Omicidio Caruana Galizia, reo confesso uno dei tre sospettati: condannato a 15 anni

È stato un vero colpo di scena. Vince Muscat, uno dei tre uomini in carcere dal dicembre 2017 per il presunto coinvolgimento nell’assassinio, il 16 ottobre di quell’anno, della giornalista investigativa maltese Daphne Caruana Galizia, ha confessato spontaneamente durante una udienza del processo. Quando la Corte gli ha chiesto se intendeva riconsiderare la propria confessione di piena responsabilità per ogni addebito, ha ripetuto la propria confessione. E alla richiesta se volesse riascoltare le accuse, volta a confermare che avesse compreso la portata di quella ammissione, ha risposto che non era necessario. Le ripercussioni? Il suo dossier viene stralciato da quello degli altri due indiziati, i fratelli George e Alfred Degiorgio, come lui sospettati di aver piazzato e fatto esplodere la bomba che fece saltare in aria l’auto di Daphne. E, soprattutto, la collaborazione con gli inquirenti verrà premiata con un sostanziale sconto di pena, dal probabile ergastolo a 15 anni, e il pagamento di spese processuali per 40mila euro. Sembra essere stata proprio la prospettiva di finire i suoi giorni in carcere ad aver motivato Muscat, detto anche Il-Kohhu, a collaborare, specie dopo che la sua richiesta di grazia era stata rifiutata, a gennaio, dal presidente maltese Robert Abela, mentre le 118 obiezioni alle accuse erano state respinte dal collegio giudicante a ottobre. Con interessante tempismo, poco dopo la confessione di Muscat, la polizia maltese ha arrestato tre uomini sospettati di aver fornito l’esplosivo, i fratelli Adrian e Robert Agius e il loro presunto complice Jamie Vella. “Il macabro assassinio è stato premeditato e si sarebbe dovuto prevenire”, hanno commentato i familiari della giornalista uccisa in un commosso comunicato letto in aula dal loro avvocato Jason Azzopardi, esprimendo poi la speranza che “questo sviluppo porti all’ottenimento di una piena giustizia per Daphne Caruana Galizia”. Grazie alla caduta di una intera classe politica maltese e, forse di conseguenza, all’azione di giudici e investigatori finalmente motivati e determinati a fare luce sulla vicenda, le cose sembrano muoversi nella giusta direzione, che sembra essere la ricostruzione del contesto politico in cui sarebbe maturato l’omicidio. Non è escluso che ci siano presto altri arresti, stavolta eccellenti.

Si rifiutò di dare 15 mila euro: niente rinnovo per il contratto

“Se dai, ci sei. Se non dai, non ci sei”. È l’aut aut che Antonio (nome di fantasia), ex dipendente assunto con un contratto a tempo determinato da un gruppo consiliare del Pirellone collegato alla Lega nella legislatura Maroni, si è sentito porre nell’agosto 2016 da un emissario del Carroccio. Per essere confermato anche in quella successiva – quella di Attilio Fontana – avrebbe dovuto versare 5mila euro l’anno, per 3 anni. Un ricatto a cui Antonio ha detto no. Risultato: è stato l’unico impiegato del suo ufficio a non essere riconfermato. La dimostrazione che quando il Carroccio era alla disperata ricerca di soldi, braccato dai giudici d Genova, non ha esitato a chiederli non solo ai nominati ma anche ai dipendenti.

La “proposta” ad Antonio, militante di lunga data, autonomista, uno dentro alla macchina leghista dall’origine, arrivò da uno sconosciuto che “si è presentato come mandatario di un corpo direttivo. Arrivava dal Direttivo federale, anche se non risultava avere cariche”. Lo scopo dell’incontro era chiaro: “Mi chiese denaro”, spiega Antonio, “5 mila euro l’anno, per il triennio 2016/18, tantissimo rispetto al mio stipendio. Se avessi pagato, disse, mi avrebbero ripreso a lavorare”. Ma lui rispose no: “Dissi che la mia non era né una nomina politica, né una carica elettiva. Che non ero neanche assunto dal Movimento”. E ne pagò le conseguenze: “Non sono stato ripreso. Anzi, hanno cercato di lasciarmi a casa prima della fine della legislatura. Poi qualcuno si è opposto, dicendo che sarebbe stato controproducente”, così lo tennero fino alla scadenza di Maroni. Un rifiuto “etico”: il mio lavoro era pagato dai lombardi, che si aspettano da me un comportamento nell’interesse della collettività e non degli interessi particolari”.

Inutili gli appelli ai vertici storici del partito: “Ho chiamato persone in alto e mi hanno risposto con un panegirico. Rimasi a casa, credo che le alte sfere fossero d’accordo”. Da allora Antonio è fuori da tutto, sfiduciato e deluso: “Negli ultimi anni il Movimento è cresciuto. Il nazionalismo sfrenato di Salvini ha portato a casa cadaveri, pressappochisti e poltronisti arrivisti incravattati, che puntano ai posti. Io non ne voglio più sapere”.

“In via Bellerio mi dissero: non forzare perché è illegale”

Per tre anni, dal 2015 a fine 2017, ha svolto il compito che i vertici della Lega Lombarda gli avevano assegnato: sollecitare le somme che i nominati dovevano versare al movimento. Circa il 10% del compenso, da bonificare entro la fine del mandato. Carlo, nome di fantasia, è l’incaricato che doveva tentare di recuperare i dané dai nominati nelle partecipate, mentre “della sanità allora si occupava Claudio Cogliati (ex presidente del Pio Albergo Trivulzio, ndr)”. Carlo, dimissionario all’inizio del 2019 perché “deluso da quella gente che ha tradito gli ideali autonomistici per tutelare le proprie poltrone nel nuovo corso nazionalista”, ha accettato di raccontare al Fatto cosa avveniva in via Bellerio.

Quali erano i suoi compiti?

Tra il 2016 e il 2017 nella Lega Lombarda non si sapeva più chi avesse fatto nominare chi, se il nominato avesse versato il contributo, quanto dovesse ancora… Così Paolo Grimoldi decise di fare ordine istituendo un servizio di “riscossione e rendicontazione”. Io andavo sul sito della Regione, annotavo i soggetti riconducibili alla Lega, li contattavo o mi limitavo a trasmettere i nominativi, secondo le indicazioni. Soprattutto nell’imminenza della fine del loro mandato. Si dovevano però evitare i dipendenti assunti, “quelli non forziamoli, perché è illegale”, mi dicevano.

Per chiedere ai nominati dei soldi?

Per ricordare loro della “donazione spontanea” che avrebbero dovuto fare. Ma era raro che fosse spontanea. Bisognava insistere.

Quindi li obbligavate?

Non direttamente, ma il messaggio era chiaro: “Presto ci saranno i rinnovi delle nomine, c’è un sacco di gente che vorrebbe il tuo posto. Se dessi un contributo, saresti messo molto meglio…”. Tradotto: “La donazione è libera, ma o ci dai il denaro o al prossimo giro sei fuori”.

Ma così i nominati diventavano ricattabili.

Non voglio esprimere un giudizio personale. Chiunque è in grado di trarre le dovute conclusioni.

E pagavano tutti?

I militanti generalmente pagavano, specie se non avevano protezioni da molto in alto. I tecnici, invece, spesso si negavano. Anche perché la Lega scarseggiava di figure specifiche da mettere nei posti a lei assegnati. Quindi spesso si trovava costretta a lasciar spazio ai ciellini. E quelli col cavolo che sganciavano.

E se un nominato diceva no?

Si muovevano le alte sfere: si tentava di convocarlo in Bellerio con un pretesto e lì penso intervenissero Grimoldi o Borghesi o altri a parlargli.

Gli eletti pagavano regolarmente?

Quasi tutti mensilmente tranne qualche eccezione: Massimo Garavaglia, con la scusa che doveva pagarsi un avvocato, a un certo punto smise di farlo.

Quanti soldi erano?

Nel 2017 feci una stima di quanto avremmo potuto incassare se tutti i nominati avessero versato: su base triennale mancava quasi un milione. Solo per la Lombardia. Borghesi (Stefano, parlamentare e commercialista della Lega, socio degli indagati Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba, ndr) a fine anno mi disse: “Ora che scadono i mandati e si decidono incarichi e candidature abbiamo d’un colpo ricevuto un sacco di contributi!”.

Chi teneva i conti?

Era tutto in mano al vicesindaco di Monza, Simone Villa, che si accertava anche che i pagamenti avvenissero sempre con bonifico, così il soggetto erogatore poteva avere un 26% di detrazione fiscale. Il referente però era Borghesi. Il venerdì andavo in via Bellerio a fare il punto. A volte vedevo Manzoni, che in genere stava al Federale, da Salvini.

Come ha iniziato?

Grimoldi mi disse: “Abbiamo un sacco di soldi da prendere… Se tu, con i dovuti modi, li solleciti, ci fai un favore…”. Non ho mai preso denaro, ero un volontario, non mi rimborsavano neanche il carburante, ma per mia volontà.

Questa gestione riguardava solo la Lombardia?

Ritengo accadesse in tutte le altre Regioni, era un modus operandi del partito previsto dal regolamento.

Il sistema 15%: il libro mastro della lega

Lo scorso dicembre abbiamo raccontato come la Lega, dal 2004 al 2014, abbia organizzato un sistema di finanziamento interno basato sui nominati: dirigenti sanitari, consiglieri d’amministrazione e revisori contabili che per dieci anni hanno restituito al partito il 15% del proprio stipendio pubblico. Ora possiamo svelare che il famoso “sistema del 15%” è continuato anche sotto la gestione di Matteo Salvini: ribassato a un più contenuto 10%, ma organizzato in modo ancor più maniacale. A dirlo è un registro di contabilità interna – di cui il Fatto è entrato in possesso –, una trentina di pagine che riassumono nei dettagli tre anni di gestione finanziaria della sezione lombarda della Lega: 2015, 2016 e 2017. Periodo in cui a capo del partito in regione c’era Paolo Grimoldi, deputato, fedelissimo di Salvini, nominato proprio dal leader nazionale del partito. I documenti ottenuti grazie a una fonte interna alla Lega, contengono la lista di chi in quegli anni girava parte del proprio stipendio al Carroccio. Nomi, cognomi, posto d’assegnazione e cifra versata. Nell’elenco ci sono attuali ministri del governo Draghi, consiglieri e assessori (quindi politici), ma anche tanti dirigenti pubblici. Che, in teoria, dovrebbero essere nominati solo sulla base di merito e competenze.

Tutti questi soldi confluiti nelle casse del partito sono stati versati come “erogazione liberale”. Una dicitura che permette di ottenere un trattamento fiscale di favore: chi dona può infatti detrarre la somma dalle tasse. Di certo con questo sistema la Lega in Lombardia ha raccolto parecchi soldi: 660mila euro nel 2015, altri 640mila nel 2016. E questo riguarda solo la Lombardia; esclusi quindi i quattrini bonificati alla sede centrale del partito e a tutte le altre sezioni regionali.

“La pazienza delle persone perbene ha un limite, da oggi querelo chiunque accosti il mio nome a gente mai vista né conosciuta”. Così parlava Salvini il 16 luglio 2020, all’indomani della notizia dell’inchiesta aperta dalla Procura di Milano sulla Lombardia Film Commission, l’ente pubblico vittima di un peculato da 800mila euro architettato, secondo le accuse dei magistrati, da Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, i due commercialisti scelti per gestire le malandate finanze del partito insieme al compagno di università Giulio Centemero, deputato e tesoriere della Lega. Nei documenti interni ci sono i nomi di Centemero, Manzoni e Di Rubba, con i loro versamenti fatti in relazione alle nomine pubbliche. Di Rubba, stando al registro, ha versato 1.000 euro alla Lega nel 2016 proprio per la poltrona da presidente della Lombardia Film Commission. Lo stesso ente da cui, secondo i magistrati di Milano, in quegli anni avrebbe fatto uscire 800mila euro con l’intento di prendersene una buona parte e investirla in due villette sul Lago di Garda, una per lui e una per il collega Manzoni.

Tra le società più grandi citate nei tabulati c’è poi Fiera Milano Spa. Quotata a Piazza Affari e controllata da Regione Lombardia, gestisce lo spazio fieristico più grande d’Italia. I documenti raccontano che Attilio Fontana, quando era vicepresidente della Fiera, per quell’incarico avrebbe versato soldi alla Lega: 5mila euro all’anno, nel 2015 e nel 2016. Poco più del 10% previsto, visto che il contratto con la Fiera prevedeva una paga annua di 43.050 euro.

Tra i tanti pagatori spicca poi Andrea Mascetti, avvocato presente nei cda di alcune delle più importanti società italiane, da Intesa Sanpaolo a Italgas: avrebbe versato al partito 4.741 euro nel 2015, quando è diventato (a giugno) presidente di Nord Energia, e 8mila esatti euro l’anno dopo, praticamente il doppio, mentre anche lo stipendio da manager pubblico raddoppiava.

Il dirigente in quota Lega più generoso è stato però Andrea Gibelli: 15mila euro nel 2015, 20mila euro nel 2016. D’altra parte anche lo stipendio da nominato era di tutto rispetto. Sotto il nome di Gibelli, come per tutti gli altri, il funzionario della Lega che ha compilato il tabulato ha segnato la qualifica: presidente di Fnm, la holding dei trasporti lombardi quotata in Borsa. La regola del 10% è stata rispettata anche in questo caso. Nel 2015 lo stipendio di Gibelli come presidente di Fnm (per mezzo anno di servizio) è stato di 153mila euro. Nel 2016 è aumentato a 290mila euro e parallelamente è cresciuto il suo contributo alla causa salviniana.

Tra i donatori più fedeli ci sono poi alcuni politici che nel frattempo hanno fatto carriera. Come Massimo Garavaglia, neo ministro del Turismo. Tra il 2015 e il 2017, quando era assessore al Bilancio in Lombardia, Garavaglia – secondo la contabilità interna – avrebbe versato 32.500 euro. Soldi donati insieme alla moglie, Marina Roma, oggi sindaco nel Ccomune milanese di Marcallo, ovviamente leghista. Ancor più generoso è stato Massimiliano Romeo, all’epoca consigliere regionale al Pirellone, oggi capogruppo della Lega al Senato e in corsa per un posto da sottosegretario nel governo Draghi: dal 2015 al 2017 Romeo avrebbe versato alla Lega Lombarda 50.300 euro.

Fatta eccezione per i politici di professione, il grosso della lista dei donatori è costituito però da semisconosciuti “piazzati” su varie poltrone pubbliche. Il presidente dell’Aler Milano (Mario Angelo Sala), il consigliere d’amministrazione del Policlinico San Matteo di Pavia (Giuseppe Zanoni), quello dell’Istituto dei Tumori (Andrea Gambini) e dell’Istituto Besta (Ivano Locatelli e Paola Bergamaschi), il revisore contabile della Fondazione Stelline (Simona Ferraro).

E poi i dirigenti sanitari, pezzo forte delle nomine padane da oltre dieci anni. Nei nuovi documenti sono elencati i vertici di tutta la sanità lombarda. Compresi alcuni di quelli già trovati nelle liste del decennio 2004-2014. Ci sono ad esempio Mara Azzi e Mauro Borelli, direttori generali della sanità, oggi in carica rispettivamente alla Ats di Pavia e alla Asst Franciacorta. Manager pubblici che hanno versato ininterrottamente alla Lega per almeno 13 anni. E che oggi sono ancora in carica, sempre più in alto nelle gerarchie della sanità lombarda. Carriere da urlo per gli aficionados dell’obolo leghista.

Vaccini, Campania a caccia di anziani over 80: in troppi non si presentano

Il tam tam corre tra i medici di base di Napoli e ci viene confermato da un medico di base dell’area est della città: in questo momento a Napoli ci sono più vaccini Pzifer che ultraottantenni disposti a riceverlo, e così dal centro vaccinale della Mostra d’Oltremare stanno partendo sms a raffica per invitare gli anziani a vaccinarsi. Il motivo risiede in un mix di fattori: la Campania è la regione più giovane del paese – pochi gli anziani in rapporto alla popolazione – e il sistema a doppia identificazione (sms di conferma ed email dopo inserimento sulla piattaforma web della Regione dei dati della tessera sanitaria) non è agevole per persone che di solito a quella età non hanno dimestichezza con smartphone e pc. “Bisognerebbe procedere a vaccinare più persone possibili senza il vincolo dell’età” sostiene il nostro medico. Questa settimana in Campania sono arrivati 44.000 sieri Pfizer, la settimana prossima se ne prevedono 46.800. Mentre i vaccini Astrazeneca inviati questo mese e riservati a insegnanti e ad altre categorie dovrebbero superare di poco i 100.000. A Napoli si procede con 2.000 vaccini al giorno: 1.000 la mattina per gli anziani, 1.000 il pomeriggio per i docenti. E come se non bastasse, circola su whatsapp una fake news sull’apertura della campagna vaccinale per altre sei categorie di cittadini, una sorta di avvio della vaccinazione di massa. Una comunicazione falsa, ma ben congegnata, smentita dalla Regione Campania con un tweet di De Luca.

“C’è l’ombra degli 007 nell’affare mascherine”

C’è un momento in cui i contatti tra il commissario straordinario per l’emergenza Covid, Domenico Arcuri, e Mario Benotti, l’uomo che fa da intermediario nell’affare delle 801 milioni di mascherine acquistate per un miliardo e 251 milioni, si interrompono. E risale al 7 maggio 2020. Da quel momento – dopo 1.282 contatti tra gennaio e maggio (molti di questi chiamate a vuoto) – non ci sono più comunicazioni. Benotti – indagato per traffico d’influenze a Roma proprio nell’ambito dell’inchiesta su quella fornitura di mascherine – lunedì sera ha fornito la sua versione a Quarta Repubblica (Rete 4). Dice di aver visto il 7 maggio Arcuri “sotto il mio ufficio” a Roma. Qui il commissario, a sua detta, gli avrebbe parlato di fantomatici accertamenti dei Servizi segreti. Arcuri – ha raccontato Benotti nella puntata – gli avrebbe detto che “a Palazzo Chigi lo avevano informato di un’indagine sulla questione dei voli da Israele”. “Da Palazzo Chigi – aggiunge l’ex giornalista Rai – si possono avere solo indagini che vengono dai Servizi…”. E ancora: Arcuri “mi pregò di interrompere qualsiasi comunicazione con lui”. In realtà i Servizi segreti non svolgono indagini, ma per Benotti qualcosa si stava muovendo. Il suo racconto sarà oggetto di verifiche da parte degli investigatori. Ma mettiamo in fila le date. Quando i contatti tra Benotti e Arcuri si interrompono, a maggio 2020, la Procura di Roma non ha avviato alcuna inchiesta. La segnalazione per operazioni sospette (Sos) di Bankitalia che dà il via all’indagine è infatti datata 31 luglio 2020, quindi è successiva. L’unica cosa che poteva esserci a maggio erano gli accertamenti bancari sfociati poi nella Sos. Fonti dei servizi, sentite dal Fatto, smentiscono qualsiasi loro interessamento alla vicenda. L’ufficio stampa di Arcuri (indagato per corruzione nella stessa inchiesta, ma per lui è stata chiesta l’archiviazione) ha spiegato che la versione di Benotti è “destituita di ogni fondamento”. Il commissario, aggiungono fonti a lui vicine, sarebbe pronto a querelare.

Le intercettazioni della Procura di Roma cominciano a settembre 2020. Il 20 ottobre, Benotti (in quel momento intercettato) parlando con la compagna – come ricostruito dagli investigatori – “confida la sua frustrazione per essersi Arcuri sottratto all’interlocuzione e il timore che ciò potesse ritenersi sintomatico di una notizia riservata su qualcosa che ‘ci sta per arrivare addosso’”. Due giorni dopo, l’ex giornalista Rai incontra Mauro Bonaretti, funzionario della struttura commissariale. L’incontro viene monitorato da intercettazioni ambientali. La registrazione è disturbata. A un certo punto però Benotti parla pure dei Servizi segreti. Negli atti, gli investigatori annotano alcuni passaggi della conversazione. “Il trasporto aereo – scrivono – è stato organizzato da Tommasi. ‘Ha mandato gli aerei a prendere la roba… quindi fece una cosa che gli israeliani con cui lavora… cioè non uno che sta nell’ombra, poi è chiaro che mi importa dei soldi”. Benotti quindi – è scritto negli atti – “preoccupato della sua intermediazione (‘non abbiamo rubato mai niente a nessuno’) chiede a Bonaretti di verificare se i Servizi sappiano qualcosa”.

Brescia, reparti saturi: “Virus fuori controllo” (ma rivolevano lo sci)

Lì dove sino a ieri Attilio Fontana e il ministro Massimo Garavaglia volevano riaprire gli impianti da sci, da oggi è tutto chiuso. Scuole, uffici, seconde case. È il triste destino della provincia di Brescia, da ieri alle 18 dichiarata “zona arancione rinforzato”, fino al 2 marzo. Almeno. Perché in quel territorio e un pugno di altri Comuni – Viadanica, Predore, Adrara San Martino, Sarnico, Villongo, Castelli Calepio, Credaro e Gandosso (Bg) e Soncino (Cr) – da mesi il virus circola incontrollato. Da inizio anno i positivi sono stati 20.373, senza contare gli asintomatici mai tamponati.

Ma Regione Lombardia se n’è accorta ora: “A Brescia esiste una terza ondata. Dobbiamo intervenire immediatamente”, ha detto ieri il commissario Guido Bertolaso. Tra gli interventi annunciati, “una rimodulazione della strategia vaccinale come strumento prioritario del contenimento del contagio in modo da prevedere o la somministrazione di una sola dose o il posticipo di sei mesi per la seconda”, ha spiegato Moratti. Un “approccio inglese” all’epidemia, è stato definito. In realtà una disperata toppa: visto che il vaccino non c’è, si darà una sola dose. A beneficiarne saranno forze dell’ordine e insegnanti. E intanto si continuerà a vaccinare gli over 80. A oggi i vaccinati sono stati 73.253. Ma il ritmo è basso: il 21 febbraio le inoculazioni sono state solo 584 e zero le seconde dosi.

Una soluzione di emergenza che arriva in ritardo. Perché che i numeri di Brescia fossero spaventosi da settimane lo sapevano tutti. I sindaci della provincia da metà gennaio combattono con la variante inglese che dilaga nelle scuole. Come il primo cittadino di Corzano, Giovanni Benzoni, che il 20 gennaio ha dichiarato la “sua” zona rossa. Ai primi avvisi del virus, Benzoni insieme all’Ats, ha chiuso le scuole e tamponato tutti: bambini, insegnati e genitori. Su 2000 abitanti, si è ritrovato con 300 positivi, l’80% asintomatico. E così ha chiuso tutto. “Molti sindaci hanno fatto screening per conto loro”, racconta, “forse si doveva chiudere prima. Ma qui si trovano le varianti, perché le cerchiamo. Se facessimo lo stesso in Val Padana, il risultato sarebbe uguale”. Intanto scoppiavano i casi di Castrezzato e di altri tre comuni dichiarati invece zona rossa dal Pirellone.

E lo sapevano anche i medici che non andava bene, come conferma il comunicato dell’ordine provinciale di ieri mattina: “Chiediamo che coloro i quali, a livello locale, regionale, nazionale, sanitario e politico, hanno la responsabilità ed il dovere di assumere decisioni, anche impopolari, le assumano, ora. Indugiare sarebbe imperdonabile”.

“Una settimana fa avevamo lanciato l’allarme affinché si intervenisse”, spiega il presidente Ottavio Di Stefano, “perché allarmati dalla crescita costante dei numeri dei positivi e dalla paralisi negli ospedali”. Ma per Di Stefano ancora non basta: “La zona arancione è un passo avanti, ma non so se sarà sufficiente”. Così come al corrente della situazione erano i sindacati: “Agli Spedali Civili da giorni negli incontri ci illustravano una situazione grave. E dalle cliniche private ci segnalavano nuovi focolai. Tanto che tutti aspettavano un intervento istituzionale. Ma è arrivato tardi”, racconta Enzo Moriello, FP Cgil.

Ora i buoi sono scappati e la stalla è rimasta spalancata. E anche sulla “terza ondata” paventata da Bertolaso non tutti sono d’accordo: “Se volete chiamiamola pure terza ondata – spiega il farmacologo Silvio Garattini – anche se la realtà è che il virus non se ne è mai andato. Ha continuato a circolare, aiutato da una serie enorme di errori che abbiamo commesso”.

Per Garattini infatti il problema sta nelle “continue chiusure e riaperture senza logica, per accontentare tutti”. E non parlategli di immunità di gregge, quella che molti hanno ritenuto l’arma che aveva protetto il Bresciano dalla seconda ondata: “L’immunità di gregge si ha solo col vaccino. Solo che oggi il vaccino non c’è e non ci sarà fino all’estate”. Quindi non resta che “chiudere e fare attenzione. Ma mi sembra proprio che non stiamo andando nella direzione giusta”.

L’Italia rimarrà ancora a colori. Il Cts: “Zone gialle non bastano”

Nella “cabina di regia” della lotta al virus entrano anche i ministri economici, si farà un tavolo tecnico per rivedere i parametri epidemiologici e per il resto l’Italia rimarrà “a colori”: restrizioni su base regionale per fasce di rischio con ulteriori chiusure a livello locale, come prevede il Dpcm di Giuseppe Conte che scade il 5 marzo. Questo è l’esito del vertice convocato da Mario Draghi ieri sera, questo dirà oggi alle Camere il ministro della Salute Roberto Speranza. Il fronte aperturista per ora va a sbattere sui numeri dell’epidemia e delle varianti. E si accontenta di rendere tempestivi i ristori per le attività colpite dalle chiusure, anche quando sono disposte dalle Regioni, possibilmente “d’intesa con” e non solo “sentito il” governo.

Alla riunione di ieri sera a Palazzo Chigi sono stati invitati anche i responsabili del Comitato tecnico scientifico: il coordinatore Agostino Miozzo, il presidente dell’Istituto superiore di Sanità Silvio Brusaferro e il presidente del Consiglio superiore di sanità Franco Locatelli. Hanno spiegato quanto sia pericoloso aprire: perché la variante inglese corre almeno di almeno un terzo più rapidamente del ceppo ordinario e sarà dominante già a marzo, l’aumento dei contagi è inevitabile e già se ne vedono i segni negli ospedali mentre si diffondono anche la brasiliana e la sudafricana che mostrano resistenza ai vaccini. C’erano il capo del governo e i ministri Roberto Speranza (Salute), Maria Stella Gelmini (Affari Regionali), Giancarlo Giorgetti (Mise), Stefano Patuanelli (Agricoltura), Dario Franceschini (Cultura) e Elena Bonetti (Pari opportunità), Daniele Franco (Economia). Uno per partito, ma anche i ministri economici: il formato non è quello della capidelegazione del governo Conte. Raccontano che durante la riunione non ci sono stati dissensi sulla linea Speranza. Giorgetti non si è fatto portavoce della battaglia per la riapertura dei ristoranti la sera, bandiera di Matteo Salvini e di qualche presidente di Regione, ma ha tenuto un profilo moderato. La Bonetti si è limitata a qualche domanda sul virus: Iv ha abdicato all’aperturismo. Mentre Franceschini, fin qui alfiere del rigore, ha insistito per la riapertura di cinema e teatri, di cui discuterà oggi al Cts. Da Palazzo Chigi ci tengono a dire che c’è stata condivisione sulla linea che Speranza porterà oggi alle Camere. Poi si lavorerà al provvedimento. Tutti puntano sui vaccini, il piano migliorerà, ma intanto l’Italia e l’Europa incassano l’ulteriore dimezzamento delle dosi di AstraZeneca per il secondo semestre: nel nostro Paese 11 milioni di dosi in meno.

Per arrivare al risultato Draghi aveva chiamato Salvini in mattinata a Palazzo Chigi. Un incontro che per il premier si era reso necessario, viste le continue dichiarazioni del leader leghista per le riaperture. “Sul ritorno alla vita dove la situazione lo permette siamo assolutamente sulla stessa linea”, dichiara il leader del Carroccio. Che ribadisce: ristoranti anche la sera e chiusure mirate. Intanto Draghi ha chiesto a Salvini equilibrio anche nei toni.

Prima del vertice di governo si è riunito il Cts, che certamente cambierà formazione ma non si sa cosa come. E ha esaminato il nuovo modello elaborato da Stefano Merler, l’epidemiologo della Fondazione Bruno Kessler che collabora con l’Istituto superiore di Sanità. Ha spiegato che fino al 20/30% di maggiore trasmissibilità della variante inglese l’aumento dei contagi può essere gestibile, ma oggi, secondo i dati delle prime due indagini, siamo a un valore medio di 36/37%, sia pure con un range di incertezza molto ampio perché compreso tra il 18 e il 60%. In Gran Bretagna stimano il 50%. La variante inglese è quasi in tutta Italia, circa il 30% dei contagi la stima in attesa dei risultati dell’indagine in corso, con punte oltre il 60%.

Per il Cts il modello dell’Italia “a colori” ha dimostrato “un’efficacia crescente nel mitigare il contesto epidemiologico nel recente periodo autunno-inverno” ma “il pacchetto delle misure di cui all’art 1, comunemente denominate ‘zone gialle’, ha dimostrato una capacità di contenere l’aumento dell’incidenza ma non la capacità di ridurla”. Quindi, dove i contagi aumentano come accade in almeno metà delle Regioni anche “gialle”, non può più bastare.

Malagò di fioretto: vuole la Bianchedi a capo dello Sport

Due ori olimpici, cinque titoli mondiali, due titoli europei. Nel borsino delle migliori donne che il Paese può offrire a Mario Draghi ecco Diana Bianchedi, formidabile campionessa di scherma. Se così fosse, e parrebbe davvero, giungerebbe a conclusione la fantastica scalata al potere affluente e decidente di Giovanni Malagò che col Coni governa lo Stato parallelo delle passioni e anche un discreto borsino di impieghi, consulenze e lavori pubblici che l’appuntamento olimpico del 2026 a Milano e Cortina rende ancora più tondo e riconoscente.

La Bianchedi, eccellente fiorettista, ha mostrato negli anni anche una indubitabile capacità manageriale al punto che proprio Malagò l’ha messa sotto contratto selezionandola per dare corso alle candidature italiane per le Olimpiadi. Prima Roma e poi Cortina. Tre anni (2017-2019) e 426.294 euro di compenso fatturati a Coni servizi, il braccio operativo della super holding sportiva. E Diana ha prima combattuto come una leonessa per fare di Roma la città eletta e poi – sfumata per il diniego di Virginia Raggi e di tutto il mondo grillino la candidatura capitale – ha trovato il successo trasferendo a Milano e Cortina l’impegno, la dedizione e la considerazione del Cio. Perciò queste sono ore in cui si consumano whatsapp e incontri, biglietti, bigliettini, ambasciate, proposte e sorrisi.

Lo sport, catino dove i soldi si fanno pila che arde come la fiaccola olimpica, si contano e si distribuiscono e il potere si azzanna, sta divenendo il teatro di una sanguinosa battaglia e anche – se proprio vogliamo dire – il più bello spettacolo intorno a Mario Draghi. I grillini che con il ministro Vincenzo Spadafora erano andati per suonare, sono tornati suonati dal confronto con il mondo Malagò e oggi vivono la più grave crisi politica interna che impedisce loro di esercitare golden share. Draghi, ormai impaziente, sta attendendo la rosa di nomi del M5S dalla quale, come petali di rosa, estrarre gli identikit dei sottosegretari e le caselle da occupare.

La paralisi dovuta ai veti tra correnti e ai veleni personalistici dell’universo 5stelle è lo sfondo dietro al quale il potere parallelo propone, a quel che si sa attraverso i buoni consigli di Gianni Letta, il nome della Bianchedi, cioè l’ombra di Malagò. “Serve una persona competente, che sappia di cosa stiamo parlando. Non c’è tempo. Tra meno di cinque mesi siamo a Tokyo, fra meno di undici a Pechino, e poi le Olimpiadi 2026”, dice il presidente del Coni.

Imprese sportive e grandi opere, muscoli in pista e contratti, appalti, l’oro cioè della rinascita italiana, che proprio il facoltoso e laborioso lombardo-veneto proverebbe a mostrare come la prima pietra del Recovery. Dunque lo sport. Un bel dicasterino camuffato da sottosegretariato, una poltroncina di tutto rispetto, un ruolo di prima rappresentanza e anche una cabina di regia niente male. Vero, Forza Italia vorrebbe Paolo Barelli, presidente della Federnuoto in battaglia con un altro forzista, l’ex schermidore Marco Marin, plurimedagliato olimpico. Ma è la cronaca quotidiana delle guerre sorde e forse già perse.

Perciò il nome di Bianchedi, super consulente di Malagò (84 mila euro nel 2017; 160mila nel 2018; 182mila nel 2019, e nel conto anche la fattura per l’attività di promozione della candidatura di Milano-Cortina) è assolutamente spettacolare. Peccato che con il Coni abbia – come abbiamo appena contato – 426.294 conflitti di interessi.

Dal Mise ai burocrati di Chigi: la rete parallela del vice Salvini

Quando gli attribuiscono fitte reti di relazioni – da Confindustria al Vaticano, dai cda delle grandi banche alle cancellerie internazionali –, Giancarlo Giorgetti liquida tutto, millanterie comprese, con un’alzata di spalle: “Cerco solo di mettere d’accordo la gente” sogghigna unendo la falsa modestia a quel tono tipico dei Richelieu della politica, Giulio Andreotti e Gianni Letta insegnano, che non si prendono mai troppo sul serio. Il suo ruolo nella Lega, nei governi, nei ministeri, lo spiega lui stesso: “C’è chi preferisce fare il centravanti e chi fare il regista. Io ho scelto il regista”. Così, tradendo per un attimo la sua fede per il Southampton, si paragona a Pirlo: osserva il gioco, distribuisce palloni. Lo ha fatto per una vita, dai tempi della segreteria federale di Umberto Bossi a quella di Matteo Salvini fino a diventare il potente numero due di Palazzo Chigi all’epoca del governo gialloverde. E Giorgetti non ha smesso certo oggi che a Chigi è arrivato quel Mario Draghi che gli dà del tu vista la loro antica consuetudine dai tempi in cui il leghista di Cazzago Brabbia (Varese) era il giovane presidente della commissione Bilancio della Camera e Draghi era direttore generale del Tesoro. E soprattutto visto che il premier ha scelto Giorgetti al Mise per affiancare Daniele Franco al Tesoro nella gestione dei 209 miliardi del Recovery Fund.

Sicché il ministro dello Sviluppo economico non si è accontentato di portare in via Veneto i suoi uomini di fiducia: da buon regista ha piazzato suoi fedelissimi, funzionari con cui ha rapporti consolidati e boiardi non ostili negli altri ministeri che contano. Una sorta di governo “ombra” guidato da lui. E così l’unico salvato dal repulisti di Palazzo Chigi non poteva che essere quel Roberto Chieppa, confermato segretario generale, considerato da molti un “contiano” ma in realtà in grado di tenere ottimi rapporti con tutti i partiti. La riconferma di Chieppa è stata sponsorizzata da Giorgetti che con lui aveva lavorato gomito a gomito ai tempi del Conte I. Il vicesegretario della Lega avrà due orecchie attente a Palazzo Chigi anche in Daria Perrotta, conosciuta ai tempi in cui faceva la documentarista della Camera, e da lui promossa come capo della segreteria di Chigi dopo aver fatto la consigliera giuridica di Maria Elena Boschi. Perrotta è la capo di gabinetto del nuovo sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Roberto Garofoli. Il regista Giorgetti poi non poteva certo perdere l’occasione di piazzare un suo uomo anche al Mef, dove sarà incardinato il Recovery: come capo di gabinetto del ministro dell’Economia Daniele Franco è stato nominato Giuseppe Chinè, ex consigliere di Stato e nel 2018 portato in quota Giorgetti a capo staff dell’ex ministro dell’Istruzione leghista Marco Bussetti. Il vicesegretario del Carroccio avrebbe candidato Chiné alla presidenza della Regione Calabria, ma il Tesoro in tempi in cui c’è da distribuire 209 miliardi ha tutto un altro fascino rispetto alla sanità calabrese da risanare. Con sé al Mise ha portato quel Paolo Visca che faceva il capo di gabinetto di Matteo Salvini a Chigi e, raccontano i maligni, per conto di Giorgetti “vigilava” sull’operato del leghista in felpa. A via Veneto sbarcherà anche Marcello Fiori, ex commissario della protezione civile con Berlusconi e nominato nel 2011 coordinatore dei club “Forza Silvio”: nel 2015 gli furono sequestrati quasi 6 milioni per un’inchiesta della Corte dei Conti campana sulle forniture legate ai lavori del Teatro Grande di Pompei.

Ma il vicesegretario della Lega non si accontenta di disporre le sue pedine nei ministeri. Tra i leghisti si dice che uno come lui non possa restare a digiuno di fronte all’abbuffata da 500 nomine apparecchiate sul tavolo di Draghi. E così Giorgetti fa comunella con Matteo Renzi per far tornare ai vertici di Ferrovie l’ex ad renziano Renato Mazzoncini, mandato via da Toninelli nonostante la contrarietà proprio del vicesegretario della Lega. Per sostituire Franco in Banca d’Italia a Giorgetti non dispiacerebbe il vicedirettore Luigi Signorini rinnovato dai gialloverdi grazie al leghista che si oppose alla volontà di Luigi Di Maio di farlo fuori dopo le sue critiche sul reddito di cittadinanza.