L’arrosto di Salomone, la birra di pane e la zuppa babilonese: la Bibbia è servita

Le Sacre scritture come fonte storica per ricostruire le ricette dei popoli antichi: è questo lo spirito de La Bibbia in Tavola – 40 ricette dall’Eden a Gerusalemme, un ricettario originale dell’archeologa e storica culinaria Ursula Janssen. A corredo di ciascuna pietanza vi sono le immagini scattate da suo marito, il fotoreporter iraniano Manoocher Deghati. “Non è la prima volta che mi occupo di cucina storica, in passato mi sono dedicata al cibo nell’antica Mesopotamia”, spiega.

Esperta di Medio Oriente, soprattutto di Siria e Iraq, l’autrice attualmente residente nelle campagne pugliesi ha condotto una ricerca sul cibo utilizzando la Bibbia come documento storico. “Non è certamente un libro di ricette il testo biblico – dice –, ma parla molto di cosa mangiavano i popoli del Mediterraneo. Il mio – tiene a precisare – è un libro di cucina e non una guida all’archeologia sperimentale”. I luoghi del testo sacro della religione ebraica e cristiana vengono ripercorsi alla luce delle pietanze in uso lungo un ampio arco temporale, che va dalla Preistoria all’antica Roma. Al centro dell’indagine condotta da Janssen non vi è solo la Terra Santa, ma una vasta area geografica che include tutti gli antichi popoli del Mediterraneo, i babilonesi, gli egizi, i persiani, i greci e i romani.

Gli ingredienti di base sono riconducibili – secondo l’autrice – ai “sette tipi” biblici, ovvero grano, orzo, uva, fichi, melograni, olive e miele. “Grazie ai ritrovamenti archeologici e storici, possiamo dire con precisione cosa è stato coltivato, cacciato, allevato, cucinato e mangiato, dove e quando: la Bibbia stessa dà alcune indicazioni dettagliate sulla cultura del cibo”.

Provare i sapori dell’antichità è ancora possibile con qualche variazione: gli ingredienti e i processi di cottura sono stati adattati ai nostri tempi. Le ricette presentate sono disposte cronologicamente e pensate “per quattro persone affamate”. La scelta è ampia: parte dall’antipasto per arrivare al dolce, con la possibilità di sperimentare anche la birra degli Egizi a base di pane. Si va dalla zuppa dolce di cereali in uso tra i cacciatori-raccoglitori, con grano selvatico, orzo e ghiande, al dolce comune nel Nord del Medio Oriente chiamato “La festa di Noè”, fatto di noci, nocciole, mandorle, ceci, grano e cannella. Non mancano lo stufato ittita, l’arrosto di cervo di Salomone, la zuppa di porri babilonese e le ciambelle romane secondo Catone.

Il libro soddisfa non solo le curiosità storiche in merito a epoche così lontane da noi, ma anche la passione culinaria di quanti ricercano nuove idee, che questa volta provengono tutte direttamente dal passato. La Janssen in chiusura suggerisce anche dei possibili menu, a partire da “Adamo ed Eva” sino a “Paolo il romano”. Il risultato è una divertente commistione tra testo sacro, storia e cucina. A tenere tutto assieme c’è il mar Mediterraneo con la sua storia millenaria.

Dopo un secolo, l’Urlo tace: addio al Beat Ferlinghetti

Ancora poco e sarebbero state due le primavere del suo secondo secolo, ben 102 anni giusto il prossimo 24 marzo. Completamente cieco ma ancora totalmente voce, Little Boy, ovvero Lawrence Ferlinghetti, il miglior fabbro nell’officina della controcultura, è morto adagiandosi in un sorriso. Il suo solito, il suo mantra – “Mangia bene, ridi spesso, ama molto” – e poi San Francisco, la città del santo più santo.

Il poeta dalle vendite milionarie al tempo della Beat Generation, questo è: il giullare di un Dio tutto suo, tutto di avanguardia e ricerca. Ed è, Ferlinghetti, l’innamorato di un’Italia trasfigurata come solo un orfano può immaginarsela: un po’ Verona – che è la città che custodisce gli originali del Petrarca –, un po’ di Brescia, che è la città di suo padre morto troppo presto, e poi ancora un po’ di Sicilia, ma proiettata in chissà quale galassia del futuribile avendo come tramite d’oltreoceano Mauro Aprile Zanetti, esperto di Intelligenza artificiale, tra i più ferrati capitani dell’industria tecnologica, diventato il suo famulus, il suo servo di scena, il primo tra i devoti della chiesa ferlinghettiana. Non lascia eredi, ma lettori. Come solo i grandi che non hanno epigoni, l’eterno suo tutto di canto è intatto e avvinto alla sua stessa vita. La sua biografia, infatti, è uno dei più squillanti romanzi d’Occidente.

Resta nella cultura di massa per parlare alle masse. Ecco la suprema astuzia di poesia. City Lights, il catalogo di Ferlinghetti per i cui tipi nel 1955 edita Urlo di Allen Ginsberg, gli apre le porte della prigione un anno dopo. Condannato per avere stampato l’oscenità – lui che non lo sarà mai beatnik – lui che non è il Vladimir Majakovskij del proletariato americano (in quella parodia della Rivoluzione bolscevica qual è la stagione della contestazione beat) si ritrova bestesellerista da milioni e milioni di copie, oltretutto a colpi di poesia.

Resta nella controcultura di massa per parlare alle masse. E neppure per lisciare il pelo dal verso giusto, anzi: “La solita paranoia della sinistra/ che adesso si è riversata sugli ecologisti/… sempre a farneticare sul buco dell’ozono”. Le sue mura di Ilio – se mai Ferlinghetti è nel solco di Euripide, il cantore delle Troiane – sono le macerie di Nagasaki e il fungo di Hiroshima. Mostruosità ormai rimosse dall’immaginario occidentale, le due immani mattanze della catastrofe atomica voluta a suggello della Seconda Guerra mondiale che lo porta a gettare la propria uniforme di soldato della Marina degli Stati Uniti per diventare parte della terra bruciata del mondo: “Che cosa mai sarebbe servito ai troiani, mentre i palazzi di Ilio rovinavano che Enea avrebbe fondato un nuovo regno?”. Geniale organizzatore di meeting, Ferlinghetti si definisce per ciò che non è. In antitesi a Pound, Ferlinghetti si svela in un’antologia il cui titolo è ben più che un lapsus: Il lume non spento.

Figlio di una madre pazza, adottato, cresciuto e formato dalla famiglia presso cui la zia è domestica, Ferlinghetti – per suo stesso canto – “è l’acrobata che si arrampica sulla corda che s’è costruita”. Maestro, certo, ma lo è di una sola generazione: quella beat. Il buio s’è preso ieri la sua voce. Rimane la sua parola.

Tutti sotto la coperta con Linus

Pubblichiamo stralci di “Misericordia”, il poema di Lethem dedicato a Linus: uno degli interventi della raccolta “Peanuts”, in libreria da domani con La Nave di Teseo.

Ho visto i bambini del mio quartiere distrutti da storie di violenza, storie dalla cripta, storie d’orrore, snervanti isterici piantagrane,

trascinarsi all’alba per caustiche strade in cerca di un rabbioso gelato a quadretti,

testoni testedangelo obbligati a giocare in giardino ogni volta che splendeva la dinamo stellare nel macchinario della notte,

che sculacciati e bistrattati e occhiaie scure e strafatti stavan lì a fumare nel sovrannaturale buio di seconde infanzie sospesi sui tetti delle periferie contemplando una fantasia cromatica,…

che venivano espulsi dall’asilo nido per follia & aver stampato tortini di fango sui davanzali del cranio…

che se ne stavano seduti lì a far credere alla gente che ci fosse vento forte,

un battaglione perso di triciclisti platonici che pedalavano sui marciapiedi, di lanci che scavalcavano la protezione e palline che rotolavano nel tombino…

che restavano ad ascoltare il rumore del mare, che dovevano essere a casa a fare il sonnellino, terrorizzati dalla lanugine appiccicata al selciato…

che tracciavano una linea tutto intorno al mondo chiedendosi dove andare, e andavano, senza infrangere cuori,

che proprio quando cominciavi a imparare la tecnica i tuoi ti levano la coperta…

che se ne andavano soli per le strade della terra in mezzo a milioni di persone, mentre quella piccola stella lassù era sola in mezzo a milioni e milioni di stelle,

che hanno pensato di essere snervanti quando trentatré marshmallow baluginavano d’estasi sovrannaturale,

condannati ad affrontare la vita con nient’altro che una faccia faccia,

che ciondolavano nervosi e angosciati e il modo migliore per rilassarsi era sdraiarsi con la testa nella ciotola dell’acqua,

che mettevano una bambina a capo delle miniere di sale lasciandosi dietro nient’altro che l’ombra di una tuta di tela e lava e ceneri di poemi,

di poesie che devono avere sentimento, poesie che non commuoverebbero

nemmeno un sasso, poesie che non farebbero piangere nessuno,

che va in depressione perché non sa accendere la Tv,

che mentre era a cena faceva lo scemo e quando gli hanno detto “comportati da essere umano” ha risposto “definisci

essere umano”…

che era un disastro quando mangiava e un disastro quando giocava e un disastro quando stava fermo, ma almeno era coerente…

che non si sono fatti toccare né sfiorare dalla civiltà contemporanea…

che senza quella coperta si sarebbero spezzati come un giunco secco…

che se piaci a qualcuno, ti fa una carezza sulla testa – se non gli piaci ti prende a calci…

che versavano lacrime per il romanticismo di Halloween con sacchetti di carta colmi di pietre e brutta musica, che dicevano questi sassi sono stati preparati appositamente per essere scagliati con rabbia!

che respiravano al buio seduti in una scatola, e si sono sempre dispiaciuti per le amebe, e per l’emozione hanno dimenticato di dar da mangiare al cane,

che non sapevano nemmeno se alla fine sarebbero finiti in orfanotrofio o alla protezione animali sotto il cielo tubercolare circondati da teologia da gare su cassette con le ruote,

a volte ho come l’impressione di essere un terreno abbandonato!

che scribacchiavano tutta la notte dondolando rock&roll su nobili incantesimi che nel mattino giallo erano strofe di scempiaggini, folio, porrta, caza, tapeto, kortello, cucciaio!

tuto cuesto legere mi a fato malle ali occi!…

che l’anno scorso era l’unico che conoscevi ad aver avuto 365 giornate no,

che lanciavano dal tetto gli orologi per “veder volare il tempo”,

& sveglie gli sono cadute in testa ogni giorno per tutto il decennio,

che a questo mondo non c’è niente di più entusiasmante della vista di qualcuno che ha appena ricevuto la grazia!…

che dovevano costruirsi una sorta di barriera mentale per tener fuori tutte le notizie spiacevoli…

che sgasavano per i marciapiedi del passato in viaggio verso rispettive buche-di-sabbia-Pig-Pen-solitudini o ad aspettare di vedere la prima foglia che muore,

che triciclavano settantadue ore per scoprire se io avevo avuto una visione o tu avevi avuto una visione solo per scoprire che gli insulti viaggiano più veloci quando non c’è umidità, che ansiosi, insicuri, stupidi e di cattivo gusto e senza il minimo talento per il disegno…

una zucca a ventiquattro carati, un testone, idiota, tonto!

sto solo aiutando Charlie Brown con un po’ di critiche distruttive!…

è dal giorno in cui sono nato che mi sento confuso,

dirimere questi dilemmi morali è sempre stato al di sopra delle mie possibilità, sono un essere umano, ero solo come un cane, posso sempre dare la colpa alla società!

ah, Linus, se tu non sei al sicuro io non sono al sicuro, e adesso sei proprio finito nella zuppa animale del tempo –

sei il solo che mi segue ovunque vada!

 

Il Gps inguaia Palamara: incontri col pm del lobbista

Gli interrogatori di Piero Amara a Perugia – in buona parte coperti da omissis – sembrano l’inizio di un gran ballo al quale sarà invitata una fetta di magistratura italiana. L’ex legale esterno dell’Eni, che ha corrotto più di un magistrato tra Roma e Siracusa, e per questo è indagato e a Messina ha già patteggiato una pena, il 4 e il 17 febbraio scorso – interrogato anche su altre vicende – racconta alla procura di Perugia la sua versione dei fatti sul caso Palamara. È assistito dal suo avvocato, Salvino Mondello, e parla da indagato in procedimenti connessi. Per i pm perugini è un punto a favore: le sue rivelazioni saranno riscontrate dall’accusa in più di un punto e consentiranno di rimodulare la contestazione a Palamara: corruzione in atti giudiziari.

Invischiato in più di un’indagine ormai da tempo, Amara ha atteso davvero a lungo prima di mettere sul tavolo i fatti che ora leggerete. Le sue parole giungono giusto dopo che il gip di Perugia aveva chiesto all’accusa di riqualificare le contestazioni a Palamara: è legittimo – al di là del contenuto – chiedersi perché non l’abbia fatto prima. Ma veniamo alla sua deposizione: Amara sostiene di aver ottenuto notizie sulle indagini che lo riguardavano attraverso l’imprenditore Fabrizio Centofanti che, a sua volta, le riceveva da Palamara, il quale aveva due fonti: l’attuale procuratore generale di Messina Vincenzo Barbaro. “Tutto inventato – commenta Fava – non ho mai riferito nulla a Palamara, che non mi ha mai chiesto nulla su Centofanti”. Smentisce anche Barbaro: “Non ho mai fornito notizie a Palamara. Fu lui una volta, come ho scritto in una relazione di servizio, a dimostrarmi di essere informato su un’inchiesta che riguardava un suo amico, ma non mi chiese informazioni e non gliene diedi il tempo”. La procura ha fatto alcuni riscontri sui movimenti di Barbaro: il 10 ottobre 2017 è a Roma, poi farà un relazione di servizio in cui segnalerà che Palamara è a conoscenza dell’inchiesta in cui è indagato un suo “amico”: che fosse indagato a Roma già era noto, ma non a Messina, quindi la procura sostiene che Palamara fosse a conoscenza di un dato indebitamente acquisito. Il 14 febbraio e 15 marzo 2017 Barbaro è a Roma e in quei giorni tra le 20 e le 21 il Gps dimostra che Centofanti è una volta vicino casa Palamara e un’altra vicino al Csm. Bisogna ricordare che Fava voleva arrestare Amara e che Barbaro non solo l’arrestò, ma è intervenuto sul patteggiamento del suo amico Giuseppe Calafiore chiedendo sanzioni più severe. E Amara parte proprio da qui: “Barbaro ha impugnato il patteggiamento di Calafiore e temo che ci sia un intreccio sistemico che possa danneggiarmi”. E ancora: “Prima di arrestarmi (…) Centofanti… mi disse che Barbaro si era rivolto a Palamara perché l’appoggiasse” per “un incarico direttivo… Barbaro aveva riferito che a carico mio di Calafiore e Centofanti non c’era nulla… (…) Dopo i nostri arresti nel febbraio 2018 (…) Barbaro (…) avrebbe riferito a Palamara: ‘Hai visto, fino a che ci sono stato io non è successo niente, poi è arrivato De Lucia (procuratore di Messina, ndr) ed è successo quello che è successo”. Il Fatto può però aggiungere un dettaglio: Barbaro il 7 febbraio 2018 riceve un sms da suo collega che, proprio sull’inchiesta che riguarda Amara e gli arresti, fornisce una versione diversa: “Caro Vincenzo mi pare che l’operazione sia andata bene, quanto meno grande armonia, cosa non sempre scontata di questi tempi. Messina può andare più in profondità di altri uffici… hai dato il calcio di inizio…”.

Su Fava, Amara racconta:: “Settimanalmente, nel corso delle loro partite a tennis, informava Palamara delle indagini in corso nei nostri confronti (…) Ha riferito a Palamara del collegamento investigativo con Messina, che era costituito un pool di magistrati e delle riunioni periodiche con la Guardia di Finanza”. Poi aggiunge: “Un tenente donna della Gdf (della quale non fa il nome, ndr) ha fatto a me e Centofanti delle rivelazioni importanti. (…) riferì che era scoppiata una guerra all’interno della magistratura e che Fava intendeva colpire Pignatone (Giuseppe, all’epoca procuratore capo di Roma, ndr). Confidò che Fava era al corrente della nomina che avevo fatto come consulente del fratello di Pignatone (…) che intendeva indagare me per colpire Pignatone (…). Fava (…) riferiva a Palamara che Pignatone non mi avrebbe fatto arrestare in virtù del rapporto che, secondo lui, avevo avuto con il fratello (…) Non riferiva tali notizie per aiutare me ma per criticare l’operato di Pignatone”. In un altro passaggio spiega che, poiché non fu avvertito da Palamara del suo futuro arresto, Centofanti avrebbe commentato: “Guarda questo pezzo di merda!”.

 

“Il governo è incompetente: qui si convive con la morte”

Ghislain Muhiwa è un militante della Lucha-Lotta per il cambiamento, un movimento che da anni si batte per la difesa dei diritti umani nella Repubblica Democratica del Congo. Lo contattiamo mentre è a Goma, poco lontano da dove si è tenuto l’attacco armato in cui sono morti l’ambasciatore italiano Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci.

Il governo di Kinshasa ha accusato dell’agguato le Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr), che hanno smentito ogni implicazione…

È irresponsabile da parte del governo avanzare tali accuse dal momento che non è possibile confermarle. Non è stata condotta nessuna inchiesta seria e indipendente. Questo atteggiamento dimostra, ancora di più, che i vertici dello Stato congolese sono incompetenti.

Chi è il responsabile dell’assalto mortale?

Non lo sappiamo. I ribelli ruandesi dominano nel Parco nazionale dei Virunga, ma più di 120 gruppi armati operano nell’est della RDC. Né bisogna ignorare che sono presenti sul territorio anche eserciti stranieri, tra cui quello ruandese. Si sa anche che molti generali dell’esercito repubblicano, come dimostrano rapporti ufficiali, tra cui uno del GEC, il Gruppo di studio sul Congo, sono complici dei massacri. La loro impunità è inaccettabile.

Come agiscono le Fdlr?

Hanno cominciato a operare in RDC dopo il genocidio del Ruanda del 1994. Occupano delle boscaglie sperdute del Parco dei Virunga e sfruttano il territorio per vendere la legna, spesso con la complicità di comunità locali. Si danno a saccheggi, aggrediscono le donne. Rivendicano gli stupri per imporsi sul territorio.

Le sembra possibile che il governo della RDC non fosse al corrente, come ha detto, che il convoglio dell’ambasciatore Attanasio era in missione in quella zona per il World Food Program?

Il governo sostiene che non era informato, ma è vero? È ancora presto per dirlo. Abbiamo appreso che l’ambasciatore Attanasio aveva raggiunto Bukavu da Goma. È possibile che i Servizi segreti non abbiano passato l’informazione? Sarebbe strano e inaccettabile. Il governo è tenuto a mettere in sicurezza il territorio. La zona dell’agguato è vicina al villaggio di Kibumba, poco lontano da Goma. Qui è anche presente una base delle Forze armate della RDC. Non si tratta di un luogo remoto, ma c’è comunque da chiedersi come mai l’ambasciatore italiano abbia lasciato Kinshasa per l’est senza una scorta adeguata.

Da anni denunciate l’insicurezza nel Paese…

Nel 2020 abbiamo contato più di 4.000 morti tra i civili, solo in un anno e solo nell’est. Sappiamo che oggi in un attacco a Beni sono rimasti uccisi tre civili. Capita tutti i giorni. Le persone vivono con la paura addosso. Quando escono la mattina non sanno se rientreranno a casa la sera, se si ritroveranno coinvolti in un’imboscata, se capiteranno in mezzo a gruppi armati o banditi locali.

Siete stati molto critici in passato contro l’ex presidente Kabila, qual è il bilancio dall’arrivo di Félix Tshisekedi?

Non c’è solo un problema di personaggi, ma di sistema. Le pratiche del vecchio governo si riproducono tali e quali ora. Dal 2019 Tshisekedi fa promesse per instaurare la pace nell’est della RDC, ma le persone continuano a morire. Bisogna che tutti, anche la comunità internazionale, si assumano le proprie responsabilità per mettere fine a questa barbarie.

Luca, Sergio e gli altri: le missioni di sola andata

La lista che riporta i nomi degli ambasciatori uccisi in missione è sorprendentemente lunga. Da ieri, purtroppo, è stata aggiornata, con un nome che non avremmo mai voluto leggere, quello di Luca Attanasio, il nostro giovane ma esperto rappresentante nella Repubblica Democratica del Congo.

Dagli inizi del 900, sono 36 gli ambasciatori assassinati mentre operavano nelle nazioni dove erano stati assegnati dai propri governi. Per riflettere sulla vita dei diplomatici caduti che credevano davvero nei diritti umanitari e nella pace, è istruttivo seguire in un documentario e in un film intitolato Sergio (prodotto da Netflix) la vita in missione di uno dei migliori: il brasiliano Sergio Viera de Mello che venne ucciso in Iraq nel 2003 da un’autobomba schiantatasi contro l’hotel dove risiedeva. Durante la sua lunga carriera di ambasciatore, contribuì a risolvere la crisi a Timor Est, si spostò alcuni anni in Congo, come Attanasio, e in seguito venne inviato a Baghdad all’inizio della seconda guerra del Golfo con un grado decisamente più alto: Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani e Rappresentante Speciale del Segretario generale dell’Onu in Iraq. La compagna Carolina Larriera ha lanciato nel 10° anniversario dell’omicidio, 7 anni fa, una indignata e grave accusa: “Non sono stati solo i terroristi in Iraq a dilaniare la mia vita e quella di Sergio. Sono state anche le istruzioni provenienti dai leader principali dell’Onu e degli Stati Uniti che hanno coperto con una coltre di silenzio le circostanze dell’attacco, e hanno cercato di riscrivere la storia della vita di Sergio Vieira de Mello”.

Il primo ambasciatore assassinato nella storia degli Stati Uniti è stato John Gordon Mein nel 1968, all’età di 54 anni. Allora il presidente era Lyndon Johnson che assegnò Mein alla sede diplomatica di Città del Guatemala quando nel Paese centroamericano era in corso una sanguinosa guerra civile in cui gli Stati Uniti erano “indirettamente” coinvolti. Mein fu colpito da ribelli appartenenti alle forze armate ribelli (Far) a un isolato dal consolato. I funzionari statunitensi credevano che le Far intendessero rapirlo per negoziare uno scambio, ma invece gli spararono quando tentò di scappare. Una storia che ricorda quella di Attanasio.

L’assassinio più mediatico e controverso della storia recente è stato quello dell’ambasciatore statunitense in Libia, John Chris Stevens, 52 anni, durante l’amministrazione Obama in cui la futura candidata presidenziale Hillary Clinton occupava la carica di segretario di Stato. Vale la pena sottolinearlo perché Clinton fu accusata di non aver saputo gestire l’affaire e di avere addirittura manipolato la vicenda. Il letale attacco avvenuto nel 2012 contro il compound dell’ambasciata Usa a Bengasi fu portato a termine da un grande numero di persone armate ed esperte e non da semplici musulmani del luogo furiosi a causa di uno sconosciuto film sulla vita di Maometto. Questa era stata la prima versione ufficiale dalla Segreteria di Stato che successivamente ammise che non era in corso alcuna protesta prima dell’attacco. Secondo le inchieste, i veri colpevoli sono i jihadisti del gruppo estremista islamico Ansar al-Sharia, ma alcuni analisti sostengono che ancora oggi tante cose non tornano nelle dichiarazioni ufficiali delle istituzioni americane.

Ma morire in missione, talvolta, può accadere anche in teatri non di guerra e, in teoria, civili e pacifici, come Roma. Qui l’ambasciatore turco presso la Santa Sede, Taha Carim, nel 1977 fu ucciso da un gruppo armato armeno.

Attanasio, si fa strada l’ipotesi del fuoco amico

Esecuzione per ritorsione, tentato rapimento per vendetta e/o riscatto, errore da “fuoco amico”. Le ipotesi su come e perché l’ambasciatore italiano, Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista congolese Mustapha Milambo impiegato dell’Onu siano stati uccisi in un’imboscata sulla strada che da Goma porta a Rutshuru, nella parte orientale della Repubblica del Congo, sono tante e varie. Gli investigatori del Ros, in missione a Kinshasa, intendono acquisire informazioni sulle armi in dotazione ai ranger che difendono il parco nazionale di Virunga, intervenuti subito dopo l’attacco al convoglio del Pam lungo la strada tra Goma e Rutshuru, nella provincia del Nord Kivu, martoriata dalla presenza di milizie etniche, criminali e jihadiste, ma ritenuta percorribile senza scorta dalle Nazioni Unite.

L’analisi delle armi dei ranger sarà utile per capire se è stato uno dei loro proiettili a colpire gli italiani. Il governo della RDc ha la sua versione: i due italiani sono stati uccisi dai loro rapitori, armati con “cinque kalashnikov e un machete”. L’autista è stato ucciso “per creare il panico” e i ranger e le Forze armate congolesi si sono messe alle calcagna del nemico. I rapitori “hanno sparato da distanza ravvicinata sul carabiniere, uccidendolo, e sull’ambasciatore, ferendolo all’addome”. Attanasio è morto “un’ora più tardi all’ospedale della Monusco a Goma”. Sull’auto dell’ambasciatore, che non era blindata, viaggiava anche Rocco Leone, vicecapo del Pam (Programma Alimentare Mondiale) in Kivu, rimasto illeso. Leone aveva organizzato il viaggio. Ora è in stato di choc. Rocco è un esperto d’Africa che frequenta da una ventina d’anni, quando era in Sudan, sempre per un’agenzia dell’Onu. Conosce bene il territorio e quanto fosse pericolosa quella strada che aveva percorso parecchie volte. Perde valore l’ipotesi che il gruppo si sarebbe messo in viaggio senza prima accertarsi delle condizioni della strada e non avesse avvisato le autorità, secondo cui, invece, gli italiani sono stati imprudenti. Tra l’altro, l’ambasciata italiana a Kinshasa aveva richiesto un’auto blindata per il capo della delegazione, ma la pratica, con i tempi della burocrazia, è ancora lì giacente. Nessuna sorpresa giacché qualche anno fa le fotocopiatrici della legazione si erano rotte una via l’altra e nessuno da Roma si sognava, nonostante fossero passati mesi, di fare arrivare i pezzi di ricambio. Le salme di Luca Attanasio e Vittorio Iacovacci sono giunte ieri notte a Roma con un aereo militare. I miliziani di etnia hutu dell’FDLR (Fronte Democratico di Liberazione del Ruanda) subito dopo l’attentato accusati di essere i responsabili dell’agguato, hanno smentito. Un loro portavoce, Cure Ngoma, in un comunicato inviato anche al Fatto Quotidiano, ha spiegato che nella regione operano più di 100 gruppi armati. “Non capisco perché le autorità congolesi hanno puntato il dito contro di noi. Non abbiamo svolto alcun ruolo in quell’odioso omicidio”

Il Kivu, sia la parte settentrionale sia quella meridionale, è da anni teatro di bellicose contese tra i gruppi etnici hutu e tutsi, una guerra che ha avuto il suo apice nel 1984 con il genocidio in Ruanda. Il feroce antagonismo, che in Europa viene spesso presentato come un conflitto etnico ma che invece nasconde interessi economici enormi, dal Ruanda si è spostato in Congo, dove l’esercito hutu si è rifugiato dopo la sconfitta da parte dei tutsi. Gli hutu che controllano a macchia di leopardo parte del territorio del Congo orientale non tollerano la presenza dei ruandesi tutsi. “Il governo congolese – scrive un intellettuale di Goma che per motivi di sicurezza vuole restare anonimo – ha appena firmato con il Ruanda un accordo che permette all’esercito di Kigali di entrare in Congo per combattere le milizie tutsi. È già successo 25 anni fa e allora ci siamo ritrovati con le truppe ruandesi che hanno controllato tutte le zone minerarie per più di due lustri”. Che l’esercito ruandese stia conducendo operazioni militari sul territorio del Kivu, in violazione delle misure prese dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, viene denunciato dal gruppo di esperti dell’Onu incaricato di controllare il rispetto dell’embargo sulle armi in Congo. Intanto da ieri gli ambasciatori, i diplomatici e membri delle rappresentanze straniere non potranno lasciare Kinshasa per l’interno del Paese, senza informare prima il ministero degli Esteri. Lo ha annunciato la ministra Marie Thérèse Tumba Nzeza, al termine di un consiglio di sicurezza convocato proprio dopo la morte degli italiani.

I due inventori della modernità

1821: il 9 aprile è nato Charles Baudelaire, il 12 dicembre Gustave Flaubert. Omaggiamo questo doppio centenario, e sia un doppio vaccino contro tanta virulenta pseudoletteratura.

A scorrere le loro vite, si trovano coincidenze che è impossibile non rilevare. Le madri – Caroline Dufay e Anne Justine Caroline Fleuriot, chiamata Caroline, come poi la sorella e la nipote di Flaubert – sono nate nello stesso anno, il 1793, lo stesso mese, il 27 e il 7 settembre, e sono morte a pochi mesi di distanza verso gli ottant’anni. Uno è parigino, l’altro normanno, ma la madre del parigino si trasferirà in Normandia, e quella del normanno andrà spesso a Parigi nei lunghi soggiorni del figlio. Entrambi si iscrivono a Legge e, invece di studiare, fanno amicizie tra artisti e letterati, scrivono, frequentano teatri e bordelli, prendono la sifilide, hanno disturbi nervosi. Nessuno dei due si sposa né si riproduce. Sono processati nel 1857 per immoralità a causa del loro primo libro: Madame Bovary esce in aprile e le Fleurs in giugno. Il pubblico ministero è lo stesso: Ernest Pinard; il 7 febbraio il Tribunale assolve Flaubert, il 20 agosto condanna Baudelaire a 300 franchi di ammenda e alla soppressione di 6 poesie.

Baudelaire è “castano, di statura media, magro come un asceta, riservato”. Così Flaubert nel ‘57: “Ho 35 anni, sono alto cinque piedi e otto pollici (1,84), ho delle spalle da facchino e un’irritabilità da fanciulla civettuola”. E così i Goncourt: “Baudelaire mangia a fianco a noi, senza cravatta, col collo scoperto, la testa rasata, in tenuta da condannato alla ghigliottina. La testa di un folle, la voce nitida come la lama di un coltello”; e di Flaubert: “Molto alto, fortissimo, grandi occhi sporgenti, palpebre gonfie, guance piene, baffi ruvidi e cascanti (…) goffo, eccessivo e privo di leggerezza in ogni cosa, nello scherzo, nella caricatura”.

Baudelaire è riservato, ma senza ritegno quanto a esibizionismo: molto eccentrico nell’abbigliamento, un giorno può apparire coi capelli verdi, e un giorno tutto rasato, e poi con lunghi capelli bianchi… Insomma, sono entrambi grandiosamente teatrali; eppure solitari: “Senso di solitudine, dall’infanzia. Nonostante la famiglia – e in mezzo ai compagni, soprattutto – senso di destino eternamente solitario”, scrive uno; “Sono scapolo e solitario… Un orso bianco non è più solitario” scrive l’altro.

Si dichiarano reazionari, disprezzano la democrazia, la borghesia e anche le donne. Amano la prostituzione quasi più delle prostitute: “L’amore è il gusto della prostituzione. Non c’è un piacere nobile che non possa essere riportato alla prostituzione” dice uno; “Sì e centomila volte sì preferisco una puttana a una sartina” e “Mi piace la prostituzione (…) lussuria, amarezza, niente rapporti umani, frenesia di muscolo e tintinnio d’oro, che a guardarci dentro viene la vertigine!” dice l’altro. Hanno ammirato Nerone, e questa ammirazione non può che venire da una vena di sadismo (Sade era molto di moda presso i romantici): “È tenero come il cervello di un bambino”, dice Baudelaire mangiando un filetto; “Ormai si cammina calpestando budella e si comincia a sentir puzza di bambino bruciato. Baudelaire sarà contento!” dice Flaubert parlando di Salammbô.

Condividono dei gusti letterari. Baudelaire scrive a Hugo: “Ho l’impressione (forse dovrei dire l’orgoglio) di capire tutte le vostre opere. Vi amo come amo i vostri libri”. Flaubert scrive di Hugo: “È l’uomo della poesia, della reazione, l’uomo del secolo, cioè l’oggetto dell’odio, della maledizione e dell’invidia; è proscritto in questo secolo, sarà Dio nell’altro”. Scrive Baudelaire: “Si dice che Balzac carichi la sua copia e le bozze in maniera fantastica e disordinata. È senz’altro questo cattivo metodo che dà spesso allo stile quel non so che di confuso, di scombinato e di scomposto – il solo difetto di quel grande storico”. Scrive Flaubert: “Che uomo sarebbe stato Balzac, se avesse saputo scrivere! Ma non gli manca che questo. Un artista, dopo tutto, non avrebbe fatto tanto, non avrebbe avuto questa vastità”.

Scrive Baudelaire di George Sand: “Ha il famoso stile scorrevole, caro ai borghesi. È stupida, è pesante, è chiacchierona; nelle idee morali ha la stessa profondità di giudizio e la stessa delicatezza di sentimento dei portinai e delle mantenute”; scrive Flaubert: “In G Sand, si sentono le perdite bianche; che scolano, e l’idea scorre tra le parole, come tra cosce senza muscoli”. Sognano una “prosa poetica”: Baudelaire: “Chi di noi non ha sognato, nei suoi giorni di ambizione, il miracolo di una prosa poetica, musicale senza ritmo e senza rima, così agile e così aspra da adattarsi ai movimenti lirici dell’anima, alle ondulazioni della fantasticheria, ai soprassalti della coscienza?”; Flaubert: “Voler dare alla prosa il ritmo del verso (lasciandola prosa e molto prosa) e scrivere la vita ordinaria come si scrive la storia o l’epopea (senza snaturare il soggetto) è forse un’assurdità. Ecco cosa mi domando a volte”.

Ma sono stati amici? Tutto quello che sappiamo è dalle lettere rimaste – nove di Flaubert e cinque di Baudelaire – che datano dall’anno dei processi al 1862: si sono incontrati più volte, si sono stimati, si sono ammirati; si direbbero anche un po’ intimiditi uno dall’altro, come se avessero percepito reciprocamente la loro tremenda energia. Ma amici non sono mai diventati. L’epistolario ci dice molto del loro rapporto con la madre: forse una madre forte e incombente è all’origine dell’instabilità amorosa, e forse anche dello strano connubio tra il perdurare dell’infanzia e la comprensione precoce di sé e del mondo. Baudelaire: “Sono egoista come i bambini e i malati”; Flaubert: “Se dicessi tutto quello che c’è in me di vuoto, di sciocco, di sventato e di puerile, sarebbe ancora peggio delle peggiori facezie”.

In entrambi, verità espressiva e responsabilità morale diventano una sola cosa nella scrittura. Dice Flaubert: “Bisogna ispirarsi all’anima dell’umanità, non alla propria. Se solo la letteratura moderna fosse morale, diventebbe forte”. E Baudelaire: “Fa’ tutti i giorni, ciò che vogliono il dovere e la prudenza. Se tu lavorassi tutti i giorni, la vita ti sarebbe più sopportabile”. Ecco, lo stile è, insieme, senso del piacere e senso del dovere, ed è con la precisione dello stile che Baudelaire e Flaubert, questi due “giganteschi inventori della modernità” (parola di Raboni) si sono fatti forti, hanno trovato il modo di resistere: resistere alle opprimenti Caterine come all’opprimente mondo borghese, e resistere alla grandezza di Hugo e di Balzac come all’incomprensione e all’ostilità dei mediocri.

Questo scritto è una sintesi della postfazione a Giovanni Raboni, Baudelaire (Flaubert) che uscirà in ottobre per Einaudi

 

De Girolamo, tra Pene d’amore e ridarella

“Si versano più lacrime per le preghiere esaudite che per quelle non accolte”, ha scritto Truman Capote, ma Nunzia De Gerolamo non sarà d’accordo, entusiasta com’è di condurre il suo primo talk show, Ciao Maschio (sabato, Rai1), più di quanto Luigi Di Maio non sia felice di appartenere al primo governo Draghi. “Donne e motori, gioie e dolori”: questo il raffinato concept del talk di quarta serata in cui l’ex ministra delle Politiche agricole intercetta le pene d’amore di Guido Crosetto, Luca Barbareschi e Francesco Sarcina. “Ne ho fatte soffrire veramente tante…”, “Mia madre mi ha dato un’educazione siberiana…”, “Dopo 15 anni è come il primo giorno…”. Piange il telefono, ma può anche ridere se chiama Giorgia Meloni (“Guido, non lasciarmi sola”). C’è spazio per il gioco dei difetti; non per quello della bottiglia, ma siamo alle prime puntate.

L’aspetto più interessante di Ciao Maschio è il suo essere una preghiera esauditissima. De Girolamo personaggio televisivo lo era da tempo, è entrata dal portone principale, la grottesca metamorfosi della politica in reality show; pur con qualche disavventura giudiziaria, è divenuta ministro senza perdere il ritmo di due-tre talk a settimana. Eppure, dentro di sé, non era felice. Nella nostra classe dirigente ci sono personaggi dello spettacolo che sognano di diventare ministri, ma anche ministri che sognano di diventare showman e showgirl (pensa un po’ come siamo messi). Oltre le Politiche agricole c’è di più, avrà pensato Nunzia. Così ha ballato con le stelle, ha opinato nelle arene di Giletti e ora ha debuttato come padrona di casa. Pentita? Al contrario. Nell’umbratile mondo dell’oltremarzullo si muove controcorrente, non va alla ricerca del tempo perduto, ma gioca, scherza, allude… a volte non riesce a trattenere la ridarella e gli ospiti ammutoliscono aspettando che si riprenda. Capote prenda nota: ci sono preghiere esaudite che fanno piangere di felicità.

La strana coppia Mimmo & Giggino

Luigi De Magistris plana sulle elezioni calabresi con la grazia di un elefante e con l’opportunità politica di un Bertinotti d’altri tempi. Da sindaco di Napoli a presidente della Calabria, così, di botto, senza senso, si può? Certo che sì, soprattutto se il tuo ego è grande come una regione. De Magistris si candida e si trova già in eccellente compagnia. Con lui è pronta a schierarsi la sinistra-sinistra: Rifondazione, Sinistra Italiana, Potere al Popolo e altre anime della galassia post-comunista. Soprattutto, con Luigi s’è già schierato Mimmo Lucano, l’ex sindaco di Riace. La strana coppia: l’ex magistrato e l’uomo finito nel mirino della magistratura. Un primo risultato Luigi&Mimmo l’hanno ottenuto: il centrosinistra è spaccato e la destra torna la naturale favorita alle urne, dopo la morte della governatrice di Forza Italia, Jole Santelli. Quello calabrese poteva essere uno scenario per ricomporre l’alleanza giallorossa spianata a Roma dalla ruspa renziana, invece per adesso prevalgono gli ego pronunciati. Il Pd pure ha tentato il salto nel vuoto, lanciando in solitudine la candidatura del consigliere regionale Nicola Irto. DeMa ha fatto il resto, scavando un nuovo fossato nel perimetro del centrosinistra. In fondo, fare il personaggio è più comodo che fare il governatore.