Salvini e Zingaretti alla lite di Pasqua, ma l’ondata adesso fa di nuovo paura

Dopo le nomine dei sottosegretari è di nuovo scontro nella neo maggioranza, stavolta per la Pasqua con misure restrittive anti-Covid: Nicola Zingaretti contro Matteo Salvini, mentre zone rosse e arancione scuro si profilano rispettivamente nelle province e città di Pistoia, Siena e a Bologna da sabato. E anche a Brescia (già arancione rafforzato) la situazione dei contagi resta critica: gli ospedali sono vicini al collasso e stanno mandando alcuni pazienti in altre strutture della regione, come a Bergamo e a Cremona. Per la fondazione Gimbe nell’ultima settimana sono 41 le province che segnano +10% di casi in una sola settimana. A livello regionale va verso l’arancione il Piemonte e rischiano anche Lombardia, Lazio, Marche, Puglia e Basilicata. Mentre comincia a preoccupare la situazione di Milano.

Nonostante questi chiari di luna, Salvini attacca: “Mi rifiuto di pensare ad altre settimane e altri mesi, addirittura di chiusura e di paura. Se ci sono situazioni locali a rischio, si intervenga a livello locale. Però parlare già oggi di una Pasqua chiusi in casa non mi sembra rispettoso degli italiani”. Sul nuovo Dpcm in gestazione che scadrà il 6 aprile al leader della Lega risponde appunto Zingaretti: “Vedo che sulla pandemia Salvini purtroppo continua a sbagliare e rischia di portare fuori strada l’Italia”. Le ordinanze del ministro della Sanità sui colori dei territori, in seguito al monitoraggio del venerdì, d’ora in poi entreranno in vigore il lunedì e non la domenica: lo promette la ministra delle Autonomie, Mariastella Gelmini, in un vertice con gli Enti locali. Nella riunione Gelmini e il ministro della Salute Roberto Speranza hanno assicurato un’altra novità: la bozza del nuovo Dpcm, in vigore dal 6 marzo, sarà mandata oggi ai governatori, dunque in notevole anticipo sulla scadenza di quello attuale. Rinviato al Cts il tema spinoso della chiusura delle scuole per vaccinare i docenti, come chiedono quasi tutti i governatori. Intanto oggi il Cts si pronuncerà sul protocollo del ministro Dario Franceschini, che chiede di riaprire cinema, musei e teatri dal 27 marzo: gli esperti ribadiranno che dipenderà dall’andamento della curva dei contagi.

Reduci dal ridimensionamento della Corte costituzionale, secondo cui spetta allo Stato, non alle Regioni, determinare le misure di contrasto della pandemia, i governatori con Stefano Bonaccini parlano di “prime risposte positive” del governo. Ma intanto la variante inglese produce restrizioni sempre più numerose. Da sabato scatterà la zona arancione scuro appunto per Bologna e tutta la sua provincia. Questa decisione comporta, tra le altre, dal 1° marzo, la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado, con didattica a distanza per 15 giorni, ad eccezione della scuola dell’infanzia e dei nidi. Sempre da sabato nelle Marche scatterà la didattica a distanza al 100% nelle superiori fino al 6 marzo. Stop alle lezioni in presenza anche per i ragazzi delle classi seconde e terze medie delle province di Ancona e Macerata. Da sabato anche le provincia di Pistoia e Siena saranno zone rosse. Nel Lazio nuove zone rosse nei Comuni di Colleferro, Carpineto Romano e Torrice (Fr). Scuole chiuse per Covid a Ventimiglia e Sanremo dal 24 febbraio al 5 marzo: il 6 riapriranno e comincerà il Festival.

Tutto questo mentre ieri i nuovi casi sono stati 19.886 su 353.704 (13mila più di ieri) con altri 308 morti. Le terapie intensive continuano a riempirsi ormai da giorni e sono già otto le regioni oltre la soglia critica del 30%, preludio di tempi difficili. La Lombardia, al solito, è la regione messa peggio con 51.473 tamponi effettuati, ieri si sono registrati 4.243 nuovi positivi, con la città metropolitana di Milano che torna a essere la più colpita con 1.072 casi, 409 dei quali nel Comune di Milano. E, infatti, ora è proprio la capitale del Nord a preoccupare. Si teme che la variante inglese possa dilagare nelle scuole, come già a Brescia.

“Produciamo in Italia”. Ma sono solo annunci

“L’industria italiana è pronta”, dice Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria. “Il governo ha ribadito la massima disponibilità, sia in termini di strumenti normativi che di mezzi finanziari, all’industria farmaceutica”, sottolinea il ministro allo Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti. Molti annunci, insomma. Ma, almeno per ora, la possibilità concreta di produrre in Italia i vaccini anti-Covid ancora non c’è. L’incontro di ieri al Mise – riunione alla quale oltre al presidente dell’Aifa Giorgio Palù, era erano presente anche il commissario all’emergenza Domenico Arcuri – lo ha confermato.

Tutto è aggiornato a mercoledì prossimo, per verificare se e come è possibile avviare la produzione. Ma la strada è davvero tutta in salita. A dispetto della volontà di “costruire un polo nazionale pubblico-privato” che avrebbe comunque tempi lunghi, potrebbe funzionare solo nel medio e lungo termine. A dispetto delle dichiarazioni sulla “massima collaborazione”. Il governo è pronto verificare la possibilità dell’uso di bioreattori esistenti o di produrli ex novo, stanziando risorse o predisponendo siti appositi: alcuni tra quelli individuati si troverebbero in Veneto, Lazio e Puglia. I tempi, tuttavia, vanno dai 4 ai 12 mesi. Scaccabarozzi lo aveva già anticipato che, essendo il vaccino un prodotto vivo e non di sintesi, deve essere sottoposto a una bioreazione. E in Italia le aziende che dispongono dei bioreattori sono poche. C’è la sede italiana, a Siena, della multinazionale inglese Gsk, ma per il vaccino contro la meningite. E adeguare gli impianti richiede tempo, almeno otto mesi, con il rischio di entrare a regime solo nel 2022. C’è poi la laziale Reithera, con l’incognita però di quante dosi potrebbe produrre. Mentre gli stabilimenti ad Anagni (Frosinone) di Sanofi, Johnson&Johnson e AstraZeneca possono procedere solo con l’infialamento del materiale biologico. In Europa le industrie attrezzate per produrre i vaccini fino ad ora autorizzati dall’Aifa sono concentrate soprattutto in Germania. E anche se si trovasse lo stabilimento adatto non basterebbe comunque premere un bottone, come aveva già rilevato lo stesso Scaccabarozzi, spiegando che da quando si inizia la produzione passano almeno 4 o sei mesi.

Non a caso l’azienda farmaceutica americana Pfizer proprio ieri ha annunciato di aver aperto le trattative con undici aziende che hanno stabilimenti in Europa per aumentare la produzione del vaccino che ha sviluppato insieme alla tedesca BionTech. La maggior parte di questi si trova proprio in Germania.

Quanto al destino del commissario Arcuri la sua presenza ieri al summit convocato dal ministro Giorgetti non ha eliminato le incognite sul suo incarico. Dopo le ripetute richieste di dimissioni da parte di Matteo Salvini, tre giorni fa è stato considerato da molti un segnale forte il mancato invito da parte del premier Mario Draghi alla riunione sul nuovo decreto con le misure anti contagio. In sua vece a parlare della campagna vaccinale c’era invece il presidente del Consiglio superiore della sanità Franco Locatelli. E per ora Arcuri ha deciso di non parlare.

Draghi all’eurovertice: “Priorità a prime dosi”. BoJo batte Ursula 1-0

I leader Ue valutano le contromisure per risolvere le penuria di vaccini Covid, ma niente linea dura contro le case farmaceutiche. “Le aziende inadempienti non vanno scusate”, ha dichiarato prudentemente il premier italiano Mario Draghi al Vertice in videoconferenza, in programma ieri e oggi. I 27 capi di stato e governo hanno esortato Big Pharma a garantire la prevedibilità della produzione e rispettare i termini di consegna. I due successivi tagli annunciati da Astrazeneca (60% e 50% in meno rispettivamente nel primo e secondo trimestre 2021), i ritardi nelle forniture di Pfizer e l’allungamento dei tempi per la conclusione dei test clinici di Sanofi rischiano di rallentare la campagna di immunizzazione e la ripresa economica negli Stati membri. Il testo delle conclusioni ufficiali della riunione si limita a sottolineare la necessità di accelerare l’autorizzazione, la produzione e la distribuzione dei vaccini per impedire la diffusione delle varianti. Accolte positivamente l’idea di somministrare una sola dose per aumentare il numero di vaccinati e di introdurre un passaporto vaccinale per riaprire parzialmente l’economia. Non si fa invece parola sull’eventuale obbligo per le aziende di condividere le informazioni per ampliare le capacità produttive.

Quest’estrema soluzione sarebbe stata discussa dietro le quinte, stando a notizie trapelate alla vigilia del summit. L’Ue potrebbe ricorrere all’art. 122 del Trattato che consente interventi in caso di scarsità di beni essenziali. Tra le azioni possibili c’è anche il divieto dell’export di vaccini che potrebbe tuttavia penalizzare i paesi a basso reddito. Questi, infatti, non sono sufficientemente coperti dal fondo di soldiearietà globale Covax, sul finanziamento del quale i 27 non sono riusciti a fare passi avanti, faticando già a produrre dosi ai propri cittadini. “Si deve riflettere su una sospensione temporanea di alcune protezioni della proprietà intellettuale, consentendo una distribuzione rapida ed eguale a tutti i cittadini, compresi quelli delle aree del mondo più svantaggiate”, ha detto al Fatto il presidente dell’Europarlamento David Sassoli. Per ora, la Commissione europea si affida agli accordi volontari con cui le compagnie stanno assoldando nuovi partner nelle loro rispettive filiere. I Big farmaceutici hanno ieri confermato un impegno in tal senso durante un’audizione speciale all’Europarlamento. Si sono però opposti a deroghe alla tutela della proprietà intellettuale e al trasferimento sistematico del know-how a terzi. “Ciò che serve è condividere non i brevetti, bensì le tecnologie”, ha dichiarato Pascal Soriot, ad di Astrazeneca che detiene la licenza sul vaccino sviluppato da Oxford, “tuttavia, insegnare ad altri richiede tempo e risorse, siamo già al limite delle possibilità nell’ambito delle collaborazioni in corso”. Gli hanno fatto eco i rappresentanti delle altre società, tra cui Stéphane Bancel di Moderna che ha aggiunto; “valuteremo l’opportunità di rilasciare licenze una volta che avremo consolidato la performance dei nostri attuali impianti”. Rispondendo al bombardamento di domande degli eurodeputati sulla riduzione delle dosi promesse all’Ue, Soriot ha ribadito l’imprevisto dimezzamento della produttività del sito belga gestito dalla Novasep che produce dosi sia per l’Ue che per mercati esteri (come Israele che, secondo indiscrezioni, sembra pagare di più dell’Ue per ciascun vaccino, tre volte tanto per ciascuna dose di Pfizer). Soriot ha anche ammesso il vantaggio ottenuto dal Regno Unito grazie al finanziamento accordato nel maggio 2020 a Oxford, non solo per la ricerca, ma anche per l’aumento di produzione del sito in Uk. In cambio avrebbe ottenuto la precedenza sulle dosi prodotte.

Astrazeneca ha firmato i contratti di fornitura con Londra e Bruxelles a distanza di un solo giorno lo scorso agosto. “Ciò che ha fatto la differenza è che il governo britannico ha siglato il suo accordo di distribuzione solo dopo che era stata sviluppata la capacità di produzione sul suo territorio per permettere all’azienda di onorare i suoi impegni, mentre la Commissione europea ha sostenuto finanziariamente Astrazeneca solo dopo la firma, peraltro con un semplice acconto per le dosi di vaccino e non con un contributo ad hoc per rafforzare l’infrastruttura di produzione in Europa che è quindi rimasta indietro”, ha commentato Colin McCall, partner dello studio legale internazionale Taylor Wessing. Altri giuristi specializzati hanno peraltro rilevato che il contratto britannico offre al governo più efficaci mezzi di tutela contro la multinazionale anglo-svedese.

Offensiva rider. Il 26 marzo tutti in piazza: “Assumeteci”

Dopo la maxi-inchiesta della Procura di Milano, i rider sono pronti a uno sciopero con manifestazioni in tutte le città d’Italia il 26 marzo. Una data non vicinissima, ma questo mese servirà a organizzare meglio l’evento e soprattutto permetterà di capire quale sarà nel frattempo il comportamento delle piattaforme di food delivery. È la linea venuta fuori ieri dall’assemblea nazionale convocata dalla rete Rider X i Diritti (da Deliverance Milano e Rider Union Bologna) e al quale hanno partecipato anche le sigle dei confederali.

Il procuratore di Milano, Francesco Greco, ha detto che Glovo, Uber Eats, Just Eat e Deliveroo hanno tre mesi per sistemare tutti gli obblighi su salute e sicurezza e assumere i 60 mila rider. I rappresentanti dei fattorini vogliono che l’Assodelivery – che riunisce tutte le aziende (tranne Just Eat) – accetti di tornare al tavolo per firmare un vero contratto collettivo. Le riunioni convocate al ministero del Lavoro da Nunzia Catalfo, che stavano affrontando proprio il tema della sicurezza, si sono fermate a dicembre a causa della crisi di governo. Ora si attende una ripresa da parte del neo ministro Andrea Orlando. Alcune delle app pensano di fare ricorso. Just Eat, invece, ha da tempo dichiarato di essere pronta a cambiare modello e assumere i rider come dipendenti, ma ancora non c’è un accordo con i sindacati.

Oggi, peraltro, a Bologna c’è l’ultima udienza del processo avviato da Filt, Filcams e Nidil Cgil per invalidare il contratto “di comodo” firmato dalla Ugl. Deliveroo dovrà spiegare ai giudici il motivo per cui nella precedente seduta ha portato un testimone spacciandolo per rider quando invece era un suo ex responsabile del personale e oggi titolare di un’impresa di corrieri con cui la piattaforma ha rapporti commerciali.

Riondino vs Landini, s’incrina l’immagine del leader vincente

Se non avete visto quei dieci minuti di Titolo V in cui Michele Riondino sgretola l’immagine di Maurizio Landini, fatelo. Andato in onda venerdì scorso nella trasmissione di Rai3, passato per lo più sotto silenzio, quel corpo a corpo andrebbe studiato dai dirigenti, militanti sindacali, lavoratori – evitando il riflesso condizionato di stringersi a corte attorno al proprio leader – per capire perché la faccia pulita e disinteressata dell’attore pugliese abbia potuto dire quello che ha detto.

Si discuteva di Ilva, della pericolosità conclamata dello stabilimento, della necessità di chiuderlo a dispetto delle promesse mai mantenute. Da parte politica, ma anche da parte sindacale. Riondino è una bandiera di questa lotta ambientalista e per il primato della salute attorno alla quale ha dato vita al concerto alternativo del 1º Maggio proprio a Taranto.

Su questa linea, ha così contestato le inadempienze del sindacato, addirittura le collusioni con i Riva, i vecchi proprietari. Ma il punto di non ritorno è stato quando ha scandito: “Landini potrebbe ormai fare il presidente di Confindustria”. Diretto, immediato, senza timori reverenziali.

Riondino ci è abituato. Dopo aver sperato nel Movimento 5 Stelle, che a Taranto aveva sfiorato la maggioranza assoluta dei voti, di fronte alle promesse mancate nel 2019 accusò Luigi Di Maio di mentire, sostenendo che d’ora in avanti “nessuno avrebbe potuto più credere alle sue promesse”. Allora ebbe grandi attenzioni, oggi un po’ meno. Anche se critiche analoghe le ha fatte anche ad altri sindacati.

Quindi anche con Landini. E inutile è stato il tentativo del segretario Cgil di ribattere, inutile ricordare che il sindacato ha a cuore la salute dei lavoratori, l’ambiente oltre che il lavoro. Inutile perché dopo anni la fabbrica è ancora là tra le complicità della politica, con operai che muoiono e, sostiene l’attore, le convenienze dello stesso sindacato che sciopera “solo quando è minacciato il posto di lavoro”.

Al di là del merito, c’è un aspetto simbolico in questo scontro. Emblematico anche nelle immagini: calmo, deciso, quasi spietato Riondino, urlante, in affanno Landini, penalizzato dalla distanza del collegamento. La fotografia, forse non del tutto casuale, di una perdita di smalto per una figura che in anni passati aveva rappresentato molto altro.

Significativo il momento centrale dello scontro, quando Landini, ovviamente piccato dall’essere paragonato al “nemico” di classe, invita Riondino a “chiedere scusa ai lavoratori”. E quello ha gioco facile a dire che lui i lavoratori li frequenta da una vita, lo è stato suo padre e tutta la sua famiglia è composta da sindacalisti: “Cgil per parte di padre, Cisl per parte di madre”.

In quella richiesta di scuse, non a sé, alla propria storia, al proprio ruolo, ma ai lavoratori, la Cgil commette di nuovo l’errore di confondere i rappresentati con i rappresentanti, dimenticando che in quello scarto c’è una differenza sostanziale, quella che dà il diritto a uno come Riondino di alzare la voce.

Landini si è lamentato, giustamente, della scarsa professionalità di chi ha organizzato il confronto tv: Riondino in studio e lui costretto dal collegamento a rincorrere le accuse. Rai3 dovrebbe scusarsi per una gestione così pasticciata. Ma non era difficile intuire che tipo di dibattito ci sarebbe stato (e c’è anche chi dice che se Landini avesse un portavoce, invece di fare da sé, sarebbe stato messo al riparo dalla brutta figura).

Ma la storia è un’altra: Riondino ha di nuovo messo in scena la favola del “re nudo”, evidenziando limiti, difficoltà e qualche colpa del sindacato. Non da destra, come si usa fare, ma chiedendo più sindacato, più protezione, più presenza.

La “lezione”, probabilmente, non sarà udita. E non è un caso se, dopo la puntata, l’unica voce che si è levata al fianco di Landini è stata quella di Michele Anzaldi, segretario della Commissione di vigilanza Rai per conto di Italia Viva, il partito di Matteo Renzi. Più nemesi di questa.

Logistica, lo schiaffo dei colossi: “Basta tutele negli appalti”

I facchini dei magazzini, gli autisti di camion, i rider che sfrecciano in bici e consegnano pacchi nelle città italiane; tutto quel vasto mondo che pure nell’ultimo anno non ha mai smesso di lavorare per garantire il trasporto merce ora sta seriamente per esplodere. Nonostante quel sacrificio compiuto durante il lockdown, martedì le aziende hanno presentato un lungo elenco di condizioni “improponibili” durante l’ultima riunione con i sindacati, convocata per il rinnovo del contratto nazionale. Il tavolo è saltato e ora le sigle dei trasporti di Cgil, Cisl e Uil non escludono scioperi.

La rottura è arrivata ancor prima di parlare dei salari, l’argomento solitamente più spinoso. Le 24 associazioni di imprese – che occupano circa 1,2 milioni di persone – hanno infatti proposto un decalogo che va dalla riduzione delle indennità di malattia all’aumento dei contratti precari e stagionali, fino a una revisione della clausola sociale. Cioè il meccanismo – conquistato con anni di lotte – che oggi permette di mantenere posti di lavoro e diritti acquisiti in caso di cambio di appalto. In breve, i datori hanno chiesto di abbassare ancora l’asticella di un mondo che già oggi fa i conti con diffuse irregolarità ed esternalizzazioni selvagge, come emerge dai rapporti dell’Ispettorato del Lavoro e dalla cronaca quotidiana.

La logistica oggi comprende tutti i lavoratori impegnati nei magazzini e negli hub, ma anche autisti e spedizionieri, quelli che portano i prodotti a casa del cliente finale. Esistono sia società che fanno solo logistica sia quelle che hanno una diversa attività principale ma svolgono internamente il servizio di magazzinaggio (come l’Ikea). Un pianeta vario che vale il 7% del Pil e, in teoria, dovrebbe contemplare pure i rider del cibo a domicilio a cui viene a volte applicato il contratto. Il settore vive una crescita parallela a quella dell’eCommerce, che però non ha generato maggiore benessere tra chi lavora. L’esempio è Amazon: il colosso di Jeff Bezos continua ad aprire poli in Italia, e contestualmente si moltiplicano i casi di proteste e rivendicazioni da parte dei lavoratori contro un modello che – dice chi lo vive da dentro – ha trasformato i facchini in macchine perfette, costretti a rispettare ritmi predeterminati. Con l’arrivo della pandemia, poi, si è intensificata la conflittualità, in genere a opera dei sindacati di base, in un mondo che conta soprattutto lavoratori immigrati e a cui la politica ha reagito con i “decreti sicurezza” di Salvini che hanno reintrodotto il reato di picchettaggi e inasprito le pene per i reti durante le manifestazioni. I sindacati tradizionali, invece, prediligono la via della contrattazione.

Lo scoppio dell’emergenza Covid è coinciso con la scadenza del contratto nazionale; i sindacati hanno accettato in primavera di congelare le trattative per concentrarsi sui protocolli di sicurezza. Il fatto che questi lavoratori – non potendosi fermare – siano stati esposti a un grosso rischio non è retorica, ma un’evidenza che emerge dai dati: il 10,7% dei morti sul lavoro per Covid si concentra nella logistica con diversi focolai scoppiati, il più rilevante alla Bartolini in estate). Quando i sindacati sono tornati al tavolo con le aziende, queste hanno portato richieste inaccettabili. “Il contratto va rinnovato rapidamente e con un adeguato riconoscimento economico – ha detto il segretario Filt Cgil, Michele De Rose –. Per noi sono inaccettabili riduzioni di diritti dei lavoratori che hanno garantito l’approvvigionamento dei beni essenziali per il Paese”.

Il crollo record del lavoro: salto indietro di oltre 4 anni

L’emergenza Covid ha spinto il mercato del lavoro indietro di ben quattro anni. L’ondata di chiusure forzate che ha caratterizzato soprattutto la prima fase della pandemia ha causato una perdita di 470 mila occupati nei primi tre trimestri del 2020, portandoci quindi a un livello appena superiore a quello raggiunto nel 2016, quando eravamo nel pieno di una lenta ripresa dopo la doppia recessione del 2008 e del 2012. Se poi prendiamo come riferimento le ore lavorate, allora il salto all’indietro è ancora più rilevante, perché qui la caduta è stata di ben 4 miliardi di ore. Vale la pena ricordare che, su questo piano, l’Italia non ha mai recuperato il picco raggiunto prima del 2008.

È la fotografia del colpo subito dall’economia del Paese, così come emerge dalla nota congiunta diffusa ieri da ministero del Lavoro, Istat, Inps, Inail e Anpal. A queste cifre fa da contraltare l’enorme numero di persone che in questi mesi hanno ricevuto sussidi anti-povertà: tra il Reddito di cittadinanza e di emergenza, gli assistiti sono arrivati a 4,5 milioni (1,5 milioni di famiglie). Se ci limitiamo alla prima misura, che già esisteva, la platea è di 3,5 milioni di individui, a dimostrazione del fatto che – se non fosse stato già messo a punto in tempi normali – si sarebbe fatta una grande fatica a raggiungere tutti i bisognosi nei tempi rapidi imposti dal virus. Da ogni rigo del report emerge un’evidenza: in una crisi del genere solo l’enorme sforzo degli aiuti pubblici ha garantito la tenuta sociale del Paese. Il Pil è sceso del 5,5% nel primo trimestre, poi del 13% nel secondo per poi risalire del 15,9%. Più o meno in parallelo, l’occupazione ha avuto un crollo ripido tra marzo e maggio, nel bel mezzo del lockdown, e poi ha iniziato l’inversione di tendenza in estate, si è stabilizzata in autunno, è inaspettatamente cresciuta a novembre ma poi è tornata a calare a dicembre.

Le ore lavorate – che sono un indicatore ben più fedele allo stato di salute dell’economia – sono scese del 7,7% nel primo trimestre, del 15,1% nel secondo e poi hanno visto un rimbalzo del 21% nel terzo. Ma, come detto, il saldo resta fortemente negativo. Un calo di attività che le imprese hanno gestito con una serie di mosse. Innanzitutto i tagli al personale: non potendo licenziare per il divieto del governo, il colpo l’hanno subito soprattutto i precari, a cui non è stato rinnovato il contratto (-394 mila unità). Il settore più colpito è stato quello dei servizi, in particolare il turismo, e a perdere il lavoro sono state soprattutto le donne e i giovani. Il tasso di occupazione femminile ha avuto una diminuzione doppia rispetto a quello maschile (-1,3% contro -0,7%); gli occupati under 35 hanno registrato un calo dell’1,8%, più contenuto tra gli over 50 (-0,3 punti). Settori come costruzioni, informazione, telecomunicazioni e industria hanno invece retto il colpo, e questo spiega l’impatto più contenuto per gli uomini.

Nella prima fase, la cassa integrazione per Covid è stata usata dal 63,1% delle imprese; nella seconda si è fermata al 41,8%. Ma l’ammortizzatore sociale concesso a tutti – anche a chi non ha avuto fatturati in calo (non alto tasos di abusi) – non è stato l’unico strumento per gestire la riduzione di lavoro. Tra marzo e maggio, il 31% delle imprese ha ridotto i turni e il 32,3% ha imposto ferie forzate. A queste si aggiunge un 12,2% che ha rinviato assunzioni, percentuale salita al 12,7% tra giugno e novembre.

Il numero di lavoratori che ha perso il posto nei primi mesi di pandemia è superiore a 972 mila; con la ripresa delle attività – a partire da maggio – solo il 48% (467 mila persone) è riuscito a ricollocarsi. Chi è stato espulso dal mercato del lavoro è scivolato più facilmente nell’inattività – cresciuta di 1,8 punti – che nella disoccupazione, scesa dello 0,9%.

Dalla Giustizia al Lavoro: il pm Betta Cesqui capo gabinetto

Un Csm spaccato ha dato il via libera al fuori ruolo, come capo di Gabinetto del ministro del Lavoro Andrea Orlando, a Betta Cesqui, sostituto pg della Cassazione ed ex capo di Gabinetto dello stesso Orlando quando era ministro della Giustizia. A favore 12 consiglieri, contrari 7; 3 gli astenuti. A favore i togati di Area, la corrente progressista di Cesqui, del capo del suo ufficio, il pg Giovanni Salvi e del presidente di Cassazione Piero Curzio, anche loro per l’incarico proposto da Orlando. Per il fuori ruolo, inoltre, i togati di Unicost e i laici Donati, M5s e Cerabona, FI. Contrari i togati Ardita, Di Matteo, Marra, Pepe, di AeI, D’Amato, MI e i laici Cavanna e Basile, Lega; Lanzi, Fi. Si sono astenuti Braggion e Miccichè, Mi e Gigliotti, laico M5s. Cavanna, prima di votare no, aveva chiesto un ritorno in Commissione: “Si abbia il coraggio di cambiare la circolare” secondo la quale se un magistrato proviene da un ufficio con una scopertura di organico oltre il 20%, come in questo caso, deve restare al proprio posto. “Non si comprende – aggiunge – perché l’ufficio debba essere depauperato di una risorsa stimata come Cesqui” che si occupa di disciplinare. Ma secondo la delibera della maggioranza, demolita dai contrari, c’è un “sicuro interesse dell’amministrazione della giustizia allo svolgimento da parte di un magistrato di un incarico di così particolare importanza istituzionale”, soprattutto “nell’attuale contingenza socio-economica”. Anche un altro magistrato, Raffaele Piccirillo, che ha lavorato con Orlando ministro della Giustizia, come Cesqui, dovrebbe restare fuori ruolo. Diventato capo di Gabinetto dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede, dopo le dimissioni di Fulvio Baldi per le chat con Palamara, resterà al suo posto anche con la neo ministra Marta Cartabia, come resteranno al loro posto il direttore del Dap Dino Petralia e il vice Roberto Tartaglia. Come consulente per il penale, la ministra, costituzionalista, pensa a Gianluigi Gatta, del Comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura, docente di Diritto penale a Milano.

Niente “confindustriali” al Mite

Dietrofront al ministero della Transizione ecologica dopo l’articolo del Fatto della scorsa settimana: all’ufficio legislativo non torneranno i dirigenti dell’epoca di Gian Luca Galletti, i cui nomi erano già dati per certi da tutta la tecnostruttura. Ieri il ministro Roberto Cingolani ha scritto al presidente del Consiglio di Stato, l’ex ministro Filippo Patroni Griffi, per chiedere il distacco del giudice Claudio Contessa, presidente di sezione, per ricoprire proprio il ruolo di capo del legislativo. Classe 1969, napoletano, Contessa ha già diversa esperienza come tecnico di governo, specie col centrodestra: dal 2000 al 2013 è stato consigliere dei ministri delle Politiche comunitarie e dello Sviluppo economico, esperto del legislativo di Palazzo Chigi, vice capo di gabinetto al Lavoro.

Cadono dunque, dopo l’arrivo del capo di gabinetto Roberto Cerreto (già al ministero e a Palazzo Chigi con Maria Elena Boschi), le nomine di altri due giuristi in arrivo dalla stagione del governo Renzi: nonostante fossero dati per certi, né Marcello Cecchetti né Marco Ravazzolo dovrebbero tornare al legislativo del ministero. Il capo dell’ufficio avrebbe dovuto essere il primo: accademico a Sassari, è un tecnico toscano di solida appartenenza all’area dem, già assistente di studio di De Siervo e nominato in una commissione di studio dall’allora sindaco di Firenze Renzi; Ravazzolo, invece, che fece già scalpore durante la stagione Galletti, è addirittura responsabile Ambiente di Confindustria.

S’interrompe dunque, chissà se definitivamente, l’operazione con cui Cingolani – o meglio i suoi “consiglieri” – volevano cancellare la stagione del generale Sergio Costa, ministro in quota 5 Stelle, tornando all’assetto pre-2018 (i bei tempi degli inceneritori opere strategiche, delle trivelle libere, eccetera). Ora, vanno completate le ultime caselle, proprio a partire dal vice di Contessa al legislativo.

Nel frattempo, non è finita la battaglia sulle competenze di quello che oggi in sigla si chiama “Mite”. Ottenute – come annunciato da Mario Draghi fin da subito – le competenze (e tutte peraltro) sull’energia dal ministero dello Sviluppo, oggi ha due battaglie da vincere: la prima è per avere dallo Sviluppo, oltre alle competenze e relativi fondi, anche tutto il personale che se ne occupa (alcuni dirigenti hanno fatto sapere di non volersi spostare); la seconda, più complicata, è invece col ministero delle Infrastrutture oggi guidato da Enrico Giovannini sulle competenze riguardo alla “mobilità sostenibile” (vale parecchi miliardi di investimenti nei prossimi anni e ancor più in futuro).

I nodi del contendere sono due: il trasporto pubblico locale, che sempre più dovrà essere “green”, e il montaggio e gestione della rete di centraline per la ricarica delle auto elettriche sulla rete autostradale.

Il dl Ristori resta bloccato anche col nuovo governo

Continuano a essere invocati dal governo per allentare la pressione sulle categorie più martoriate dalle misure di contenimento. Ma “i congrui ristori” che il premier Mario Draghi ha promesso non ci sono ancora, mentre proseguono le limitazioni alle attività economiche. Del decreto “Ristori 5”, il primo del nuovo governo, e il quinto dall’inizio della pandemia, ancora non c’è traccia. Il suo varo, spiegano i tecnici del ministero dell’Economia, dovrebbe arrivare in un Consiglio dei ministri al più tardi a inizio marzo. Ma di concreto c’è poco: manca ancora un articolato ben definito.

Il decreto si è arenato a inizio anno, finito prima nello scontro tra i giallorosa e poi nel tritacarne della crisi di governo innescata da Matteo Renzi, quando il Parlamento aveva già autorizzato maggior deficit fino a 32 miliardi di euro per velocizzare e coordinare l’erogazione dei ristori a chi ha chiuso, ma anche per prorogare il blocco dei licenziamenti, la Cassa integrazione Covid o il nuovo stop delle cartelle esattoriali. Il pacchetto è rimasto così fermo sul tavolo dell’ex ministro , Roberto Gualtieri, dopo che i giallorosa hanno giustamente deciso che a occuparsene sarebbe stato il nuovo governo. Che ora, però, a 13 giorni dal suo insediamento ancora non ha trovato la quadra.

I nodi del decreto che il neo ministro del Daniele Franco deve sciogliere restano restano gli stessi del suo predecessore: in primis i criteri da usare per erogare ristori. Il nuovo decreto dovrebbe superare le rigidità dei codici Ateco che fino a oggi hanno escluso molte imprese coinvolte da chiusure e limitazioni. Al loro posto entrerebbero contributi selettivi sulla base delle perdite di fatturato nel 2020 rispetto al 2019 pari ad almeno il 33% nell’arco dell’anno. Nel dl Ristori 5 dovrebbe poi trovare posto l’estensione dello stop ai licenziamenti fino al 30 aprile e altre 26 settimane di cassa integrazione per le imprese.

Escluso dal Milleproroghe, il fisco resta però il capitolo più urgente almeno temporalmente. Da lunedì primo marzo, se non si allungherà ancora la scadenza nel dl Ristori o in un altro decreto ad hoc, partiranno 50 milioni fra cartelle esattoriali e avvisi fiscali congelati fino al 28 febbraio dall’ultimo provvedimento del Conte 2.

Tra le eredità che passano da Gualtieri a Franco c’è anche l’operazione di semplificazione della cassa integrazione a cui stanno lavorando insieme il neo ministro del Lavoro Andrea Orlando e il presidente dell’Inps Pasquale Tridico. Lo scopo è sostituire il complicato modello SR41 (con cui i datori di lavorano comunicano le ore di cassa integrazione dei dipendenti) con il sistema Uniemens che consente il pagamento della Cig in massimo 40 giorni. Nel Dl Ristori, ha rivelato il Sole 24 Ore, dovrebbe finire anche la correzione del Piano Transizione 4.0, in linea con le richieste di Bruxelles, per un totale di 6,7 miliardi di euro.

Non sarà, invece, inserita nel decreto la proroga dei congedi Covid per la quarantena dei figli under 14. La misura è scaduta il 31 dicembre. Dal primo gennaio, si può richiedere solo un congedo straordinario per gli alunni che vivono nelle zone rosse con scuole chiuse e lezioni in Dad. A patto, però, che questi territori siano individuati da un’ordinanza del ministro della Salute. Ma con il peggioramento della situazione epidemiologica, le zone rosse sono sempre più circoscritte e stabilite dagli enti locali. E, soprattutto, è comparsa anche la fattispecie di “zona arancione”.