Governo Draghi, il dire e il fare

Quando avviò il cantiere delle tredici interviste raccolte in un libro appena uscito (Pubblico è meglio. La via maestra per ricostruire l’Italia), l’editore Donzelli non poteva sapere che il volume sarebbe uscito proprio sull’alba del governo Draghi.

Né Enrico Giovannini, già competentissimo presidente dell’Istat e ministro nel governo Monti, poteva sapere che la sua prefazione, licenziata l’11 gennaio 2021, avrebbe circolato a stampa più o meno mentre giurava al Quirinale come membro di un altro governo. Ma il momento in cui il libro esce, fra Conte e Draghi, lo rende ancor più interessante. I giornalisti che lo hanno curato, Altero Frigerio e Roberta Lisi, spiegano la loro intenzione nelle pagine introduttive (Il futuro è qui: più Stato e meno mercato ai tempi di Next Generation Eu): rispondere alla crisi economica e sociale innescata dalla pandemia, raccogliere il corale bisogno di “più Stato” e dargli sostanza, pur sapendo che “è proprio lo Stato il soggetto che mostra più crepe, limiti e affanni, che più arranca senza trovare l’equilibrio e la strategia all’altezza delle criticità dell’oggi”, e che dunque “è lo Stato a dover essere ricostruito per primo”, a cominciare da un Recovery Plan efficace. “Non ci potrà essere un ritorno al prima, anche perché quel prima non andava per niente bene”, e sarà necessario darsi chiare priorità: “Sanità, istruzione, lavoro (…), risanamento del territorio, sviluppo compatibile con l’ambiente. (…) Prima i cittadini poi la finanza, prima le persone poi i guadagni, prima la natura poi la Borsa, per dirla con papa Francesco”. Per modificare “l’architettura dello Stato e la distribuzione dei poteri” sarà necessario “riportare le Regioni all’interno di un quadro nazionale”, ripudiando “la sciagurata riforma del Titolo V della Costituzione, un federalismo distorto fino alla richiesta dell’autonomia differenziata”, imboccando la strada verso “un piano di politica economica che nell’immediato non può che essere keynesiana” (e qui citano Ignazio Visco).

Non riassumerò le interviste (meno che mai quella a me sulla cultura), ma bastano nomi e temi a dar l’idea del libro. Gaetano Azzariti parla di Costituzione, Paolo Berdini di urbanistica, Rosy Bindi di sanità, Massimo Bray della scuola, Monica Di Sisto di globalizzazione, Anna Donati di mobilità, Gianna Fracassi di lavoro, Maria Cecilia Guerra delle politiche di genere, Matteo Leonardi di energie, Andrea Roventini di politica industriale, Alessandro Santoro di fisco, Vincenzo Vita di comunicazioni. Quanto alla prefazione di Enrico Giovannini, breve e impegnativa, va ormai letta alla luce del suo ruolo nel governo Draghi.

Raccomandando la lettura del libro come “un must nel momento in cui l’Italia, ma direi tutto il mondo, si interroga sul suo futuro”, Giovannini ricorda che già prima che esplodesse la pandemia era evidente l’assoluta necessità di “avviare una nuova fase del capitalismo per affrontare i grandi temi del XXI secolo, specialmente lo scontro dell’attuale modello di sviluppo con i limiti planetari e la sua evidente incapacità di ridurre le disuguaglianze esistenti” (per la verità, la sua evidente inclinazione ad accentuare le disuguaglianze rendendole irreversibili). Centrale dev’essere in tal senso, scrive Giovannini, l’art. 3 della Costituzione, secondo cui lo Stato e gli enti pubblici, ma anche le imprese e i cittadini, devono operare per “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Su questa strada, conclude, si dovranno mettere in gioco “tre fattori molto rilevanti: facce nuove (specialmente donne e giovani), idee e parole nuove (specialmente connesse alla giustizia ambientale e sociale), sintonia con ampie aree della società (spesso rappresentate da organizzazioni di cittadinanza attiva”.

Sarà interessante valutare in che misura il governo Draghi, non tanto nella lista dei ministri o dei sottosegretari, ma nella concreta azione politica saprà rispondere a tali, più che giusti, indirizzi. Ma un altro punto del testo di Giovannini merita qualche commento; ed è dov’egli dice che la nostra Costituzione contiene “il principio della giustizia intragenerazionale”, mentre vi è “assente quello della giustizia intergenerazionale”. A me non pare che sia così. Il dettato della Carta credo contenga ben chiara l’istanza-base della giustizia inter-generazionale: pensare, in quel che decidiamo e facciamo oggi, alle generazioni future, anche quelle che verranno fra cento o duecento anni. Preoccupazione in verità antichissima, che una lunga tradizione di statuti comunali e norme papali e sovrane in Italia chiamava con formule come publica utilitas o bonum commune: il bene comune come valore, e non come concreto oggetto di una proprietà collettiva. È vero che nella Costituzione della Repubblica l’espressione “bene comune” non c’è, eppure è proprio questo il suo principio ordinatore, espresso con parole non coincidenti ma convergenti: “Interesse della collettività” (art. 32), “interesse generale” (artt. 35, 42, 43 e 118), “utilità sociale” e “fini sociali” (art. 41), “funzione sociale” (artt. 42, 45), “utilità generale” (art. 43), “pubblico interesse” (art. 82). Sarebbe, la nostra, una Costituzione mutila se nella “collettività” dei cittadini non includesse le generazioni future. Non dubito che Enrico Giovannini possa convenire su questa interpretazione; tanto è vero che egli stesso scrive che “l’articolo 3 richiama tutte le componenti della società a disegnare un futuro in cui gli ostacoli allo sviluppo delle persone siano rimossi”. E questo futuro non può certo limitarsi alla solidarietà intra-generazionale tra i viventi. Deve includere la solidarietà con le generazioni future, come Draghi ha detto nel suo discorso al Senato (“ogni spreco oggi è un torto che facciamo alle prossime generazioni, una sottrazione dei loro diritti”).

Nel nuovo governo, Giovannini è ministro delle Infrastrutture, un ruolo-chiave in un Paese dove abbondano i fautori di una cementificazione a oltranza del territorio, di ponti sullo Stretto e autostrade superflue. Il governo Monti rimase fedele alla brutta favola di uno “sviluppo” economico basato sul moltiplicarsi di autostrade e Tav (anche se inutili) e sul rilancio dell’edilizia (mediante condoni, sanatorie, “piani casa”), e ignorò la necessità, già allora urgente, di intervenire prioritariamente sul fragilissimo suolo del nostro Paese, il più franoso e il più sismico d’Europa. Il suo degrado cresce ogni giorno per l’abbandono delle coltivazioni, gli incendi boschivi, l’annosa incuria per il regime delle acque, e la cementificazione pubblica e privata non fa che accentuare e velocizzare questo processo. La primissima “grande opera” di cui il Paese ha bisogno è dunque la messa in sicurezza del proprio suolo, cioè della vita e della salute dei cittadini. Questo impegno di “giustizia inter-generazionale” sarebbe pienamente rispondente alla Costituzione, ai bisogni del Paese, alle preoccupazioni espresse da Giovannini in questo suo testo, all’impegno del presidente Draghi, nel discorso al Senato, di “proteggere il futuro dell’ambiente (…) con particolare attenzione agli investimenti in manutenzione delle opere e nella tutela del territorio”. Possiamo sperare che, pur con una coalizione che mette insieme il diavolo e l’acquasanta, a queste parole seguiranno concreti atti di governo?

 

Il timido programma di “Mario” sulla Giustizia: serve coraggio

Sarà rimasto deluso chi si attendeva che nel campo della Giustizia il programma enunciato dal presidente del Consiglio nel discorso sulla fiducia alle Camere prevedesse riforme di più ampia portata come quella del processo civile e del processo penale (gli ultimi, timidi tentativi in questa direzione erano stati compiuti dal ministro Bonafede, rimasti negli archivi delle commissioni Giustizia). In effetti Draghi, nel suo intervento, si è limitato a raccogliere le Country Specific Recomandations della Ue indicando quali obiettivi di riforma l’insolvenza, il funzionamento più efficiente dei tribunali e una migliore gestione dei carichi di lavoro e infine la repressione della corruzione.

Si tratta di un programma ristretto, in gran parte dedicato al settore civile (la lotta alla corruzione ha già fatto passi avanti con la Spazzacorrotti) che, si spera, possa essere integrato e rilanciato dalle iniziative della neo ministra Cartabia, non solo sul versante della giustizia civile ma, soprattutto su quello del processo penale. Per quest’ultimo l’auspicio è che il Guardasigilli abbandoni la strada delle “leggine” seguita dai suoi predecessori con ben scarsi risultati, e si muova al di fuori dell’ottica del codice di procedura vigente risalente al 1989, che presenta un pauroso tasso di obsolescenza e di inefficienza, causa principale della montagna di arretrato, con 2.676.750 processi pendenti al 30 settembre 2020. Le ultime statistiche hanno messo in luce, ancora una volta, l’irrazionalità di un sistema i cui tempi, nella fase pre-dibattimentale, si snodano per mesi e mesi attraverso le indagini del Pm, l’udienza del giudice delle indagini preliminari (Gip), i ricorsi intermedi al tribunale del Riesame e alla Cassazione sulla libertà personale e sui sequestri di beni, l’udienza davanti al giudice dell’udienza preliminare (Gup) e, spesso, con altri tempi morti per cause varie. È una situazione catastrofica che, con gli strumenti attuali, appare senza ritorno, la quale imporrebbe una svolta radicale, all’insegna del coraggio e della lungimiranza, con l’introduzione del processo accusatorio che già Falcone aveva auspicato come ineludibile strumento di modernizzazione, razionalizzazione e velocizzazione della Giustizia penale.

Circa il processo civile basterebbero pochi punti per mettere in soffitta l’attuale macchinoso “processo di cognizione” e sostituirlo con il rito alternativo affermatosi a seguito dell’impatto del Covid-19, un rito che va sotto il nome di “udienza cartolare” o “udienza figurata” in cui prevale la trattazione scritta, o, in alternativa, con la presenza “da remoto” dei giudici, degli avvocati e delle parti. Ciò comporta la drastica riduzione dei tempi, l’acquisizione delle prove mediante investigazioni difensive, anche sostituendo la testimonianze e le perizie con dichiarazioni giurate certificate dal difensore (salvo l’intervento del giudice nei casi di dichiarazioni false), l’eliminazione delle udienze di mero rinvio e la previsione di due sole udienze “in presenza”: la prima, di presentazione dell’azione al giudice da parte dell’attore in contraddittorio con il convenuto; la seconda per la precisazione delle conclusioni con preventivo scambio di memorie, cui segue la deliberazione e la pubblicazione della sentenza entro un termine breve.

Entrambe tali riforme dovrebbero essere accompagnate dall’introduzione del giudice monocratico in appello e dalla riduzione dei collegi giudicanti in Cassazione da cinque a tre magistrati. Da ultimo la spinta riformatrice dovrebbe comprendere, anche per il Supremo collegio, la redazione delle sentenze sotto forma semplificata di ordinanza, tranne casi di particolare complessità e fermo: le “sentenze-manifesto” sono un lusso che non ci possiamo più permettere.

 

Povero Vito Crimi: il reggente perpetuo si crede Maradona

La carriera politica di Vito Crimi può essere riassunta in due trattative dall’esito assai funesto. La prima doveva farla, e invece non la fece. La seconda non doveva farla, e invece l’ha fatta.

Riavvolgendo il nastro. 2013. In uno degli infiniti moti masochistici che ne caratterizzeranno il cammino (non solo) parlamentare, i 5 Stelle mandano tali Lombardi Roberta e Crimi Vito a parlare con il povero Pier Luigi Bersani. L’allora leader del Pd ha avuto un mandato esplorativo assai fragile e chiede non l’entrata nel governo dei grillini, ma l’appoggio esterno del M5S. Lombardi (la poliziotta cattiva) e Crimi (il poliziotto buono) rifiutano. Mossa politica lecita, ma lo fanno con una supponenza così insopportabile che nel vederli il 78% degli elettori M5S si manda subito affanculo da solo. Ancora oggi, non senza ragione, Bersani ricorda ironicamente che i 5 Stelle hanno detto sì a tutti tranne che a lui. Del resto siamo nati per soffrire. E ci riesce benissimo.

Otto anni dopo, Vito Crimi è ancora lì. Non solo: l’hanno fatto leader. Di più: l’hanno reso una sorta di essere mitologico. Egli è infatti il “Reggente Perpetuo”. Doveva gestire la leadership per pochi mesi, ma i 5 Stelle si sono presi troppo tempo. Al punto tale che la difficilissima trattativa con Draghi non l’ha gestita un tipo scaltro, ma proprio Crimi. Un bravo ragazzo. Onesto, appassionato e pure autoironico. Ma del tutto inadatto al ruolo. La sua poteva essere la storia di un Colombo applicato alla politica, laddove qui il Colombo non è Cristoforo ma il “medianaccio” del primo Milan di Sacchi. E invece gli han chiesto di fingersi Maradona. Ciao core.

Dall’avvento politico di Draghi, Vito Crimi ha sbagliato tutto quello che si poteva sbagliare. Divide ovviamente il disastro con carneadi tipo Crippa (chi?) e Licheri (chi?). E lo divide soprattutto con Beppe Grillo, tanto geniale e visionario ieri quanto confuso e indifendibile oggi. Crimi, politicamente sprovvisto di carisma e pensiero autonomo, ha nei confronti di Grillo fede cieca. E dunque, se c’è un’apocalisse nelle vicinanze, ci si butta dentro. Perché gliel’ha detto “Beppe”.

Povero Crimi. Non aveva fatto in tempo a scrivere “Mai con Draghi”, che nel frattempo Grillo si era innamorato al telefono (sic) del “grillino Draghi” (sic). È così tornato sui suoi passi, sicuro come un salmone morto che risale per inerzia la corrente, e una settimana dopo ha vissuto l’indicibile mitraglia da Floris, martirizzato come un goffo San Sebastiano dai primi Sallusti e De Gregorio che passavano. Dalla trattativa con Draghi è uscito devastato (appena un ministro in più di Forza Italia, Patuanelli retrocesso, niente Giustizia e la Transizione ecologica data a un grillino). Eppure ha avuto pure il coraggio di (fingere di) esultare. È poi entrato nel trip Highlander: “Ne resterà solo uno, Vito”. Ha così espulso tutti i deputati e senatori che avevano detto “no” a Draghi, oppure astenuti o assenti (senza giustificazione). Decisione ineccepibile sul piano regolamentare, ma demente sul piano politico. Non parliamo qui di trasformisti di professione o furbacchioni che non restituiscono lo stipendio, ma (quasi sempre) di parlamentari storicamente legati ai M5S. Il “superministero” non c’è, dunque la votazione su Rousseau è di per sé inficiata. E da quando poi sarebbe diventato “non grillino” dire no a Renzi, Salvini e Berlusconi?

Disastro su tutta la linea. E intanto il Sistema, senza che Crimi neanche se ne accorga, se la gode. Per parafrasare proprio Grillo: “Avanti così. Verso la catastrofe, però con ottimismo”.

 

Lavoro, niente di nuovo dalle parole di Draghi

Se io fossi Draghi, mi sentirei profondamente offeso dall’essere considerato come un Forrest Gump che, per ogni idea esternata, anche la più ovvia, trova turbe di commentatori pronti a vedervi un lampo di genialità e una strategia siderale. Nel suo discorso programmatico, subito elogiato come le 12 tavole di Appio Claudio o le 95 tesi di Lutero, Draghi ha declinato (e non poteva essere diversamente) la solita scaletta – debito pubblico, giovani, donne, scuola, Mezzogiorno, ecc. – che si ritrova in tutti i discorsi programmatici di tutti i presidenti del Consiglio, da quando esiste la Repubblica. Per ogni punto della scaletta ha prospettato soluzioni e paventato difficoltà per grandi linee. Poi ha concluso la sua replica al Senato dicendo onestamente: “Vi ringrazio della stima che mi avete mostrato, ma anch’essa dovrà essere giustificata e validata nei fatti dall’azione del governo da me presieduto”. E già mentre pronunziava queste parole, l’impegno di realizzare “un’effettiva parità di genere” era vanificato dal fatto incontestabile che, su 23 ministri, solo 8 sono donne.

Gli unici concetti sicuramente nuovi rispetto a quelli sciorinati in tutti gli altri discorsi programmatici riguardano la sanità, i vaccini e il Recovery plan per il semplice fatto che nessun altro presidente del Consiglio ha mai esordito in tempo di pandemia. Per mia deformazione professionale, ho ascoltato e poi letto con maggiore attenzione i passaggi riguardanti il problema lavoro. Se ho ben contato, su 5.630 parole contenute nel discorso, “lavoro” compare esplicitamente solo 15 volte, con esiti decisamente deludenti. In tre casi la parola viene usata in senso generico, come quando Draghi ricorda che “il precedente governo ha già svolto una grande mole di lavoro”. In altri due casi viene evocata in connessione a eventi storici, come quando Draghi dice: “l’Italia si risollevò dal disastro della Seconda guerra mondiale grazie a investimenti e lavoro”. Quattro volte la parola “lavoro” è usata per indurre l’uditorio a mettersi nei panni di chi lo perde: “Dobbiamo occuparci di chi soffre adesso, di chi oggi perde il lavoro”. “È innanzitutto ai giovani, alle donne e ai lavoratori autonomi che bisogna pensare quando approntiamo una strategia di sostegno delle imprese e del lavoro, strategia che dovrà coordinare la sequenza degli interventi sul lavoro”. Oppure Draghi ricorre al lavoro per offrire un appiglio all’orgoglio e all’ottimismo: “La capacità di adattamento del nostro sistema produttivo e interventi senza precedenti hanno permesso di preservare la forza lavoro in un anno drammatico”.

In un solo caso si accenna al mercato del lavoro: “La globalizzazione, la trasformazione digitale e la transizione ecologica stanno da anni cambiando il mercato del lavoro e richiedono continui adeguamenti nella formazione universitaria”. Ma non si fa nessun riferimento al problema cruciale della disoccupazione tecnologica. Due passaggi sono dedicati da Draghi alle politiche del lavoro. Uno le mette in rapporto alla scuola: “Sottolineeremo il ruolo della scuola che tanta parte ha negli obiettivi di coesione sociale e territoriale e quella dedicata all’inclusione sociale e alle politiche attive del lavoro”. L’altro è leggermente più ampio, forse in omaggio al M5S che considera cruciale questo argomento: “Centrali sono le politiche attive del lavoro”. Poi aggiunge: “Affinché esse siano immediatamente operative è necessario migliorare gli strumenti esistenti, come l’assegno di riallocazione, rafforzando le politiche di formazione dei lavoratori occupati e disoccupati. Vanno anche rafforzate le dotazioni di personale e digitali dei centri per l’impiego in accordo con le regioni. Questo progetto è già parte del Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza ma andrà anticipato da subito”. Neppure un cenno al Reddito di cittadinanza.

Non poteva mancare almeno un rapido passaggio sul rapporto tra lavoro e Mezzogiorno dove “aumento dell’occupazione, in primis, femminile, è obiettivo imprescindibile. (…) Sviluppare la capacità di attrarre investimenti privati nazionali e internazionali è essenziale per generare reddito, creare lavoro”. Un altro rapido accenno al lavoro si trova in un passaggio con cui si promette di aumentare l’efficienza del sistema giudiziario civile “favorendo lo smaltimento dell’arretrato e una migliore gestione dei carichi di lavoro”. Infine, un quasi inatteso elogio dello smart working e della ex ministra della PA: “Nell’emergenza l’azione amministrativa, a livello centrale e nelle strutture locali e periferiche, ha dimostrato capacità di resilienza e di adattamento grazie a un impegno diffuso nel lavoro a distanza”. Artefice di questo impegno è stata la ministra Dadone, ma Draghi ne ha interrotto la meritevole azione nel ministero della PA per declassarla spostandola alle Politiche giovanili.

 

Le capriole dei capataz, il vincolo di mandato e la democrazia sospesa

Molti degli opinionisti italiani che si occupano di politica è inutile leggerli e starli a sentire, poiché non ragionano con metodo, ovvero attraverso categorie, regole, modelli; quindi non capiscono cosa sta accadendo, e non possono aiutare altri a comprenderlo. Il massimo che sanno fare si riduce a questo: esprimere la propria adesione al capataz prediletto, con argomenti posticci che, da tifosi, abbandoneranno alla sua ennesima capriola. Le capriole dei capataz sono frequenti e inevitabili perché un capataz agisce in base al proprio tornaconto immediato, e il successo a tutti i costi è il suo unico metro di giudizio, mentre il comportamento nobile, anche in politica, è quello che, al dunque, non ti fa rinnegare certi princìpi, benché non ti convenga. È nobile il capataz che tresca con la P2 o con la mafia? No, dunque non è nobile neppure allearsi col suo partito, votarlo, lavorare per le sue aziende, e pubblicare per le sue case editrici. I princìpi impongono alla tua coscienza, se ne hai una, scelte non facili, anche perché un capataz ha il potere di rovinarti: la sua prima rappresaglia sarà ridicolizzarti sui media lecchini, poi arriveranno ostracismi e vessazioni. L’errore è reagire diventando un capataz: finirai per espellere chi dissente dalla tua linea proprietaria, ratificata ogni volta da una misteriosa e docile scatola nera, gestita da un’associazione privata fondata da amici. Altrettanto inopportuna, però, è l’indignazione odierna di quanti accettarono l’investitura a parlamentare firmando un contratto incostituzionale (l’obbedienza alla scatola nera perinde ac cadaver, con tanto di penale in caso di trasgressione, mentre la Costituzione non prevede, giustamente, il vincolo di mandato) e oggi vorrebbero rescindere quel patto faustiano che li riduceva a servo-unità. Invocano pure un giudizio in merito dalla solita scatola nera, forse nella speranza che l’attuale maretta fra Casaleggio e Grillo possa influenzarne i transistor. Lascia il tempo che trova, infine, chi loda i malpancisti in quanto “coerenti” con il MoVimento degli inizi, quello del no a Berlusconi: l’argomento della purezza identitaria, base di ogni discorso reazionario, fa cilecca perché nel recente passato gli stessi opinionisti, all’epoca concordi con Grillo, usarono l’argomento della raggiunta “maturità” del MoVimento per giustificarne le capriole vantaggiose (per esempio il sì al Pd, dopo averlo demonizzato in crescendo per un decennio fino all’antonomasia che lo bollava come “il partito di Bibbiano”; Di Maio: “Io col partito di Bibbiano non voglio averci nulla a che fare”, 18 luglio 2019). È maturità sposare Farage, poi la Lega, poi il Pd? Allora è maturità anche sposare Draghi, visto che l’ha deciso lo stesso capataz. (“Il ritorno di Grillo”, titolarono, come se si fosse davvero mai fatto da parte: la barzelletta del millennio). È la vecchia, comoda Realpolitik: D’Alema arrivò ad autorizzare i bombardamenti in Kosovo; Renzi ha definito “Rinascimento” quello di Bin Salman, l’ultimo dei Borgia. Insomma, chi è causa del suo mal pianga se stesso. Tanto la democrazia è sospesa: votate così male che ogni volta il capo dello Stato deve metterci una pezza, con tutto quello che ha da fare.

Nuovo messaggio di Grillo per convincere i malpancisti: “Se riesci a commuoverti per il futuro, allora sei un ragazzo del 2099: credi che il benessere non voglia dire produrre di più, ma vivere meglio. Credi che le persone contino più delle cose, nel cielo vuoi più rondini e meno satelliti, nei parchi vuoi più lucciole e meno display. E tutto questo Brunetta può dartelo”.

 

Salvini come il lupo finito nel pollaio delle larghe intese

E se Matteo Salvini fosse il lupo ingenuamente fatto entrare nel pollaio delle larghe intese? Come nella favola dell’astuto carnivoro che fa strage di galline dopo averle ingannate con un finto pentimento, al capataz leghista è stato facile essere accettato: “Due parolette, un sorriso e via, basta la presenza del pacioso Giancarlo Giorgetti al fianco del truce Salvini a rassicurare Quirinale e Palazzo Chigi” (Piero Ignazi sul Domani). Del resto, quando la sera del 2 febbraio Sergio Mattarella – archiviato il governo Conte come un farmaco scaduto – ebbe a rivolgersi con toni drammatici a tutte le forze politiche per la nascita di un governo di salvezza nazionale e di “alto profilo”, non ci sentimmo forse pronti a mobilitarci per la patria in pericolo? Chi rifiuterebbe l’aiuto del vicino, anche il più antipatico e litigioso, pur di spegnere l’incendio della casa comune? E quando il lupo del Carroccio (in combutta con il compare Renzi che aveva spalancato il recinto) si presentò da Mario Draghi dicendo vengo anch’io, chi si interrogò realmente sulla sincerità della conversione di quel tizio barbuto? Uno che soltanto il giorno prima era impegnato a sputare sull’Europa, a esaltare Putin, a perseguitare immigrati, a invocare i santi Cirillo e Metodio sbaciucchiando rosari come un Rasputin dell’Idroscalo? Infatti, non appena ammesso nel pollaio, il leghista ha cominciato a fare la voce grossa: basta lockdown, decidano le “nostre” Regioni quando aprire e chiudere, e che il commissario Arcuri vada fuori dalle scatole, che ci mettiamo uno di fiducia. Poi, brandendo i numeri virtuali dei sondaggi (“siamo il partito più forte”) egli pretende la sottomissione dell’intera batteria dei polli: superior stabat lupus. Quindi ordina al pacioso Giorgetti di soprassedere: dal Milleproroghe alle nomine dei sottosegretari, con le galline che non mettono becco. A questo punto lasciamo ai giuristi una qualche riflessione sulla supposta unità nazionale, monumento votivo non previsto dalla Costituzione e nella fattispecie invocato come l’estrema trincea, il Piave mormorò.

Quando invece la presente emergenza più che unanimismi di facciata comporterebbe scelte precise. Non è vero forse che dall’inizio della pandemia si sono contrapposti due partiti? Quello del viene prima la salute? E quello del viene prima l’economia? E che fino a quando i lupi ululavano da lontano il governo Conte aveva cercato un difficile punto d’equilibrio tra le due necessità, con il diritto alla salute in posizione primaria? Ora però che il recinto è stato spalancato, cosa impedirebbe a Salvini, se ostacolato da Mario Draghi – l’unico autentico valore aggiunto di tutta l’operazione – di chiedergli di quante divisioni dispone?

I viaggi nel tempo dell’eterno Riotta

Riotta ha sempre ragione. Quando va in tv, quando scrive, quando twitta ( 482 volte al giorno, a spanne), quando apostrofa in inglese i suoi studenti della Luiss. Nell’interminabile faida con questo giornale, Johnny ha regalato nuovi pensierini ai suoi affezionati followers: “Mi dicono che secondo il Fatto ho passato un lustro a criticare #M5S. Sbagliano, li ho criticati dal 2007, quasi tre lustri, mentre loro li incensavano”. Riotta ha ragione anche quando viaggia nel tempo, perché nel 2007 non c’era il Fatto e soprattutto non c’erano i 5S, battezzati due anni dopo. Ma il nostro, non pago, ha dato pure un consiglio a Giuseppe Conte: “Se affida il suo futuro alla rozzezza propagandistica del Fatto e dei talk show che insultano Draghi, Beppe Grillo e il M5S, non avrà un futuro politico serio. Ne prenda le distanze”. Curioso: ora Johnny rivaluta Grillo e il M5S, che insultava da prima che nascesse, e consiglia Conte, che ha sempre sbertucciato. Almeno il Fatto continua a odiarlo. Un po’ di coerenza.

SuperMario salva tutti coi silenzi istituzionali

 

• “Ancora due colpi da… Draghi. Il premier incaricato sceglie il blu anche per l’abbigliamento ‘informale’. Curiosità: non ha profili social e non usa neanche WhatsApp. Ma è un grande appassionato di Web e Mail”.

Oggi

 

• Titolo: “Addio storytelling, ecco i silenzi istituzionali. Così Draghi rivoluziona le parole del potere”. Catenaccio: “La stagione del ‘roccocasalinismo’ è finita, si torna a una comunicazione istituzionale e autorevole”. Svolgimento: “Cambio di passo. E di tempistiche. Dal metodo del ‘rinvio permanente’ di Conte all’individuazione immediata di un’agenda definita e di una scaletta di priorità da perseguire senza indugi. (…) Draghi ‘l’accelerazionista’ in politica è, altresì, il neopremier che ha appena introdotto lo ‘stile banchiere centrale’ nella comunicazione politica italiana”.

La Stampa

 

• “La spinta di Draghi in Europa per la produzione del vaccino”.

Corriere della Sera

 

• “Draghi riscrive il ruolo dello Stato in economia”.

Repubblica

La pandemia e il legame istituzioni e cittadini

Se nella vita sociale è importante che il popolo sia maturo, consapevole e responsabile, è addirittura essenziale in ambito di politica sanitaria. Le istituzioni, la scuola soprattutto, dovrebbero dare educazione e informazioni. Questa è la differenza abissale tra istruttore ed educatore. Il primo controlla e sanziona, il secondo dà fiducia e informa. La trasgressione, nel primo caso, sarà interpretata come difesa della propria libertà (illusoria) e dalla prepotenza intimidatoria, nel secondo un errore che mette a rischio se stessi.

Durante una così lunga pandemia, dopo un anno di misure e sacrifici, dovremmo prestare attenzione al rapporto tra istituzioni e cittadini. Continuare con un comportamento up-down (regole dall’alto), senza tener conto di un coinvolgimento responsabile, è un fallimento assicurato, soprattutto con i giovani, naturalmente più portati alla trasgressione. La corda è tesa, non spezziamola. Assistiamo giornalmente a violazioni più o meno palesi delle misure restrittive. Non si rimedia con multe e intimidazioni. I ragazzi, quando sono in gruppo, spesso tolgono le mascherine. Dovunque leggiamo di norme da seguire, ma le raccomandazioni sono troppe, si finisce per non rispettarne neanche una.

I Paesi che, come l’Italia, hanno emesso decine di Dpcm per regolare la vita dei cittadini, hanno dovuto controllare strade, auto in circolazione. Con un’azione quasi di violazione della nostra privacy, ci è stato detto quanti ospiti, quanti commensali avremmo potuto ricevere. Credo che nessuno, scrivendole, ci abbia davvero creduto. Perché due ospiti per due visite a casa sarebbero meno contagiosi di quattro tutti insieme? Paesi del Nord Europa hanno agito diversamente, hanno informato e raccomandato di seguire alcune misure. Lo hanno fatto. La gente ha avuto fiducia. È questo che oggi dobbiamo tentare di ottenere. La gente è prostrata, dobbiamo recuperare la fiducia nelle istituzioni competenti, offrire una scienza compatta che discute “a casa”, prima di parlare in pubblico. La strada è ancora molto lunga, non abbiamo alternativa.

 

direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

“Le 5 stelle ormai si sono spente: fiducia tutta al buio”

“Siamo quelli di cui non sapete neanche il cognome e il nome, ma che hanno lottato perché voi aveste il privilegio di stare in Parlamento e nei luoghi di potere per portare la nostra voce”. Nel suo discorso alla Camera, annunciando il “no” al governo Draghi, la grillina torinese Jessica Costanzo si è riferita ai milioni di elettori “senza nome”, che a suo dire sono stati traditi dalla deriva dei 5Stelle. “Queste persone sono state prese in giro. La direzione presa dal Movimento è esattamente il contrario di quello che avevamo promesso loro. Le nostre 5 stelle sono spente: abbiamo accettato una politica ambientale timida, una politica sul lavoro senza ambizione, avevamo detto che avremmo smantellato il Jobs Act e non l’abbiamo fatto. Avevamo giurato che non avremmo accumulato poltrone e incarichi”.

Costanzo ha iniziato la militanza nel Movimento nel 2012, “sfogo naturale”, dice, della sua passione e dei suoi studi universitari in Scienze Politiche. Nella passata consiliatura ha collaborato in Regione Piemonte con il consigliere Davide Bono, nel 2018 grazie alle “parlamentarie” si è guadagnata la posizione di capolista nel secondo collegio Piemonte 1 e poi l’elezione a Montecitorio. L’adesione al governo Draghi secondo lei è una resa: “Abbiamo detto sì senza sapere il programma. Ci siamo infilati in un’ammucchiata insieme a forze politiche che hanno valori all’antitesi dei nostri. Ci siamo affidati al carisma di un premier sicuramente di alto profilo, ma che ha una biografia molto chiara, nel nome delle politiche di austerità e del pensiero liberista”.

Con il “no” a Draghi è arrivata in automatico l’espulsione: “Nel 2018 ho preso un impegno con i cittadini e di certo non comprendeva l’ipotesi di prender parte a un governo così. Ora l’obiettivo è riportare il Movimento alle origini. Ci vorrebbe un cambiamento drastico della sua dirigenza, che si è trasformata in oligarchia. Ci sarà tanto da lavorare”.