Ministeri da spacchettare: guerra Cingolani-Giorgetti

In un governo in cui i ministeri chiave sono affidati a tecnici scelti da premier e Quirinale, la lotta per i posti di sottogoverno è quel che rimane ai partiti per fingere di contare. Sui 40 e rotti sottosegretari resta, per ora, lo stallo (si dovrebbe decidere oggi). Ma è la divisione delle competenze dei ministeri che disegnerà i rapporti di forza dell’esecutivo Draghi. È lì che c’è lo scontro vero. Lo si è capito ieri in una tesa riunione via web tra i capi di gabinetto. Oggi in pre-Consiglio dei ministri verrà infatti discussa la bozza di decreto che riordinerà le strutture. Il grosso riguarda i due ministeri chiave, quello della Transizione ecologica, affidato a Roberto Cingolani e quello della Transizione digitale in mano all’ex manager di Vodafone, Vittorio Colao (sponsor Paolo Gentiloni). Gestiranno il 6o% delle risorse del Recovery Plan (115 miliardi, considerando anche l’intera quota prestiti).

La nascita del primo, detto Mite, ha sbloccato quella del governo e Cingolani lo ha fatto pesare pretendendo il passaggio al suo ministero delle deleghe sull’Energia, finora in mano al ministero dello Sviluppo (oggi guidato dal leghista Giancarlo Giorgetti). In base alle bozze circolate, passeranno al Mite 14 divisioni su 19 del comparto. In sostanza, Cingolani avrà tutto quel che tocca la transizione ecologica: rinnovabili, decarbonizzazione, efficienza energetica, nuove tecnologie clean, mobilità sostenibile (qui sottrarrà competenze anche ai Trasporti), decommissioning nucleare, riconversione della produzione di idrocarburi. Deleghe importanti (pure quanto a relativi fondi) del ministero di via Veneto.

Al Mise, del comparto Energia resterà la parte relativa alla concorrenza e al mercato, alla sicurezza delle forniture energetiche e quella “connessa alla tutela del rischio di deindustrializzazione e delocalizzazione di comparti produttivi dove il costo dell’energia ha un ruolo rilevante. Tra essi, l’industria siderurgica, la produzione di cemento, vetro, l’alluminio, ceramica, carta, chimica, che oggi richiedono una gestione per mantenerne la competitività nel quadro della transizione energetica”. In pratica a Giorgetti resta il dossier Ilva e la sua decarbonizzazione (ma i fondi passano dal Mite) e le competenze su prezzi e tutela dei consumatori, ma perde la vera politica energetica. Il Mise conserva poi la vigilanza sul Gme (le aste del mercato elettrico) e sull’Acquirente Unico (il mercato tutelato dell’energia), ma perde quella su Enea, Gse (la torta miliardaria degli incentivi alle rinnovabili) e Sogin (nucleare).

Si capisce perché la cosa non sia stata gradita. E infatti Giorgetti ha provato a resistere. È toccato al capo di gabinetto di Cingolani, Roberto Cerreto, ricordare che così ha deciso il premier fin da quando ha annunciato la lista dei ministri. La cosa non è indolore, ma può diventare un vero schiaffo alla Lega se il Mise dovesse perdere anche la parte Telecomunicazioni, chiesta da Colao ma fondamentale nei rapporti di forza interni al centrodestra (perché cara a Silvio Berlusconi, tanto più visto lo scontro Mediaset-Vivendi). Altrimenti allo Sviluppo resterà poca roba, se si eccettuano i sussidi alle imprese. Non è un caso che Colao abbia chiamato come capo di gabinetto un ex alto dirigente del Mise come Stefano Firpo (ora in Intesa Sanpaolo). L’ipotesi più probabile è che l’ex Vodafone raccolga le deleghe sulla banda larga (presiede già l’apposito comitato per l’attuazione del piano nazionale, il Cobul) e 5G e coordini il resto.

Su questo, oggi, sarà battaglia. E la battaglia di Giorgetti è la cartina di tornasole di chi comanderà nel governo. E non sarà la sola, visto che ognuno reclama pezzi di potere. Il leghista Garavaglia, per citare un caso, pretende che al ministero del Turismo vada il demanio marittimo (e con esso il supporto della nutrita lobby dei balneari), oggi in mano a Tesoro e Beni culturali.

 

Nascono i nuovi gruppi degli “ex”: al Senato torna il simbolo di Idv

Due nuovi gruppi di ex Cinque Stelle, questa volta accomunati dal “no” alla fiducia al governo Draghi. Sono quelli nati ieri in Parlamento, per volontà di alcuni degli espulsi M5S, sotto il nome di “L’alternativa c’è”. Alla Camera sarà una componente del gruppo misto, al momento composta da 13 deputati. Al Senato, invece, ai 6 eletti che per ora hanno aderito all’iniziativa potrebbero presto arrivare i 4 mancanti per la nascita di un vero e proprio gruppo, che usufruirà del simbolo dell’Italia dei Valori, necessario anche per poter dare vita alla componente all’interno del Misto, visto che per costituirsi deve fare riferimento a una forza politica che si sia già presentata a elezioni. Lo ha spiegato ieri il segretario Idv, Ignazio Messina: “Sì, ho autorizzato l’utilizzo del simbolo di Idv al Senato, in abbinamento a ‘L’alternativa c’è’: ho detto sì a questo matrimonio”, spiega Messina, convinto che l’operazione abbia “un ampio respiro, che non guarda solo all’oggi, alla salvaguardia di un posto per finire la legislatura, ma ha una prospettiva politica precisa, quella del futuro del Paese”. Il simbolo si affiancherà al logo di “L’alternativa c’è” : una ruota dentata con all’interno una stella tricolore. per richiamare “la fratellanza tra lavoratori: il nome del progetto – spiegano – nasce come antitesi del motto thatcheriano ‘there is no alternative’”. Tra chi ha deciso di attendere e di non aderire al gruppo ci sono i senatori Nicola Morra, Barbara Lezzi e il deputato Michele Sodano.

“Niente segreteria, dobbiamo rifondarci assieme a Giuseppe”

Il M5S deve fermarsi per ricostruirsi, assieme a Giuseppe Conte. Per Fabio Massimo Castaldo, vicepresidente del Parlamento europeo al secondo mandato, la rotta è questa. “Ma dobbiamo offrire a Conte un ruolo centrale con cui possa realmente incidere”.

Avete espulso decine di parlamentari, rei di aver detto no al governo Draghi, e la base è disorientata. Come si può ripartire?

La premessa è che per cause esterne al Movimento, prima tra tutte la pandemia, il nostro processo di riorganizzazione tramite gli Stati generali è durato troppo a lungo. Ma ora serve una fase per rifondarci.

A breve però dovreste votare la segreteria collegiale.

Io nutro qualche preoccupazione a questo riguardo. Vedo che sta già partendo una campagna elettorale incentrata sui nomi e non sui temi e sui programmi, e penso che tutto questo possa logorarci. Anche perché rischiamo di eleggere cinque membri l’uno diverso dall’altro per idee e approccio. Avrei preferito un meccanismo che prevedesse un comitato più largo, e la possibilità di presentarsi per squadre, fatte di nomi con un programma comune.

Quindi niente segreteria?

Rischiamo che, una volta eletto, l’organo collegiale impieghi dei mesi per entrare a regime. Ma non abbiamo tutto questo tempo. Penso che sarebbe meglio lavorare da subito a una rifondazione più radicale, incentrata su una riorganizzazione dei territori e su una maggiore apertura del M5S alla società civile. Dobbiamo cambiare la percezione attuale di uno scollamento tra il Movimento e la realtà esterna. E in quest’ottica l’apporto di Conte sarebbe fondamentale, anche perché sulla sua figura c’è un largo consenso nel Movimento.

Cosa dovrebbe fare, in concreto?

Costruire con noi un progetto a lungo termine, anche per rilanciare l’alleanza giallorosa su temi come la transizione ecologica, la lotta alle diseguaglianze e la legalità.

Dovrebbe fare il capo politico? Quel ruolo non è più previsto, e non è detto che lui abbia voglia di ricoprirlo.

Come ho detto prima, serve un ruolo tramite cui Conte possa incidere ed esercitare la leadership. Sta innanzitutto a noi stimolarlo.

Lei ha accennato all’alleanza giallorosa, ma una parte del Pd ha già cannoneggiato l’intergruppo in Senato.

Questo mi dispiace. Un progetto che difenda l’eredità di quell’esperienza di governo, sempre partendo da Conte, sarebbe prezioso. Purtroppo anche il Pd è diviso. E invece dovremmo lavorare assieme, dai territori all’Europa, dove potremmo intensificare la collaborazione e perfino convivere nello stesso gruppo.

Cioè in quello dei Socialisti. Sicuro che il Pd vi voglia?

Ho registrato grande favore verso questa ipotesi. Poi, certo, ci sono sempre frange contrarie, magari ammaliate dalle sirene renziane. Ma a questo punto bisogna scegliere una prospettiva politica. E in questo senso penso anche alle amministrative, dove si può fare asse trovando candidati comuni.

Però prima dovrete provare a resistere nel governo Draghi, che sembra nascere anche da venti contrari a Conte proprio da Bruxelles. Un’impressione rafforzata dall’intervista del commissario europeo Gentiloni a La Stampa. Lei che ne pensa?

Posso dire che in Europa c’era preoccupazione per la lunga situazione di instabilità politica in Italia e per le sue conseguenze sull’utilizzo del Recovery Plan. Ma la crisi del governo Conte non è nata a Bruxelles. A volerla per motivi puramente tattici e di tornaconto personale è stato Renzi. Dopodiché Draghi su molti punti, dal Mes fino alla gestione della pandemia, sta ripartendo dal lavoro fatto da Conte, ed è la prova del suo apprezzamento per l’operato del precedente governo.

Pd toscano in tilt: regalo anti-Zinga a Bonaccini

Toscana andata e ritorno. Dopo l’epopea del Giglio Magico, l’ex roccaforte rossa rischia di essere ancora una volta il laboratorio per il destino del Partito democratico e della sua segreteria. E le premesse non sono incoraggianti per Nicola Zingaretti: nelle ultime ore Simona Bonafè, leader regionale dei dem, ha silurato dalla segreteria l’ala vicina al governatore del Lazio, compreso il vice-segretario Valerio Fabiani. Una mossa che è molto di più di una resa dei conti interna, perché sancisce una spaccatura – covata ormai da mesi – che diventa un primo avvertimento per Zingaretti in vista del congresso nazionale del Pd, invocato da più parti.

Non è un segreto infatti che, caduto il governo Conte, le correnti dem costituite per lo più da ex renziani puntino alla testa del segretario, in modo anche da minare la possibilità di un’alleanza strutturale col M5S. Magari preparando il terreno alla leadership di Stefano Bonaccini.

Osservare i movimenti del Pd toscano, allora, può aiutare a capire cosa accadrà a livello nazionale. Due giorni fa la Bonafè ha messo alla porta Fabiani, provocando la reazione degli zingarettiani, i quali hanno disertato la direzione convocata per la sera stessa. In Regione il clima è pessimo da tempo: gli zingarettiani vorrebbero che il Pd mollasse Iv per far posto ai 5 Stelle in maggioranza e intanto lavorano per candidare Giuseppe Conte alle suppletive di Siena, come nome unico dei giallorosa. Due ipotesi osteggiate anche pubblicamente dagli ex renziani, che ora mirano al bersaglio grosso. Anche perché la Bonafè può contare su sponde autorevoli. Su tutti, quel Dario Nardella cresciuto all’ombra di Renzi ma rimasto nel Pd dopo la scissione del 2019. Il sindaco di Firenze ha ottimi rapporti con Bonaccini, che a sua volta non perde occasione per accreditarsi in Toscana – per la verità il tentativo si sta allargando anche al Sud, dove ha cercato appoggi tra gli ex ministri Boccia e Provenzano, senza grandi fortune – : basti pensare che il giorno della vittoria di Eugenio Giani, il governatore emiliano era al quartier generale dem di Firenze.

Durante la crisi di governo, Bonaccini e Nardella hanno parlato all’unisono, chiedendo al Pd di “non appiattirsi su Conte”, concetto ribadito qualche giorno fa dal sindaco alla Nazione: “Conte è il leader dei 5S, non di un’alleanza avventata”.

Un messaggio a Zingaretti e nulla di diverso dai motivi per cui il Pd toscano si è frantumato, come conferma al Fatto un dem vicino al segretario: “Ci hanno buttato fuori dalla segreteria regionale per indebolire quella di Zingaretti. Una parte del Pd toscano non si è mai affrancato da Renzi, ma di Iv ne basta una”. E così Fabiani allarga le braccia: “Il nostro scontro anticipa quello nazionale? Chiedetelo a chi vuole il congresso, come la Bonafè.”

Come a dire che sono gli altri a voler rompere l’unità, a Firenze e a Roma. Con Bonaccini – le cui dichiarazioni sui “ristoranti da aprire la sera” ieri sono state rilanciate pure da Matteo Salvini – pronto ad approfittarne.

Conte pronto a guidare M5S. Manca solo il via del Garante

Il professore Giuseppe Conte è pronto per tornare a insegnare. Già venerdì, quando terrà la lectio magistralis che segnerà il suo ritorno all’Università di Firenze. Ma l’altro Conte, l’ex presidente del Consiglio, è pronto a rilanciarsi al tavolo della politica. Ovvero a prendere le redini del M5S lacerato dal sì al governo di Mario Draghi, il tecnico che ha preso il suo posto a Palazzo Chigi. “Giuseppe si sta convincendo” dicono fonti di peso del Movimento. Le interviste al Fatto di due big come Alfonso Bonafede e Paola Taverna gli hanno dimostrato che i contiani sono ancora forti, dentro i 5Stelle. E poi c’è il chiaro segnale lanciatogli su Facebook da Luigi Di Maio, l’unico possibile avversario interno: “Spero che il Movimento possa accogliere Conte a braccia aperte, il prima possibile”. Di Maio sa che l’avvocato può essere l’unico mastice possibile per un M5S esploso in troppe schegge. E teme che la segreteria prossima ventura, dove molti gli chiedono di entrare, possa nascere già debolissima.

Così si torna a Conte, il federatore, l’uomo naturalmente “di centro” (e questo a Di Maio non può che andare bene). L’unico che possa tenere aperto il canale con il Pd che pure non se la passa affatto bene, tra tensioni pre-congressuali e la solita guerra di correnti. “Serve Giuseppe” ripete d’altronde Beppe Grillo, il fondatore, da settimane. Ma come fare? Innanzitutto, Conte dovrebbe iscriversi. Ma serve molto altro. Fonti qualificate spiegano che, a fronte di un regolamento per la votazione della segreteria già diffuso, ora deve essere proprio Grillo a scrivere una nuova rotta per cambiare le regole e consegnare le redini all’ex premier. Nel dettaglio, serve un comunicato formale con cui il Garante annunci la volontà di fermare il percorso verso la segreteria, l’organo collegiale, nominando Conte capo politico e affidandogli il compito di riorganizzare il M5S. Un’investitura che dovrebbe essere comunque approvata su Rousseau.

Ma certo il punto non è solo quello. Perché nella riflessione che Conte sta facendo, c’è di più. C’è innanzitutto una revisione dei legami con la piattaforma: lui che non ha rapporti con Davide Casaleggio, potrebbe accelerare quel percorso già avviato verso il “contratto di servizio” che sfila il Movimento dalla casa madre milanese.

Ma soprattutto, al di là della forma, il M5S che Conte immagina di guidare è un partito “aperto”, “plurale”, che allarga il suo orizzonte alla società civile e alle “migliori energie del Paese” che in questi anni di governo si sono avvicinate all’esperienza giallorosa, ma che non possono essere strette nelle maglie di quel M5S che ora ha attivisti e meet up a fare da filtro. Deve aprirsi, in sostanza, a tutti quelli che adesso vorrebbero mettersi a disposizione, ma non sanno a chi rivolgersi. L’ex premier insomma vuole le chiavi di un progetto nuovo, che al centro abbia sì i temi fondanti dei 5Stelle – l’ambiente, la legalità, la trasparenza – ma che sia anche disposto a “contaminarsi” con la società. Un’idea maturata negli ultimi giorni, dopo la partenza in salita dell’intergruppo parlamentare giallorosa. Se prima l’ex premier, ragionava di un progetto proprio, una sua lista che facesse da ponte tra Pd e M5S, ora teme che il “suo” partito possa avvelenare il clima: non solo nei 5Stelle in crisi, ma anche nei dem dove la linea di Zingaretti uscirebbe ulteriormente indebolita dalla nascita di una formazione che andrebbe a pescare pressoché nello stesso bacino elettorale. Per questo, assumere la guida M5S potrebbe essere il modo per salvare quanto costruito nell’ultimo anno e mezzo. E sarebbe anche una via per ripescare quell’Alessandro Di Battista che si è cancellato da Rousseau. E magari anche qualcuno degli espulsi: due sere fa, nell’assemblea dei senatori, Alessandra Maiorino ha proposto una tregua: anziché espellere chi ha votato no, date le “circostanze eccezionali”, i parlamentari potrebbero essere sospesi per alcuni mesi, messi alla prova e magari riammessi nel M5S. È una proposta, a oggi non contemplata dallo Statuto. Ma chissà che Conte non abbia voglia di ricucire certe ferite.

Lesa Draghità

A parte Crozza, gli unici divertimenti in tv sono le rassegne stampa. Ma solo quando mostrano la prima pagina del Fatto, quasi sempre totalmente diversa dalle altre. A quell’orribile vista, i rassegnisti sono colti dalla sindrome di Fantozzi col megadirettore galattico: lingua felpata, salivazione azzerata, sudorazione a mille, le mani due spugne. E si sentono subito in dovere di prendere le distanze. Il bizzarro fenomeno si deve, temiamo, a un fraintendimento del concetto di “rassegna stampa”, che li induce a temere che lo spettatore attribuisca a loro i nostri titoli. Il precursore della rassegna con excusatio non petita incorporata è Maurizio M’Annoi, quello di Lineanotte, sempre un po’ assonnato per la fase digerente post-abbacchio e peperonata: “Questo naturalmente lo dice il Fatto”, è il suo mantra, come se qualcuno potesse mai pensare che lo dica lui. E, almeno in questo, ha fatto scuola.

L’altra sera, alla rassegna di Rainews 24, la brava presentatrice mostrava una ventina di titoli misto-bava & saliva senza fare un plissé. Poi le toccava il Fatto: “Draghi, un Conte-3 senza opposizione” a proposito delle scelte in totale continuità su chiusure, prescrizione, Aspi, Ilva e Servizi. E sprofondava nella più cupa costernazione, scambiando per insulti sanguinosi i nostri elogi a Draghi che conserva il buono fatto dal predecessore e le critiche ai voltagabbana che lo lodano per le stesse cose che rimproveravano a Conte. Infatti cercava conforto in Tonia Mastrobuoni di Stampubblica: “Tonia, insomma, un po’ duro questo titolo del Fatto… Non è un po’ presto per tracciare già i primi bilanci?”. Tonia, pronta, l’aiutava a denunciare il delitto di lesa draghità: ”Ma è ovvio. Quello è, come si suol dire, un giornale d’area, insomma (il suo invece è, come si suol dire, il giornale della Fca e di tante altre cose, insomma, ndr). E quindi avendo avuto sempre spiccate simpatie per i governi Conte, non riesce a sganciarsi da questo prisma attraverso cui guarda l’agire di Draghi”. In cui, prismi a parte, ella vede “un rigore meraviglioso”, “persone straordinarie”, “grandissimi professionisti”, insomma“adesso le cose stanno andando bene. Però, come dimostra anche quest’apertura del Fatto, la politica non sta mai zitta. E quindi speculazioni, indiscrezioni, interpretazioni completamente fuori dal mondo…”. In attesa di sapere dal direttore di Rainews24 Andrea Vianello a che titolo il “servizio pubblico” chieda alla concorrenza di darci le pagelle, temiamo di dover deludere la Tonia e la sua spalla: noi non staremo zitti e seguiteremo a scrivere quel che ci pare senza il loro permesso. Se però ci dicono dove tengono lezioni di giornalismo, magari passiamo a prendere qualche ora di ripetizione.

“Luce sul teatro”: 500 sale si illuminano per una sera in cerca della ripartenza

“Più luce” invocava Goethe in punto di morte. Più luce chiedono i teatri italiani, e i lavoratori dello spettacolo, per sopravvivere dopo un anno di pandemia che ha fatto crollare incassi e produzioni.

Quasi cinquecento scritte “teatro” si sono riaccese ieri sera, in tutta Italia per due ore (tra le 19.30 alle 21.30) mentre le porte si riaprivano sul mondo esterno. A lanciare l’iniziativa l’Unione nazionale interpreti teatro e audiovisivo, Unita. Hanno illuminato le facciate la Scala e il Piccolo di Milano, a Roma l’Argentina e il Vascello, fuori dal quale si erano dati appuntamento decine di artisti e tecnici e Gabriele Lavia ha recitato Dante. L’Auditorium ha proiettato la scritta “Facciamo luce sul teatro” sulla Cavea. Si sono accesi il Teatro della Pergola, il San Carlo di Napoli (e fuori suonavano violini) e il Mercadante. E ancora il Petruzzelli di Bari, il Massimo a Palermo, la Tosse di Genova e Il lavatoio a Santarcangelo di Romagna. A Torino il Carignano ha lanciato un video live della platea accesa e vuota. I social si sono riempiti di foto e solidarietà sotto l’hashtag ufficiale della campagna #facciamolucesulteatro a cui hanno contribuito gli artisti ma anche tanti cittadini che hanno raccolto l’appello.

Un segnale di resistenza, ma anche una richiesta di attenzione per il mondo della cultura. Un anno fa, in questi stessi giorni, arrivavano i primi stop agli eventi culturali al nord Italia, mentre cresceva l’allarme per l’epidemia di Covid. Ieri Dario Franceschini, riconfermato Ministro della cultura dell’esecutivo Draghi, ha detto di augurarsi che l’Italia possa essere il primo paese (tra quelli europei più colpiti dal Covid) a riaprire i luoghi della cultura.

Oggi è il turno delle piazze. Una ventina sono quelle convocate dal coordinamento nazionale dei professionisti dello spettacolo “Emergenza continua” e dalla Rete intersindacale Risp. A Roma l’appuntamento è alle 14 di fronte al Teatro Argentina, per poi spostarsi a Montecitorio. La rete si fa portavoce dei soggetti più precari, chiede lo sblocco dei ristori sospesi, un intervento più deciso per la “continuità di reddito” per gli intermittenti e le piccole realtà.

Sabato si farà sentire il mondo della musica, con “L’ultimo concerto”: evento in streaming (dalle 21) che metterà insieme decine di live da vari live club chiusi, e che sperano di riaprire. 130 i locali che hanno aderito. La line up va dai 99 Posse agli Zen Circus, da Manuel Agnelli a Roy Paci, passando per Colapesce e Dimartino in gara a Sanremo.

L’“Epilogue” dei Daft Punk, i fabbricanti di suoni dance

La storia dei Daft Punk comincia il 25 ottobre 1415. Sull’infausto campo di battaglia dove i francesi di re Carlo VI incrociavano le armi contro gli arcieri inglesi di Enrico V. Quel giorno, ad Agincourt, fu disfatta per i primi e trionfo per i secondi: la guerra dei cent’anni si risolveva in favore di Londra. A condividere lo smacco dei padroni di casa vi era anche un aristocratico avo di Guy- Manuel de Homem-Christo, il dj parigino che sei secoli dopo avrebbe riconquistato il mondo a suon di electro-pop, mascherato sotto un casco che ricorda da vicino un elmo medioevale, se non fosse che costa 65mila dollari ed è un congegno ultra-tech in grado di diffondere immagini ed effetti.

Con la capoccia ben celata, così come il suo compare Thomas Bangalter, il buon Guy si è preso la rivincita sul destino sino a poche ore fa, quando i Daft Punk hanno annunciato il loro scioglimento.

Per dare la notizia hanno pubblicato un video, in gran parte muto, che sembrerebbe al passo con i tempi, se non fosse che si tratta di una scena del loro film sperimentale del 2006, Electroma. Vi si vedono i due (finti) robot inoltrarsi in un deserto al crepuscolo: uno dei due ha indosso un congegno esplosivo con un timer di 60 secondi. L’altro si allontana, la bomba fa il suo dovere, il compagno va in mille pezzi mentre parte il brano Touch. Titolo del clippino: Epilogue, corredato dalle date 1993-2021. Amen. Finisce così la vicenda artistica della coppia di fabbricanti di suoni che hanno rivoluzionato la scena dance: e se vogliamo trovare un gancio sincronico con il video di cui sopra, beh, la pandemia ha trasformato il pianeta in una landa disabitata o quasi, dove ogni assembramento è proibito, figurarsi il pigia-pigia frenetico e sensuale nei club.

Che missione pensare per i Daft Punk nel tempo immobile e desolato del Covid? In che modo Thomas e Guy-Manuel avrebbero potuto convincerci che andrà tutto bene, se le piste restano vuote e gli amplificatori spenti? A ben guardare, lo scioglimento dei DP è la più cocente sconfitta strategica di un sound nato per essere sempre un passo oltre ogni convenzionalità, con quel disegno di uno scenario futuribile che comunque restava maledettamente carnale, sudaticcio, irresistibile malgrado la plastica, i computer e anche senza i costumi da umanoidi.

I Daft Punk si sono arresi (come in un ricorso storico di Agincourt) perché ora non possiamo sentirci rassicurati – né guariti – da quel suono che ti arrivava addosso come un’euforica, profana benedizione dei sensi. Pensate a Get Lucky, la vertigine planetaria del 2013 innescata con la complicità della voce di Pharrell Williams e la chitarra grattugia-ritmo del sornione maestro Chic Nile Rodgers: sparatela a tutto volume in un capannone affollato di persone di qualunque condizione, età, credo sociale o religioso e controllate il movimento involontario dei loro piedi. Un esperimento sociale dal risultato garantito. E i due sotto gli elmetti cibernetici a godersi la scena, con quell’album (Random access memories) il più compiuto tra i quattro realizzati, grazie al quale i Daft Punk si portarono a casa cinque dei sette Grammy della carriera. Che aveva avuto un prologo quando ancora erano una band indie chiamata Darling: dopo la solenne bocciatura del prestigioso Melody Maker (“a daft punk trash“, “un gruppo di sciocchi teppisti”), cambiarono nome facendosi beffe di quel rovescio critico.

Evolvendosi ed esplorando, nei 28 anni di sodalizio si sono mossi costantemente sul crinale della sorpresa, risciacquando in modo perfido una propria creazione (Da funk) solo per poter dire “si tratta sempre di seguire l’inaspettato”. A ogni costo: basti ascoltare la colonna sonora – spiazzante ma adeguata – del film Tron: the legacy o plaudire alle collaborazioni con The Weeknd e Giorgio Moroder. O promuoverli come businessmen per il lancio della piattaforma Tidal, sei anni fa, insieme ad altri big come Jay-Z, Alicia Keys, Beyoncè, Nicky Minaj. Furono persino capaci, un giorno, di rifiutare la richiesta di David Bowie, che chiedeva ai due maghi di remixare un suo pezzo. Loro niente. Il Duca Bianco britannico respinto alle porte dello studio dai due cavalieri transalpini. In nome di Agincourt.

Il libro di Esther, la peste. Bimba di destra, papà hippy

Di progressisti simpatici ne esistono pochi, soprattutto in letteratura: sulla pagina funzionano meglio i misantropi, i misogini, le bisbetiche domate e no… I conservatori– almeno sulla carta – fanno morir dal ridere. È il caso anche di Esther Dahan, l’ultima enfant terrible della narrativa francese, protagonista de La piccola conformista di Ingrid Seyman, un gioiellino di romanzo, in uscita giovedì con i tipi di Sellerio.

Bambina nella Marsiglia degli anni Settanta-Ottanta, Esther è una “incorreggibile reazionaria”: intelligente e smaliziata, cinica dall’età di tre anni, aspirante parricida dall’età di dieci anni, studentessa modello da sempre, con una passione per l’ortografia e la sintassi, il cui sogno da grande è quello di divorziare…

Ordine, ordine, ordine: purtroppo per lei, però, è “nata da destra in una famiglia di sinistra”, figlia di ex hippy, Elizabeth e Patrick, lei atea, lui ebreo, che o si amano (fisicamente) o si odiano (fisicamente), lanciandosi piatti e caraffe da una stanza all’altra. I signori Dahan, sempre sull’orlo del divorzio, ripiegano tuttavia sul piano B: sfornare un altro pargolo, Jérémy, indisciplinato, irrequieto, somaro, dispettoso; finalmente un vero rivoluzionario dentro casa. Tocca a lui, infatti, il privilegio della circoncisione, con gran disappunto della sorella, che, per ripicca, decide di farsi battezzare, sperando al contempo in un infarto del padre.

Seyman, giornalista e regista, è al debutto nella narrativa ma vanta una penna corrosiva, urticante e dispensa iniezioni di humour nero manco fosse un’austriaca. Si ride molto, in questo “libro di Esther”, la peste, blasfemo e cupo, comico e tragico, lieve e amaro. Le disavventure della piccola protagonista (e del fratello scemotto) iniziano con l’iscrizione a una scuola cattolica, tra compagni di classe ricchi e fascisti, già a 9 anni, figli di fan della Le Pen, baciapile, razzisti e antisemiti: così Esther un giorno è osannata – per la sua conversione al cristianesimo – e un giorno detestata, rincorsa fuori da scuola per lanciarle sassi addosso, una volta scoperte le simpatie sinistrorse dei genitori. La trama di bugie che la bambina ha fin lì imbastito per essere accettata, almeno tra i banchi, si disfa all’istante, così come il delicato equilibrio familiare.

Questa è una storia di radici fragili, rizomi avvizziti, bulbi abortiti; ciascuno si sente (è?) fuori posto, storto, non integrato, disintegrato: in primis Esther, reazionaria in una famiglia progressista, né ebrea né cattolica; il fratello Jérémy, borderline ed ebreo mancato (la sua circoncisione è farlocca, eseguita da un finto rabbino truffatore); nonna Fortunée, irrisolta e superstiziosa, che invoca Sant’Antonio prima di andare al Bar mitzvah dei nipoti delle amiche; nonno Isaac, che crede ai cavalli più che in Dio; Patrick, padre burbero e ipersensibile; Babeth, madre svalvolata; nonna Suzie, così cattolica e così anaffettiva, tanto da evitare da anni la figlia e i nipoti… Persino il vaso proveniente da Souk Ahras – i nonni paterni sono francesi rimpatriati forzatamente dall’Algeria – è fuori posto: venerato come un idolo, una reliquia, un feticcio. Di conformismo, insomma, se ne trova ben poco: neppure nell’arredo di casa ve n’è traccia.

Inutile dire che il vaso è un vaso di Pandora, e che i fantasmi tornano dal passato per perseguitare i vivi: dall’Algeria selvaggia e rimpianta, quando i Dahan erano ricchi e spensierati, tra domestiche, grand hotel e casinò. La commedia, fin qui dalle parti di un certo Woody Allen, si fa cupa, amarissima: il Match Point finisce male, come un sassolino gettato dal 31esimo piano di un palazzo che va ad ammazzare proprio la persona sbagliata.

Il veleno nella coda va riservato alla perniciosa, fuorviante fascetta che soffoca la copertina: “Una saga familiare… che ha fatto innamorare i librai francesi”. Ma no: La piccola conformista abita molto lontano dall’Eleganza del riccio, semmai più vicina all’arrondissement delle spine. Del riccio, di Esther e di altri animali: “Sono nata da una pecorina”.

Dalla Folgore all’Arma e l’attesa di un congedo per il suo matrimonio

Doveva sposarsi l’estate prossima, dopo aver rinviato il matrimonio lo scorso anno a causa della pandemia, il carabiniere Vittorio Iacovacci, rapito e ucciso nell’attacco al convoglio del World Food Programme su cui viaggiava l’ambasciatore italiano in Congo, morto anche lui nell’agguato. Originario di Sonnino, in provincia di Latina, 31 anni, Iacovacci era in forze al XIII Reggimento Carabinieri Friuli Venezia Giulia con sede a Gorizia dal 2016. In passato aveva prestato servizio nei paracadutisti della Folgore. Da allora era stato assegnato a Kinshasa, la capitale della Repubblica Democratica del Congo come parte del team di close protection del personale italiano. Un compito non facile, per cui i carabinieri vengono sottoposti a un addestramento specifico. Di certo però nessuna preparazione poteva evitare le conseguenze letali di un agguato portato da uomini armati di kalashnikov contro un convoglio di civili, dove solo il carabiniere Iacovacci costituiva la protezione dell’ambasciatore. Vittorio Iacovacci sarebbe dovuto rientrare a casa tra pochi giorni proprio per organizzare le nozze. “La comunità di Sonnino è sgomenta per questa giovane e tragica perdita. Proclameremo il lutto cittadino”, ha fatto sapere il sindaco di Sonnino, Luciano De Angelis. “Era andato a portare la pace ed è stato ucciso, ci stringiamo attorno alla famiglia”. Per il comandante generale dell’Arma, Teo Luzi, si è trattato di “un gesto vile che ci lascia sgomenti. I carabinieri ancora una volta pagano un prezzo altissimo per il loro servizio fatto di impegno e di sacrificio a difesa dei cittadini e delle istituzioni, in Italia e all’estero”.