il padano di lotta, mentre Giorgetti è il padano di governo. Insieme fanno la Lega. Perfetto nella dislocazione dei sottosegretari. Ha mirato al sodo, cioè ai ministeri di spesa: il suo partito, fino a poche settimane fa in caduta libera, ha ripreso colorito.

 

Silvio Berlusconi (+++)

Riparato all’estero, riesce con maestria a cavare oro dalle rape. Ha ottenuto tutto ciò che mai avrebbe immaginato. Tre ministeri e per Mediaset la delega all’Editoria. Il suo avvocato alla Giustizia. FI non esisteva più, ora è risorta. Miracolo.

 

Matteo Renzi (+)

Voleva far fuori Conte e ci è riuscito. Ora vaga nel centro indistinto e deve trovare qualche alleato scavezzacollo per superare lo sbarramento della nuova legge elettorale. Ha puntato su FI, ma quelli – capito il soggetto – se la stanno dando a gambe. Calenda non lo vuole più come partner. Gli restano Bellanova e Scalfarotto.

 

I ministri del Pd (—)

Tre maschi, tre capicorrente, tre fantuttoni. Sempre in groppa al cavallo vincente hanno dimostrato al Pd l’efficacia della teoria della prevalenza del particulare grazie alla quale la regola è capovolta: squadra che perde non si cambia. Mai.

 

Stefano Bonaccini (—)

Esempio di sfasciacarrozze. Punta a far fuori Zingaretti e pur di riuscirci fa come Renzi con Conte: ne inventa una al giorno. A settembre, prima della seconda ondata, voleva riaprire gli stadi. Qualche giorno fa i ristoranti, come Salvini. Ieri ha detto di prepararci alla terza ondata. Per domani ha già qualche idea. Ma aspetta la tv.

 

Nicola Zingaretti (–)

È alla curva finale. Qualche altro giorno e cederà di schianto. Arrabbiato e un po’ depresso, ancora non si capacita che il Pd sia quell’accozzaglia di correnti di cui gli parlava Lucio Caracciolo. Ha creduto di fare del suo meglio, ma è venuto fuori il peggio.

 

Luigi Di Maio (—)

Propone ai 5stelle – infiacchiti nel morale – di edificare su zolle nuove il glorioso Pli di Malagodi e Altissimo. Un movimento liberale, europeista, bene educato e con la cravatta. Intanto si è fregato tutti i sottosegretari. In controluce si intravede una chiara attività di spurgo. L’intento sembra infatti quello di alleggerire il M5S di ogni capellone cosicché il 15 o anche solo il 10% possa essere la cifra rispettabile e il gruzzoletto ragionevole per stare nel futuro al centro del centro della scena. E – va da sé – sempre in auto blu.

 

Beppe Grillo (–)

Tentando di dare ordine al caos, sta provocando la più grave crisi di nervi della storia dell’umanità. I 5S camminano rasenti i muri, nel terrore che qualcosa di brutto, che ancora non è loro accaduto, accadrà. Gli espulsi stanno pregando la Beata Vergine perché interceda e restituisca loro Casaleggio almeno in sogno.

Intercettazioni “light”: con Bonafede costi giù di 10 milioni all’anno

Disarcionato nel passaggio dal governo Conte a quelle di Mario Draghi, l’ex ministro M5S della Giustizia, Alfonso Bonafede, almeno un fiore all’occhiello può appuntarselo con orgoglio: quello dei risparmi alle spese per le intercettazioni sostenute dagli uffici giudiziari italiani degli ultimi due anni. E, soprattutto, quelli previsti per il futuro dopo il varo del nuovo tariffario messo a punto da una commissione insediata negli uffici romani di Via Arenula.

Iniziamo dalle spese recenti. La relazione tecnica stilata dal dirigente ministeriale Massimiliano Micheletti che accompagna lo schema di decreto recante “disposizioni per l’individuazione delle prestazioni funzionali alle operazioni di intercettazione e per la determinazione delle relative tariffe” (trasmesso alla presidenza del Senato l’8 febbraio scorso), parla chiaro. Dall’analisi dei dati a consuntivo del relativo capitolo di bilancio, emerge infatti un andamento dei costi per intercettazioni variabile tra il 72% e il 75% rispetto alle risorse stanziate in bilancio. Nell’anno

2018, per dire, a fronte di uno stanziamento pari a 230 milioni e 718 mila euro, sono state registrate spese per complessivi 180 milioni. Mentre nel 2019, rispetto ai 215 milioni stanziati, ne sono stati spesi solo 191. E non è poco, viste le polemiche passate sulle risorse impegnate per questo tipo di attività dalle procure.

Quanto invece alle buone notizie previste per il futuro, vengono appunto dalle proiezioni di spesa fatte dal ministero sulla base del nuovo tariffario previsto per ogni singola attività investigativa: intercettazioni telefoniche, informatiche e telematiche, ambientali audio e video, veicolari, eccetera.

Per cominciare, non è stato stabilito un importo fisso per i costi che gli uffici giudiziari dovranno liquidare per queste prestazioni, ma un range tra un minimo e un massimo che non dovrà comunque essere superiore al costo medio rilevato presso i cinque centri distrettuali con maggior indice di spesa. Cioè le Procure di Palermo, Roma, Napoli, Milano e Reggio Calabria.

Dall’analisi dei dati a disposizione della direzione generale di statistica del ministero della Giustizia, risulta intanto che i “bersagli intercettati” negli ultimi cinque anni sono stati mediamente 130 mila l’anno, di cui l’85% sono state intercettazioni di tipo telefonico, il 12% ambientali e il 3% di tipo telematico. Il nuovo listino prezzi ministeriale stabilisce una tariffa massima giornaliera di 2,42 euro per gli ascolti telefonici, 75 euro per le intercettazioni delle comunicazioni di tipo ambientale, 120 euro per quelle telematiche.

Considerando che la durata media di queste operazioni è stata negli ultimi anni di circa 57 giorni per le intercettazioni telefoniche, di 72 giorni per quelle ambientali e di 73 giorni per quelle di tipo telematico, “moltiplicando la durata complessiva con la tariffa giornaliera massima di ogni prestazione come da (nuovo) listino”, scrivono i tecnici ministeriali, “si ottiene il totale della spesa complessiva annua per categorie di prestazione funzionale alle intercettazioni”. In totale circa 134 milioni di euro, il 7% in meno rispetto all’anno scorso. Facendo il confronto “tra il risultato ultimo con la spesa sostenuta per le prestazioni funzionali dell’anno 2019 (oltre 144 milioni, ndr) si evidenziano possibili risparmi di spesa dell’ammontare complessivo annuo di 9,9 milioni di euro”.

Naturalmente, da verificare a consuntivo.