Quando avviò il cantiere delle tredici interviste raccolte in un libro appena uscito (Pubblico è meglio. La via maestra per ricostruire l’Italia), l’editore Donzelli non poteva sapere che il volume sarebbe uscito proprio sull’alba del governo Draghi.
Né Enrico Giovannini, già competentissimo presidente dell’Istat e ministro nel governo Monti, poteva sapere che la sua prefazione, licenziata l’11 gennaio 2021, avrebbe circolato a stampa più o meno mentre giurava al Quirinale come membro di un altro governo. Ma il momento in cui il libro esce, fra Conte e Draghi, lo rende ancor più interessante. I giornalisti che lo hanno curato, Altero Frigerio e Roberta Lisi, spiegano la loro intenzione nelle pagine introduttive (Il futuro è qui: più Stato e meno mercato ai tempi di Next Generation Eu): rispondere alla crisi economica e sociale innescata dalla pandemia, raccogliere il corale bisogno di “più Stato” e dargli sostanza, pur sapendo che “è proprio lo Stato il soggetto che mostra più crepe, limiti e affanni, che più arranca senza trovare l’equilibrio e la strategia all’altezza delle criticità dell’oggi”, e che dunque “è lo Stato a dover essere ricostruito per primo”, a cominciare da un Recovery Plan efficace. “Non ci potrà essere un ritorno al prima, anche perché quel prima non andava per niente bene”, e sarà necessario darsi chiare priorità: “Sanità, istruzione, lavoro (…), risanamento del territorio, sviluppo compatibile con l’ambiente. (…) Prima i cittadini poi la finanza, prima le persone poi i guadagni, prima la natura poi la Borsa, per dirla con papa Francesco”. Per modificare “l’architettura dello Stato e la distribuzione dei poteri” sarà necessario “riportare le Regioni all’interno di un quadro nazionale”, ripudiando “la sciagurata riforma del Titolo V della Costituzione, un federalismo distorto fino alla richiesta dell’autonomia differenziata”, imboccando la strada verso “un piano di politica economica che nell’immediato non può che essere keynesiana” (e qui citano Ignazio Visco).
Non riassumerò le interviste (meno che mai quella a me sulla cultura), ma bastano nomi e temi a dar l’idea del libro. Gaetano Azzariti parla di Costituzione, Paolo Berdini di urbanistica, Rosy Bindi di sanità, Massimo Bray della scuola, Monica Di Sisto di globalizzazione, Anna Donati di mobilità, Gianna Fracassi di lavoro, Maria Cecilia Guerra delle politiche di genere, Matteo Leonardi di energie, Andrea Roventini di politica industriale, Alessandro Santoro di fisco, Vincenzo Vita di comunicazioni. Quanto alla prefazione di Enrico Giovannini, breve e impegnativa, va ormai letta alla luce del suo ruolo nel governo Draghi.
Raccomandando la lettura del libro come “un must nel momento in cui l’Italia, ma direi tutto il mondo, si interroga sul suo futuro”, Giovannini ricorda che già prima che esplodesse la pandemia era evidente l’assoluta necessità di “avviare una nuova fase del capitalismo per affrontare i grandi temi del XXI secolo, specialmente lo scontro dell’attuale modello di sviluppo con i limiti planetari e la sua evidente incapacità di ridurre le disuguaglianze esistenti” (per la verità, la sua evidente inclinazione ad accentuare le disuguaglianze rendendole irreversibili). Centrale dev’essere in tal senso, scrive Giovannini, l’art. 3 della Costituzione, secondo cui lo Stato e gli enti pubblici, ma anche le imprese e i cittadini, devono operare per “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Su questa strada, conclude, si dovranno mettere in gioco “tre fattori molto rilevanti: facce nuove (specialmente donne e giovani), idee e parole nuove (specialmente connesse alla giustizia ambientale e sociale), sintonia con ampie aree della società (spesso rappresentate da organizzazioni di cittadinanza attiva”.
Sarà interessante valutare in che misura il governo Draghi, non tanto nella lista dei ministri o dei sottosegretari, ma nella concreta azione politica saprà rispondere a tali, più che giusti, indirizzi. Ma un altro punto del testo di Giovannini merita qualche commento; ed è dov’egli dice che la nostra Costituzione contiene “il principio della giustizia intragenerazionale”, mentre vi è “assente quello della giustizia intergenerazionale”. A me non pare che sia così. Il dettato della Carta credo contenga ben chiara l’istanza-base della giustizia inter-generazionale: pensare, in quel che decidiamo e facciamo oggi, alle generazioni future, anche quelle che verranno fra cento o duecento anni. Preoccupazione in verità antichissima, che una lunga tradizione di statuti comunali e norme papali e sovrane in Italia chiamava con formule come publica utilitas o bonum commune: il bene comune come valore, e non come concreto oggetto di una proprietà collettiva. È vero che nella Costituzione della Repubblica l’espressione “bene comune” non c’è, eppure è proprio questo il suo principio ordinatore, espresso con parole non coincidenti ma convergenti: “Interesse della collettività” (art. 32), “interesse generale” (artt. 35, 42, 43 e 118), “utilità sociale” e “fini sociali” (art. 41), “funzione sociale” (artt. 42, 45), “utilità generale” (art. 43), “pubblico interesse” (art. 82). Sarebbe, la nostra, una Costituzione mutila se nella “collettività” dei cittadini non includesse le generazioni future. Non dubito che Enrico Giovannini possa convenire su questa interpretazione; tanto è vero che egli stesso scrive che “l’articolo 3 richiama tutte le componenti della società a disegnare un futuro in cui gli ostacoli allo sviluppo delle persone siano rimossi”. E questo futuro non può certo limitarsi alla solidarietà intra-generazionale tra i viventi. Deve includere la solidarietà con le generazioni future, come Draghi ha detto nel suo discorso al Senato (“ogni spreco oggi è un torto che facciamo alle prossime generazioni, una sottrazione dei loro diritti”).
Nel nuovo governo, Giovannini è ministro delle Infrastrutture, un ruolo-chiave in un Paese dove abbondano i fautori di una cementificazione a oltranza del territorio, di ponti sullo Stretto e autostrade superflue. Il governo Monti rimase fedele alla brutta favola di uno “sviluppo” economico basato sul moltiplicarsi di autostrade e Tav (anche se inutili) e sul rilancio dell’edilizia (mediante condoni, sanatorie, “piani casa”), e ignorò la necessità, già allora urgente, di intervenire prioritariamente sul fragilissimo suolo del nostro Paese, il più franoso e il più sismico d’Europa. Il suo degrado cresce ogni giorno per l’abbandono delle coltivazioni, gli incendi boschivi, l’annosa incuria per il regime delle acque, e la cementificazione pubblica e privata non fa che accentuare e velocizzare questo processo. La primissima “grande opera” di cui il Paese ha bisogno è dunque la messa in sicurezza del proprio suolo, cioè della vita e della salute dei cittadini. Questo impegno di “giustizia inter-generazionale” sarebbe pienamente rispondente alla Costituzione, ai bisogni del Paese, alle preoccupazioni espresse da Giovannini in questo suo testo, all’impegno del presidente Draghi, nel discorso al Senato, di “proteggere il futuro dell’ambiente (…) con particolare attenzione agli investimenti in manutenzione delle opere e nella tutela del territorio”. Possiamo sperare che, pur con una coalizione che mette insieme il diavolo e l’acquasanta, a queste parole seguiranno concreti atti di governo?