Repubblica continua a picchiare durissimo contro il governo Draghi e pubblica un ritratto spietato di Franco Gabrielli, l’ex capo della polizia a cui Super Mario ha affidato la delicata delega ai Servizi. Gabrielli per Repubblica è semplicemente straordinario. “Un uomo dal talento precoce, per anagrafe e capacità, dall’intelligenza inquieta, refrattario ai tartufismi. E dalla cultura democratica e riformista a cui non ha mai fatto mistero di appartenere”. Mecojoni!, direbbero a Roma. Ne consegue che il premier ha fatto l’ennesimo capolavoro: “È una decisione che dice molto del metodo Draghi e dell’attenzione del Quirinale (…). È una decisione che promette di regalare agli apparati di sicurezza una serenità e una competenza sciaguratamente smarrite nel Conte-1 e Conte-2”. Perché Gabrielli è bravissimo, c’è poco da aggiungere: in lui “si combinano le competenze che la lingua inglese felicemente distingue in safety e security”, E se non bastasse, “Gabrielli non è un ottimate, ma un figlio del popolo. Al punto da confidare, ancora oggi, di avere un solo rimpianto. Aver negato per orgoglio e testardaggine a suo padre, autista di bus, la gioia di vederlo laurearsi in Giurisprudenza a Pisa”.
Di Maio “Liberale”. La strana genesi della sua svolta
“I 5Stelle sono finalmente una forza moderata, liberale, attenta alle imprese”: sono parole di Luigi Di Maio, intervistato da Repubblica
, che una certa sorpresa hanno suscitato nelle rassegne stampa. Ma come, oggi si definisce moderato e liberale proprio colui che giusto due anni fa, insieme ad Alessandro Di Battista, si recò dai Gilet gialli francesi a stringere la mano a un tizio che sognava la guerra civile? Parliamo dello stesso Di Maio che minacciava l’impeachment
contro il presidente Mattarella perché esitava a varare il governo gialloverde? Su entrambe le “uscite”, il tre volte ministro degli Esteri ha fatto ammenda e infatti lo scopo di questa rubrica non è quello di accusarlo di incoerenza, poiché usando lo stesso metro è l’intera politica italiana, salvo rare eccezioni, che dovrebbe discolparsi. Forse è più interessante domandarsi quale sia stato il percorso intellettuale, e anche umano, che ha condotto – non un Movimento somma di sentimenti collettivi – bensì la persona di Luigi Di Maio a “maturare” e a “trasformare” il Luigi Di Maio del Vaffa-Day nel Luigi Di Maio frontman
di una forza “moderata, liberale, attenta alle imprese”. La risposta spetterebbe naturalmente a lui se ne avesse voglia (ne dubitiamo), ragion per cui proveremo a fare delle ipotesi. 1. Tenere gli altri nell’incertezza e crearsi una fama di imprevedibilità, può essere una strategia di potere, anche se nel caso in esame ci sembra una motivazione troppo sofisticata. 2. Esiste un’incoerenza funzionale legata al ruolo esercitato, il leader di un grande movimento deve sempre considerare lo spirito del tempo. L’Italia del 2007, quando Beppe Grillo riempiva le piazze osannanti non è più quella di oggi perché nel frattempo evidentemente tutto è cambiato. Non tenere conto della realtà non è segno di integrità di principi, ma di stupidità politica. 3. L’esercizio del potere crea inevitabilmente abitudine al potere. Nessuna allusione, per carità, agli orpelli del privilegio e meno che mai al fascino monumentale della Farnesina, o miserie del genere. La vocazione ministeriale è legittima, oltre che utile, se messa al servizio dei propri valori. Se pure l’idea di governare il sistema mantenendosi fuori dal sistema è abbastanza ingannevole. 4. È possibile, infine, che la zingarata dai Gilet gialli e l’assalto al Quirinale le abbia partorite quella mente rivoluzionaria di Di Battista. E che Di Maio abbia detto di sì per non deludere l’amico sia pure forzando la propria natura “moderata” e “liberale”. Per l’ultima volta. È la spiegazione più ingenua, perciò la preferisco.
L’esercito contro il premier: “Vattene”. “Solo se lo vuole il popolo o mi sparate”
Il premier, le Forze armate e il presidente in mezzo: l’Armenia è sull’orlo del caos. La nazione del Caucaso uscita sconfitta nel conflitto con l’Azerbaigian per il controllo del Nagorno-Karabakh, s’è svegliata ieri con le richieste di dimissioni del premier, Nikol Pashinyan, e dell’intero governo da parte dello Stato Maggiore. “È un tentativo di golpe”, ha risposto Pashinyan, chiamando a raccolta i suoi sostenitori per una dimostrazione di forza in piazza. Ma anche l’opposizione, che da tempo chiede la sua testa per l’umiliazione bellica, è scesa in strada, in una manifestazione parallela, sostenendo la posizione dei militari che hanno chiesto con un documento firmata dal capo di Stato maggiore, Onik Gasparyan, la rimozione dei vertici politici per manifesta “incapacità”. “Il colpo di Stato non ci sarà, tutto finirà pacificamente”, ha gridato al megafono il premier ai supporter . “Che il popolo chieda le mie dimissioni, che mi sparino in piazza”, ha tuonato. Il presidente della Repubblica, Armen Sarkissian, è intervenuto per cercare una distensione, invocando la calma di entrambe le parti.
“Giovani, pochi ed esposti”: noi diplomatici, quanti problemi
“L’episodio è purtroppo la tragica conferma del livello di pericolo al quale sono esposti i servitori dello Stato all’estero”: così il sindacato nazionale dei dipendenti del ministero degli Esteri ha espresso il suo cordoglio a poche ore dalla morte dell’ambasciatore in Congo, Luca Attanasio. Parole che suonano come un’accusa indiretta. A quale pericolo si riferisce il documento? I diplomatici si esprimono poco e a mezza bocca. Ma non è una novità che la vita dell’ambasciatore oggi sia lontana dai gloriosi fasti delle pubblicità dei Ferrero-Rocher degli anni 80. Ai primi incarichi nelle sedi più disagiate si mandano spesso funzionari freschi di nomina. Anche i viaggi da e per l’Italia verso sedi lontane sono un lusso pagato spesso di tasca propria. I tagli più importanti al dicastero sono cominciati con la spending review del 2012, con il ministro Giulio Terzi che varò un bilancio da 213 milioni in meno rispetto al 2011. In un’intervista del 2013 l’allora premier Enrico Letta riconosceva che la Farnesina era stata tra i dicasteri più penalizzati dalla logica “perversa, senza intelligenza, dei tagli lineari ereditati dal passato”. Ma dopo 5 mesi, l’allora neo ministra degli Esteri, Federica Mogherini, annunciava nuovi tagli: 108 milioni in meno nel triennio 2014-2016. Dove si taglia? Ristrutturando la rete diplomatico-consolare. Oggi le sedi estere sono 301, a fronte delle 386 tedesche e 366 francesi. Ma se diamo un’occhiata all’organico, il personale tedesco è quasi il doppio di quello italiano, idem per i francesi. Tante sedi, poco abitate.
Un raid fulmineo: il carabiniere non ha potuto sparare
La pistola di Iacovacci non ha sparato il giorno dell’agguato alla missione italiana in Congo in cui il carabiniere è rimasto ucciso assieme all’ambasciatore Luca Attanasio. Da Kinshasa arrivano le prime notizie delle indagini del Ros, coordinate dalla Procura di Roma. L’arma ritrovata dagli inquirenti congolesi nel fuoristrada su cui viaggiavano le vittime conterrebbe tutti i proiettili nel serbatoio, segno appunto che il militare non avrebbe esploso nessun colpo durante la sparatoria tra i rapitori e i Ranger intervenuti per difendere gli ostaggi, secondo la ricostruzione degli 007 pubblicata ieri dal Fatto. Tra gli altri oggetti acquisiti dai Ros, c’è anche un tablet, ritrovato sempre a bordo nel fuoristrada del World Food Programme, che ora verrà analizzato alla ricerca di indizi utili a ricostruire il piano di viaggio e gli spostamenti dell’ambasciatore. Viaggio definito a rischio da più testimoni e ribadito ieri da Mons. Sebastien Joseph Muyengo, vescovo di Uvira (Sud Kivu).
“Quello che è successo non fa che confermare quanto diciamo da tempo: qui regna la totale insicurezza. Se possono uccidere un diplomatico di questo rango in quel modo, pensate a quello che può accadere ai comuni abitanti dei villaggi”. Dov’erano intanto i Caschi blu Onu (Monusco) e l’esercito regolare (Fardc)? – chiede il presule –, amico di Attanasio che aveva “conosciuto grazie ai padri Saveriani”. Quanto all’Onu, di cui il Wfp è parte, non poteva ignorare la pericolosità del tragitto che Attanasio e la missione guidata dal vicepresidente Wfp in Congo, Rocco Leone, percorrevano senza mezzi blindati. Solo qualche giorno prima, dall’11 al 13 febbraio, infatti, una delegazione delle Nazioni Unite guidata dal diplomatico belga, Axel Kenes, con direttori dei ministeri degli Affari esteri estone e irlandese e un rappresentante dell’ambasciata norvegese a Kinshasa era partita dalla capitale con destinazione proprio il Nord Kivu. Nelle immagini della partenza e del viaggio della missione pubblicate sul sito di Monusco, si vede la delegazione arrivare con l’aereo dell’Onu, scortata dai cachi blu armati. A Goma, tra l’altro, come si legge nel comunicato della Monusco, “la delegazione del Consiglio di sicurezza ha tenuto diverse consultazioni con i rappresentanti della comunità internazionale, le autorità provinciali, gli attori della sicurezza della Repubblica Democratica del Congo, la società civile, tra cui strutture femminili. A Rutshuru, dove ha base Monusco, poi “la delegazione ha incontrato i principali attori della sicurezza locale” che “hanno sottolineato le enormi sfide alla protezione dei civili poste principalmente dai vari gruppi armati che operano nel territorio. Hanno anche sollevato la questione dei rapimenti criminali per il riscatto che ora dilagano nella regione”. Non era dunque un segreto che la zona fosse a rischio anche sequestri, come ha spiegato lo stesso ministro degli Esteri Luigi Di Maio, nell’informativa alla Camera, al contrario di quanto dichiarato nella nota del Wfp. Nota che le immagini della delegazione dell’Onu di qualche giorno prima sembrano smentire. Ieri è stato anche il giorno del saluto alle “vittime di una violenza stupida e feroce che porterà solo dolore”, come ha denunciato il cardinale Angelo De Donatis nell’omelia che ha accompagnato nella basilica di Santa Maria degli Angeli a Roma i feretri di Luca Attanasio e Vittorio Iacovacci avvolti nel tricolore. Accanto alle bare, oltre alla moglie di Attanasio, Zakia Seddiki con le figlie, c’erano il presidente del consiglio Mario Draghi, il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, quello della Difesa Lorenzo Guerini, la presidente del Senato Casellati e il presidente della Camera Fico. Draghi ha anche incontrato a Palazzo Chigi l’inviato speciale del presidente della Rdc, Patrick Luabeya, accompagnato dall’ambasciatore in Italia Fidele Sambassi Khakessa. Al centro del colloquio, la tragica scomparsa di Attanasio e Iacovacci.
L’affare Mercy Corps: c’è del marcio nelle Ong
Instabilità, violenza, malgoverno, ma anche corruzione spudoratae ai danni dei più poveri, a volte da parte di chi dovrebbe invece sostenere le popolazioni allo stremo. La Repubblica Democratica del Congo è uno dei Paesi al tempo stesso più ricchi e più poveri del mondo. Più di cento milizie e banditi locali si fanno la guerra per accaparrarsi e spartirsi le ricchezze di cui il paese abbonda, dalla legna ai minerali, e certe volte con le complicità di generali corrotti o di figure locali.
Altre volte gli affari sporchi si fanno anche sui soldi, e tanti, che circolano in RdC, riconducibili alle missioni umanitarie delle Nazioni Unite e gestiti da decine di Ong, presenti da più di vent’anni. Del resto era con il convoglio del Word Food Programme, un’agenzia dell’Onu che promuove la sicurezza alimentare nel mondo, che l’ambasciatore italiano Luca Attanasio si era messo in viaggio da Goma per andare a visitare un programma di alimentazione scolastica a Rutshuru, nel pericoloso est della RdC, quando, insieme al carabiniere Vittorio Iacovacci, è caduto in un agguato mortale, le cui circostanze sono ancora da chiarire. I soldi delle Ong fanno gola a tanti. Che l’agguato del convoglio, senza scorta né protezione adeguata, sia legato alla visita a quelle mense scolastiche costruite con i fondi del Wfp? Che la presenza del giovane ambasciatore, che aveva fatto suo l’impegno per la pace tra i popoli (menzione che gli aveva valso il premio Nassiriya), abbia infastidito qualcuno? Molte zone d’ombra persistono. In un sistema corrotto a tutti i livelli, come molti specialisti hanno confermato in questi ultimi giorni, si rischia di dimenticare che la corruzione penetra talvolta anche nei programmi umanitari. Nel giugno 2020 l’inchiesta del magazine The New Humanitarian aveva rivelato una vasta frode agli aiuti umanitari in RdC, di più di 6 milioni di dollari, sul denaro destinato agli sfollati e intascato da personale corrotti e faccendieri locali.
L’inchiesta si basava su dei fatti del novembre 2018, quando la Ong britannica Mercy Corps, che interviene in più di trenta paesi del mondo per aiutare le popolazioni che vivono nelle zone di conflitti armati, aveva scoperto uno dei suoi operatori mentre si faceva corrompere da alcuni uomini del posto. Dopo un’ampia indagine interna, durata quasi un anno, la Ong aveva scoperto che il sistema di corruzione andava avanti da molto tempo e che riguardava anche altre organizzazioni. Stando a The New Humanitarian, che ha consultato dei documenti riservati, Mercy Corps aveva perso in poco tempo circa 639.000 dollari, compresi 65.000 dollari del Danish Refugee Council. Uno degli operatori di Mercy Corps, che ha parlato sotto anonimato, stimava che, con altre agenzie che facevano parte del Rapid Response to Population Movement (Rrmp), un importante programma dell’Unicef in RdC, erano stati persi in due anni fino a 6 milioni di dollari che erano destinati agli sfollati.
La rete di corruzione rivelata dall’inchiesta si basava su un sistema di finti sfollati, cioè sul conteggio al rialzo del numero degli sfollati e sulla distribuzioni di aiuti a chi non ne aveva reale bisogno: “Uomini d’affari locali – si legge nell’inchiesta di The New Humanitarian – versavano delle tangenti a operatori umanitari corrotti perché venissero registrate centinaia di persone in più, non dei veri sfollati, per ottenere più denaro”. Scrive il giornalista, Philip Kleinfeld, autore dell’inchiesta: “Certi utilizzavano i soldi in più per acquistare un’automobile nuova, occhiali firmati Armani o iPhone. Uno aveva persino cominciato a costruire un albergo”. Il business sugli aiuti agli sfollati poteva andare avanti da molti anni: “Non avevamo mai immaginato una cosa del genere. E non certo a questo livello”, ha detto Whitney Elmer, direttrice della Mercy Corps in RdC. Si punta il dito anche contro le falle del sistema dei controlli nella gestione dei fondi: “Pochi sforzi erano stati fatti per verificare chi era registrato come sfollato e dove andavano a finire milioni di dollari di aiuti”, sottolinea The New Humanitarian. Altre Ong sarebbero state coinvolte nelle reti di corruzione. Al Mercy Corps dei congolesi corrotti avevano fatto il nome di altre nove Ong vittime di frodi. Viene precisato che gli impiegati delle Ong corrotti erano stati licenziati, ma si sa che tre di loro in poco tempo sono stati assunti da altre Ong internazionali.
Un dato che confermerebbe come il sistema persista ancora oggi. Eppure, si legge ancora, “dopo la scoperta delle frodi nei programmi di Mercy Corps, le agenzie umanitarie si sono unite per costituire una task-force anti-frode e commissionato un rapporto, finanziato per 200.000 sterline dal dipartimento esecutivo Dfid del governo britannico responsabile per gli aiuti umanitari, (Department for International Development), che ha analizzato tutto il sistema di assistenza umanitaria in RdC”. Il documento, disponibile online, è stato consegnato nel luglio 2020, in piena epidemia di Covid-19. Il rapporto conferma gli schemi di collusione tra umanitari e figure locali e mostra la diversità dei sistemi di corruzione, dall’ingaggio del personale alla fase di consegna degli aiuti. “La corruzione in RdC è endemica – si legge nel rapporto – e nessun settore è a riparo della diversità dei modi di corruzione, compreso l’aiuto umanitario. La corruzione ingloba un sistema di pratiche illecite favorite da istituzioni statali deboli che dissimulano delle vaste reti di clientele. Queste reti possono essere costituite da attori all’interno delle organizzazioni umanitarie”. Il punto definitivo è questo: “Se la maggior parte degli attori sono motivati da un vero spirito umanitario, nessuno dei gruppi implicati nella catena di aiuti umanitari è esente da persone corrotte o che ricorrono a pratiche predatrici”.
I giudici: “Quella legge introdotta per tutelare interessi di una parte”
“A partire dall’anno di imposta 2007, le erogazioni in denaro effettuate a favore di partiti politici, esclusivamente tramite bonifico bancario o postale e tracciabili secondo la vigente normativa antiriciclaggio, devono comunque considerarsi detraibili”. È il testo dell’emendamento a firma Calderoli-Bisinella, quello pensato per mettere fine agli accertamenti fiscali iniziati dopo l’inchiesta della Procura di Forlì.
A sostenerlo sono gli stessi giudici tributari che si stavano occupando di uno di questi casi. Scrivono i componenti della commissione tributaria provinciale di Biella, competente per il caso dell’allora deputato Roberto Simonetti, nella loro ordinanza del 17 settembre 2014: “Non sembra anzitutto revocabile in dubbio, considerata l’esistenza di un plurimo contenzioso di cui si ha notizia certa, che la norma in esame sia stata congegnata appositamente allo scopo di sottrarre una generalità di parlamentari eletti nelle liste del partito della Lega Nord alle conseguenze di natura tributaria e a quelle, eventualmente a queste collegate, di natura penale, derivanti dall’indebita detrazione delle erogazioni di denaro effettuate a favore del partito”.
E ancora: “Occorre evidenziare infine il carattere espressamente retroattivo della norma, estesa a tutti gli anni d’imposta anteriori a quello in cui è entrata in vigore, fino a tutto il 2007, segno evidente che le riprese a tassazione operate dagli Uffici finanziari erano state estese all’arco di tempo decorrente dal 2007: l’accertamento dell’Agenzia Ufficio di Biella oggetto del presente processo concerne per l’appunto gli anni dal 2008 al 2011”. Conclusione: “Ricorre pertanto il fumus che si tratti di una norma introdotta non per tutelare esigenze di carattere generale, bensì interessi del tutto particolari e personali”. I giudici tributari dicono insomma che l’emendamento Calderoli-Bisinella è un condono proposto dalla Lega per salvare i tanti leghisti inguaiati in quel momento con gli avvisi di accertamento dell’Agenzia delle Entrate. Visto chi l’ha votato, però, viene il dubbio che a beneficiarne siano stati anche tanti altri partiti.
L’emendamento-condono è stato infatti approvato a larga maggioranza (206 sì, 47 no) con il favore di tutte le forze politiche presenti in quel momento in Parlamento. Tutte tranne il Movimento 5 Stelle.
Morale della favola? Mentre abolivano il finanziamento pubblico ai partiti, gli stessi partiti introducevano una norma per continuare a ricevere soldi pubblici.
Non più direttamente dallo Stato, ma attraverso una triangolazione con i propri eletti.
“Sistema 15%”: Calderoli e la norma salva-leghisti
Erogazioni liberali: si chiamano così i soldi che ogni persona può donare a un partito politico. E infatti questa è la dicitura trovata a fianco alle decine di versamenti di cui abbiamo dato notizia in questi mesi sul cosiddetto “sistema del 15%”, quello attraverso il quale i nominati e gli eletti della Lega hanno finanziato il partito restituendo una parte del proprio stipendio pubblico. Un meccanismo che ha permesso al Carroccio di incassare milioni di euro e ai suoi donatori di pagare meno tasse. Sì, perché le erogazioni liberali si possono detrarre dalle imposte. Peccato che di liberale, nei versamenti leghisti, ci sia ben poco. A sostenerlo adesso non sono più solo le fonti citate nella nostra inchiesta a puntate. Lo dicono anche l’Agenzia delle Entrate, una Procura e due commissioni tributarie. Siamo dunque alla vigilia di un’inchiesta fiscale nei confronti della Lega? No, perché nel frattempo tutto è stato condonato, sanato per legge in modo retroattivo grazie a un emendamento proposto dalla Lega.
Andiamo per gradi. Il Fatto ha ottenuto decine di scritture private tra la Lega e i suoi esponenti, in cui i politici s’impegnano, se vogliono essere candidati, a versare al partito una parte del proprio stipendio in caso di elezione. Punto 4 del contratto: “Il candidato si impegna a versare, per le obbligazioni assunte dalla Lega Nord, la somma di 145.200,00 in rate mensili di 2.420,00 a decorrere dal primo mese successivo all’inizio del mandato”. Punto 5: “Il punto 4 vale da riconoscimento di debito, per cui la presente scrittura privata è dichiarata consensualmente idonea per l’emissione di decreto di ingiunzione anche provvisoriamente esecutivo”. Punto 6: “In caso di mancata elezione nulla è dovuto dal candidato e, sia la Lega Nord sia il candidato, sopporteranno le proprie spese affrontate”. Tra i 66 contratti analizzati ci sono quelli del presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana e quelli dei deputati Fabrizio Cecchetti e Daniele Belotti. Sono tutti accordi preparati prima delle Regionali del 2005 in Lombardia, ma le stesse scritture private – come vedremo – sono state usate anche nelle elezioni successive, sia locali che nazionali. I documenti dimostrano che i soldi versati in quegli anni dai vari esponenti del Carroccio non erano erogazioni liberali, cioè volontarie, ma conseguenza diretta di un contratto. E qui arriviamo alla parte più interessante.
Nel 2012 la Procura di Forlì, guidata da Sergio Sottani, apre un’inchiesta sull’allora deputato leghista Gianluca Pini con l’ipotesi di millantato credito. Analizzando i suoi conti correnti, i magistrati scoprono che Pini ogni anno faceva importanti donazioni alla Lega e poi detraeva dalle imposte quanto donato. Insospettito dalle cifre, Sottani ordina perquisizioni nei confronti della Lega in via Bellerio e alla Camera. E scopre che così facevano tutti. Vengono trovati i contratti con cui ogni politico leghista, prima di essere eletto, s’impegnava a versare una parte del proprio futuro stipendio al partito. Per i pm di Forlì non è evasione fiscale (penale) ma elusione (illecito amministrativo). Per questo le carte vengono mandate all’Agenzia delle Entrate, che inizia il tentativo di recupero delle somme eluse. Il fatto è dimostrato dalle ordinanze emesse da due commissioni tributarie provinciali. Qui si scopre che sotto il faro dell’Agenzia erano finiti, tra i tanti, Sergio Divina, storico senatore trentino, e il piemontese Roberto Simonetti, oggi direttore amministrativo del Gruppo Lega Salvini Premier alla Camera, all’epoca parlamentare.
Le ordinanze delle commissioni tributarie offrono dettagli ulteriori sul sistema del 15%. Viene fuori che anche per i candidati al Parlamento la cifra da restituire era pari a 145mila euro in cinque anni, proprio come per i consiglieri regionali. E che, grazie alle detrazioni d’imposta, ogni anno gli eletti recuperavano il 19% della somma versata al partito: ossia 27.550 euro di tasse risparmiate ogni 5 anni. Un beneficio illegittimo, secondo le due ordinanze: “Il candidato e il partito Lega Nord stipulavano un accordo in cui si affermava espressamente che il versamento delle somme dal candidato al partito avveniva in correlazione con ‘le obbligazioni assunte dalla Lega Nord’, il che esclude in radice lo spirito di liberalità (inteso come mera e spontanea elargizione fine a se stessa) e la detraibilità ai sensi dell’art.15, comma 1-bis, decreto legislativo n.917/1986”, scrivono i giudici tributari. Nonostante questo parere del 4 dicembre 2014, i parlamentari della Lega alla fine non hanno dovuto risarcire il danno. Come mai? Il motivo è spiegato nelle stesse ordinanze delle commissioni tributarie. Il 21 febbraio 2014, prima dunque che i giudici si esprimessero sui casi, il Parlamento ha convertito in legge il decreto sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Dentro c’era un emendamento promosso da due senatori leghisti, Roberto Calderoli e Patrizia Bisinella, che di fatto ha legalizzato il sistema del 15%. Un condono retroattivo che spiega perché, ancora oggi, senatori, deputati, consiglieri regionali ed eletti di ogni sorta, ma anche nominati a diversi incarichi pubblici, possono pagare meno tasse grazie ai soldi che versano al proprio partito. E lo possono fare anche se la donazione è frutto di un obbligo contrattuale, come è il caso della Lega.
Caso Bibbiano, i bimbi sono tutti tornati a casa
Alla giustizia penale spetterà il compito di fare luce su una vicenda complessa e ancora tutta da chiarire: il presunto sistema Bibbiano.
Nel frattempo, lontano dai riflettori, nei mesi scorsi il tribunale dei Minori ha già preso decisioni importanti: i bambini coinvolti nell’inchiesta, una decina, sono stati restituiti ai genitori. Sconfessando dunque i provvedimenti dei vertici dei servizi sociali della Val D’Enza, imputati nel processo di Reggio Emilia. L’ultimo caso risale al luglio 2020.
A comunicare la restituzione dei minori alle famiglie di provenienza ieri, nel corso dell’udienza preliminare del processo “Angeli e Demoni”, è stato il sostituto procuratore Valentina Salvi. I dossier al centro degli accertamenti sono stati affidati ad altri professionisti, funzionari dei servizi sociali e psicologi. E il responso ha ribaltato le decisioni prese in precedenza. Secondo gli esperti consultati in seconda battuta, certifica un’annotazione depositata dal pm, non ci sono stati gli abusi.
L’inchiesta nasce nell’estate del 2018 da un’inchiesta dei carabinieri. Alcuni esposti segnalano anomalie in sette comuni della Val D’Enza, in provincia di Reggio Emilia, legati a un numero anomalo di abusi sessuali su minori. I casi al vaglio degli inquirenti sono una settantina. È da qui che prende corpo l’indagine che coinvolge la comunità terapeutica di Bibbiano La Cura, comunità che si avvale della consulenza del centro Hansel e Gretel di Torino, diretto dallo psicoterapeuta Claudio Foti.
Secondo l’accusa assistenti sociali e psicoterapeuti che facevano parte del sistema Bibbiano avrebbero manipolato le testimonianze dei bambini, ne avrebbero alterato i ricordi, li avrebbero convinti dell’esistenza di violenze mai avvenute, con il proposito di affidarli poi a nuclei familiari di propria conoscenza. Entrambe le parti avrebbero ottenuto vantaggi da questi provvedimenti: le famiglie ottenevano contributi, i centri sovvenzioni è pubbliche per i servizi di psicoterapia. Nel frattempo alle famiglie di provenienza venivano tolti i figli, finendo accusati di maltrattamenti e abusi.
Insomma un business degli allontanamenti, che spiegherebbe l’anomalia statistica della Val D’Enza. E che nel maggio del 2019 porta a una serie di misure cautelari.
La Procura di Reggio Emilia ha chiesto il rinvio a giudizio per 24 persone, tutte legate alla gestione degli affidi. Fra loro ci sono: Federica Anghinolfi e Francesco Monopoli, i due ex responsabili dei servizi sociali della Val d’Enza; Claudio Foti e la moglie Nadia Bolognini, gli psicoterapeuti che guidavano il gruppo di professionisti; e c’è anche Andrea Carletti, sindaco di Bibbiano, il Comune travolto dall’indagine. Carletti risponde di reati legati al suo ruolo di amministratore e non di illeciti compiuti sui minori. Quello che sta per andare in scena a Reggio Emilia si annuncia un vero e proprio maxi processo, con oltre cento capi di imputazione, 155 testimoni, 48 parti offese tra le quali anche la Regione Emilia-Romagna e il ministero della Giustizia, che si è costituito per il reato di frode processuale. I reati contestati a vario titolo sono di truffa aggravata, depistaggio, falsa perizia, violenza e minaccia a pubblico ufficiale.
Agli atti, oltre a un disegno di una bambina falsificato per testimoniare gli abusi, ci sono una serie di chat tra gli assistenti sociali di Reggio Emilia. “Anghinolfi – si legge in uno di questi scambi – non mi porterà a fondo insieme a lei, io quei cazzo di disegni glieli faccio ingoiare”. L’autrice del messaggio, Cinzia Magnarelli, ha ammesso di aver falsificato le relazioni per le pressioni dei superiori e ha patteggiato lo scorso febbraio una pena di un anno e otto mesi.
Dopo il blitz dei carabinieri l’indagine diventò presto un caso politico, che si estese alla campagna elettorale per le elezioni regionali in Emilia Romagna, usato soprattutto contro il Pd (partito a cui è iscritto il sindaco Carletti). E infatti la notizia ieri è stata commentata da Matteo Salvini: “Anghinolfi non mi porterà a fondo insieme a lei, io quei cazzo di disegni glieli faccio ingoiare” scrive ad esempio Cinzia Magnarelli che ha ammesso di aver falsificato le relazioni per le pressioni dei superiori e ha patteggiato lo scorso febbraio una pena di un anno e otto mesi (pena sospesa).
Durante l’udienza di ieri le difese hanno lamentato la mancanza di molti atti, che avrebbero limitato il diritto alla difesa e imporrebbero l’annullamento del rinvio a giudizio. Rilievi respinti dalla Procura, secondo alcuni verbali mancanti, contenuti in procedimenti paralleli, sarebbero tutti a sfavore delle difese. Il processo riprenderà l’11 marzo quando la parola andrà nuovamente alle difese.
Genovese, nuova accusa: “Stuprò 23enne”. Lui: “Io un animale, loro son piume al vento”
Doppia ordinanza ieri per Alberto Genovese, il mago delle start-up già in carcere per uno stupro avvenuto durante una festa nel suo attico milanese. Ieri, il giudice ha respinto la sua richiesta di scarcerazione e ha firmato una nuova ordinanza per una seconda violenza nei confronti di una 23enne avvenuta a luglio in una villa a Ibiza. La prima contestata risale al 10 ottobre 2020. Scrive il giudice: “Non può che ritenersi che la personalità dell’indagato sia altamente pericolosa, giacché del tutto incapace di controllare i propri impulsi violenti e la propria aggressività sessuale”. E ancora: “L’indagato” ha “manifestato una spinta antisociale elevatissima e un assoluto disprezzo per il valore della vita umana, soprattutto di quella delle donne”. Da qui il rischio di fuga perché “stanti, da un lato, le disponibilità economiche dell’indagato, il quale dispone di un jet privato” e “dall’altro la altissima gravità dei reati in contestazione, è presumibile che, ove egli venisse lasciato libero, si allontanerebbe senz’altro dall’Italia”.
Nel nuovo capo d’imputazione si legge: “Nel corso di una festa” alla vittima venivano offerte “più volte sostanze stupefacenti che ne scemavano le facoltà, così determinando nella stessa uno stato di alterazione del livello di coscienza”. Dopodiché veniva costretta a “subire plurimi atti sessuali (…) fino a che la ragazza non veniva accompagnata fuori (…) sorretta dai due indagati poiché incapace di reggersi in piedi e sanguinante”. Nell’ordinanza è riportata una chat dello stesso Genovese. Scrive l’ex imprenditore in carcere da novembre: “Ogni tanto mi vengono dei momenti di senso di colpa per cui prendo in considerazione di essere meno un animale”. L’11 luglio, poche ore dopo la seconda violenza, la ragazza scrive a una amica: “Non mi ricordo niente se non i viaggioni (…). Non so neanche come sia successo (…). Secondo me mi ha mischiato (…) e keta perché mi ricordo di essermi fatta solo due botte di (…) poi il vuoto”. Mesi prima, ad aprile 2020, in chat con un amico Genovese in qualche modo si confessa e scrive: “Pensiero importante. Senso di colpa mai? Delle volte mi ci sento un po’ una merda (…). Del tipo se una (…) non è perché le piace ma perché l’ho talmente manipolata da farle credere che lo sta facendo per sua scelta (…). Lo fanno perché non hanno una propria volontà. Son piume al vento. Se cerchi davvero di capire cosa vogliono rimani sconvolto. Non hanno una volontà. Le prendi per un braccio con più decisione di un altro (…) dipende tutto da quanto è forte la corrente che crei”. Il giudice, infine, ha bocciato l’ipotesi dell’accusa per un tentato abuso sulla stessa 23enne e per 6 episodi su due ragazze che nelle scorse settimane avevano rinunciato all’anonimato parlando in tv.