Correnti e quota Mattarella. Zingaretti è tra due fuochi

Chiuso nel mutismo dei momenti difficili, raccontano che Nicola Zingaretti ieri mattina non rispondeva neanche al telefono. Veniva da due giorni particolarmente difficili, in cui aveva persino iniziato a scrivere una lettera di dimissioni. Ora quella mossa è lì pronta per l’Assemblea di metà marzo, ma da qui ad allora il segretario ha tempo di valutare fino in fondo le sue mosse. Magari anche scegliendo di rimettere il mandato in chiave di rilancio.

D’altra parte ieri il suo discorso in una direzione del Pd, convocata per affrontare la questione delle donne, ha spiazzato un po’ tutti, vista la giravolta rispetto alla linea perseguita fino a qualche settimana fa. Zinga è tornato a parlare di “vocazione maggioritaria”, ha dedicato un rapido cenno ai Cinque Stelle, citando genericamente di “alleanze”, che improvvisamente non sono più strutturali e portanti.

D’altra parte è sempre più all’angolo. La partita dei sottosegretari ha evidenziato due questioni. Una tutta interna, una più di sistema e di prospettiva. A gestire la trattativa è stato il vicesegretario, Andrea Orlando. A lui si attribuisce la colpa di aver ottenuto solo 7 posti per i dem. E anche di aver sacrificato figure e deleghe importanti – come Antonio Misiani al Mef e Andrea Martella all’Editoria – in omaggio alla guerra di correnti. “È anche ministro del Lavoro, Zingaretti ha annunciato una maggiore apertura a noi: ma se non si dimette da vicesegretario, che significa?”, dicevano ieri da Base Riformista. Particolarmente offesi per le sue accuse di “rigurgiti renziani” all’indirizzo di chi in questi giorni critica il segretario. E così le dimissioni che ballano diventano due. Anzi, in discussione c’è proprio il progetto complessivo del Pd.

Non a caso, soprattutto Zingaretti si trova schiacciato dalla figura del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella come in fondo successe già a Pier Luigi Bersani con Giorgio Napolitano. “Si muove come un capo corrente”, si spinge a dire qualche dem particolarmente nervoso. Poi c’è chi ci va un po’ meno pesante: “Fa il segretario del Pd”. Una (mezza) battuta che però se si va a vedere la composizione del governo Draghi è piuttosto rivelatrice. Due ministri su tre sono vicinissimi al presidente: Dario Franceschini e Lorenzo Guerini. Quest’ultimo è ufficialmente entrato in quota Quirinale. Fanno parte di un circuito più vicino al Colle che al Nazareno alcuni dei grand commis di Stato in gangli vitali per fare da cerniera tra la parte tecnica dell’esecutiva, quella che deve gestire i 209 miliardi del Recovery Plan, e la parte più politica dell’esecutivo, quella di cui fanno parte gli esponenti dei partiti. E i riferimenti, per loro, sono oltre a Mattarella, tutte le figure più legate al presidente: Franceschini, Enrico Letta, Paolo Gentiloni. Su tutti, Roberto Garofoli, oggi sottosegretario a Palazzo Chigi, che ne fu il segretario generale, durante il governo di Enrico Letta. E poi c’è Antonio Funiciello, capo di gabinetto di Draghi, che aveva già rivestito quel ruolo con il governo Gentiloni. Anche Franco Gabrielli, ex capo della polizia, ora nominato Sottosegretario con delega ai servizi segreti, vicino a Franceschini in primis, è stato spinto da Mattarella. La stessa riconferma di Enzo Amendola, come Sottosegretario agli Affari europei, è stata caldeggiata fortemente dal Colle. Il Pd, come partito-garanzia del sistema, si è trovato in qualche modo meno corteggiato dal premier degli altri e il Nazareno espropriato da una “linea politica” propria.

Se Mattarella “schiaccia” Zinga dall’alto, lo pressa da tutte le parti Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia-Romagna. Lui a scendere in campo è pronto da mesi. Ma vuole farlo come candidato di tutto il Pd, non di una singola corrente. Notare le dichiarazioni di Luigi Zanda di ieri (che fa parte a pieno titolo della filiera che scende dal Colle). Mentre ufficialmente difendeva il segretario, ribadiva la necessità di un congresso e ricordava la vittoria di Bonaccini in Emilia. Le assi si cominciano a incrinare anche così. Poi, il piano inclinato è un attimo.

Sport nessuna delega, così è saltata Bianchedi

Il ministro uscente, Vincenzo Spadafora, lo nota polemico: “Lo Sport non è stato delegato a nessuno, tra tre giorni scade la riforma tanto attesa e dei ristori neppure l’ombra! E nessuno dei grandi competenti di sport che dica una parola…”. In effetti è andata così: nel Consiglio dei ministri di mercoledì la delega non è stata affidata a nessun sottosegretario, eppure il nome c’era eccome. Diana Bianchedi, come raccontato dal Fatto, era pronta a essere nominata. Ma per la campionessa di fioretto spacciata per “tecnica” sono stati fatali quei 400 mila euro e più, fatturati come superconsulente di Malagò negli ultimi quattro anni. Già, Malagò: quando si parla di sport, nei palazzi, si torna sempre a lui, il presidente del Coni. Che in queste settimane sta facendo il diavolo a quattro per piazzare una pedina amica al governo. Prima ha provato con i “suoi” Gianni Petrucci e Raffaele Ranucci, poi ha tentato la strada dei nomi vicini, oltre che a lui, anche ai partiti: Patrizia Prestipino e Andrea Rossi (Pd), Daniela Sbrollini e Luciano Nobili (Italia Viva), Paolo Barelli e Marco Marin (Forza Italia). Tutti respinti con perdite. Come la “tecnica” che doveva sbloccare l’impasse. E che invece, almeno per ora, è rimasta ferma un giro.

Nel “sottogoverno dei migliori” i cani da guardia di B. e Salvini

Benvenuto “sottogoverno dei migliori”. Il decantato metodo Draghi sui sottosegretari è lo stesso per la nomina dei ministri: un’orgia partitica e una spartizione con il bilancino di “cencelliana” memoria. E così 11 per i 5Stelle, 9 per la Lega, 6 a testa per Pd e Forza Italia, 2 per Italia Viva (gli stessi, guarda caso, che avevano rinunciato alle poltrone), 1 per Liberi e Uguali. Fin qui il metodo, appunto. E il merito? Draghi ha scelto i più competenti? Difficile sostenerlo. A essere premiati sono stati molti degli ex sottosegretari del Conte-1 e del Conte-2, non proprio un inno alla discontinuità. Di fianco a loro, soprattutto a destra, un’infornata di fedelissimi dei leader di partito. Silvio Berlusconi li piazza nei settori più delicati per lui: Editoria e Giustizia (con Francesco Paolo Sisto, il suo avvocato nel caso escort, che trova la poltrona in via Arenula). Matteo Salvini rilancia Stefania Pucciarelli e tira fuori dal cilindro Rossano Sasso, due che hanno avuto uscite imbarazzanti su migranti e rom. E riporta alla Cultura Lucia Borgonzoni, quella che “non leggo un libro da tre anni”. Ecco i ritratti dei “migliori” di Draghi.

 

Giuseppe Moles Le mani di Silvio sull’editoria

Più che il nome,contava la carica. Sì, perché non risulta che Giuseppe Moles, 54 anni, nato a Potenza, abbia qualche competenza in materia di editoria, escludendo la sua breve esperienza da docente di Sociologia dei processi culturali all’Università degli Studi Internazionali di Roma (Luspio). Ma a Silvio Berlusconi non interessava il curriculum, ma che il sottosegretario all’Editoria di stanza a Palazzo Chigi fosse uno dei suoi fedelissimi: non accadeva da quando su quella poltrona sedeva il suo portavoce, Paolo Bonaiuti. Il prescelto era l’uomo Mediaset e per un decennio direttore di Panorama Giorgio Mulè, ma sul suo nome, nel Cdm di mercoledì sera, si è scontrata la maggioranza che sostiene il governo Draghi: Pd e M5S non potevano accettare che un uomo così legato al Biscione potesse finire a gestire l’informazione e a dispensare i fondi pubblici ai giornali. Così Mulè è passato alla Difesa e Moles, inizialmente indicato per andare alla Salute con Roberto Speranza, è stato scelto per l’Editoria sostituendo il dem Andrea Martella. Berlusconiano doc, tra i fondatori di Forza Italia nel 1994, Moles è stato l’assistente e il portavoce del ministro della Difesa Antonio Martino, uno degli intellettuali di casa ad Arcore. Dopo la fine del terzo governo Berlusconi, Moles insegna Relazioni Internazionali alla Luiss e poi Sociologia delle Relazioni Internazionali e Terrorismo alla Luspio. Viene eletto deputato del Pdl nel 2008 e nel 2011 è tra gli esponenti più critici nei confronti del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Da senatore, nel 2019 è tra i 41 parlamentari di FI (su 64) a firmare per chiedere il referendum contro il taglio dei parlamentari. A maggio scorso lo si ricorda per un attacco sessista nei confronti del ministro della Scuola, Lucia Azzolina, in un question time in Senato: “La credibilità è come la verginità, se si perde non si può più riacquistare” disse Moles che poi si dovette scusare. Con questa pedina, Berlusconi ha in mano tutta la filiera dell’editoria e delle telecomunicazioni: Alberto Barachini alla Vigilanza Rai, Gilberto Pichetto Fratin viceministro al Mise dove Giancarlo Giorgetti si occupa di telecomunicazioni e Moles all’Editoria.
Giacomo Salvini

 

Francesco Paolo Sisto L’avvocato anti-inchieste

“Il presidente Berlusconi per noi è come Fidel Castro, è il Líder Máximo. Si è rivelato uno statista vero, soprattutto nell’ultimo periodo”. Così dice del suo capo Francesco Paolo Sisto, avvocato, deputato di Forza Italia dal 2008, ora sottosegretario alla Giustizia. E proprio di giustizia si è prevalentemente occupato nella sua attività politica, attaccando a ogni occasione i magistrati e l’indipendenza della magistratura dalla politica. “La cacciata di Giuseppe Conte è avvenuta in nome della giustizia”, dichiara, “perché la giustizia è stata quella più giustiziata, in questo eccidio delle competenze e della democrazia. Per fortuna però, come si dice dalle mie parti in Puglia, dal guasto viene l’aggiusto”. Cioè Draghi.
Il suo Líder Máximo l’ha sempre difeso: in Parlamento, opponendosi alla legge sul conflitto d’interessi; e in Tribunale, come avvocato difensore nel processo escort in corso a Bari, dove Silvio Berlusconi è accusato di aver pagato l’imprenditore Gianpaolo Tarantini per indurlo a mentire sulle feste a Palazzo Grazioli. A gennaio, l’avvocato Sisto è riuscito a far slittare il processo escort al 30 aprile, adducendo motivi di salute che impedivano a Berlusconi di presentarsi in aula. Non gli hanno impedito di andare da Draghi a trattare il suo appoggio al nuovo governo: “È stata una festa!”, riferisce l’avvocato difensore di Berlusconi, diventato ora sottosegretario proprio nel delicatissimo ministero della Giustizia. Sisto è tra gli autori della legge elettorale dell’Italicum e della riforma costituzionale del Senato (poi bocciata nel referendum del 2016) scritta con Maria Elena Boschi e nata dall’accordo tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. Contrario invece (in dissenso dalla posizione ufficiale di Forza Italia) alla riforma costituzionale del 2020 che ha ridotto il numero dei parlamentari.
Gianni Barbacetto

 

Rossano Sasso Il leghista che scambia Dante e Topolino

La pagina wikipediadi Rossano Sasso, nuovo sottosegretario leghista all’Istruzione, è stata creata solo ieri. Ma i social e il web non si sono scordati del suo passato. Nel 2018 il deputato barese postò una foto della adunata in piazza Duomo a Milano con Matteo Salvini, ma poi si accorse che nell’immagine campeggiava una bandiera contraria alle sue origini pugliesi: “Prima il nord!”. Così Sasso la fece photoshoppare facendo arrabbiare non poco l’ex governatore Bobo Maroni. Nell’estate del 2018, poi, il coordinatore pugliese della Lega organizzò un flash mob sulla spiaggia di Castellaneta Marina (Taranto) dopo l’arresto di un marocchino di 31 anni, Mohamed Chajar, accusato di aver violentato una 17enne. Sasso lo definì un “bastardo irregolare sul nostro territorio”, ma il Tribunale di Taranto pochi mesi dopo assolse il giovane con formula piena: non aveva violentato nessuno. Ma è l’istruzione il tema principale su cui si concentra Sasso, con un potenziale conflitto d’interessi tutto in famiglia. La moglie è l’avvocato e presidente dell’Associazione Libera Scuola, Grazia Berloco: da deputato leghista della commissione Scuola, Sasso ha portato avanti le battaglie della moglie, che infatti ne ricondivide discorsi e proposte sui social. Un esempio: il leghista in un post del 2 settembre scorso si vantava di aver chiesto il rinvio di un anno delle Graduatorie Provinciali Supplenze. Ma senza successo: “Risultato – scriveva Sasso – caos graduatorie, punteggi sballati, nomine bloccate e ricorsi in tribunale. Qualche studio legale vicino al governo si sta già preparando. Che spudoratezza”. Peccato che, come si legge sul sito di ALS, fosse proprio l’associazione della moglie a proporsi per i ricorsi dei docenti. Ora che è diventato sottosegretario, Sasso rischia di doversi occupare di quei ricorsi di cui si fa carico proprio la moglie avvocato. Il 13 febbraio, Berloco su Fb ringraziava l’onorevole Sasso e il leghista Pittoni per “le loro battaglie”. Pochi giorni prima di essere nominato sottosegretario, Sasso ha deliziato i social pubblicando un selfie con annessa citazione da lui attribuita a Dante: “Chi si ferma è perduto, mille anni ogni minuto”. Peccato che la fonte della citazione fosse un’altra: Topolino.
Gia.Sal.

 

Deborah Bergamini La berlusconiana “delta”

In un suo vecchio blog si presentava come Cartimandua, regina dei Celti. Come si sentirà ora nel governo dei Migliori, dell’Europa, della concorrenza e del libero mercato, Deborah Bergamini da Viareggio, la donna che abolì la concorrenza tra Rai e Mediaset? Studi in Italia e negli Stati Uniti, esperienze di lavoro a Parigi e Londra. Poi le capita di intervistare Silvio Berlusconi per Bloomberg e da allora non lo molla più. Lui la riporta in Italia, la fa entrare nel suo staff, la nomina assistente personale. Poi nel 2002 la trapianta in Rai: vicedirettrice, direttrice del marketing strategico, consigliera d’amministrazione di Rai Trade, poi di Rai International. Diventa la donna più potente della tv pubblica, decide quali “generi” trasmettere sulle tre reti, tiene le relazioni con le tv estere, si occupa di Auditel, Televideo, Internet. Ma intanto resta sempre fedele a Berlusconi e a Mediaset, come diventerà noto a causa delle intercettazioni disposte dalla magistratura sulla crisi dell’azienda Hdc e sul sondaggista Luigi Crespi. Questi, intercettato, si rivolge a lei per chiedere a Mediaset soldi (che in effetti poi ottiene). Ma le intercettazioni, più in generale, rivelano il suo vero ruolo di infiltrata Mediaset dentro la Rai e il patto occulto di consultazione permanente tra le due aziende per mettersi d’accordo, in barba al libero mercato, e per risollevare, a reti unificate, l’immagine in affanno di Berlusconi. L’intera tv italiana viene pilotata dalla “struttura Delta”: Deborah controlla tutto, anche le inquadrature di Silvio al funerale di papa Wojtyla. Pianifica i programmi, in accordo con Mediaset, per “dare un senso di normalità alla gente” ed evitare così che la morte del papa distragga gli elettori e faccia aumentare l’astensionismo che penalizzerebbe Forza Italia. Ordina il ritardo nella comunicazione in tv della sconfitta elettorale alle amministrative del 2005. Chiede a Bruno Vespa di non confrontare i risultati con quelli delle precedenti elezioni regionali. Ora è nel governo dei Migliori.
G. B.

 

Vannia Gava L’ambientalismo dei danè

Figlia dell’operoso Nord-est, classe 1974, una carriera da rappresentante di mobili e dirigente politico locale della Lega (fino alla poltrona di vicesindaco della sua Sacile in Friuli-Venezia Giulia), la sottosegretaria Vannia Gava torna al ministero dell’Ambiente, trasfigurato in Transizione ecologica, portando con sé la sua idea produttivista, per così dire, dell’ambiente: se proprio se ne deve parlare, almeno lo si faccia fruttare. Come ha detto lei stessa recentemente alla Camera (dal 2018 è deputata), le piace del governo Draghi “la declinazione non catastrofista delle tematiche ambientali e l’approccio pragmatico”, a cui la Lega mette a disposizione il suo green dei danè (“meno vincoli e più opportunità, più decentramento e meno burocrazia”). Non di solo alto convincimento intellettuale vive però l’impegno della sottosegretaria Gava: i suoi interessi più terreni l’hanno portata a una guerra feroce con l’ex ministro Sergio Costa, cui non furono estranee le sue conoscenze sul territorio. Grande fan del biometano, aveva come collaboratore al ministero un dipendente di alcune aziende venete del settore, peraltro vicine alla Lega (anche sotto forma di donazioni) e a cui Gava aveva dedicato visite ufficiali: il collaboratore dovette dimettersi dopo aver offerto al sito Fanpage investimenti pubblicitari per addomesticare un’inchiesta. Lei stessa fu censurata per “non aver adempiuto ai suoi obblighi sulla trasparenza”: in sostanza si dimenticò di rendere pubblici – come invece prescriveva un regolamento del ministero dell’Ambiente – i suoi incontri con i cosiddetti “portatori di interessi”. L’infortunio non le impedì di ottenere, dopo le Europee 2019, più poteri per le Regioni in materia di rifiuti, novità che ovviamente interessava anche chi produce biometano, specie nel verde Veneto. Ora – al netto di inceneritori, micro-idroelettrico e altre materie care ai salviniani – Gava potrà occuparsi degli incentivi al biometano, in scadenza nel 2021: “Stiamo lavorando affinché il processo di riconversione degli impianti possa essere accompagnato da nuovi incentivi”, disse prima del Papeete. Ora si ricomincia.
Ma. Pa.

 

Stefania Pucciarelli dai “forni” alla Difesa

Non è chiaro quali siano le competenze che hanno fatto nominare la 53enne leghista Stefania Pucciarelli sottosegretario alla Difesa del nuovo governo Draghi. Ma d’altra parte erano ancora meno evidenti le qualità che l’avevano fatta indicare da Matteo Salvini come presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, durante il primo governo Conte. Un indirizzo – i diritti umani – che sembrava una provocazione per una senatrice che si era fatta pizzicare a mettere “mi piace” su Facebook a un post che suggeriva l’uso dei “forni” per i migranti: “Certe persone andrebbero eliminate dalla graduatoria. E poi vogliono la casa popolare. Un forno gli darei”. Pucciarelli si difese sostenendo che non aveva letto bene (e se aveva letto non aveva capito). Quando commise quella “leggerezza” era consigliera regionale in Liguria: l’incidente le diede notorietà presso il popolo leghista, che quelle cose magari non le dice ma le pensa assai spesso. Le costò pure una denuncia dall’Associazione 21 luglio (che si occupa dei diritti delle minoranze rom) e una convocazione al Tribunale di La Spezia per propaganda di idee “fondate sull’odio razziale” (è stata archiviata). Poca roba in confronto della rapida ascesa della sua carriera politica. Prima di entrare in Parlamento, Pucciarelli ha contribuito a edificare la nuova Lega sovranista in Liguria tra Sarzana e La Spezia, terre ex rosse, dove è diventata il punto di riferimento di una giovane classe dirigente nazionalista. Nei ruggenti anni liguri ha indossato il burqa per protesta, ha fatto decine di campagne sui migranti, ha solidarizzato con CasaPound, ha esultato ogni volta che le ruspe hanno spianato un campo nomadi.
Una populista di destra, barricadera, radicale: negli anni del salvinismo spinto è tra le più apprezzate dal capo del Carroccio, che l’ha fatta eleggere in Senato nel 2018. Ora che la retorica di Matteo su Europa e immigrazione s’è un po’ addolcita, s’è un po’ addolcita anche lei. E la carriera continua.
Tommaso Rodano

 

Alessandro Morelli L’ombra del commercialista

Giovane leghista di Vizzolo Predabissi, alle porte di Milano, non ha mai messo a frutto il suo diploma di perito agrario, né ha avuto tempo di laurearsi in Scienze delle produzioni animali, facoltà dell’Università Statale di Milano cui si era iscritto dopo l’istituto tecnico. Ma la sua passione politica lo ha portato a diventare direttore di Radio Padania, l’emittente della Lega, e del Populista, il combattivo blog di Matteo Salvini (prima della conversione europeista). Ora, a 43 anni, è nientemeno che viceministro nel cruciale dicastero delle Infrastrutture e dei trasporti, dopo una carriera politica partita dal basso. Uomo di lotta e di governo: consigliere di zona a vent’anni, poi assessore al Turismo nella giunta del sindaco Letizia Moratti, poi ancora consigliere comunale, fiero oppositore di Giuseppe Sala e di Expo. Nel 2013 si candida alla Camera, ma non riesce a essere eletto. Ci riprova, con successo, nel 2018. Oggi arriva al governo con un’ombra: è stato lui a far nominare nelle società partecipate del Comune di Milano il commercialista Andrea Manzoni, ora imputato nel processo per l’immobile di Cormano diventato sede della Lombardia Film Commission, comprato a 400 mila euro e rivenduto alla Regione Lombardia al doppio, 800 mila euro. Un’operazione, secondo i magistrati, per far entrare soldi nelle casse della Lega. Operazione realizzata in ambito regionale, quando presidente della Lombardia era Roberto Maroni. Ma intanto Manzoni era presente e attivo anche a livello comunale: entrava anche nel collegio sindacale di Sea (la società che gestisce gli aeroporti di Linate e Malpensa), di Arexpo (proprietaria dei terreni Expo su cui si svilupperà il progetto Mind) e di Amiacque (società operativa del Gruppo Cap che fornisce l’acqua a molti Comuni dell’area milanese). A indicare il nome di Manzoni per quelle delicate poltrone di controllo è stato proprio Morelli, che aveva da riempire le caselle assegnate dal Comune di Giuseppe Sala all’opposizione, dunque alla Lega.
G. B.

“Conte non è un moderato. E il M5S non lo sarà mai”

No, quei due aggettivi proprio no. “Il Movimento non è moderato e liberale, non lo è mai stato e mai lo diventerà” twitta Andrea Cioffi, vice capogruppo vicario in Senato, uno dei veterani del M5S. Ed è la reazione all’intervista a Repubblica in cui Luigi Di Maio ha definito il Movimento come “una forza moderata e atlantista”.

Perché non è d’accordo?

Il M5S ha sempre portato avanti determinati temi, come il Reddito di cittadinanza, che è una forma di sostegno agli ultimi ma anche una via per riqualificare il lavoro, e la battaglia per l’acqua pubblica. Ma penso anche alla lotta contro le lobby e i potentati, e per un più forte ruolo dello Stato.

E non sono argomenti da moderati, secondo lei?

No, sono posizioni che possono essere riferite al socialismo liberale. Penso all’ex presidente della Repubblica, Sandro Pertini, secondo il quale non poteva esserci libertà senza giustizia sociale.

Per capirci: Giuseppe Conte è un moderato liberale? Secondo Di Maio l’ex premier “rappresenta questi valori”. E a occhio li evoca anche per favorirne l’entrata nel Movimento.

Non sono nella testa di Conte, che rispetto moltissimo e che è amato dal popolo. Ma non mi pare affatto che da presidente del Consiglio abbia agito come un moderato liberale. Ha portato avanti battaglie importanti assieme a noi, anche se abbiamo dovuto governare con forze conservatrici come Lega e Italia Viva.

Conte deve diventare il capo del Movimento?

Spero davvero che possa prendere parte a un processo di trasformazione del M5S. Di certo lui è molto determinato, che non significa moderato.

Su Wikipedia, Forza Italia viene definita di orientamento moderato liberale. Vi state trasformando nel vostro principale avversario?

(Sorride, ndr) La coincidenza di termini è singolare. Presumo che Di Maio non intendesse questo.

Magari il ministro degli Esteri vuole spostare la collocazione politica del Movimento: al centro, con lo sguardo rivolto verso destra.

Se fosse così, io non sarei d’accordo con Di Maio.

Nell’attesa voi 5Stelle governerete anche con Forza Italia, che alla Giustizia ha messo come sottosegretario l’ex avvocato di Silvio Berlusconi, Sisto.

Noi siamo ancora il partito con la maggioranza relativa in Parlamento, e abbiamo idee molto chiare sulla Giustizia. Faremo pesare la nostra azione su determinati temi, cosa che sarebbe stata molto più difficile restando fuori del governo.

Di peso ne avete sempre meno, anche sul piano numerico. Tra espulsi e fuoriusciti, in pochi giorni avete perso decine di parlamentari. Preoccupante, non crede?

È senza dubbio un momento doloroso, perché stiamo perdendo colleghi di valore. Ma sugli espulsi le vorrei dire: mai dire mai.

Alcuni potrebbero essere ripescati?

Glielo ripeto: mai dire mai.

Gli espulsi hanno detto no al governo Draghi, che a naso non sarà proprio un esempio di socialismo liberale.

Presenterò una mozione perché la Banca centrale europea (di cui Draghi è stato presidente, ndr) inserisca nel proprio Statuto l’impegno a perseguire la piena occupazione in Europa. Draghi può battersi per far sì che la Ue diventi una vera e propria unione, ed è una delle ragioni per cui ho votato sì al suo governo.

Forse vi siete davvero tutti imborghesiti, voi 5Stelle. E magari la definizione di moderato liberale non dispiace neanche a Beppe Grillo.

No, non credo che rientri in nessuna delle due definizioni. Ricordo che nel 2013 lo scrisse: “Moderati si muore”. Ci ha sempre chiesto di trasformare il sistema e un modo per farlo è la transizione ecologica.

Grillo striglia Crimi: “Porta subito la lista”. Ma cresce la fronda dei pentiti di Draghi

Ancora una volta, è arrivato lui, Beppe Grillo a rimettere in riga i “ragazzi” che ancora non hanno capito che hanno detto sì a Mario Draghi. Ed è un sì che non prevede diktat, non ammette veti, non contempla rivendicazioni: “Vito, porta quella lista”. Così, da Genova è arrivata la telefonata che ha sbloccato la trattativa sui sottosegretari. Perché, invano, l’ex reggente e i capigruppo avevano tentato di avviare una interlocuzione con il presidente del Consiglio, che invece ha lasciato tutta la partita nelle mani del sottosegretario alla Presidenza, Roberto Garofoli, con cui certo non scorre buon sangue. E infatti da lui, i grillini, non avevano ottenuto le garanzie che chiedevano, ovvero tener fuori dall’Editoria e dalla Giustizia berlusconiani doc come quelli appena nominati. Ma pure non piazzare come sottosegretario un ex ministro (è il caso del leghista Centinaio all’Agricoltura, che sarà la croce di Stefano Patuanelli).

Per questo, oltre che per la complicata composizione delle correnti, la lista non arrivava. Solo che non avevano tenuto conto del filo diretto che lega Grillo al nuovo premier: Draghi lo ha chiamato e Grillo non ha perso tempo, intimando a Crimi di consegnare l’elenco dei desiderata 5 Stelle.

Come noto, non è finita benissimo. E a parte la riconferma dei dimaiani di stretta osservanza (Castelli, Cancelleri, Sibilia, Di Stefano, la new entry Floridia), la valutazione complessiva sui nuovi sottosegretari non accontenta praticamente nessuno. E la sensazione che questo governo finirà per “mortificare” il Movimento è ormai diffusa anche tra chi al governo ci sta. “È stata una trattativa fatta a perdere”, ammettono. E qualcuno ragiona pure su quale “incidente” possa segnare la fine anticipata di quello che si preannuncia un mezzo supplizio. Certo non è la linea tracciata ieri da Luigi Di Maio nell’intervista a Repubblica in cui colloca definitivamente il Movimento tra le forze “moderate e liberali”. Una cornice che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto rafforzare il nascituro ruolo di Giuseppe Conte (anche l’ex premier, ricordano, fece riferimento alle forze “liberali” nel discorso al Senato in cui tentò la conquista dei Responsabili). Sta di fatto che l’intervista ieri ha fatto infuriare i gruppi parlamentari, già provati dalla rissa sui sottosegretari. “Si è spiegato male”, dicono gli ultimi benevoli. Per rasserenare gli animi, si parla di un vertice in programma nella villa al mare di Grillo, a Marina di Bibbona, forse già questa domenica. Bisogna decidere sulla nuova leadership, sul futuro dei Cinque Stelle, sul rapporto con Casaleggio (“Rousseau si è rivelato una zavorra”, ha detto ieri un altro dimaiano, Sergio Battelli). E bisogna fare in fretta, “prima che Beppe si eclissi un’altra volta – immaginano – e ci lasci da soli in mezzo ai guai”.

5Stelle, rivolta degli esclusi e un altro addio al Senato

“Questa non è più casa mia”. Le parole con cui il senatore Emanuele Dessì abbandona il Movimento 5 Stelle sono le stesse che in queste ore girano per la mente di parecchi parlamentari grillini, agitati da un governo che li convince sempre meno – soprattutto dopo le nomine dei sottosegretari – e da una gestione del dissenso interno che non ha esitato a cacciare militanti storici, risorse preziose trattate al pari di pericolosi eretici.

E allora aumentano i mal di pancia e con essi gli addii, non più soltanto quelli ordinati dall’alto verso chi ha votato contro la fiducia al governo Draghi – in queste ore i vertici stanno verificando pure le “giustificazioni” degli assenti – , ma anche quelli spontanei, magari verso i nuovi gruppi di ex grillini nati alla Camera e al Senato. Come nel caso di Dessì, che ieri ha formalizzato il passaggio ad Alternativa c’è: “Ho sperato fino a ieri che qualcosa potesse cambiare, inutilmente. Non sono mai stato d’accordo nel dare la fiducia a questo governo ma ho voluto, con l’assenza il giorno del voto, dare un’ulteriore possibilità di ripensamento, soprattutto a me stesso”. Nulla da fare, invece, neanche dopo le ultime nomine di Mario Draghi, poco apprezzate anche perché avrebbero tutelato solo l’ala vicina a Luigi Di Maio: “Questa non è più casa mia. Esco dal M5S con un’enorme tristezza nel cuore, ma anche con tanta rabbia”.

E c’è da credergli, se anche un big come Stefano Buffagni, appena escluso dal sottogoverno, ammette che qualcosa s’è rotto. Lo fa a modo suo, negando di voler lasciare il Movimento ma non risparmiando un siluro ai vertici: “Dopo questi mesi di gestione disastrosa del M5S, dobbiamo lavorare per risollevarlo, per non distruggere un sogno che condividiamo da anni”. Serve, allora, una fase nuova: “Non è il momento di dividerci. Auspico che Giuseppe Conte sia con noi in una evoluzione del Movimento, è il momento di fare un passo avanti, di rinnovare. Togliamo quelli che hanno sbagliato”.

Qualcuno, però, potrebbe avere le valigie pronte. Emilio Carelli, che ha lasciato il M5S per fondare il gruppo La Casa Popolare, parla di “decine di interlocuzioni in corso”. Tra cui quella con l’onorevole Roberto Cataldi, che però giura fedeltà al M5S: “Il mio addio è un’ipotesi basata sul fatto che Carelli cerca persone che abbiano competenze e probabilmente è stata ipotizzata una mia uscita dal Movimento, ma io resto nel gruppo”.

Meno diplomatico è Giorgio Trizzino, anche lui escluso dalle nomine di governo: “Smentisco di aver deciso di lasciare il M5S, anche se, come è noto, vivo un disagio rispetto alla fase in cui si trova il Movimento e alla nomina della squadra dei sottosegretari. Mi riservo di valutare nei prossimi giorni”. Non certo una secca smentita, come quella che invece ha dato ieri l’ex ministro Vincenzo Spadafora, inserito tra i potenziali partenti: “Ormai molti giornali scrivono la qualunque, ma questa vorrei proprio sapere dove l’hanno presa”.

Chi invece parla ormai da ex del Movimento è Max Bugani, fedelissimo di Davide Casaleggio e capostaff di Virginia Raggi. Ieri non ha per nulla gradito l’intervista di Luigi Di Maio a Repubblica, soprattutto nel passaggio in cui l’ex capo politico definisce “moderato e liberale” il M5S, e così ha pubblicato su Facebook parte della pagina Wikipedia di Forza Italia, lì descritta proprio come “moderata-liberale”: “Quindici anni di battaglie per diventare una costola di Berlusconi? Un trionfo – ha scritto Bugani –, Gianroberto Casaleggio in piazza ci fece scandire il nome di Berlinguer, non quello di De Mita”. Sullo stesso tema, non a caso, arriva pure la sponda dell’espulso Nicola Morra: “Sono moderato forse nelle parole, ma deciso, rivoluzionario, determinato negli obiettivi. Chi, oggi, dopo aver promesso la rivoluzione, annuncia propositi ben diversi, dimostra di cosa sia capace il potere”.

I vice-Migliori

E così, dopo i 22 Migliori (23 con SuperMario), abbiamo finalmente 5 Vicemigliori e 34 Sottomigliori. Spulciando la lista del nuovo bar di Guerre Stellari alla ricerca dei nostri preferiti, spicca subito la preclara figura dell’on. avv. Sisto a cui, essendo stato l’avvocato di B., spetta di diritto la Giustizia; un tocco di vintage che ci riporta ai bei tempi andati delle leggi ad personam, della “barbarie delle intercettazioni”, di Patrizia D’Addario e Gianpi Tarantini statisti e di Ruby nipote di Mubarak (suo il pregiato emendamento alla legge Severino che svuotava vieppiù il reato di concussione per induzione, di cui era casualmente imputato il padrone). Infatti, per non farlo sentire troppo solo coi suoi conflitti d’interessi, il factotum draghiano Garofoli e i retrostanti fenomeni del Quirinale che seguivano le nomine per conto del premier, hanno piazzato pure il forzista Moles all’Editoria a far la guardia agli affari di B.; e pazienza per quel suo attacco sessista alla Azzolina in pieno Senato (“la credibilità è come la verginità: è facile da perdere, difficile da mantenere, impossibile da recuperare”): anzi, fa curriculum. Come per il leghista Molteni, che insultava la Lamorgese (“vergogna, abolisce i confini e difende i clandestini!”) e ora diventa il suo vice agli Interni.

Lì incontra il grillino Sibilia, quello che voleva “Draghi in manette” e ora lavora per lui dopo avere sbianchettato i suoi tweet; e il renziano Scalfarotto, che aveva lasciato gli Esteri per allergia alle poltrone (massì: Esteri o Interni purché governi, è la meritocrazia 2.0). Un po’ come la Bellanova, braccia rubate all’Agricoltura ieri e ai Trasporti oggi (sempre in omaggio alla competenza). Ottima anche la scelta della leghista Pucciarelli che, avendo messo un like a un post che invocava i forni per i migranti, si aggiudica la Difesa. Altra donna giusta al posto giusto: Lucia Borgonzoni è nota per essersi vantata di “non leggere un libro da tre anni” e aver situato l’Emilia-Romagna ai confini col Trentino Alto Adige e l’Umbria, risparmiando però la Puglia e la Sardegna, dunque va alla Cultura. Con la stessa logica meritocratica il leghista Sasso che cita una frase di Topolino attribuendola a Dante conquista l’Istruzione (sperando che ne faccia buon uso). Noi però abbiamo sempre avuto un debole per Deborah Bergamini, la segretaria tuttofare di B. che nel 2002 la infiltrò alla Rai come vicedirettrice, poi direttrice del Marketing strategico, poi nei Cda di Rai Trade e Rai International e, quando fu sospesa per l’inchiesta sui patti occulti Rai-Mediaset, deputata di FI dal 2006. Nel suo blog si presentava come Cartimandua, regina dei Celti, perché è anche una tipa equilibrata.

Nel 2005 fu intercettata nell’indagine sul sondaggista berlusconiano Luigi Crespi, che avanzava soldi da Mediaset e ne parlava con lei (dirigente Rai): “Io non finisco mica in galera per tutelare una verità che nessuno vuole tutelare”. Infatti poco dopo ricevette un bonifico dai berluscones. Così i pm scoprirono il patto occulto di consultazione permanente tra i vertici Rai e Mediaset, per mettersi d’accordo in barba al libero mercato e risollevare a reti unificate l’immagine barcollante di B. Ogni minuto e dettaglio di programmazione della Rai era capillarmente controllato dai cavalli di Troia del Caimano nel presunto “servizio pubblico”, ridotto a suo feudo personale per blandire gli amici, manganellare i nemici, celebrare le sue gesta, tacere le notizie scomode, gonfiare quelle comode. Tutto era pianificato nei minimi particolari: persino le inquadrature di B. ai funerali di papa Wojtyla, i ritardi nell’annuncio delle disfatte elettorali, il numero di citazioni del nome di Silvio in bocca a Vespa. Giovanni Paolo II moriva alla vigilia delle Amministrative 2005, distraendo gli elettori cattolici dal dovere di votare B.? Niente paura: Deborah concordava con Mediaset una serie di “programmi che diano alla gente un senso di normalità, al di là della morte del Papa, per evitare forte astensionismo alle elezioni amministrative”. Ora, dopo aver coordinato così bene i rapporti fra Rai e Mediaset, coordina i Rapporti col Parlamento.

Stavamo quasi per assegnarle la palma di Vicemigliorissima, quando ci è capitato sotto gli occhi il ritratto agrodolce di Gabrielli, neosottosegretario ai Servizi, firmato da Bonini su Repubblica: “garantisce la tenuta di sistema”, “promette di regalare agli apparati di sicurezza una serenità e una competenza sciaguratamente smarrite nel Conte-1 e Conte-2” (mica come ai tempi di De Gennaro, Mori, Pollari&Pompa), “talento precoce per anagrafe e capacità”, “intelligenza inquieta”, “cultura democratica e riformista”, “civil servant”, “riserva della Repubblica”, “ricostruì una Protezione civile stravolta dalla stagione berlusconiana” (infatti “era il vice di Bertolaso”), “ricostruì la cultura della ‘sua’ Polizia”, “figlio del popolo”, “cultura riflessiva nelle indagini”, “combina le competenze che la lingua inglese felicemente distingue in ‘safety’ e ‘security’”; peccato soltanto che abbia “negato per orgoglio e testardaggine a suo padre la gioia di vederlo laurearsi in Giurisprudenza”. Ma che sarà mai. Come disse Cetto La Qualunque, precursore di tutti i Migliori: “Vogliono negare a mia figlia il posto di primario di chirurgia con la scusa che non è laureata. Ma a che cazzo serve la laurea!? Mia figlia ha due mani da fata: può operare!”.

“Ifigenia in Cardiff”: pazzerella, alcolizzata, irresistibile eroina

Nevrotica, controcorrente, sfacciata. Il ritratto di Effie, l’Ifigenia contemporanea proiettata nella periferia gallese dei nostri giorni, potrebbe far storcere il naso ai più che conoscono il mito classico della figlia di Agamennone. Altro che “nata forte”, come definisce il nome stesso, o simbolo di purezza, l’Effie protagonista di Ifigenia in Cardiff manifesta le fragilità e i deliri di una donna che, tra fiumi di alcol e temperamento imprevedibile, si sente soffocata dall’opprimente società post-industriale. Nato dalla penna di Gary Owen, con mordace humour inglese, Roberta Caronia interpreta questo personaggio perturbante nel quarto spettacolo della rassegna Tutta Scena – Il teatro in camera, da oggi disponibile in streaming su tvloft.it.

Un monologo in forma di confessione che parte dalla vita irregolare, priva di progetti e sconclusionata della protagonista: le scappatelle con Sasha e le discussioni con la nonna vengono perennemente “allungate”, a fine giornata, con l’alcol, il mezzo con cui Effie azzera la propria identità e sopisce i dolori della solitudine. Il suo lasciarsi andare all’oblio e allo spleen porta al confronto con l’Ifigenia di Euripide (e forse anche con il maledetto Baudelaire): entrambe le eroine sono vittime sacrificali in nome di un qualcosa di superiore. Se l’Ifigenia greca paga con la propria morte per propiziare il ritorno a casa da Troia del padre Agamennone, Effie si schianta contro un sistema sociale che ripudia e tende a isolare i più deboli. Uno status di inermità, mista a inettitudine e marginalità, che cambia però con l’inatteso incontro con un reduce della guerra in Afghanistan, Mark. L’uomo la sconvolge, cullandola con inedita dolcezza e un’altrettanta marcata compassione – anche perché gli manca una gamba…

Ed ecco la svolta: Effie inizia ad abbracciare i mali del mondo dopo una gravidanza inattesa e a ribellarsi contro il fato che la vorrebbe vendicativa e miope. Si torna così al mito originario della “vittima sacrificale”, qui alla prese con un esoso Agamennone nelle vesti d’infermiera e a una Artemide, demone della follia che l’accompagna fino alla fine. Un monologo denso e febbricitante, che, come Effie, vive picchi esilaranti e momenti introspettivi bui. Diretto da Valter Malosti e tradotto, nonché adattato, da Arcadia e Valentina De Simone, è quanto offre TvLoft da oggi. I prossimi appuntamenti saranno, invece, Una serata con me con Paola Minaccioni, disponibile a partire dal 4 marzo, e Com’era bello quando parlava Gaber, scritto e interpretato da Andrea Scanzi, in esclusiva dall’11 marzo.

Memorie di una cecchina “introversa ammazza-fascisti”

“Trattieni il respiro e spara”. Lo scrive nelle sue memorie “la dama della morte” dell’Unione Sovietica: Ljudmila Pavlicenko, 309 uomini uccisi in battaglia. Edita da Odoya in traduzione italiana, Lady death, La cecchina dell’Armata rossa, è l’autobiografia di una delle cecchine più letali della storia e una delle più mortali della Seconda guerra mondiale.

Nella sua infanzia trascorsa a sud di Kiev, Ljudmila gioca a “cosacchi e banditi” come ad altre latitudini si gioca a guardia e ladri. La sniper di Stalin, figlia di un maggiore dell’Armata rossa, del suo amore brusco e dell’educazione inflessibile, entra nella leggenda per caso quando alcune divise ne scoprono il talento in un circolo di tiro al bersaglio per amatori. Dopo la scuola per tiratori scelti, fu spedita al fronte di Sebastopoli. Della “introversa ammazza-fascisti” compagni inseparabili per la vita rimasero la determinazione e il fucile: “Proteggilo, tienilo pulito, elimina i difetti”. Cominciò con un Toz di piccolo calibro, “economico, forte e preciso”, esile come la sua corporatura. Continuò con Moskin Nagat modificati.

È talmente a suo agio tra linee rosse, d’ombra e del fronte che riesce ad annotare appunti per il suo diario di memorie mentre le varca. “Ti ho beccato bastardo nazista, dopo essermi congelata le chiappe!”. Non dimentica di decantare il numero di nemici eliminati, dettagli di caricatori e barricate mentre si sposta da un lato all’altro della guerra. Non si concede indulgenza nemmeno quando viene ferita da un mortaio: l’angelo custode armato della battaglia di Sebastopoli non ama la retorica, alla propaganda di Mosca preferisce otturatori, calibri e assalti.

Ljudmila, nata Belov, in biografia non omette un dettaglio che invece ha dimenticato di ricordare la propaganda sovietica e il kolossal a lei dedicato nel 2015: la “cecità volontaria” che la conduce verso il suo primo fidanzato, un amore di cui le resterà per il resto della vita il cognome Pavlicenko e un figlio che dà alla luce giovanissima, diventato poi un agente del Kgb. Dopo l’assedio di Sebastopoli, c’è quello di Odessa. Ma tra sangue, morte e pallottole c’è l’amore. “La luna di miele ebbe un effetto positivo sui miei tiri” scrive dopo le nozze col sottotenente Aleksej, stesso reggimento ma non stesso destino: lui morirà quasi subito dopo. “Signora morte” aveva grandi occhi chiari e molti si innamorarono di lei: alcuni per averla vista sulle pagine della Pravda, altri perché l’avevano ammirata in carne, ossa e acciaio mentre si nascondeva tra alberi e cespugli. “Dicono che sia il signore dei boschi a proteggermi, per questo mi chiamano la lince”. Medagliata dell’Ordine di Lenin, a chi le chiese perché lo fece, rispose come molti sovietici: perché “andava fatto”.

L’Urss, che per prima mandò le donne in guerra e poi lassù nello spazio, la rese icona. Ljudmila diventò faccia da conio, statua, manifesto di propaganda di quell’invincibile Unione che istigava i suoi cittadini a resistere. Ma “un cecchino non deve attirare l’attenzione su di sé, il requisito fondamentale per operare con successo è rimanere nascosti”. Il posto della tenente Pavlicenko era la guerra: incapace di rimanere lontana dalla trincea, fu sconfitta dalla vita quotidiana che seguì al congedo dell’Armata rossa che la salutò con onore. Strinse la mano di Stalin a Mosca, viaggiò in terra nemica: arrivò negli Usa. L’ultima missione che narra in biografia è quella a Washington, dove deve sollecitare l’apertura di un nuovo fronte contro Hitler: la sovietica alla Casa Bianca viene subito amata dalla moglie del presidente Roosevelt, Eleonore. Pavlicenko non sa rispondere senza rabbia ai giornalisti americani che chiedono che tipo di biancheria indossi. Sotto i riflettori della stampa a cui Mosca ha deciso di esporla come un trofeo perde due dei suoi talenti: invisibilità e autocontrollo. La tiratrice scelta dalla storia per facilitare quella vittoria che ancora oggi la Russia celebra ogni 9 maggio, quando tornò in patria, addestrò centinaia di cecchini e si laureò in Storia. La donna più letale dell’Urss è morta nel 1974 e oggi una strada della Sebastopoli che difese porta il suo nome. La sua tomba è coperta di neve e fiori rossi nel cimitero delle stelle e degli eroi a Novodevicij: tra Cechov, Bulgakov e capi di Stato, riposa – come non ha saputo fare mai mentre era in vita – la ragazza dalla tenerezza e furia spietata, Ljudmila grandi occhi, prima e ultima lince dell’Urss.

Noi, donne che odiano gli uomini

Il titolo lascia poco spazio a interpretazioni. “Odio gli uomini”, scrive Pauline Harmange, 26 anni, femminista e volontaria in un’associazione antiviolenza. Le reazioni hanno superato le aspettative. Doveva essere un saggio rivolto a un circuito limitato: 450 copie in tutto, quelle previste dal piccolo editore cooperativo che glielo aveva commissionato a inizio 2020. Poi ad agosto, poco prima dell’uscita, è successo che un funzionario del ministero francese “per l’uguaglianza tra uomo e donna” ha scritto una mail all’editore per provare a bloccarne la pubblicazione (“Ancora mi chiedo come abbia fatto a sapere del libro”, dice Harmange). La notizia è uscita sui media e Odio gli uomini è diventato il libro di cui parlavano tutti. Decine di migliaia di copie vendute, richieste di traduzione in 17 lingue (Harmange si è poi affidata alla corazzata editoriale di Seuil). Oggi arriva anche in Italia con Garzanti.

Perché odia gli uomini?

Perché penso che sia importante dire che gli uomini formano un gruppo sociale, certo non omogeneo, in cui la stragrande maggioranza approfitta di una posizione sociale dominante. Alcuni sono violenti, tanti semplicemente se ne lavano le mani e si profittano della condizione anche senza volerlo. Anche quelli più “normali”.

Quando si è accorta di odiare gli uomini?

In tanti mi chiedono di un momento preciso, un’esperienza scatenante. Ma non c’è: il mio pensiero è costruito su basi teoriche più che empiriche.

Gli “uomini” di cui parla, però, sono solo una precisa categoria di uomo…

Sono consapevole che ci siano diversi modi di vivere la mascolinità e che, per dire, il modo di farlo degli uomini omosessuali o neri non è lo stesso degli etero. Io ho scelto di parlare di quella categoria di uomini “privilegiati”, ovvero i bianchi eterosessuali, perché non conosco abbastanza bene le esperienze degli altri.

Per molti la categoria di cui lei parla è in via d’estinzione. Gli uomini non sono “cambiati”?

Gli uomini amano dirlo, ma io non ho ancora visto prove concrete. Passiamo un sacco di tempo a rassicurare uomini che vogliono sentirsi dire che “loro” sono diversi. Ma la verità è che tutti condividono più o meno gli stessi difetti. Non vedo una volontà di cambiare le fondamenta della società in cui viviamo. Non basta aver letto il libro e dire “ho capito”.

Sgomberiamo il campo dallo stereotipo “lesbo-femminista”: lei è sposata e vive in coppia con un uomo…

Ho incontrato una persona che crede nel rispetto reciproco. È capitato che fosse un uomo, ma è un difetto su cui sta lavorando.

Il suo libro è stato un caso editoriale. Le sembra che sia stato capito, oltre che comprato?

Quando l’ho scritto credevo di rivolgermi a 500 persone al massimo. Oggi in molti rimangono sorpresi quando lo leggono perché non trovano quello che si aspettavano a partire dalla polemica. Non volevo scrivere un pamphlet, e non penso di aver scritto qualcosa di particolarmente polemico…

Come lo definirebbe, allora?

Volevo scrivere un saggio personale sul ruolo degli uomini nella vita politica e nella vita privata. Non volevo tirare una bomba contro la società in generale. Per questo sono sorpresa dalle reazioni al mio libro.

Tra le cose che voleva fare c’era, però, l’aiuto concreto alle donne…

Questo libro è per le donne. Trovo carino che interessi anche gli uomini, ma non era il mio obiettivo. Per me era importante che le donne, leggendolo, riconoscessero le situazioni che vivono. Credo che siamo in molte a provare frustrazione e rabbia contro il maschile in generale.

Che effetti ha avuto finora?

Molte lettrici mi hanno detto che sono riuscita a dare un nome a cose che per loro erano difficili da elaborare. Ho ricevuto anche messaggi positivi da parte di qualche uomo. E poi tantissimi attacchi… Sempre da parte di uomini. Ogni volta che il libro esce in un nuovo Paese si scatena un’ondata di insulti in una nuova lingua. Si tratta sempre di reazioni molto epidermiche, non si parla mai di contenuti. Mi accusano di essere una “femmi-nazista”, di incitare alla “guerra tra i sessi”. Non ho ricevuto una sola critica costruttiva da parte di un uomo. Solo minacce di morte, di stupro o insulti al mio fisico. Trovo sia indicativo.

Scriverà ancora, dopo questa esperienza?

Sto cercando di finire un romanzo che avevo iniziato prima di Odio gli uomini. È sulla difficoltà di essere donna prescindendo dallo sguardo di un uomo. E sto scrivendo un saggio sull’aborto.