Non solo gorilla: i Ranger da eroi a soldati con l’AK

Dall’inizio del 2021 sono già sei i ranger assegnati alla protezione dell’enorme parco congolese di Virunga ad aver perso la vita in un’imboscata da parte di una delle tante milizie armate che infestano l’enorme santuario dei gorilla di montagna in via di estinzione.

Secondo la direzione del parco e dell’Istituto congolese per la conservazione della natura, l’attacco di un mese fa è il più grave dall’aprile dello scorso anno quando 12 ranger e cinque civili furono assassinati. I ranger stanno tuttavia diventando figure controverse per gli abitanti dei villaggi e per chi si avventura in questa area orientale della Repubblica Democratica del Congo, a nord del lago Kivu, considerata tra le più pericolose del mondo. Per evitare che ne cadano altri durante i pattugliamenti, i ranger non sono più solamente il corpo di guardia del parco ma sono stati trasformati in un vero e proprio reparto addestrato in stile militare. Del resto i trafficanti di animali e di uomini che si aggirano nel parco sono armati fino ai denti e le milizie d’oltreconfine hanno in dotazione sistemi di comunicazione sofisticati, mentre i piccoli gruppi criminali che sbucano ovunque dalla fitta vegetazione sono comunque dotati di kalashnikov. Per questo oggi i ranger dispongono di un sistema di logistica e di dispositivi di comunicazione avanzati per poter effettuare spostamenti rapidi e ottenere informazioni aggiornate in tempi rapidi. Le autorità che hanno la responsabilità della salvaguardia del parco hanno inoltre sviluppato un sistema di sorveglianza aerea ad ampio raggio per tracciare e monitorare le basi e gli spostamenti dei gruppi armati che entrano in Congo dai paesi confinanti, specialmente Rwanda e Uganda. I confini lunghi e porosi sono resi ancora più incontrollabili dalla intricata giungla che li ricopre. Le guardie del parco – attualmente circa 689 – rimangono tuttavia in forte inferiorità numerica rispetto ai gruppi armati e pertanto sono un obiettivo decisamente vulnerabile. Sebbene siano costantemente rappresentati come eroi e martiri – l’anno scorso ne sono stati uccisi 17 e 200 da quando nel secolo scorso Virunga è diventato parco nazionale – molti ranger ormai hanno paura a ingaggiare scontri a fuoco con le milizie composte anche da un centinaio di mercenari e guerriglieri che spesso utilizzano i bambini soldato in prima linea. Quando invece le guardie del parco decidono di affrontare le bande armate, gli abitanti del luogo li criticano perché le milizie si vendicano attaccando di notte i loro villaggi. L’Iccn, l’agenzia che gestisce le aree protette nella Rdc ha spiegato che l’ultimo attacco è avvenuto mentre i ranger stavano pattugliando il settore centrale del parco, vicino a una recinzione elettrica di nuova costruzione destinata a prevenire le intrusioni nell’area protetta. A detta di Onesphore Sematumba, ricercatore dei Grandi Laghi dell’International Crisis Group, l’ostilità tra ranger e gruppi armati locali è in parte radicata nelle controversie sulla terra. “Hai l’Iccn da una parte, e poi dall’altra hai la popolazione che vive principalmente di agricoltura e ha bisogno di accedere alla terra da coltivare per sopravvivere. La popolazione della zona ritiene che un’ampia area di terreno sia stata loro confiscata durante la creazione del parco per nutrire gli animali” ha detto in un’intervista ai media locali il ricercatore. In altre parti della Rdc, i ranger dell’Iccn sono stati accusati di usare forza eccessiva e di aver commesso violazioni dei diritti umani nell’esercizio delle loro funzioni. In generale, la situazione della sicurezza nel Nord-Kivu è peggiorata negli ultimi 5 anni. Ciò può, in parte, essere spiegato dai crescenti sforzi dei ranger per fermare lo sfruttamento illegale delle risorse naturali. Alcuni di questi sforzi comportano una stretta collaborazione con l’esercito congolese, come pattuglie miste, condivisione di informazioni e talvolta operazioni congiunte.

“Il vostro diplomatico si opponeva alle frodi sugli aiuti umanitari”

Thierry Vircoulon coordina l’Osservatorio dell’Africa centrale all’Ifri, l’Istituto francese delle relazioni internazionali di Parigi, ed è consulente per il think tank International Crisis Groupe. È stato più volte in missione per il ministero francese degli Esteri e per la Commissione europea nei Paesi africani, e in particolare nella Repubblica Democratica del Congo.

Professor Vircoulon, nella dinamica dell’attacco in cui è rimasto ucciso l’ambasciatore Attanasio, si avanza l’ipotesi di un tentativo di rapimento, finito in tragedia.

Non è impossibile. La pratica del rapimento è molto diffusa nell’est della RdC da circa tre, quattro anni. È stata importata dall’Uganda, che l’ha a sua volta importata dal Kenya. Prima è arrivata nelle città, come a Goma, poi si è diffusa in tutta la regione. I rapitori sono soprattutto bande criminali locali: dei congolesi che rapiscono altri congolesi per chiedere soldi. Ma la pratica si è diffusa anche tra i tanti gruppi armati presenti nella regione e possono essere presi di mira i funzionari delle Nazioni Unite, che sono spesso cittadini congolesi, e personale umanitario. Quella strada la conosco bene per averla presa più volte. Si può essere attaccati in qualsiasi momento. È un posto estremamente pericoloso.

La presenza italiana nella RdC potrebbe dare fastidio?

Nulla si può escludere a questo stadio. Circola del resto una voce nella RdC che lega questo agguato allo scandalo di corruzione che ha investito il Paese nel giugno 2020: un’inchiesta di The New Humanitarian aveva rivelato una frode agli aiuti umanitari per diversi milioni di dollari ai danni di numerose Ong e una vasta rete di corruzione tra personale delle Ong e figure locali. Si dice che l’ambasciatore italiano avrebbe chiesto delle verifiche su questo sviamento di fondi e che sarebbe stato attaccato per impedirgli di agire. È una voce, non saprei dire se ha un reale fondamento.

La Repubblica Democratica del Congo è un paese ricco di risorse minerarie eppure resta uno dei paesi più poveri del mondo.

Quella dell’est della RdC è un’economia di guerra che fa comodo a molte persone, congolesi e non solo. Possiamo parlare di un sistema di corruzione decentralizzata, in opposizione a regimi a corruzione centralizzata, come l’Arabia Saudita dove è la famiglia reale che arraffa tutte le ricchezze. Nella RdC, governo, militari, polizia, a tutti i livelli, dal basso all’alto del sistema, pensano al loro tornaconto, facendo in modo che la situazione non migliori. Si sa da tempo poi che esistono connessioni tra milizie armate e personalità politiche. C’è una convergenza di interessi a cui partecipano inoltre, non lo dimentichiamo, i vicini stranieri, Rwanda, Burundi, Uganda.

Neanche la presenza dei Caschi blu sembra servire…

Perché la loro politica consiste nel non prendere rischi. Avendo lasciato fare troppi massacri, hanno perso ogni credibilità. Ora si ritrovano a fare un semplice lavoro di sorveglianza delle loro basi. E del resto anche il Consiglio di sicurezza, che intende ridurre la portata della missione, ha capito che i Caschi blu nella RdC non servono granché.

I report degli 007 italiani Attanasio e il tentativo di sequestro finito male

Ore 9.27 di lunedì 22 febbraio. Due convogli, uno con a bordo l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, partono da Goma. Devono raggiungere Kiwanja, nel territorio di Rutshuru, per visitare una scuola nell’ambito del programma alimentare del World Food Programme (Wfp) delle Nazioni Unite. 73,2 km circa è la distanza che li separa dalla loro destinazione. Un viaggio di circa “2 ore e 24 minuti”, che viene interrotto a circa 30 minuti dalla partenza, 15 km dopo, quando arriva l’imboscata sfociata in quella che è stata la tragedia della morte dell’ambasciatore Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci che gli faceva da scorta. Sulla dinamica dell’episodio oggi indaga la Procura di Roma, con i carabinieri del Ros inviati a Goma per acquisire i verbali delle testimonianze raccolte dalle forze dell’ordine congolesi e verificare anche quali siano state le armi usate dai ranger che sono intervenuti per fermare i rapitori. Tutte le piste sono aperte, anche che a ferire i due italiani possa essere stato il “fuoco amico”. Circostanza negata dalle autorità congolesi. Ma il lavoro dei magistrati è solo all’inizio.

Nel frattempo però anche l’intelligence italiana sta mettendo insieme i pezzi di questa vicenda. È solo una prima ricostruzione, quindi molti altri dettagli potrebbero aggiungersi nei prossimi giorni. Per ora il report in mano agli 007 conferma che si sia trattato di un “tentativo di rapimento fallito”. Nelle vicinanze del luogo dell’attacco, si specifica, “sono stati registrati diversi incidenti relativi a rapimenti, rapine a mano armata, stupri” e imboscate, di cui sono state vittime “il WFP e i veicoli di altre organizzazioni umanitarie”.

I primi tasselli vengono messi insieme grazie a video, immagini, testimonianze e anche articoli pubblicati sulla stampa estera. Il report racconta dunque una prima cronologia di quanto accaduto. A partire dalle 9.27 di lunedì quando due veicoli partono da Goma. “I rapporti suggeriscono che c’erano sette persone nel convoglio”, tra cui l’ambasciatore Attanasio e il carabiniere Iacovacci. Tra le immagini raccolte ce n’è anche una prima della partenza: si vede il diplomatico italiano e il carabiniere che sta per aprirgli la portiera posteriore dell’auto. C’è anche un uomo, lo stesso che poi terrà in braccio l’ambasciatore dopo l’attacco. Nella foto ci sono anche altre tre persone. A 15 km a nord di Goma, nella zona di Kabati, avviene l’imboscata da parte di un gruppo di sei uomini “armati di machete e kalashnikov”. Il veicolo del Wfp delle Nazioni Unite finisce quindi fuori strada. Resta quello con a bordo l’ambasciatore, il cui autista sarebbe stato ucciso – riporta il report – proprio per costringere gli altri a lasciare la strada e così addentrarsi nel Virunga National Park. Il gruppo con i suoi sei ostaggi quindi si sposta per altri 8 km a nord, arrivando a 23 km a nord di Goma, vicino a Buhumba. La geolocalizzazione è possibile grazie a tre torri che si vedono in alcune fotografie. Ci sono pure delle immagini che ritraggono i ranger che, secondo Le Monde, intervengono dopo esser stati allertati dagli spari, come pure i soldati delle forze armate dell’esercito congolese. E qui che avviene la tragedia. Riporta il report che quando i ranger si trovano a circa 500 metri di distanza dal gruppo di aggressori, inizia la sparatoria.

Il gruppo colpisce il carabiniere e l’ambasciatore all’addome, che perderà la vita di lì a poco. Per il governo congolese i responsabili sono i ribelli delle Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda, che ieri hanno negato un loro coinvolgimento. La zona è in mano a diversi gruppi criminali. L’attacco, conclude il report degli 007, dunque può “essere visto come un evento più tipico di questa regione”. Finito stavolta in una vera tragedia.

La stangata dei pm ai colossi “Assumete i 60 mila rider”

Una doppia indagine della Procura di Milano punta a rivoluzionare il mondo del food delivery, ovvero le consegne a domicilio che ormai, anche a causa della pandemia, sono diventate una necessità primaria. Ne ha parlato ieri il procuratore Francesco Greco. Doppio binario dunque: quello sulla sicurezza dei lavoratori e quello contrattuale, con l’indicazione della Procura di assumere 60mila lavoratori. Motivo: i contratti sono sbagliati. Non si tratta infatti di lavoro autonomo, ma subordinato. A questo si affianca un’indagine fiscale che riguarda Uber Eats già finita in amministrazione giudiziaria per un fascicolo milanese sul fenomeno del caporalato digitale. E del resto, basta leggere le 36 pagine di una informativa messa agli atti per capire l’inferno lavorativo. La nota colleziona i commenti dei lavoratori sui Facebook. Scrive un rider: “Il giorno della Befana ho difeso un mio collega perché accusato da un manager (…) di aver mangiato un panino di un ordine che aveva in corso. Il manager mi ha detto che la questione non mi riguardava. Abbiamo discusso”. Che succede dopo? L’azienda di delivery lo chiama: “Ricevo una telefonata da un tale Matteo che mi disattiva l’account per comportamento scorretto”. Quasi il 90% dei rider arriva dall’Africa. Si legge nella nota: “Ha un permesso di soggiorno per motivi umanitari, non ha idea del contratto che ha sottoscritto, non ha sostenuto colloqui lavorativi, lavora 6/7 giorni settimanali per una retribuzione che varia dai 20 ai 30 euro giornalieri”. I rider, ha spiegato Greco, “hanno un trattamento di lavoro che nega loro un futuro. Hanno un permesso di soggiorno regolare ma non permettiamo loro di costruirsi una carriera adeguata”. Per questo “non è più il tempo di dire sono schiavi ma è il tempo di dire che sono cittadini” che hanno permesso a “molte imprese di non chiudere”. La prima indagine riguarda la sicurezza sul lavoro ed è stata avviata dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano. Il fascicolo ha prodotto l’iscrizione di sei persone, tra amministratori delegati o delegati per la sicurezza delle società Uber Eats, Glovo-Foodinho, JustEat e Deliveroo. “Questa inchiesta – ha detto Siciliano – si è imposta perché la situazione di illegalità è palese”, e perché il lavoro “viene assegnato dalla piattaforma in modo proporzionale all’attività, quindi se ti ammali le tue quotazioni scendono e vieni chiamato di meno. Il lavoro ha ritmi insostenibili, con tutele inaccettabili”. Le chat agli atti confermano. Un rider scrive a proposito di una azienda di delivery: “È la summa dello schifo, una manica di schiavisti che metà basta, in piena pandemia obbligano i rider a consegnare ai piani pena abbassamento del punteggio”. Il punteggio si abbassa anche se per un incidente si sta a casa. E di radiografie le chat dei rider sono piene. Alle società sono state “notificate” ammende per 733 milioni in relazione alla violazione sulle norme della sicurezza. Il lavoro, in collaborazione con Inps e Inail, è stato coordinato dai carabinieri del Nucleo tutela del lavoro guidati dal comandante Antonino Bolognani. I militari hanno controllato 60mila lavoratori i quali ora – è l’ordine della Procura – dovranno essere assunti. Le contestazioni riguardano il mancato rispetto di diversi articoli del Testo unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. Si contesta il mancato rispetto del datore di lavoro in relazione allo stato di salute del fattorino, alla sua formazione anche in merito ai rischi, all’uso delle attrezzature di lavoro idonee e dispositivi di protezione individuale. I verbali sono stati notificati alle aziende perché non è stato “riscontrato che c’erano le regolarizzazioni e le assunzioni”. Secondo la Procura l’inquadramento contrattuale è sbagliato. Per questo, ha spiegato Greco, oltre “60mila lavoratori” tra Uber Eats, Glovo-Foodinho, JustEat e Deliveroo, dovranno essere assunti come “coordinati e continuativi”, ossia passare da lavoratori autonomi e occasionali a parasubordinati. Tempo limite per pagare le multe e mettere in regola i lavoratori: 90 giorni. Altrimenti saranno presi “provvedimenti” come i già annunciati “decreti ingiuntivi”. C’è poi l’inchiesta fiscale che riguarda Uber Eats “per verificare se sia configurabile una stabile organizzazione occulta” dal punto di vista fiscale. Il procuratore ha spiegato che “i pagamenti dei clienti vengono effettuati online, ma non sappiamo dove vengono percepiti questi pagamenti e nel frattempo il rapporto di lavoro dei rider è strutturato sul territorio italiano”.

Il sangue degli eroi, Graviano e il 41-bis

Filippo Graviano ha chiesto un permesso premio per uscire dal carcere dove è recluso con il regime di isolamento previsto dall’articolo 41-bis sostenendo di essersi ‘dissociato’ da Cosa Nostra. Il boss di Brancaccio, 59 anni, è stato condannato per associazione mafiosa e, sempre insieme al fratello più giovane Giuseppe, 57 anni, è stato condannato in via definitiva come mandante dell’omicidio del beato don Pino Puglisi e per le stragi del 1992 e del 1993.

Queste condanne finora hanno reso impossibile per Filippo Graviano e per tutti gli altri boss come lui l’accesso ai benefici di legge. La sua richiesta però è diventata meno ‘assurda’ dopo la sentenza della Corte costituzionale (dove era presente come giudice l’attuale ministro della Giustizia Marta Cartabia) n. 253 del 2019. La sentenza ha ritenuto incostituzionale l’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui vieta i permessi, il lavoro esterno e le misure alternative ai boss che non si sono pentiti e non collaborano con la giustizia.

La Consulta elimina la presunzione assoluta secondo cui chi non collabora è per forza ancora legato all’organizzazione. La sentenza certo ricorda i paletti (non basta “una soltanto dichiarata dissociazione” ci vogliono “altri, congrui e specifici elementi”) però la breccia nel muro del 4 bis è aperta. Diventano decisivi ora i pareri su Graviano che il Tribunale di Sorveglianza dovrà raccogliere in questi giorni dalla direzione del carcere, dalla Procura Nazionale Antimafia, dalla Procura Distrettuale e dal Comitato provinciale di sicurezza. Appare difficile che il Tribunale di Sorveglianza dia il via libera al ritorno del boss a Palermo ma non si può mai sottovalutare un Graviano. Filippo e Giuseppe sono gli unici boss ad avere avuto un figlio nel 1997, mentre erano reclusi in cella nel regime speciale. Filippo era l’uomo dei conti, mentre Giuseppe era la mente militare del clan. Quando Filippo ha parlato nei processi si è presentato come un costruttore innocente e in cella si è laureato in matematica. A leggere la sentenza 253 della Consulta si ha quasi la sensazione che il comportamento di Filippo Graviano negli ultimi anni sia ritagliato sull’identikit del dissociato da Cosa Nostra. La ‘dissociazione’ per i mafiosi non esiste nel codice. Una legge del 1987 invece concede una riduzione di pena e altri vantaggi ai terroristi che ammettano le colpe, abbiano comportamenti univocamente incompatibili con il permanere del vincolo associativo e ripudino la violenza. Nel 1997 Forza Italia cercò di far passare un disegno di legge che estendeva i benefici alla mafia. La semplice dissociazione senza accusare nessun complice è una scorciatoia comoda per la mafia che non è mai passata. Il collaboratore Gaspare Spatuzza ha raccontato che già nel 2004 nel carcere di Tolmezzo Filippo Graviano confidò al suo ex gregario che – se non fosse arrivato quel che doveva arrivare dalla politica – loro avrebbero dovuto dissociarsi. Filippo Graviano nega quella confidenza a Spatuzza però da una decina di anni si definisce dissociato con i pm. Il punto è che non ha mai fatto nemmeno quello che è previsto dalla legge del 1987 per i terroristi. A prescindere da dichiarazioni generiche sul rammarico per i suoi comportamenti passati, infatti, non ha mai raccontato nemmeno i suoi reati.

Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato ucciso secondo le sentenze su ordine dei fratelli Graviano e di altri boss, è andata due volte a trovare Filippo a L’Aquila in cella per convincerlo a un ravvedimento. A differenza del fratello Giuseppe, sicuro e spavaldo con la figlia del giudice ucciso, Filippo si è mostrato provato dalla detenzione e genericamente dispiaciuto per il suo comportamento passato. La sensazione è che Filippo Graviano sia il ‘pesce pilota’ di un’operazione più vasta. Per capire la posta in gioco è bene ricordare quel che è successo in Italia 29 anni fa. Prima delle stragi del 1992 i permessi ai boss non pentiti, in alcune circostanze, erano previsti. Poi, come sta scritto chiaramente nella sentenza della Corte Costituzionale n. 253 del 2019 “subito dopo la strage di Capaci del 23 maggio 1992, si produce un evidente mutamento di prospettiva, nettamente ispirato a finalità di prevenzione generale e di tutela della sicurezza collettiva”.

In Italia quindi c’è (o meglio c’era prima della sentenza della Corte) una norma scritta con il sangue di Falcone e Borsellino, secondo la quale Filippo Graviano quel permesso premio non può ottenerlo. L’articolo 4 bis, spazzato via dalla Corte Costituzionale, è scritto in un decreto approvato dal Governo dopo la strage di Capaci e diventato legge l’8 agosto, 20 giorni dopo la strage di via D’Amelio. Il boss che ora chiede il permesso grazie alla sentenza 253 è stato condannato per entrambe quelle stragi. Filippo Graviano è in cella dal 27 gennaio del 1994 quando fu arrestato insieme al fratello e alle attuali mogli a Milano. Con loro c’era un favoreggiatore palermitano che era salito sotto il Duomo per far giocare il figlio dodicenne al Milan. Un paio di anni prima il bambino aveva fatto un provino raccomandato da Marcello Dell’Utri. Addosso a una delle mogli fu trovato un cellulare e i Carabinieri scoprirono nel tabulato che su 14 telefonate totali ben tre erano intercorse con un telefonino intestato al presidente del circolo di Forza Italia del paese di Misilmeri. In quell’indagine a un certo punto fu arrestato Salvatore Baiardo, un gelataio di origini siciliane che aveva ospitato i Graviano a Omegna, sul lago d’Orta. Baiardo, alla Dia nel 1996, senza firmare alcun verbale per paura, raccontò qualcosa sui rapporti dei Graviano con Marcello Dell’Utri. L’ex senatore di Forza Italia è stato condannato per i suoi rapporti con la mafia fino al 1992 ma è stato assolto definitivamente per i fatti in questione. Anche perché nel processo di appello, nel 2009, Filippo Graviano fu interrogato e disse di non conoscere Dell’Utri.

Recentemente Salvatore Baiardo però si è fatto intervistare da Report e ha raccontato di avere accompagnato nel 1991 a un incontro a Milano i fratelli Graviano che si dovevano vedere con Marcello e Silvio Berlusconi. In passato Baiardo non è stato ritenuto attendibile dai pm di Firenze che indagano sulle stragi del 1993. Però le sue dichiarazioni seguono quelle del capo-mandamento di Brancaccio. Giuseppe Graviano, al processo ’Ndrangheta Stragista a Reggio Calabria ha sparato su Berlusconi sostenendo di averlo incontrato da latitante a Milano nel 1993. Poi ha depositato un memoriale nel quale accusa Berlusconi di avere fatto affari con la sua famiglia negli anni ‘70 e di non voler spartire i proventi. Dichiarazioni smentite radicalmente dai legali di Berlusconi, non riscontrate e poco credibili, che probabilmente vanno interpretate alla stregua di messaggi minacciosi. Graviano in carcere nel 2016 mentre parlava con il compagno di detenzione Umberto Adinolfi, diceva di considerare Berlusconi un traditore e voleva inviare un messaggio all’esterno del carcere attraverso un emissario che parlasse con un uomo vicino all’ex premier. Il collaboratore Gaspare Spatuzza ha raccontato che Giuseppe Graviano gli parlò nel gennaio 1994 di una sorta di accordo che avrebbe portato benefici a Cosa Nostra grazie a Berlusconi e Dell’Utri. La sentenza Dell’Utri non lo ritiene attendibile mentre la sentenza di primo grado del processo Trattativa sì. Di certo, da 27 anni, i fratelli Graviano sono in cella e il 41-bis è rimasto, più o meno, in piedi. Ora, dopo la sentenza della Corte costituzionale e dopo tutte le dichiarazioni scoppiettanti a Reggio di Giuseppe Graviano e di Baiardo a Report, Filippo chiede il permesso premio. Si dice dissociato. Basterà?

 

Fiat, operai in giubilo per l’arrivo dei padroni

Carlos Tavares e John Elkann vanno a visitare gli impianti di Mirafiori e Grugliasco e sul giornale di famiglia – La Stampa – è subito un riflesso fantozziano (“È un bel direttore!, un santo!”). La cronaca della calata padronale in fabbrica è sobriamente entusiasta già nel titolo: “Mirafiori accoglie Tavares e Elkann”. D’altra parte, l’amministratore delegato di Stellantis “ha voluto portare un messaggio positivo, non nascondendo le difficoltà ma sottolineando la necessità di darsi da fare”. Parole pregnanti, che hanno riscontrato l’unanime apprezzamento delle tute blu: “L’incontro – fa sapere La Stampa – ha messo d’accordo tutti i sindacati nel ritenere positiva la volontà di ascoltare i lavoratori”. Palpabile anche la fiducia nelle strategie di Tavares: “puntare sul marchio Maserati” e investire sull’elettrico. Certo, ci sarebbe quella faccenda degli operai francesi che guadagnano più degli italiani. Ma che volete fare? è quella “zavorra” del “sistema Italia”, il solito “fardello del cuneo fiscale” e poi “i costi generali che gravano sul costo finale dell’auto” (ce lo dice la Fim). Il resto sono quisquilie. Per la Fiom il piano industriale non basta, “non è sufficiente a saturare gli impianti torinesi”, ma La Stampa lo liquida in due righe, vuoi mica guastare il buonumore?

Contro i liberisti della giungla torna la lotta di classe

Mentre cominciavo a scrivere questo articolo m’è arrivata la solita email promozionale della Glovo, di cui sono utente: “Da Burger King la consegna è a 1 euro! Non fartela scappare, hai tempo fino al 7 marzo. Ordina ora. Te lo portiamo in sicurezza”. Che pacchia, solo 1 euro per la consegna di un pasto a domicilio… indovina chi ci rimette? Ecco una bella sfida per misurare quali scelte farà il governo Draghi in materia di mercato del lavoro. Sarei curioso di leggere sul Corriere della Sera

un commento del neo-consigliere del premier, Francesco Giavazzi, già coautore con il compianto Alberto Alesina del saggio intitolato Il liberismo è di sinistra

(Il Saggiatore, 2007). Sono passati quattordici anni dalla sua pubblicazione. Abbiamo verificato nel frattempo gli effetti dei vari provvedimenti di liberalizzazione del lavoro intermittente a chiamata e dei contratti a termine rinnovabili senza giustificativo. Con la pandemia Covid abbiamo poi constatato la funzione insostituibile assunta dalle micro-consegne nell’organizzazione della nostra vita segregata. Se prima i sociologi potevano parlare di “logistica del capriccio”, ora è chiaro che si tratta di una necessità vitale, sviluppatasi esponenzialmente, puntando con forza sull’abbuono dei costi di consegna (vedi la pubblicità di Glovo).

Chissà se, di fronte all’inchiesta avviata dalla Procura di Milano su quattro grandi aziende di food delivery

– con 700 milioni di multe comminate e la sollecitazione ad assumere i loro 60 mila lavoratori – si leverà dal fronte politico la solita accusa d’invasione di campo rivolta alla magistratura. O se invece verrà riconosciuto che, approfittando della giungla normativa, ha fatto comodo tollerare la formazione di quella che Luca Ricolfi definisce una vera e propria “infrastruttura paraschiavistica”. Fondata sullo sfruttamento dei più deboli, pagati a cottimo, subordinati al comando di un algoritmo insindacabile, in assenza di tutele antinfortunistiche, previdenziali e di orario. Proprio come nel caporalato agricolo.

La lotta contro l’arbitrio della gig economy

, l’economia dei lavoretti, spacciata come vantaggiosa opportunità per i giovani, si è scontrata con la condizione individuale dei loro rapporti di lavoro. Ma ciò non di meno, come agli albori del movimento operaio, la contraddistingue la sua portata internazionale. È dei giorni scorsi la sentenza della Corte suprema britannica che riconosce agli autisti Uber lo status di lavoratori dipendenti. Il governo conservatore di Boris Johnson sta facendo di tutto per evitare di trarne le conseguenze. E il governo italiano, come si regolerà? L’inchiesta milanese è il logico sviluppo di una serie di sentenze-pilota nelle quali già si era smascherata la falsa rappresentazione del rider

come lavoratore autonomo. Nel tentativo di attutirne gli effetti, Assodelivery ha stipulato un contratto-truffa col sindacato di destra Ugl (per nulla rappresentativo) e diffonde tramite la stampa compiacente testimonianze fantasiose di ciclofattorini che intascherebbero compensi da manager. È pure questo un ritorno alle forme primitive della lotta di classe. Ma qui sta il punto. I lavoratori oggi trovano tutela solo aggrappandosi a leggi ereditate dalle conquiste sindacali del passato: proprio quelle che – fingendo di credere che il liberismo sia di sinistra – diversi ministri, supertecnici e politici, han sempre dichiarato di voler “riformare”, cioè abolire.

Il telefono del povero Carlo

Sono giorniche ci pensiamo e non possiamo che concludere, come dovette ammettere pure Giuseppe Saragat, che il destino è davvero cinico e baro. Si parla qui dell’economista Carlo Cottarelli, un uomo schivo come tutti hanno avuto modo di vedere dacché ha concluso le sue fatiche al Fondo monetario internazionale. Prestato alla politica e subito ridato indietro nel 2018 (giusto i pochi giorni necessari a Sergio Mattarella per convincere Lega e 5 Stelle a fare un governo senza Paolo Savona al Tesoro), la sera fatale in cui Mario Draghi venne incaricato dal presidente della Repubblica di vedere se poteva formare un governo (ma aveva già visto…) il buon Cottarelli era ospite di Giovanni Floris su La7: “Mi raccomando tenga acceso il telefono”, gli raccomandò, premuroso, il conduttore. Due o tre giorni dopo, capitato – forse per caso – negli studi di SkyTg24, “tenga acceso il telefono e nel caso metta in viva voce”, lo apostrofò pure questo giornalista. Il sottotesto ci fu spiegato da un conoscente esperto di culture arcaiche, tra cui quella televisiva: Cottarelli doveva tenere acceso il telefono per poter rispondere alla sicura, sicurissima, chiamata di Draghi per un posto di ministro. Il destino però, come dicevamo, è cinico e baro e quel ministero non è arrivato: noi diamo per certo che Draghi la telefonata l’ha fatta, anche se magari avrà inizialmente trovato occupato per via di tutte quelle congratulazioni per il certissimo posto da ministro e si sarà un po’ indisposto, ma il risultato è che nella lista del governo dei migliori il povero Carlo non c’era. Va detto, e forse questa è la parte peggiore, che alla fine un posto lo avrà: una nota del ministero della Pubblica amministrazione ci informa che Cottarelli è uno degli esperti che collaborerà con Renato Brunetta. Uomo delle istituzioni qual è, il nostro avrà certo accettato la proposta del ministro, peraltro quasi premio Nobel, con entusiasmo, ma davvero la giustizia non è di questo mondo. Noi ce lo immaginiamo anche adesso quel telefono, sempre acceso, anche di notte sul comodino, accanto a un montaliano bulldog di legno, il cui ululo è lo stesso dello smartphone, muto.

Sala si salva l’anima con “Milano Mix”: la campagna verde

Le prime furono le tintorie, che tentarono di far dimenticare il loro utilizzo di prodotti tossici e inquinanti scrivendo sulle vetrine: “Lavanderia ecologica”. Poi venne, più in grande, la “benzina verde”, che ammorba l’aria e i polmoni solo un po’ meno della benzina che contiene piombo, ma è diventata “verde”. Infine fu inventata la parola per dirlo: greenwashing, cioè la strategia di comunicazione con cui proprio chi inquina si dice ecologico e si vanta come grande amico dell’ambiente. La realtà resta nera, ma il marketing è verde. Gli spot scoppiano di bimbi sorridenti, cieli limpidi e mari puliti. Un pubblicitario americano, Jerry Mander, la definì “ecopornografia”.

Eni, che poverina estrae e vende petrolio, mica petali di rosa, tenta oggi di farsi un’immagine verde con un’imponente campagna pubblicitaria in cui dice che “Eni + Silvia è meglio di Eni”. Perché Silvia chiude il rubinetto di casa e risparmia acqua. Ora è partita anche la campagna verde del Comune guidato da Giuseppe Sala: “Milano Mix”. Nessun argomento, nessun dato, nessun progetto, nessun impegno. Solo immagini carine, coppie di concetti illustrati da coppie d’immagini: api che ronzano e droni volanti, una testina stampante e una rosa che sboccia (“tecnologia/natura”), alti fusti d’albero e grattacieli urbani (“foresta/città”), pesci che nuotano nel mare e cupola della Galleria Vittorio Emanuele (“natura/città”), ruota di bicicletta che gira e oblò di lavatrice in movimento (“mobilità/energia”)… Messaggio finale: “Milano Mix. La transizione ambientale”. Bello. Rasserenante. Un Mulino Bianco metropolitano. Alla fine, ti resta l’impressione che sia inevitabile mischiare il verde e il nero, convivere con il nemico. Un veltroniano “ma anche”, in attesa che la città si salvi (o collassi) e che il pianeta sia salvaguardato (o muoia). Parola magica: “Transizione”. Termine centauro, ambiguo per definizione, ponte tra un passato da accettare e un futuro da sperare, ma che non si sa come conquistare e quanto lontano sia.

È l’espressione del momento: Mario Draghi ha fatto del ministero della Transizione ecologica (ancora tutto da definire) la carta jolly per convincere Beppe Grillo e i suoi ad appoggiare il nuovo governo. E Giuseppe Sala ha rivendicato di averci pensato prima lui, già nel luglio 2019, istituendo l’assessorato alla Transizione ambientale. Come Pippo Baudo: “L’ho inventato io!”.

In verità, a Palazzo Marino si fa fatica a trovare traccia del nuovo assessorato. Quando nel 2019 Pierfrancesco Majorino ha lasciato il suo assessorato alle Politiche sociali per andare al Parlamento europeo, il sindaco ha fatto una redistribuzione di deleghe, nominando nuovi assessori e accorpando le deleghe che avevano a che fare con l’ambiente: non assegnandole però a un assessore con una sua struttura, ma tenendosele lui nel cassetto. Un assessorato fantasma. Che ora però rivendica come un primato: “Il Comune di Milano — prima città in Italia — ha istituito nel luglio 2019 l’assessorato alla Transizione ambientale. Milano è inoltre la prima città del network globale C40 a vedere questa delega mantenuta direttamente dal sindaco, dato l’alto livello di priorità”. È lo stesso sindaco che sta dando il via alla cementificazione di immense zone della città, dagli scali ferroviari a San Siro, dove si costruirà con indici d’edificabilità superiori a quelli stabiliti dal Piano di governo del territorio. “L’alto livello di priorità” che cosa ha prodotto? Molte promesse, qualche firma nei consessi internazionali. E una campagna pubblicitaria — mentre è partita anche la campagna elettorale per la rielezione — con l’obiettivo di affermare l’anima verde di “Milano Mix”. Chissà che cosa direbbe Jerry Mander, tra greenwashing ed “ecopornografia”.

 

Ai collaboratori di giustizia si deve garantire l’anonimato

I collaboratori di giustizia rappresentano strumenti fondamentali nel contrasto al crimine organizzato, che continua a essere fortemente radicato. A far data dagli anni 80, l’apporto dei cosiddetti “pentiti” si è rivelato e continua a essere decisivo per arginare il potere mafioso e dei gruppi terroristici, per individuare i responsabili e i moventi dei delitti più efferati, per comprendere le strategie criminali, per sequestrare e confiscare beni di provenienza illecita, per la cattura dei latitanti, per scoprire covi e libri mastri che documentano le attività delle cosche. Ed è per questo che i collaboratori e i loro familiari sono stati bersaglio di vendette di ogni genere, molto spesso “trasversali”.

Fu l’assassinio del giudice Rosario Livatino, avvenuto il 21 settembre 1990, a scuotere il Paese e a rappresentare la causa determinante per far approvare il 15 gennaio 1991 la prima normativa sui collaboratori di giustizia. Una regolamentazione che ha dato dignità giuridica all’istituto, prevedendo uno “speciale programma” per proteggere e assistere economicamente chi collabora e i loro familiari. Al fine di consentire a costoro il reinserimento sociale e la possibilità di intraprendere una nuova vita, iniziando anche un’attività lavorativa, è stata prevista la possibilità, su richiesta degli interessati, di cambiare le generalità, garantendo la necessaria riservatezza. Il cambiamento delle generalità è stato oggetto di un’attenta disciplina specifica nel corso del tempo. Per decreto, sono attribuite alle persone ammesse allo speciale programma: nuovi cognome e nome, indicazioni del luogo e della data di nascita, degli altri dati concernenti lo stato civile, nonché dei dati sanitari e fiscali. È previsto, invece, che le risultanze del casellario giudiziario e del centro dati del ministero dell’Interno vengano trasferite alle nuove generalità attribuite ai collaboratori di giustizia: tali dati, però, impediscono l’attuazione dell’obiettivo del reinserimento sociale del collaboratore, dal momento che ogni datore di lavoro, per procedere all’assunzione di propri dipendenti, richiede il certificato del casellario giudiziario. Conoscere le imprese criminali compiute significa disvelare la vera identità dei collaboratori, vanificando lo scopo del cambio delle generalità, esponendo a nuovo pericolo il collaboratore di giustizia e i suoi familiari. Vi sono mafiosi che continuano a coltivare i propositi di vendetta verso chi li ha accusati o li ha fatti arrestare e che attendono di ritornare in libertà per attuare le loro ritorsioni. Occorre chiedersi, poi, quale imprenditore o pubblica amministrazione assumerebbe ex stragisti, assassini, estortori, rapitori, mafiosi o terroristi, pur sapendo che hanno collaborato ed espiato il loro debito con la giustizia.

Similmente, l’attuale normativa non assicura l’anonimato se un collaboratore viene fermato per strada e sottoposto a un normale controllo di polizia, come è già avvenuto. La verifica routinaria attraverso la banca dati dell’Interno fa emergere la sequela dei precedenti. Pensate cosa può accadere se un carabiniere si trova di fronte a un soggetto, che risulta aver commesso stragi, omicidi, estorsioni, che passeggia con persone e conoscenti ignari del suo passato: arrivo di pattuglie, trasferimento del collaboratore in ufficio di polizia per approfondire la situazione, disorientamento delle persone che si trovano in sua compagnia, compromissione della sua copertura… Sarebbe auspicabile una riflessione al riguardo: le collaborazioni con la giustizia vanno incentivate, soprattutto quelle in grado di colmare i vuoti di conoscenza sul nostro tragico passato e per far conoscere le attuali dinamiche criminali. E in tale prospettiva creare le condizioni per un reinserimento sociale effettivo dei collaboratori e dei loro familiari è un fattore fondamentale.