L’America accusa Bin Salman Biden “avvisa” l’alleato saudita

Squilla il telefono: Joe Biden chiama re Salman. Tace il telefono: da quando alla Casa Bianca non ci sono più Donald Trump e il ‘primo genero’ Jared Kushner, l’uomo d’affari ebreo dietro le scelte Usa per il Medio Oriente, il principe ereditario Mohammed bin Salman, aspetta invano una chiamata. Che non arriverà: non è più lui il mandante – non solo morale – dell’assassinio di Jamal Khashoggi, l’interlocutore privilegiato degli Stati Uniti in Medio Oriente. E l’amico magnate se n’è andato senza concedergli quello che lui gli aveva chiesto – né avrebbe potuto farlo –: una sorta di ‘salvacondotto’ per i delitti di cui possa essersi reso responsabile perseguibili dagli Stati Uniti. Ieri, Biden ha chiamato re Salman, 85 anni e malandato, per metterlo sull’avviso: oggi verrà diffuso un rapporto dell’intelligence degli Usa che conferma il coinvolgimento di MbS nell’assassinio e nello smembramento dell’oppositore dissidente, giornalista e analista del Washington Post, ucciso il 2 ottobre 2018 nel consolato saudita di Istanbul, dove era stato attirato con l’inganno. L’intelligence turca era già giunta alla stessa conclusione, indagando per conto suo.

L’eliminazione di Khashoggi, che era stato caporedattore di Al Arab News Channel e che aveva poi trasformato il quotidiano saudita al-Watan in un punto di riferimento per i sauditi progressisti, salvo poi lasciare il Paese sentendosi insicuro, suscitò un’ondata di sdegno internazionale, ma non smosse l’atteggiamento di Trump verso il regime saudita e in particolare verso MbS, cui il magnate si rifiutò sempre d’attribuire responsabilità nell’accaduto. Axios, il sito che ha ieri anticipato i contenuti del rapporto, nota che “il documento, non classificato e prodotto dalla direzione della National Intelligence, indica che il principe ereditario è coinvolto” nell’efferato omicidio. Altro particolare rivelato dalla Cnn: i due jet privati utilizzati dalla squadra di sicari sauditi per uccidere il dissidente a Istanbul appartenevano a una compagnia che era stata rilevata da Bin Salman meno di un anno prima. La notizia sarebbe emersa da una vicenda giudiziaria che si sviluppa in Canada. La telefonata di Biden a re Salman è stata la prima da quando il neo presidente s’è insediato alla Casa Bianca, oltre cinque settimane or sono. Un doppio segnale inconfutabile: c’è la scelta di avere come interlocutore il monarca e non il principe; e c’è la volontà di ricalibrare la relazione con Riyad forse anche in vista di una ripresa del dialogo sul nucleare con Teheran. Arabia saudita e Iran sono le due potenze regionali rivali: si contendono l’egemonia nell’area e l’influenza sui Paesi della zona, in particolare l’Iraq e la Siria, ma pure il Libano e quella che sarà la Palestina. Il cambio di passo di Washington verso Riyad era già parso evidente: l’Amministrazione Biden ha infatti imposto uno stop alle vendite di armi a Riyad; e ha declinato l’appoggio degli Usa alla guerra in Yemen, dove i sauditi appoggiano il governo sunnita contro gli insorti Huthi sciiti sostenuti dall’Iran.

“Con l’ex premier si può vincere”

Un interno al Pd senza essere interno al partito. Così si definisce Massimiliano Smeriglio, europarlamentare indipendente che ha costruito gran parte della sua vita politica al fianco di Nicola Zingaretti, come suo vice alla Provincia di Roma e poi alla Regione Lazio.

Cosa pensa della crisi che sta avvolgendo il Pd?

Penso che Zingaretti e Bettini abbiano fatto bene ad alludere a un percorso congressuale. C’è bisogno di ritrovare identità e questione sociale. Non si tratta tanto di discutere dei 5Stelle o delle alleanze, ma di definire il proprio quadro di valori.

Ma lei sostiene comunque un’alleanza con i 5Stelle?

L’alleanza Pd-M5S e Sinistra rappresenta un rapporto virtuoso per tutti. Necessario per evitare che l’estrema destra vinca a piene mani. È virtuoso perché ci si cambia reciprocamente. Ma il Pd deve pensare a una propria rigenerazione. Anche per evitare di essere un Crono che mangia i propri segretari come figli.

Rigenerazione per fare cosa?

Penso che nel breve termine ci sarà uno smottamento politico importante anche peggiore di quello del 2011 con il governo Monti. Questo governo, che gode di un insopportabile unanimismo con un rischio di revanche delle élite e contro un governo promettente e interessante come quello Conte, può produrre un balzo in avanti delle culture reazionarie. Temo molto questo esito.

Quindi?

In questo smottamento, se le tre identità di cui sopra tengono un rapporto su alcuni punti, anche riformando la legge elettorale per dare espressione alle varie culture politiche, si può reggere a questo urto. In questo rimescolamento bene ha fatto Sinistra italiana a esprimere un no di sinistra. Quello spazio va curato e coltivato, anche nel mantenimento di un rapporto con il M5S.

Lei ha parlato di una funzione di Conte.

Spero che la svolga mettendosi a disposizione di un’alternativa con una sua forza propria a carattere progressista ed ecologista. Ma va bene anche se farà il leader della coalizione o se si mette a capo dei 5Stelle. Resta un collante importante e una figura politica di cui questo campo dispone. E stare fuori dal Palazzo è una scelta positiva.

Che dice della ipotesi del M5S nel gruppo Socialisti e democratici in Europa?

È più di un anno che lavoriamo insieme con il M5S. Io sono favorevole, anche perché nel gruppo europeo si rimane distinti, come dimostra la presenza di Azione di Carlo Calenda. Ma comunque è una cosa seria e andrebbe discussa a fondo. Tra i 5Stelle e anche nel Pd.

Conte cerca sponde nei 5S Espulsioni, guai per Crimi

L’avvocato che ha voglia di provarci fa già la conta degli amici, consulta big e veterani, raccoglie e scambia idee. Ma se ha davvero intenzione di caricarsi sulla spalle i Cinque Stelle Giuseppe Conte dovrà sbrigarsi. Perché ogni giorno che passa il Movimento si sfalda sempre di più, sfiancato da guerre tribali, assediato perfino dai tribunali che ora rischiano di cancellare le espulsioni e vorrebbero nominare un curatore speciale per il M5S, prima che arrivi l’avvocato Conte. Chissà come e quando il Movimento potrà uscire da un inferno di carte bollate. E dire che Conte si starebbe convincendo. Tra martedì e ieri ha chiamato diversi 5Stelle di peso, per capire quanta voglia abbiano di riaverlo, come capo “o segretario politico”, come sussurra qualcuno. Di certo come nuovo vertice al posto della segreteria ancora da eleggere.

Un leader che dovrebbe ricostruire quasi tutto, dalla rotta alle norme interne, slegando il M5S dalla piattaforma Rousseau, quella di Davide Casaleggio, e aprendolo alla società civile. Anche perché l’altra opzione, quella del federatore dei giallorosa, si sta spegnendo con la crisi da congresso già deflagrata nel Pd. Tanto che il segretario dem Nicola Zingaretti non avrebbe neppure provato a offrirgli di correre nel collegio di Siena per la Camera. Così resta il M5S, che però ora assomiglia a un incubo. Le nomine dei sottosegretari hanno provocato l’ira di alcuni esclusi eccellenti e porteranno ad altri giorni da lunghi coltelli. Ma la rogna principale arriva da Cagliari dove il tribunale civile, su ricorso della consigliere sarda Carla Cuccu (espulsa) ha stabilito che “il M5S in questo momento è privo di un legale rappresentante”. Ergo, il reggente Vito Crimi non sarebbe più legittimato a guidare il Movimento, visto che il 17 febbraio è stata votata la modifica dello Statuto con l’introduzione al posto del capo politico di un organo collegiale, che però non è stato ancora eletto. Tradotto, da quel giorno il M5S sarebbe “privo di un legale rappresentante”, tanto che il tribunale ha previsto la nomina di un curatore speciale. Mentre gli atti compiuti da Crimi, inclusa la “denuncia” dei parlamentari e di altri eletti ai probiviri e ai capigruppo perché aprissero le procedure di espulsione, sarebbero nulli. Proprio come la cacciata dai gruppi parlamentari degli eletti che hanno votato contro il governo Draghi.

A confermarlo è proprio uno dei tre probiviri, Raffaella Andreola: “La sentenza va nella direzione da me paventata e cioè che vi siano effettivi dubbi di legittimità delle azioni di espulsione dai gruppi parlamentari poste in essere dai capigruppo di Camera e Senato su indicazione dell’ex capo politico e, a questo punto, anche ex rappresentante legale del M5S”. Un macigno per Crimi, che aveva assicurato di essere ancora in carica, facendo leva anche su un parere scritto del Garante, cioè di Beppe Grillo “(“Sei nel pieno delle tue funzioni”). Sogghignerà invece Casaleggio, che il 17 febbraio sul blog aveva fatto definire come “conclusa la reggenza di Crimi”. E di certo crescono le speranze di alcuni degli eletti espulsi, che ieri si sono riuniti con un avvocato.

Il legale, Daniele Granara, ha consigliato ai senatori di rivolgersi alla presidente del Senato Casellati ed eventualmente alla Consulta. “Dieci parlamentari sono pronti a fare ricorso, ma dai probiviri non è ancora arrivato nulla” sostiene l’avvocato. Ma alcuni frondisti vogliono aspettare, “anche perché diversi colleghi si sono mossi per cercare una mediazione”. Ovvero, per provare a recuperare veterani come Barbara Lezzi o Nicola Morra. Un altro nodo che sarà arrivato alle orecchie di Conte: volenteroso, ma non sordo.

Giavazzi a Palazzo Chigi, Stato fuori dall’economia

Con la prossima nomina dell’ex rettore della Bocconi a consulente economico di Palazzo Chigi è forse più chiaro perché Mario Draghi abbia copiato un pezzo del suo discorso alle Camere da un editoriale di giugno di Francesco Giavazzi: una coppia di fatto che, se non altro, fa chiarezza su quale indirizzo si darà il governo dell’ex presidente Bce.

Addio al Draghi“keynesiano”, “allievo di Caffè”, “liberalsocialista”, questo esecutivo pare nato negli anni Novanta della globalizzazione ruggente e ha al suo cuore un rifiuto radicale della presenza dello Stato nell’economia: forse la differenza più marcata con le pur confuse aspirazioni “interventiste” del governo Conte 2, tra i cui consulenti figuravano economisti come Mariana Mazzucato e Gunter Pauli, entrambi sostenitori di un ruolo attivo del pubblico nel guidare la politica economica e industriale.

Per capire quale cambiamento sia avvenuto a Palazzo Chigi, e come questo influenzerà il Recovery Plan, ci affideremo agli ultimi tre articoli di Giavazzi per il CorSera, i cui echi sono presenti nel discorso di Draghi. Ha sostenuto il 30 gennaio il professore, con una certa disinvoltura rispetto a sue affermazioni passate, che il problema non è il debito pubblico, ma il tasso di crescita. Per alzarlo dovremo usare il Next Generation Eu, che si compone di due parti: “Un elenco di progetti che soddisfino i criteri indicati e alcune riforme senza le quali è difficile pensare che qualunque piano si traduca in crescita. Evidentemente è il secondo aspetto quello cruciale”. Quali riforme? “L’elenco è chiaramente indicato nello schema redatto dall’Europa: innanzitutto giustizia e pubblica amministrazione”. Insomma, fare le riforme chieste da Bruxelles – dentro ci sono pure liberalizzazioni, privatizzazioni, aumento dell’età pensionabile eccetera – e poi si vedrà.

E i soldi? Qui la faccenda si fa interessante: inutile puntare troppo sulle infrastrutture, scrive Giavazzi il 19 dicembre, perché “non sarà certo qualche ponte in più a far sì che il tasso di crescita fletta”. Per capire cosa serve, basta guardare alla “storia economica del Paese” (6 dicembre): all’inizio c’era l’orrida Iri, poi “le privatizzazioni avrebbero dovuto por fine a quel modello restituendo le aziende al mercato. Per un decennio ci riuscirono, nonostante fossero osteggiate da una struttura burocratica che non voleva perdere potere. L’Italia sembrava pronta a riprendere la crescita. Oggi, a distanza di 25 anni, lo Stato sta ri-occupando l’economia”, anche grazie a Cassa depositi e prestiti, “un’istituzione sopravvissuta al suo tempo”, che “potrebbe diventare facile strumento di politici assai disinvolti” (che consiglierà su Autostrade e Tim?).

Guai a cedere all’illusione dello “Stato imprenditore”, “una delle idee più pericolose in circolazione”, bisogna lasciar fare alle imprese: “Industria 4.0 aiuta poiché consente di aggirare la dimensione dell’impresa trasferendo alcune funzioni, ad esempio il controllo di qualità, a valle, ai propri clienti” (senza Industria 4.0, par di capire, i clienti non badano alla qualità del prodotto). Insomma, quanto a politica industriale i fondi europei dovrebbero andare ai privati sotto forma di incentivi: “Aiutare le imprese innovative e consentire che esse guidino la crescita”. L’ha detto anche Draghi: “Il ruolo dello Stato e il perimetro dei suoi interventi dovranno essere valutati con attenzione”, spendere si può per “ricerca e sviluppo, istruzione, formazione, regolamentazione, incentivazione e tassazione”. E basta.

Un altro compito del governo sarà, secondo Giavazzi, “far fronte alla caduta della popolazione in età lavorativa” in due modi: “Con politiche immigratorie lungimiranti e con l’allungamento della vita lavorativa” (tradotto: importando braccia e stando al lavoro più a lungo). Dulcis in fundo, bisogna investire sulla “scuola”: non è chiaro come, ma si porta su tutto. Più che a Caffè siamo all’ammazzacaffè.

Recovery, via i conti di Renzi e il ritorno dei soliti competenti

La rete di gestione del Recovery Plan è stata gettata. Le prime decisioni di rilievo sono state prese, quelle più importanti, come suddividere i progetti, lo saranno tra poco. Guardando alle prime decisioni, la scelta del responsabile presso il ministero dell’Economia, Carmine Di Nuzzo, il gruppo di lavoro insediato da Renato Brunetta presso la Pubblica amministrazione, la prima ripulitura dei testi, si ha un sapore di déjà vu, il ritorno dei soliti noti, per quanto competenti siano.

La fuffa di Renzi La prima decisione che il ministro dell’Economia, Daniele Franco, ha già preso riguarda i numeri. In particolare la decisione di ripulire il Piano di ricostruzione e resilienza (Pnrr) di un’escrescenza provocata dalle rivendicazioni renziane. Nella necessità di introdurre voci di spesa per accontentare i desideri di Italia Viva, l’ex ministro Roberto Gualtieri aveva infatti proiettato una spesa superiore di 14,4 miliardi ai piani originali.

Il Mef aveva precisato a suo tempo che quel “margine” avrebbe rappresentato un cuscinetto in vista del confronto con la Commissione europea che avrebbe potuto “determinare una riduzione dell’ammontare di risorse autorizzato”. Un margine di sicurezza, quindi, per garantire all’Italia l’importo pieno dei fondi europei. Franco sembra aver deciso che quei fondi vanno eliminati dal piano così come ha deciso di tornare all’impostazione iniziale di Roberto Gualtieri, che prevedeva di destinare una quota consistente dei finanziamenti presi a prestito come sostitutiva e non aggiuntiva di vecchi progetti. Un modo per alleggerire il peso del debito. Renzi si scagliò, nel suo vistoso quanto inutile “piano Ciao”, contro questa impostazione chiedendo di finanziare opere aggiuntive per sostenere la crescita. Non sarà così.

Il super-tecnico A guidare il progetto, il Mef incarica Carmine Di Nuzzo, dirigente dell’Ispettorato generale della Ragioneria generale dello Stato, ma soprattutto a capo dell’Ispettorato per i rapporti finanziari con l’Unione europea (Igrue). Draghi e Franco, quindi, avranno un braccio operativo più che affidabile, competente nei suoi rapporti con l’Ue e quindi la catena di comando sul Pnrr è più che assicurata.

Brunetta batte tutti Chi, invece, ha fatto già metà del lavoro è Renato Brunetta, che ha istituito a tempo di record una commissione di lavoro. La parte del Pnrr che riguarda la digitalizzazione della PA vale circa 11 miliardi. Si baserà sul cloud e richiede competenze amministrative, ingegneristiche, organizzative. Nel gruppo si ritrova molta competenza, curricula impeccabili: “Sono tutti super esperti di amministrazione, selezione e reclutamento, semplificazione, integrazione europea”, spiegano al ministero. Ma sembra comunque il solito giro di nomi al centro della gestione pubblica, con un’impostazione liberale orientata sempre e solo all’impresa. Troviamo l’immancabile Carlo Cottarelli – che tra i tanti ripensamenti vanta anche quello della “non necessità del Mes”, prima invece richiesto a gran voce. C’è, in ossequio al professor Giavazzi, la giusta dose di Bocconi, con i nomi di Carlo Altomonte e Raffaella Saporito, un paio di “figli di arte” come Bernardo Giorgio Mattarella, ordinario di Diritto amministrativo alla Luiss (sarà contento il professor Sabino Cassese) così come Giorgio De Rita, figlio di Giuseppe. Si segnala anche Andrea Tardiola, a capo della macchina della Regione Lazio, voluto nell’incarico di Segretario generale da Nicola Zingaretti.

Giorgetti si tiene le telco. A Colao resta il comitato della transizione digitale

È un assaggio della difficile convivenza tra tecnici e politici nel governo Draghi. E, per ora, il decreto di riordino dei ministeri segna un pareggio. Il ministero della Transizione ecologica presieduto da Roberto Cingolani si prende il grosso della politica energetica oggi in mano al dicastero dello Sviluppo (guidato dal leghista Giancarlo Giorgetti). Quest’ultimo, però, conserva le deleghe strategiche sulle Telecomunicazioni, che comprendono anche il piano banda larga e lo sviluppo del 5G (la tecnologia di rete di nuova generazione che solletica gli appetiti di Stati e grandi imprese). Quelle, per intenderci, che fino all’ultimo ha provato a ottenere Vittorio Colao al nuovo ministero della Transizione digitale, la seconda struttura (insieme a quella di Cingolani) che dovrebbe avere voce in capitolo sul grosso dei fondi del Recovery Plan (almeno il 20% è riservato al digitale, il 37% alla riconversione ecologica).

L’ex manager Vodafone puntava a incassare tutte le deleghe di peso, dopo apposita ricognizione. Stando alle bozze circolate, invece, si dovrà per così dire, accontentare di un ruolo di coordinamento delle strategie digitali. Il decreto infatti istituisce a Palazzo Chigi il Comitato interministeriale per la transizione digitale (Citd) dove “saranno assunte le decisioni strategiche necessarie a garantire la coerente e puntuale declinazione della strategia nazionale per la transizione digitale”. Lo presiederà Mario Draghi, o Colao in sua vece, e sarà composto dai ministeri della Pa (Brunetta), Transizione ecologica (Cingolani), Tesoro (Franco), Sviluppo (Giorgetti) e Salute (Speranza).

Il ministero di Colao, invece, avrà l’incarico di “indirizzare, coordinare e verificare l’azione del governo nelle materie dell’innovazione tecnologica, dell’attuazione dell’agenda digitale italiana ed europea, della strategia italiana per la banda ultra larga, della digitalizzazione delle pubbliche amministrazioni e delle imprese, nonché della transizione digitale del Paese”. Come si intuisce, in sostanza l’ex Vodafone conserva le deleghe del predecessore Paola Pisano e continuerà a presiedere l’apposito comitato per l’attuazione del banda larga (Cobul). Collegialmente, con gli altri dicasteri nel comitato, deciderà le linee guida strategiche, da cui passeranno i piani di sviluppo e i grandi dossier come la società unica della rete fibra. Ma non avrà un potere di firma, non avendo peraltro il suo ministero un potere di spesa (volgarmente detto “portafoglio”). Insomma, se le bozze saranno confermate, senza l’accordo degli altri colleghi di governo, il lavoro del super manager chiamato da Draghi sarà assai complicato (anche dalla poca esperienza nella macchina amministrativa che potrebbe richiedergli qualche tempo di assestamento).

Il Mise di Giorgetti dovrebbe così conservare le deleghe strategiche sulle Tlc, assai care al centrodestra (segnatamente a Silvio Berlusconi, impegnato nella guerra della sua Mediaset a Vivendi), anche se potrebbero finire alla viceministra 5 Stelle Alessandra Todde, insieme alla banda larga e al 5G, tema su cui Colao vorrà avere voce in capitolo. Parte del Piano che porta il suo nome riguarda infatti la rete di nuova generazione, che il nostro vorrebbe realizzare più velocemente rimuovendo gli ostacoli normativi, quelli posti dagli Enti locali e alzando i limiti alle emissioni elettromagnetiche (linea sulla quale, per la verità, concorda quasi tutta la maggioranza). Colao, poi, dovrà garantire anche gli americani, che vogliono epurare il futuro 5G dalla presenza cinese.

Chi ottiene molto è invece il ministero della Transizione ecologica, che eredita il cuore della politica energetica del Mise (due direzioni generali, centinaia di dipendenti e fondi miliardari). Cingolani presiederà l’apposito Comitato interministeriale che dovrà stendere entro tre mesi il “Piano per la transizione ecologica” per delineare le strategie dei prossimi anni su mobilità sostenibile, dissesto idrogeologico, infrastrutture idriche, qualità dell’aria ed economia circolare. Il Mite dovrà anche indicare quali dei sussidi dannosi per l’ambiente (Sad) andranno tagliati. Insomma, indicazioni un po’ più precise di quelle riservate al comitato di Colao.

Mulè, Sisto e la Bergamini: entrano i maggiordomi di B.

Il governo “dei migliori” è fatto e finito: la squadra di Mario Draghi può iniziare a lavorare. Come per i ministri, anche le cariche di sottogoverno sono suddivise tra i partiti della maggioranza-monstre con rigorose proporzioni da Cencelli: 11 per M5S, 9 per la Lega, 6 per Pd e Forza Italia, 2 per Italia Viva, 1 per LeU.

Gode Silvio Berlusconi: dopo il trittico Brunetta-Gelmini-Carfagna è ancora tempo di grandi ritorni e rumorosi festeggiamenti. Alla Giustizia, B. e i suoi piazzano l’avvocato Francesco Paolo Sisto, l’uomo che lo difese nel processo sulle escort, che guidò la protesta contro i magistrati al Tribunale di Milano, che si scagliò contro la retroattività della legge Severino votata (da Sisto medesimo) pochi mesi prima. Forza Italia ottiene una poltrona anche per Debora Bergamini (Rapporti con il Parlamento). Un’altra fedelissima, che resterà nei libri di storia per la “struttura Delta”, la rete di collaborazione tra Rai e Mediaset negli anni d’oro del berlusconismo, quando il servizio pubblico e l’oligopolio privato, invece di competere, si mettevano d’accordo sui palinsesti per favorire l’ex presidente del Consiglio. Tra i sottosegretari azzurri ci saranno anche l’ex direttore di Panorama Giorgio Mulè (alla Difesa), il piemontese Gilberto Pichetto Fratin, il braccio destro di Tajani Francesco Battistoni e Giuseppe Moles.

Il Movimento Cinque Stelle in virtù della sua pattuglia parlamentare (in rapida dissoluzione ma ancora la più numerosa nelle due Camere) ottiene 11 poltrone, ma forse il nome che fa più rumore è quello di chi resta a casa: tra i sottosegretari grillini non ci sarà Stefano Buffagni, uno dei “big” di un Movimento in tensione permanente. Sono confermati invece Pierpaolo Sileri (Salute), Laura Castelli (Economia), Alessandra Todde (Mise), Giancarlo Cancelleri (Trasporti), Carlo Sibilia (agli Interni già in epoca salviniana). Si aggiungono 5 donne: Rossella Accoto (Lavoro), Dalila Nesci (Sud), Barbara Floridia (Istruzione), Ilaria Fontana (Ambiente) e Anna Macina (Giustizia).

La Lega alla fine è riuscita a piazzare il sottosegretario su cui ci si è scontrati di più (con tanto di sospensione) in consiglio dei ministri: Nicola Molteni, ex braccio destro di Matteo Salvini al Viminale, cofirmatario dei decreti sicurezza. Ora toccherà a Draghi dimostrare ad alleati come Pd e Leu come sia faccia a invocare l’ “unità nazionale” con un profilo di questo tipo agli Interni. Tra i salviniani è confermato – rispetto al Conte I – anche Claudio Durigon, che torna sottosegretario al Lavoro. L’ex sindacalista pontino sarà l’agente di Salvini in un ministero “nemico” (guidato dal dem Andrea Orlando) con l’obiettivo di salvare “Quota 100”, l’altra legge simbolo della Lega di governo. A proposito di “migliori”, torna in sella anche Lucia Borgonzoni: dopo l’inopinata sconfitta in Emilia-Romagna e dopo aver garantito che sarebbe rimasta in consiglio regionale a fare opposizione (promessa durata meno di 24 ore dopo le urne), era tornata a Roma in sordina, scomparendo dai radar. Con Draghi invece ritrova la nomina: sarà di nuovo sottosegretaria alla Cultura (può essere utile, al riguardo, ricordare che durante il primo mandato aveva rivendicato di non leggere un libro da tre anni).

Tra i leghisti di ritorno ci sono anche Massimo Bitonci (Mef) e Vannia Gava (Ambiente). Le new entries sono Rossano Sasso (altro ex sindacalista Ugl alla Scuola), la senatrice Tiziana Nisini, l’ex forzista Barbara Saltamartini, il pitbull da talk show Alessandro Morelli.

Magia in Italia Viva: ricompaiono Teresa Bellanova e Ivan Scalfarotto. Proprio quelli che avevano fatto cadere Conte, rinunciando alla poltrona per senso di responsabilità ed eroismo istituzionale. Con Elena Bonetti – restituita anche lei allo stesso ministero che guidava prima della crisi, le Pari Opportunità – fanno tre su tre. Niente male.

Nel Pd dovrebbe essersi chiusa la questione femminile: si diceva che le dirigenti dem avrebbero ribaltato il tavolo e rinunciato a ruoli di sottogoverno, dopo l’esclusione dai ministeri. Invece sono entrate in massa: Assuntela Messina, Marina Sereni, Simona Malpezzi, Anna Ascani, Alessandra Sartore. Unico uomo (in quota tecnica) l’ex ministro Enzo Amendola, che torna alle Politiche comunitarie. Liberi e Uguali, infine, conferma Maria Cecilia Guerra al Mef.

Zinga si è stufato: sarà dimissionario all’assemblea Pd

Nicola Zingaretti si dimetterà nell’Assemblea nazionale del Pd convocata per il 13 e 14 marzo. Almeno, sono le intenzioni del segretario in queste ore, anche se parte del partito – Dario Franceschini in testa – sta cercando di convincerlo a restare. D’altra parte viene considerato dai big dem come il miglior garante dell’equilibrio attuale. Zingaretti, in realtà, sta valutando due opzioni: presentarsi traghettatore, fino a un congresso in data da stabilire (magari in autunno), o direttamente dimissionario. Qualcuno tra i suoi spera che le dimissioni siano un rilancio. In molti scommettono che ci ripenserà. Ma ieri l’addio era stato già minacciato imminente. E una via d’uscita il segretario la cerca da tempo: gli sarebbe piaciuto entrare nel governo Draghi, ma ha dovuto rinunciare per evitare l’ingresso di Matteo Salvini. Sta valutando di candidarsi a sindaco di Roma, se – come pare sempre più probabile – le Amministrative dovessero essere spostate a ottobre.

L’amarezza è latente da mesi, ma è andata crescendo nelle ultime settimane. Fa “il notaio degli accordi di corrente”, dice con disappunto anche chi gli sta vicino. D’altra parte, la sua linea politica è stata sconfessata più di una volta. Nell’estate del 2019 fece partire – suo malgrado – il governo giallorosso. Nella partita che ha portato al governo Draghi, fino all’ultimo minuto utile, ha sostenuto la linea “o Conte o voto”. Non solo: sembra ormai definitivamente tramontato il progetto che voleva l’ex premier federatore dell’alleanza strutturale Pd-M5S-LeU (l’ “amalgama” teorizzato da Goffredo Bettini), con il fallimento dell’intergruppo in Parlamento e lo stop, arrivato dalla segretaria regionale della Toscana, Simona Bonafè, all’idea di offrire a Conte il seggio di Siena, lasciato libero da Padoan. Ci stavano lavorando i vertici nazionali, con l’ausilio di quello che chiamano il “Richelieu della Toscana”, Stefano Bruzzesi, stratega politico del governatore, Eugenio Giani. “Se la stavano confezionando a Roma senza dirmi niente”, racconta la Bonafè. Che poi, all’ultima intervista contro la sua linea, ha deciso far fuori il suo vice, Valerio Fabiani, zingarettiano.

Il caso toscano è deflagrato proprio mentre Zingaretti diventava la barzelletta del giorno per un tweet in difesa di Barbara D’Urso. E il Pd nazionale litigava furibondamente per la lista dei sottosegretari. In questo caso, la rivolta delle donne per essere state escluse dai posti da ministro, si è unita alla guerra tra correnti (al governo i tre rappresentanti di maggior peso, Andrea Orlando, Lorenzo Guerini e Franceschini). A tenere in mano il filo della trattativa è stato più il neo ministro del Lavoro, Orlando (da molti additato come uno di quelli che hanno spinto troppo in là la critica al governo Conte), del segretario. Lui non è riuscito a far confermare Andrea Martella all’Editoria, ma Zingaretti è riuscito a far entrare per il rotto della cuffia solo la Alessandra Sartore, sua Assessora in Regione, al Mef (era in alternativa a Sandra Zampa, spinta da Romano Prodi). Unico segretario di partito a non avere neanche un ministro in quota “propria”. La riconferma più importante, Enzo Amendola agli Affari europei, è stata voluta dallo stesso Draghi su input di Sergio Mattarella. Zinga è rimasto ai margini pure di questa partita.

È iniziata anche la lotta per la successione. Stefano Bonaccini, governatore dell’Emilia Romagna, è pronto da mesi. Ma vuole essere il candidato di tutto il partito e non di Base Riformista (la corrente di Guerini e Luca Lotti). Tutto sta a capire quanto garantisce le varie anime dem e se stringe accordi anche con quella parte di Iv pronta a ritornare nel Pd (sospetti vogliono che voglia rientrare anche Matteo Renzi, ma lui punta a fare un partito di centro, con Forza Italia e Carlo Calenda). Si è avviata pure la competizione tra i sindaci. Giorgio Gori (Bergamo), Dario Nardella (Firenze), e anche Antonio Decaro (Bari) non lesinano critiche alla gestione del Pd. Ieri il sindaco di Bari su Repubblica ha parlato di un partito degli amministratori. Tutti sono potenziali candidati alla segreteria, in alternativa a Bonaccini. Tutte figure che – almeno in qualche fase – sono state molto vicine a Renzi.

In tutto questo c’è un tema logistico non secondario: in tempi di pandemia un congresso con le primarie è impensabile. Non un ostacolo di poco conto sulla strada di quello che un alto dirigente dem definiva “il partito che deve garantire il sistema politico”.

39 sottosegretari: l’algoritmo di Draghi per l’ammucchiata

L’algoritmo “Draghi” alle 18.20 di ieri era pronto e aveva partorito, partiti permettendo, i 39 sottosegretari (19 donne, 20 uomini). Ma poi, dopo poco più di mezz’ora, anche le fredde proporzioni e la tabella finale messa in piedi dal sottosegretario a Palazzo Chigi Roberto Garofoli non ha potuto niente di fronte allo scontro dei partiti nella maggioranza: è tutti contro tutti. Nel mirino finisce soprattutto la Lega che, a Cdm ancora in corso, fa filtrare “soddisfazione” per i 9 sottosegretari “dal Viminale all’Agricoltura, dall’Istruzione alle Infrastrutture”. Stefano Patuanelli non gradisce Gian Marco Centinaio all’Agricoltura, Pd e M5S fanno asse contro il ritorno di Nicola Molteni al Viminale – il viceministro che nel 2018 co-firmò con Matteo Salvini i decreti sicurezza – mentre i dem si impuntano anche su Giorgio Mulè di Forza Italia che dovrebbe prendere il posto del Pd Andrea Martella all’Editoria. Uomo di Berlusconi, Mulè è stato vicedirettore di Panorama alla fine degli anni Novanta, poi per cinque anni a Mediaset e per altri dieci a dirigere il settimanale della famiglia Berlusconi. Troppo vicino all’ex Cavaliere per gestire l’editoria.

Anche il ministro della Difesa Lorenzo Guerini non è soddisfatto: “Il mio è un ministero complesso – prende la parola – ho bisogno di due sottosegretari e non di uno”.

Si alzano i toni, un ministro sibila: “Non c’è accordo su niente”. Il Cdm viene interrotto, si va avanti a trattare. Nel frattempo le chat di Pd (che passa da 16 a 6 sottosegretari) e M5S (da 22 a 11) esplodono: tra i dem non tutte le correnti sono rappresentate, le donne sono state scelte col bilancino del “Cencelli” e la golden share del governo ce l’ha la Lega. Stesso disorso per i 5 Stelle, dilaniati da chi non accetta l’ennesima promozione del dimaiano Giancarlo Cancelleri al Mit e l’esclusione di Stefano Buffagni (“è una porcata” va dicendo). Alla fine la soluzione si trova: dopo un’ora di sospensione, il cdm riprende. C’è l’accordo: il forzista Mulè va alla Difesa (accontentato Guerini) e la delega all’Editoria passa al meno divisivo Giuseppe Moles. La Lega invece fa muro: alla fine i giallorosa devono ingoiare i salviniani Centinaio all’Agricoltura, Molteni al Viminale e Alessandro Morelli come viceministro insieme a Teresa Bellanova per controllare l’operato di Enrico Giovannini alle Infrastrutture. Alla fine Draghi decide di affidare al capo della Polizia Franco Gabrielli la delega ai servizi segreti mentre si tiene lo Sport in attesa di nominare un nuovo sottosegretario. Torna, con la delega agli Affari Europei, anche il “contiano” Enzo Amendola mentre Draghi premia Bruno Tabacci, che si insedia a Palazzo Chigi con la delega al coordinamento della politica economica.

La lista dei 39 sottosegretari è stato il frutto di un lungo lavoro, di almeno 6 giorni, portato avanti da Garofoli a cui Draghi aveva affidato il dossier. La deadline doveva essere lunedì ma lo scontro tra i partiti aveva bloccato tutto. Prima era stato il M5S a non accettare di passare da 13 a 11 posti dopo la scissione interna, poi il Pd che non accettava i nomi leghisti e aspettava la direzione di oggi per dirimere il nodo delle “quote rosa”. Ma Draghi non poteva aspettare ancora visto che oggi e domani sarà impegnato al Consiglio Ue: da qui l’accelerata facendo slittare il cdm alle 18 e annunciando le nomine. A far arrivare il conto finale a 39 posti (6 viceministri e 33 sottosegretari) è l’algoritmo che si basa sulla proporzione tra il sostegno al governo in base ai voti di fiducia e un punteggio assegnato per i ministeri con o senza portafogli: 11 al M5S (i suoi parlamentari valgono il 28% del sostegno totale al governo), 9 alla Lega (23%), 6 a FI (17%) e Pd (16%), 2 a Iv (5%), 1 a Leu, Centro Democratico, Noi con l’Italia e “Azione”.

I 4 dell’Ave Mario

sei giorni fa titolavamo: “Perché è caduto Conte?”. Ora, alla luce delle prime scelte di Draghi, possiamo cancellare il punto interrogativo. Conte non è caduto per la blocca-prescrizione (confermata dal governo Draghi). Non per i Dpcm (li fa anche Draghi). Non per le chiusure anti-Covid (elogiate, ribadite e inasprite da Draghi). Non per i vertici serali (li fa pure Draghi, ieri per la mega-rissa sui sottosegretari). Non per ministri e collaboratori incapaci (quasi tutti confermati da Draghi, con l’aggiunta di Brunetta, Gelmini, Carfagna, Garavaglia, Stefani&C. per aumentare il tasso di competenza). Non per il Mes (non lo prende neanche Draghi). Non per il Reddito di cittadinanza (non lo cancella neanche Draghi). Non per il ponte sullo Stretto (non ne parla neppure Draghi). Non per Arcuri (finora se lo tiene anche Draghi). Non perché accentrava la governance del Recovery in soli tre ministeri (Draghi l’accentra in uno: il Mef del fido Franco). E qui finiscono i pretesti ripetuti per due mesi dall’Innominabile e dai suoi pappagalli per giustificare la crisi: erano tutte balle.

Le vere ragioni del ribaltone sono altre: mettere le mani dei soliti noti sui miliardi del Recovery e dirottarli verso Confindustria&C. Per chi nutrisse ancora dubbi, basta leggere i nomi dei ministri Franco, Cingolani, Colao, Giorgetti e (a pag. 2-3) dei sottostanti boiardi e retrostanti lobbisti, su su fino al neoconsigliere economico Francesco Giavazzi: un turboliberista che predica da sempre contro l’impresa pubblica e a favore di quella privata (ma con soldi pubblici) e che neppure i giornaloni riusciranno a spacciare per “liberalsocialista”, “keynesiano” e “allievo di Caffè” (che non smette più di rivoltarsi nella tomba, tanto nessuno sa dove sia). Mentre i partiti giocano agli adulti nel cortile dell’asilo coi loro ministri e sottosegretari superflui, Draghi e i Quattro dell’Ave Mario si occupano delle cose serie. Cioè della scelta meno tecnica e più politica del mondo: a chi destinare i miliardi del Recovery. Ricordate il mantra del Piano “scritto coi piedi” da Conte e Gualtieri e “migliorato” in extremis dal provvidenziale intervento renziano? Ora Repubblica titola: “Pulizia sul Recovery Plan. Il governo taglia subito 14 miliardi di progetti… senza copertura finanziaria. Sfoltite le iniziative in eccesso previste dal Conte2, si torna a quota 209,5 miliardi”. Già: ma le “iniziative in eccesso” sono quelle chieste dal Rignanese nel celebre Piano Ciao e aggiunte da Gualtieri per tacitarlo. Quindi era meglio il Piano Conte prima della cura Iv: quello “scritto coi piedi”, senza i famosi “miglioramenti” renziani che ora Draghi deve “ripulire”. Ma questo i repubblichini si scordano di scriverlo. Vergogniamoci per loro.