Il suo nome era circolato per la squadra di governo Draghi. Antonio Catricalà, morto ieri a Roma, aveva il profilo del perfetto civil servant nonostante avesse smesso i panni di gran commis di Stato sette anni fa per iniziare una seconda vita da avvocato, con un portafogli clienti ovviamente di peso: Mediaset nella guerra con Vivendi, e non solo, di fronte al Consiglio di Stato di cui avrebbe voluto diventare Presidente. Rammarico forse più grande del sostegno politico che gli mancò per un posto alla Consulta nel 2014. Prima di allora era stato viceministro allo Sviluppo economico con Letta, sottosegretario a Palazzo Chigi con Monti e segretario generale con Berlusconi, capo di gabinetto con D’Alema e Amato, presidente dell’Antitrust. Il 7 febbraio aveva compiuto 69 anni e da qualche giorno era entrato in uno stato d’ansia a causa di problemi cardiaci, come ha riferito la moglie che lo ha trovato sul balcone riverso sulla calibro 38 con cui si sarebbe tolto la vita. La Procura di Roma ha aperto un’inchiesta: l’ipotesi di reato è quella di istigazione al suicidio.
Chat Palamara: il Csm trasferisce il pm Mescolini
Primo trasferimento per incompatibilità ambientale scaturito dalle chat di Luca Palamara. Ieri il plenum del Csm, all’unanimità, ha deciso il trasferimento del procuratore di Reggio Emilia, Marco Mescolini, non solo da quella sede ma dall’intero distretto per le accuse, anche quando era pm alla Dda di Bologna, di essere di parte rispetto agli esponenti locali del Pd, con la conseguenza che è stata compromessa l’immagine di imparzialità e indipendenza. Per il trasferimento proposto dalla Prima commissione, relatore Nino Di Matteo, non hanno pesato solo le chat di Mescolini con Palamara nell’imminenza della nomina ma, soprattutto, un esposto di 4 pm del suo ufficio presentato dopo che il procuratore aveva mentito loro dicendo che Palamara “quasi non lo conosceva”. Hanno parlato di “procura in stato di abbandono”, “allo sbando”. Nella delibera si legge che i fatti contestati “hanno di per sé arrecato un vulnus all’immagine” della procura e la “credibilità” di Mescolini” è stata “fortemente deteriorata” non solo ” in un ambiente piccolo come quello reggiano” ma anche in tutto il distretto. “La compromissione della credibilità – scrive Di Matteo – non sarebbe attenuata da uno spostamento all’interno del medesimo distretto. Va, infatti, ricordato che il clamore mediatico ha riguardato anche fatti occorsi quando” Mescolini era pm a Bologna “e che è stata tratteggiata la figura di un magistrato che ha a cuore le sorti degli esponenti politici locali del Pd. Tale operazione di discredito, allo stato, mina fortemente la fiducia” dei cittadini. Mescolini, ieri, al plenum aveva detto: “Non credo di fare male il procuratore, non posso tollerare che si affermi che faccio il magistrato guardando i bianchi o i rossi. Vi chiedo di risparmiarmi questa onta”. Ma le testimonianze e due audizioni dello stesso Mescolni, in Prima, ritenute non convincenti, hanno portato il plenum al voto unanime per il trasferimento.
La Dia: “Le mafie proliferano grazie al Covid”
Un welfare mafioso più rapido ed efficace di quello dello Stato. È il quadro che emerge dalla relazione semestrale della Direzione Investigativa Antimafia, che analizza come le mafie abbiano modellato i loro affari adattandosi al meglio alla pandemia mondiale del Covid-19. A partire dalla ’ndrangheta, leader nei grandi traffici di droga e proiettata con forza nel Nord Italia, in Europa e in America, è riuscita a “intercettare le opportunità nei cambiamenti socioeconomici” mostrando “una grande duttilità e capacità di rimodulare il proprio paniere degli investimenti per massimizzare i suoi profitti”. Così si è infiltrata nel nuovo business della “fornitura di medicinali e attrezzature mediche”.
Per “accrescere il consenso”, vista la paralisi dell’economia, la camorra è stata in grado di fornire un “welfare porta a porta”. “Piuttosto che imporre le estorsioni – si legge nella relazione – i camorristi preferiscono entrare in società con gli imprenditori, costretti a diventare l’immagine pulita dell’attività economica”. I clan hanno avuto “un’espansione commerciale” rivolta “a rami societari collegati all’emergenza sanitaria causata dal Covid-19 attraverso l’acquisizione di lavori di sanificazione dei locali”.
Anche Cosa Nostra è riuscita a “muovere il denaro più velocemente rispetto ai circuiti creditizi legali”, ponendosi in “alternativa allo Stato nel sussidio e sostentamento alle imprese e famiglie”, fungendo da “ammortizzatore sociale”. La Dia registra nel primo semestre 2020 “un aumento del 30% di operazioni sospette”, nonostante l’economia italiana abbia subito “un rallentamento di circa il 10% del Pil”.
Le mafie agiscono “sottotraccia”, e nonostante diminuiscano le “attività criminali di primo livello”, tra cui traffico di droga, estorsioni, ricettazione e rapine; aumentano i casi di riciclaggio al Centro-Nord, mentre al Sud si segnalano “casi di scambio elettorale politico-mafioso e di corruzione”.
Il settore militare inquina quanto 14 milioni di auto
Emissioni di gas serra che producono una “impronta del carbonio” (indicatore ambientale che misura l’impatto delle attività umane sul clima) pari a quella di 14 milioni di automobili l’anno: è il contributo che il comparto militare dei Paesi Ue dà all’inquinamento del pianeta, almeno secondo stime che potrebbero essere tranquillamente al ribasso se si considera l’assenza di trasparenza sui dati. A elaborare un rapporto documentato, sistematico e preciso – sia nella raccolta delle informazioni esistenti che nell’individuazione dei loro punti deboli – è il gruppo Left (Gue/Ngl) del Parlamento europeo.
“I militari – rileva il rapporto – sono spesso esentati dal dichiarare pubblicamente le proprie emissioni di gas serra” magari per motivi di sicurezza nazionale. Non esiste una rendicontazione pubblica consolidata per le forze armate nazionali e nessun obiettivo di riduzione generale che includa le emissioni dei militari. Lo studio si è concentrato su Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Polonia e Spagna: l’impronta di carbonio della spesa militare dell’Ue nel 2019 sarebbe stata pari a circa 24,8 milioni di tonnellate di CO2, che equivale alle emissioni di circa 14 milioni di automobili medie. “Si è scoperto – si legge – che la Francia contribuisce a circa un terzo dell’impronta di carbonio totale per le forze armate dell’Ue” pari a 4,56 milioni di tonnellate di CO2 nel 2019. A seguire, la Germania con 3,12 milioni di tonnellate (18%) Spagna (11%) e Italia con 1,84 milioni di tonnellate (9%). Un altro importante contributor è la Polonia per via della sua rete elettrica basata sull’utilizzo del carbone. “Tra le società di tecnologia militare – si legge – PGZ (con sede in Polonia), Airbus, Leonardo, Rheinmetall e Thales sono state giudicate quelle con le emissioni più elevate. Alcune società di tecnologia militare non hanno pubblicato i dati sulle emissioni, inclusi MBDA, Hensoldt, KMW e Nexter”. Il settore, però, è uno dei più proliferi nelle emissioni di carbonio. “La sicurezza nazionale è stata spesso citata come motivo per non pubblicare i dati. Tuttavia, dato l’attuale livello di dati tecnici, finanziari e ambientali già pubblicamente disponibili sugli eserciti delle nazioni dell’Ue (e di altre), questo è un argomento non convincente”.
Il trend, poi, non sembra essere in diminuzione, anzi. Negli ultimi anni la spesa militare è aumentata e con essa anche le conseguenti emissioni. Nel 2018 per i primi sei Stati membri dell’Ue si è passati dallo 0,9 per cento all’1,8 per cento di risorse spese in relazione al Pil. “Dati provvisori per il 2019 e il 2020 hanno mostrato aumenti significativi per molti Paesi, in linea con l’avvicinamento all’obiettivo di spesa della Nato di almeno il 2 per cento del Pil”, un obiettivo concordato tra i Paesi che ne fanno parte e il cui “rinnovato perseguimento è principalmente in risposta alle pressioni degli Stati Uniti, in particolare dell’Amministrazione Trump”. I soli Paesi della Nato coprono più della metà della spesa militare globale con i loro 162 miliardi di euro, mentre quella russa sarebbe di 50 miliardi di euro, quella statunitense intorno ai 561 miliardi. E l’Italia? La spesa si è assestata intorno ai 21 miliardi di euro l’anno, con una crescita del 14 per cento dal 2014. Anche il nostro piano energetico, redatto nel 2019, non fa riferimento alle emissioni del comparto militare nonostante qualche strategia sia stata messa a punto, soprattutto per quanto riguarda gli edifici. Di buono c’è che alcune delle principali aziende produttrici di tecnologie militari in Italia pubblicano dati dettagliati sulle proprie emissioni. “Queste cifre mostrano che Leonardo ha le maggiori emissioni di gas serra legate al settore militare in Italia” (183mila tonnellate di Co2). In Fincantieri, unica che ha stimato la propria impronta di carbonio, “l’l’impronta per dipendente è di 42,7 tonnellate di CO2, più di cinque volte il livello delle emissioni dirette, a dimostrazione della natura ad alta intensità di carbonio del settore e della sua catena di fornitura”.
S.o.s. clima, 2034: l’anno in cui la Terra rischia tutto
C’è un’applicazione con lo scopo di far capire a chiunque quanto stia andando pericolosamente veloce la corsa del surriscaldamento globale: basta connettersi al sito cds.climate.copernicus.eu e cliccare sul cursore del Global temperature trend monitor per sincerarsi di quando il pianeta Terra sta rischiando di arrivare all’appuntamento con il valore soglia di 1,5° C in più e per scoprire che se la situazione rimane quella attuale la data fissata è il 2034, tra appena tredici anni. “L’applicazione quindi permette di spostare il tempo indietro e chiedersi quando si sarebbe raggiunto il limite se il riscaldamento fosse continuato come un periodo di 30 anni nel passato”, spiega il fisico Alessandro Amici della B-Open, azienda che ha curato la realizzazione tecnica dell’app e che sviluppa anche la piattaforma software per il monitoraggio del pianeta proprio per il Climate Change Service di Corpernicus (programma gestito per conto della commissione Ue). Spostando il cursore con il mouse si scopre che, ad esempio, il 31 dicembre 2015 l’andamento indicava il superamento del limite nel marzo 2045. E il 31 dicembre 2008 addirittura nel luglio 2051. “Questa apparente accelerazione del riscaldamento globale – rileva Amici – è nota a chi studia il cambiamento climatico, ma è difficile da rendere intuitivo e quindi reale per il grande pubblico. Sarà aggiornata ogni mese con i nuovi dati per permettere a tutti i cittadini di percepire che il clima è un problema urgente, come e più del coronavirus”.
Oltrepassare il valore soglia di 1,5 gradi potrebbe avere conseguenze estremamente negative per il pianeta, non solo quelle macroscopiche come un’accelerazione della desertificazione o dello scioglimento dei ghiacci, ma anche riverberarsi su molti aspetti della vita comune più immediata all’apparenza, come la qualità del vino o il rendimento delle centrali termiche. “Tutti gli studi a nostra disposizione dimostrano come le conseguenze negative siano straordinariamente superiori rispetto ai benefici del surriscaldamento globale: è necessario cambiare rotta e adesso abbiamo uno strumento che mostra a tutti la strada che stiamo percorrendo”: a parlare è l’ideatore dell’applicazione, Carlo Buontempo, 48 anni, da quasi due anni direttore del Climate Change Service dove è approdato nel 2016 dopo undici anni trascorsi al Servizio meteorologico inglese. Lo scopo principale del Climate Change Service è proprio quello di produrre informazione climatica gratuita, accessibile e di grande qualità.
Ma come si fa a invertire la rotta? “La parte più significativa del problema è legata alle emissioni dei gas serra”, risponde Buontempo, quindi ogni nostra azione è un mattoncino per la causa. La scelta di un’auto ibrida, ma anche semplicemente gonfiare le gomme della propria vettura, sono pratiche che portano a un livello di efficienza energetica maggiore e contribuiscono a posticipare l’appuntamento del pianeta col valore soglia di 1,5 gradi attualmente fissato al 2034. Poi ci sono le scelte politiche macro e nessuno in epoca recente è andato contro le evidenze scientifiche come l’amministrazione americana di Donald Trump negli ultimi quattro anni: “Gli Stati Uniti, tra la fine del mandato di Barack Obama e l’elezione di Joe Biden, hanno fatto davvero tutto quel che potevano – racconta dal suo punto di osservazione privilegiato Buontempo – per contrastare non soltanto i nostri dati, ma in generale la scienza. Credo che ognuno abbia diritto di trarre delle conclusioni politiche anche contrastanti, ma nessuno ha il diritto di modificare i fatti fino alla produzione di fake news”. E il gigante cinese sempre al centro di critiche per la scarsa considerazione riservata all’ambiente? “La Cina in realtà ha cambiato molto il proprio approccio a questi temi – spiega ancora Buontempo – passando negli ultimi 15 anni da un iper sviluppo non sostenibile a riconsiderare moltissimo le proprie politiche”. Certo la Repubblica popolare rimane molto lontana dagli standard europei: “Noi siamo assolutamente l’avanguardia mondiale per capacità tecnico-scientifica e servizi per società e imprese, pensate – afferma Buontempo – alla fornitura di servizi climatici per il rischio meteorologico: siamo anche in grado come pochi altri al mondo di adattarci ai cambiamenti in corso apportando correttivi, mentre fino a poco tempo fa anche qui si guardava solo ai precedenti storici rispetto a fenomeni potenzialmente dirompenti”.
Ma l’Europa “subisce anche le conseguenze indirette del cambiamento climatico come la diffusione di infezioni che incidono negativamente sulle catene di approvvigionamento, le minacce alla stabilità e sicurezza internazionali o alla migrazione”: questa è l’analisi contenuta nel nuovo documento Adaptation to Climate Change: Blueprint for a new, more ambitious Eu Strategy presentato ieri dall’Unione europea che insiste sulla necessità di “ricostruire meglio”, dopo la pandemia, aggiungendo che “la ripresa è un’opportunità per aumentare la resilienza della nostra società, e soprattutto in relazione agli impatti climatici”. E allora, oltre a ridurre le emissioni nel medio termine, adottare una strategia di adattamento ai cambiamenti climatici nel breve è necessario perché “le perdite economiche dovute a condizioni meteorologiche estreme e legate al clima sono in media già di 12 miliardi di euro l’anno”.
Con l’applicazione Global temperature trend monitor nel frattempo ogni cittadino può adesso vedere come piccole abitudini quotidiane e macro scelte della politica stanno aiutando ad allontanare o, al contrario, ad avvicinare l’anno dell’impatto col temuto valore soglia di 1,5 gradi. Sono passate d’altra parte alla Storia le parole pronunciate da Barack Obama, presidente in carica, nel 2015: “Non c’è sfida che ponga una minaccia più grande alle generazioni future del cambiamento climatico. Il Pentagono sostiene che il cambiamento climatico ponga rischi immediati alla nostra sicurezza nazionale: dobbiamo agire di conseguenza”. E poi venne Trump.
Mascherine cinesi, Benotti interdetto dai pubblici uffici
Il trader ecuadoriano Jorge Solis ai domiciliari. Il giornalista Mario Benotti, la sua compagna Daniela Guarnieri, l’imprenditore Andrea Tommasi e l’avvocato Georges Khouzam interdetti ai pubblici uffici e agli incarichi direttivi in imprese private. Ieri sera la Guardia di Finanza ha eseguito le misure nei confronti dei broker indagati dalla Procura di Roma per traffico di influenze illecite. Le richieste al gip risalgono al mese di dicembre. L’inchiesta riguarda gli 801 milioni di mascherine che lo Stato italiano ha acquistato a marzo 2020 dalla Cina per oltre 1,2 miliardi di euro. Per gli inquirenti, gli intermediari hanno sfruttato la conoscenza fra Benotti e il commissario straordinario per l’emergenza Covid, Domenico Arcuri, ottenendo il pagamento dai fornitori cinesi di provvigioni pari a circa 77 milioni di euro. Intermediazioni mai contrattualizzate dalla struttura commissariale.
Le misure – annotano i pm nell’ordinanza di custodia cautelare – sono giustificate dalla “estrema spregiudicatezza mostrata dagli indagati nello svolgimento dei ruoli societari”. Se continuassero a operare, gli indagati potrebbero “commettere illeciti analoghi”. Per il giornalista, già collaboratore a Palazzo Chigi ai tempi dei governi Renzi e Gentiloni, la Procura aveva chiesto i domiciliari, misura respinta dal gip. L’indagine prende le mosse da una segnalazione di operazioni sospette (Sos) emessa il 31 luglio 2020 da Bankitalia. Il fascicolo, iscritto il 24 settembre per corruzione, vedeva indagati anche Arcuri e due suoi collaboratori, ma per tutti e tre è già stata chiesta l’archiviazione. Nei prossimi giorni, i destinatari della misura cautelare saranno interrogati a piazzale Clodio.
Classi pollaio, mobilità e rischio Dad: Bianchi alla prova dei sindacati
“Bene, ma ora…”: iniziano con queste parole quasi tutti i resoconti dei sindacati della scuola dopo il primo colloquio con il neo ministro all’istruzione, Patrizio Bianchi, arrivato mentre in Veneto si diffondeva la notizia, poi smentita dal governatore Luca Zaia, che ci fosse un ritorno alla didattica a distanza e mentre Michele Emiliano in Puglia confermava il ritorno in Dad nonostante lo stop del Tar.
In Viale Trastevere, dove sarebbe stato chiesto di proporre rapidamente, anche nel giro di poche ore, idee per riformare la scuola nei prossimi sei mesi, il ministro, che impensierisce in parte il Pd per la sua propensione a essere lontano dalla discrezione richiesta da Mario Draghi (come testimonia l’intervista rilasciata a Repubblica il giorno dopo la sua nomina) ieri ha incontrato i sindacati.
“Bene, ma ora…” ha un valore specifico: la frase prosegue di solito con l’elenco delle priorità messe sul tavolo delle varie sigle. In una brutale sintesi, significa che non c’è alcuna intenzione di iniziare una guerra, a patto che le proprie istanze siano ascoltate e/o accolte e/o risolte con un livello di compromesso accettabile. Orientamento che sembra essere confermato. Il potenziamento degli organici, quindi l’aumento dei docenti, è ad esempio una istanza trasversale: potrebbero servire per diminuire il numero di alunni per classe mettendo fine alle classi pollaio e ad assicurare quella “scuola in sicurezza” tanto richiesta. Ma da un lato le prime circolari che stanno arrivando sulle piante organiche del prossimo anno non sembrano prevedere grosse differenze e dall’altro è apparso chiaro che i soldi del Recovery Fund non possano essere usati per assumere, trattandosi di fondi per investimenti e non per spese strutturali. La risposta è stata “apriremo un tavolo di approfondimento tecnico su reclutamento, formazione continua e sul tema della mobilità”. Uno degli esiti potrebbe essere l’accoglimento di un iter più veloce per assumere i precari, accogliendo così le istanze di sanatoria. La mobilità è l’ altra nota dolente. I rappresentanti chiedono che sia tolto il blocco dei 5 anni nello stesso posto i docenti prima di poter chiedere il trasferimento, strenuamente difeso dalla ex ministra Azzolina, per garantire la continuità scolastica. Anche su questa decisione si avrà prova della pasta del ministro. C’è poi “un gruppo di lavoro” su “tempi e luoghi della scuola e sul modello operativo per recuperare i gap di socialità e apprendimento individuale dovuti alle condizioni straordinarie in cui si è svolta la didattica nel corso dell’ultimo anno scolastico”.
Servirà, anche perché le prospettive di chiusura non sembrano abbandonare i governatori. È vero che Zaia non ha pubblicato alcuna ordinanza, ma ieri sono stati diffusi i numeri dei contagi in tutti gli istituti della Regione. In Puglia, invece, si tira dritti. Chiudere potrebbe ora diventare più semplice, dal momento che il recupero delle ore sarà affidato alle singole realtà scolastiche, come d’altronde chiedono i sindacati che, per il momento, hanno segnato il loro primo punto.
Bertolaso “dirotta” vaccini su Brescia e li leva agli anziani
Da domani verranno vaccinati “prioritariamente” circa 24 mila cittadini, di età compresa tra i 60 e i 79 anni, nei Comuni al confine tra Bergamo e Brescia, per creare un “cordone sanitario” e contenere il contagio in quelle zone ostaggio delle varianti (ieri solo a Brescia i contagi hanno toccato quota 901, quasi raddoppiati in 24 ore).
Così la Regione Lombardia rimodula la sua strategia vaccinale anti-Covid: lo ha annunciato ieri il responsabile della campagna Guido Bertolaso, dopo la presentazione del piano aggiornato dalla vicepresidente e assessora al Welfare Letizia Moratti. L’obiettivo è “fare circa 4.000 inoculazioni al giorno in modo da chiudere entro 5-6 giorni”, ha detto Bertolaso. E come raggiungere l’obiettivo? Tagliando dosi al personale e ai pazienti delle Rsa.
Lo schema è semplice: siccome i vaccini a disposizione non sono sufficienti, Bertolaso ha deciso che, da una parte, darà fondo alle riserve accantonate per le seconde somministrazioni (circa il 30% delle forniture), perché le seconde dosi potrebbero farsi con un intervallo di tempo maggiore rispetto ai 20-21 giorni previsti. Dall’altra, che “toglierà” i vaccini a qualcuno: “Probabilmente dovremo rallentare la somministrazione della cosiddetta fase 1Bis (che comprende sanitari e residenti delle Rsa, ndr), dove tutto sommato ci sono categorie che non sono le più a rischio”, ha detto proprio così.
Il problema è che la fase 1Bis è tutt’altro che conclusa. Sono ancora molti i sanitari e gli ospiti delle Rsa che attendono la prima, o la seconda dose. Tra questi, personale e ospiti della Residenza Sacra Famiglia di Cesano Boscone, la struttura tanto cara a Silvio Berlusconi, tanto da essere scelta per il periodo di affido ai servizi sociali. Lì infatti dal maggio 2014 a marzo 2015 trascorse 4 ore alla settimana cantando e suonando il piano per i malati di Alzheimer.
E proprio lì, ieri, i dipendenti e i pazienti hanno ricevuto una lettera della direzione la quale “con rammarico” comunicava “che in data odierna l’Asst Rhodense ci ha informato della sospensione immediata delle dosi di vaccino sia per gli ospiti che per i dipendenti delle sedi di Cesano, Settimo e Inzago”. “Questa brusca interruzione – si legge ancora – ci costringe a sospendere già da domani (oggi, ndr) la somministrazione del vaccino ai nostri ospiti e a tutto il personale. Speriamo si possa riprendere il prima possibile la campagna vaccinale”.
Nella conferenza stampa di ieri, Bertolaso ha svelato anche un altro mistero: interrogato sul perché in Lombardia si sia usato solo il 20% delle dosi del vaccino AstraZeneca, il commissario ha risposto che la responsabilità è dei lombardi, “che si sono inventati ogni tipo di patologia pur di non avere quel vaccino”.
Del resto, se martedì 23 febbraio in tutta la Regione sono stati vaccinate solo 10.291 persone (6.134 under 80 + 4.157 over), e se a Brescia – zona arancione scuro – gli anziani vaccinati sono stati solo 82, un motivo ci deve pur essere. Ora sappiamo che il sospettato principale non è la Regione con la sua campagna-flop, ma la ritrosia dei lombardi verso AstraZeneca…
E sempre a proposito dei numeri delle vaccinazioni in Lombardia, Matteo Salvini, ospite martedì sera su Rai3 a #Cartabianca, ha ricordato come “l’ottimo Guido Bertolaso, che ho sentito prima di venire in studio – e che ieri il leader della Lega ha riproposto per la corsa a sindaco di Roma –, mi ha detto che lui in Lombardia fa 15 mila vaccini al giorno, ma potrebbe arrivare a 50 mila al giorno se il governo gli desse le dosi”. Aggiungendo: “Se al posto di Arcuri ci fosse Bertolaso, questo sarebbe il risultato nazionale.
In realtà, però, la Lombardia ha superato quota 15 mila vaccini al giorno solo tra l’11 e il 16 gennaio (prima dose) e tra il 2 e il 5 febbraio (seconda dose). Negli altri giorni, ha sempre vaccinato ben al di sotto di quella soglia. Basti pensare che il 18 febbraio, primo giorno di vaccinazione per la platea da 720 mila over 80, le dosi somministrate sono state appena 13.200. Era la prima giornata di vaccinazione di “massa”.
AstraZeneca, verso nuove regole “Basta scorte: rinviare i richiami”
Al ministero della Salute, di fronte agli ulteriori ritardi nelle consegne, sono orientati a raccomandare la seconda dose del vaccino AstraZeneca anche a più di tre mesi dalla prima. Per consentire alle Regioni di evitare scorte e accelerare il piano vaccinale. È il modello britannico, validato anche da un articolo dalla prestigiosa rivista Lancet secondo il quale il richiamo dopo 12 settimane (tre mesi appunto) ha un’efficacia dell’81,3% contro il 55% con la secondi dose in 6 settimane. Studi delle università di Edimburgo e Glasgow danno conto di una forte protezione, almeno per tre mesi, anche dopo una sola somministrazione. Insomma, se mancheranno le dosi, il rischio potrebbe essere minimo. L’hanno già corso in Gran Bretagna, di fronte a un aumento esponenziale dei contagi che ora si è ridotto anche grazie al lockdown. Ipotizzava 4 mesi tra le due dosi, già a metà gennaio sul Corriere della sera, il professor Giuseppe Remuzzi, farmacologo di fama internazionale e direttore dell’Istituto Mario Negri. Il protocollo italiano prevede tre mesi, per andare oltre bisogna cambiarlo.
AstraZeneca ha scritto ieri che farà “tutto il possibile” per consegnare 5 milioni di dosi entro marzo all’Italia, ma non ha smentito la notizie di un dimezzamento delle forniture previste per il trimestre aprile-giugno. Per noi sarebbero 11 milioni di dosi in meno: oltre cinque milioni di persone, considerando due dosi. E proprio su AstraZeneca il governo punta per rimediare alle insufficienti forniture di Pfizer/Biontech e Moderna. Questi ultimi vaccini saranno riservati agli over 80 e ai circa due milioni di italiani affetti dalle patologie più gravi. Ma ci vorrà una Conferenza Stato-Regioni per formalizzare il passaggio e quello già faticosamente definito dall’Aifa sulla somministrazione di Astrazeneca ai 56/65enni (fin qui era “consigliato” solo sotto i 55 anni).
Europa Draghi sente michel L’Ue vuole correre ai riparti
Si tratta poi di accelerare la campagna, che va a rilento in molte Regioni. E di mettere in campo una nuova strategia Ue: ieri Mario Draghi, in vista del Consiglio europeo, ha parlato con Charles Michel, l’ex primo ministro belga che guida l’organismo e si è detto “felicissimo” di lavorare di nuovo con l’ex presidente della Bce. Non ci sono conferme che tra i temi in discussione ci sia l’ipotesi di limitare le esportazioni fuori dall’Ue di vaccini prodotti sul suo territorio.
Il ministro della Salute Roberto Speranza ha confermato al Senato e alla Camera la linea del governo: “Prudenza, non è ancora il momento delle riaperture”. Ha criticato anche la “proprietà esclusiva dei brevetti” dei vaccini. Maggioranze schiaccianti: 235 sì e 23 no a Palazzo Madama, 359 sì e 27 no a Montecitorio. Eppure sembrava di sentire lo Speranza del Conte 2: “L‘Rt si avvia a superare la soglia di 1”. È certo, domani lo sapremo ufficialmente. Del resto i contagi aumentano (+16% negli ultimi 7 giorni, +40% in Lombardia) e cinque Regioni sono sopra la soglia del 30% nelle terapie intensive (e altrettante vedono aumentare i malati gravi). Sono le varianti inglese, brasiliana e sudafricana che preoccupano: si moltiplicano le zone rosse locali. L’unica nuova concessione ai partiti che chiedono “discontinuità” e “aperture” è quella del lunedì: le ordinanze che decidono i colori delle Regioni non entreranno più in vigore la domenica ma il lunedì, in modo da evitare stress a metà weekend quando si passa dal giallo all’arancione come accadrà a diverse Regioni alla fine di questa settimana. Draghi vuole che le misure siano note per tempo. A breve il nuovo Dpcm, durerà fino a Pasqua.
Mentre il ministro della Salute difendeva le chiusure, il ministro della Cultura e capodelegazione Pd Dario Franceschini perorava al Cts la causa della riapertura “a fine marzo” di teatri, cinema e sale da concerto. Esperti divisi: i dirigenti della Salute e il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro contrari; più favorevoli alcuni professori, accusati dai colleghi di eccessiva sensibilità alla richiesta di un politico potente. Parere rimandato a domani.
Matteo ha un problema: il suo “amico” americano ce l’ha con quello di Riyad
“Io prendo l’impegno: pronto a discutere con tutti i giornalisti in conferenza stampa dei miei incarichi istituzionali, delle mie idee sull’Arabia Saudita, del futuro della pace di Abramo, del Medio Oriente, ma lo facciamo la settimana dopo la crisi di governo”. La crisi e passata, il governo Draghi è stato formato. Ed è trascorso quasi un mese dal 29 gennaio scorso quando Matteo Renzi dava la sua parola: di lì a poco avrebbe spiegato tutto sulle conferenze in Arabia Saudita finite al centro delle polemiche. Quegli incontri durante i quali l’ex premier, davanti al principe Mohammed bin Salman, definiva l’Arabia come terra del nuovo Rinascimento.
Ora il silenzio di Renzi sui suoi rapporti con MbS come tutti chiamano il 35enne e potentissimo principe regnante, potrebbe diventare insostenibile. Già quando Renzi a fine gennaio è volato a Riyad per parlare del meraviglioso mercato del lavoro saudita disponeva di molti elementi che gli avrebbero dovuto consigliare di tacere. Renzi sapeva che quel principe al quale lui sorrideva sul palco era stato tirato in ballo in un rapporto degli esperti dell’Onu, guidati da Agnes Callamard. Dopo sei mesi di investigazione e dopo avere avuto accesso alle registrazioni realizzate dalla Polizia turca, l’inviata speciale delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extra-giudiziarie aveva bollato il delitto di Jamal Khashoggi come “un’esecuzione deliberata e premeditata”. Il giornalista dissidente fu ucciso il 2 ottobre del 2018 nell’ambasciata di Riyad a Istanbul. Secondo Callamard, “non ci sono conclusioni sui colpevoli” ma “prove credibili, che richiedono ulteriori indagini, sulle responsabilità individuali di funzionari sauditi di alto livello, compreso il principe ereditario”.
Non era una sentenza certo. Però bastava come invito alla prudenza. Invece Matteo Renzi ha accettato l’invito a far parte come membro del Board di un istituto del Regime Saudita, il FII, e ha accettato di essere retribuito 80 mila dollari all’anno per il suo impegno. Il Future Investment Iniziative organizza la cosiddetta Davos nel deserto, l’evento che si tiene a Riyad dal 2018 e al quale partecipano imprenditori, pensatori ed ex politici per parlare del futuro.
Renzi è andato a parlare sul palco con MbS all’edizione del gennaio 2021 anche se già nel novembre del 2018, il Washington Post, giornale con il quale collaborava Jamal Khashoggi, aveva pubblicato un articolo sul rapporto della Cia relativo all’omicidio. All’epoca Donald Trump aveva definito ‘premature’ le conclusioni che tiravano in ballo anche MbS . Ora però, secondo la piattaforma di news americana Axios, ci sarebbe una novità: il presidente Joe Biden – che Renzi ha sempre definito suo amico personale – si accinge a comunicare direttamente al padre di Mohamed Bin Salman, quel che sta scritto sul figlio nel rapporto. Per Axios il rapporto “dovrebbe coinvolgere uno dei figli del monarca”. Si tratterebbe di “un documento non classificato prodotto dall’ufficio del direttore dell’intelligence nazionale”. Dovrebbe essere rilasciato oggi e dovrebbe sostenere che “il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman sia stato coinvolto nell’omicidio e nello smembramento di Khashoggi presso il consolato saudita a Istanbul nel 2018”. Se Axios non sbaglia, la scelta di Renzi di restare nel board di FII Institute risulterebbe ancora più imbarazzante. Il FII Institute, secondo il suo presidente Richard Attias, è una fondazione saudita creata all’inizio del 2020 per decreto del re dell’Arabia Saudita, Salman bin Abd al-Aziz Al Saud. Renzi nell’intervento registrato a Riyad disse a Mohamed Bin Salman: “Non sono solo l’ex primo ministro, sono anche l’ex sindaco di Firenze, la città del rinascimento”. Quei ruoli passati e quello attuale di senatore e leader di Italia Viva impongono di dare qualche risposta.