“Dobbiamo rifondare il M5S. Conte può fare il capo politico”

Nel Movimento per cui le giornate sono lunghissime, cinque senatori appena cacciati annunciano una causa contro le espulsioni, altri neo esuli preparano un nuovo gruppo alla Camera, gli altri si chiedono cosa fare. Così Paola Taverna prova a guardare un po’ più in là: “Dobbiamo fermarci un attimo, per riflettere. E dobbiamo rifondare il M5S”.

Nei giorni scorsi lei ha invocato “unità”, sostenendo che “tanti di quelli che hanno votato in dissenso sono parte fondamentale del M5S”. Ma le espulsioni sono ugualmente arrivate.

Noi abbiamo delle regole, che vanno rispettate. I colleghi che hanno votato no hanno espresso un sentimento diffuso tra noi, ma finché le norme sono quelle, vanno osservate. Forse però ora è tempo di capire come evitare che certe situazioni si ripetano.

Cosa intende?

Voglio dire che è il momento di pensare a un nuovo modo di decidere e di stare assieme, per fare sì che non si debba arrivare a situazioni come quella attuale, con due anime contrapposte.

Una situazione in cui sta finendo tutto a carte bollate…

Sarebbe l’epilogo peggiore. Ma tutto questo conferma che bisogna lavorare a un nuovo perimetro, a una nuova cornice per il Movimento. E in questa ottica Giuseppe Conte può essere una figura fondamentale. Lui ha cambiato l’approccio del Movimento alla politica, facendo una sintesi tra la nostra forza innovatrice e la sua capacità di stare al governo.

In che ruolo lo vedrebbe?

Oggi lo scenario politico è totalmente mutato. Spero che Beppe Grillo e lui possano individuare il ruolo più giusto. Per me potrebbe anche essere un ottimo capo politico, da solo o affiancato da una segreteria. E su questo potrebbero esprimersi nuovamente gli iscritti.

Lei è disposta a candidarsi per l’organo collegiale?

Ora non mi sento di fare questa scelta. Dopodiché, ripeto, dobbiamo chiederci se determinate cose non vadano ripensate, compresa la funzione di una piattaforma web che doveva avere un milione di iscritti e invece ne ha poco più di 100mila.

Lei invoca una riflessione. Ma in autunno avete tenuto gli Stati generali.

Nel frattempo sono successe moltissime cose, e a mio avviso bisogna tenerne conto.

Nell’attesa dovrete governare con Forza Italia, Lega e Iv. Come farete a mantenere la vostra identità?

La nostra non è una fiducia in bianco e questo non è certo il governo che volevamo. Ma stando dentro l’esecutivo possiamo difendere risultati e battaglie molto meglio che rimanendo fuori.

Il ministero della Transizione ecologica è un giochino dialettico o una conquista?

Il nuovo ministero è un risultato concreto, per cui Beppe Grillo si è speso in prima persona. Andrebbe riconosciuto che ora in Italia e in Europa si discute dei temi di cui il Movimento parla da sempre, a cominciare dalla transizione ecologica.

Alessandro Di Battista ha cancellato l’iscrizione al M5S. Pesante, non crede?

Mi dispiace molto, perché una voce fuori del coro è sempre un arricchimento. Lui pensava che fosse meglio restare fuori. Ma sono certa che ci saranno nuovi terreni di incontro con Alessandro.

L’alleanza giallorosa va difesa?

A livello parlamentare il lavoro con Pd e LeU ha dato buoni risultati, grazie anche a Conte, che ha fatto da collante. E anche in prospettiva futura, lui sarebbe prezioso in questa veste.

Però molti dem hanno già “sparato” contro l’intergruppo parlamentare.

Mi dispiace, perché l’intergruppo dovrebbe servire proprio a difendere quell’esperienza. Diciamo che noi abbiamo i nostri problemi interni, e il Pd ha i suoi.

A Roma voi dovreste ricandidare Virginia Raggi, senza accordo con il Pd.

Virginia ha portato avanti le idee del Movimento tra enormi difficoltà. Ed è la nostra candidata.

Per Aspi 9 miliardi ad Atlantia. E sulla rete tregua con Vivendi

In attesa del, come si suol dire ora, “cambio di passo” del governo Draghi, le grandi operazioni di sistema, da Autostrade alla cosiddetta “rete unica”, proseguono col pilota automatico: un mix di offerte, lettere, penultimatum, due diligence, eccetera in cui sono certe solo le ricche consulenze a uno stuolo di legali ed ex amministratori pubblici. Le operazioni riguardano la Cassa depositi e prestiti, che ieri ha tenuto un importante cda (che proseguirà anche oggi).

Il dossier più rilevante è Autostrade per l’Italia. Il cda, salvo sorprese, darà l’ok a formalizzare un’offerta “vincolante” per rilevare l’88% di Aspi oggi in mano ad Atlantia, la holding controllata per il 30% dai Benetton, che la valuterà nel cda previsto per venerdì. A luglio 2020 il governo Conte ha imposto ad Atlantia di cedere Aspi alla Cassa e a investitori a lei graditi per chiudere la ferita aperta dal disastro del Morandi. Dopo offerte a vuoto (tre) e rinvii (cinque) oggi Cdp – insieme al fondo Blackstone e agli australiani di Macquarie (che hanno assoldato l’ex presidente della Cdp, Claudio Costamagna) – valuta Autostrade intorno ai 9 miliardi.

Il prezzo, in buona sostanza, ingloba anche i rischi legali del Morandi e verrebbe pagato in due tempi (il 75% subito, il resto in tre anni). Aspi finirebbe in mano a una società controllata da Cdp al 51%. Va ricordato che Atlantia valuta a bilancio la controllata circa sei miliardi, e questo significa che l’offerta garantisce alla holding una discreta plusvalenza (il titolo ieri ha chiuso a +4%). Il gruppo, però, ha già rifiutato un’offerta (non vincolante) alle stesse cifre. Al netto dei Benetton, il grosso degli azionisti è infatti composto dai fondi esteri, che vogliono molti più soldi. Il più agguerrito è il britannico Tci, secondo azionista col 10%: ieri ha ribadito che l’88% di Aspi vale 11-12 miliardi, più o meno la valutazione pre-Morandi.

Non è però l’unico ostacolo. L’altro rimane il via libera al nuovo Piano economico finanziario (Pef), che stabilisce tariffe, manutenzioni e investimenti nel prossimo quinquennio. Quello proposto da Aspi e approvato dai ministeri dei Trasporti e del Tesoro è stato stroncato dall’Authority dei Trasporti (Art) perché troppo generoso col privato, al punto che contiene la previsione di poter garantire 21 miliardi di dividendi fino a fine concessione, più di quanto assicurato finora ad Atlantia, grazie a un aumento automatico dei pedaggi dell’1,75% all’anno (secondo l’Art dovrebbe essere dello 0,87%). Ballano miliardi. Il parere non è vincolante e i ministeri lo hanno di fatto aggirato limando l’aumento a 1,67%. Spetterà al Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) di Palazzo Chigi decidere se va bene così. Poi servirà il via libera della Corte dei conti. Finora, però, il testo non è stato trasmesso: formalmente perché è vincolato all’accordo con Cdp, ma serpeggia il timore che qualcuno possa rifiutarsi di disattendere il parere dell’Art che prefigura la spremitura degli automobilisti al casello.

Al cda della Cassa depositi, l’ad Fabrizio Palermo ha portato anche il dossier della società unica della fibra (AccessCo), che dovrebbe nascere dalla fusione tra la rete Tim e quella di Open Fiber (50% di Cdp e 50% Enel). La Cassa non eserciterà la prelazione sul 50% che il colosso elettrico vuole cedere al solito Macquarie. L’ad Francesco Starace ha in mano un’offerta spropositata degli australiani da 2,6 miliardi. Cdp tratterà solo con Enel l’acquisto del 10% per avere la maggioranza. Problema: ai prezzi (virtuali) di Macquarie – che in questo caso, in un tripudio di conflitti d’interessi, si fanno aiutare dagli ex vertici di Open Fiber e Tim, Tommaso Pompei e Fulvio Conti – rischia di dover scucire almeno mezzo miliardo, più di quanto speso per mettere in piedi la società per obbedire al desiderio di Renzi di fare la guerra a Tim.

L’unica certezza è che Cdp – i cui vertici sono in scadenza e con Palermo, nominato in epoca gialloverde, in cerca della riconferma – proseguirà nel piano tracciato dal Tesoro: maggioranza di AccessCo a Tim ma governance Cdp e basta guerra a Vivendi, oggi primo azionista col 24%. Per questo Cdp, che ha il 10% di Tim, non presenterà una sua lista per il rinnovo del cda in primavera: il suo presidente, Giovanni Gorno Tempini (che ha già in mano la riconferma), entrerà però nella lista di Vivendi. Nel 2017 la Cassa spese quasi un miliardo per salire al 10% e fare la guerra ai francesi: la perdita virtuale è di oltre 500 milioni e al Tesoro non hanno intenzione di portare Cdp al controllo di Tim come chiede il M5S. I tempi si annunciano biblici.

Niente sottosegretari: l’ammucchiata litiga

La versione ufficiale è che nel Consiglio dei ministri di ieri c’era da approvare il decreto sulle misure anti-Covid che ha già provocato tensioni nella maggioranza. Ma in realtà la nomina dei 43 sottosegretari del governo Draghi non è arrivata per un altro motivo: il caos e i veti nei partiti. Al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Roberto Garofoli, che ha in mano il dossier, sono arrivate le liste chilometriche dalle segreterie (Forza Italia 23 nomi sui 7 disponibili, il Pd almeno 15) e, oltre alle tabelle e il bilancino per non scontentare nessuna corrente, a Palazzo Chigi stanno vagliando anche i profili dei futuri sottosegretari. Alla fine, sceglierà Draghi entro oggi o al massimo domani.

Nel M5S, che avrà 11 posti, oltre ai certi Laura Castelli (Mef), Pierpaolo Sileri (Salute), Stefano Buffagni (Mise o Transizione Ecologica), sta provocando malumori l’ipotesi, in quota Di Maio, del siciliano Giancarlo Cancelleri (nella foto) al Mit: non è parlamentare e sarebbe al suo quarto “mandato” (due volte consigliere regionale e già viceministro). Poi il M5S vorrebbe garantire rappresentanza al Sud in un esecutivo nordista. Ma dei 16 nomi indicati, alcuni rimarranno a bocca asciutta e non sono escluse ulteriori fuoriuscite dopo le nomine.

Nel Pd invece resta il rebus delle “quote rosa”: sono state indicate 12 donne per 4 posti mentre i tre uomini da riconfermare sono Andrea Martella (Editoria), Matteo Mauri (Interno) e Antonio Misiani (Mef). Ma, visto che quest’ultimo è vicino ad Andrea Orlando, Nicola Zingaretti vorrebbe mandare al Tesoro l’assessore del Lazio Alessandra Sartore. L’altro nodo tra i dem è quello dell’ex ministro Vincenzo Amendola che potrebbe essere recuperato in quota “tecnici”. In FI invece è guerra tra i “sovranisti” del Senato Ronzulli-Tajani e il gruppo della Camera. Alla fine, su 7 posti, ci dovrebbero essere 5 senatori e 2 deputati. Draghi dovrebbe tenere le deleghe agli Affari europei e ai Servizi segreti.

“Matteo zitto su Riyad: incalzarlo è un dovere”

Nicola Fratoianni, deputato di Sinistra Italiana, è tra i pochi in Parlamento a voler tenere alta l’attenzione sul caso Renzi-Arabia Saudita. Nei giorni scorsi ha rilanciato l’appello del Fatto, che ha iniziato a contare i giorni da quando è finita la crisi di governo e dunque da quando Renzi avrebbe dovuto chiarire, come da sua promessa, i dettagli della conferenza a Riyad per conto di un ente del governo saudita.

Nicola Fratoianni, alla fine Renzi farà chiarezza?

Ho qualche dubbio. La promessa c’è stata, ma non sarebbe certo la prima volta che Renzi viene meno a ciò che annuncia. Credo però che sia un dovere continuare a incalzarlo.

Che cosa la turba di più della trasferta saudita?

C’è senza dubbio una questione di opportunità nel farsi pagare da uno Stato estero, ma vorrei porre l’accento anche sul merito di quello che Renzi ha detto in quella specie di rappresentazione teatrale. Ha dato un giudizio positivo su un regime nel quale sappiamo bene come vengano trattati i lavoratori, le donne, le minoranze. Per molte persone la libertà è un miraggio, altro che nuovo Rinascimento. C’è un progresso costruito sui diritti violati dei migranti, ridotti in schiavitù.

Il caso sembra già dimenticato.

Questo è un Paese che non ha la memoria molto lunga. Se la promessa era di parlarne dopo la crisi, direi che ora la situazione è parecchio stabile: vediamo se arriveranno spiegazioni.

Ecco perché è nato il governo Draghi: Gentiloni “confessa”

Paolo Gentiloni ha avuto un ruolo determinante nel passaggio dal governo Conte-2 a quello di Mario Draghi: è evidente dalle sue mosse negli ultimi mesi, dalle nomine nel nuovo esecutivo e, ora, anche dalle sue parole. In una lunga intervista rilasciata ieri a La Stampa il commissario Ue chiarisce perché l’ex presidente della Bce è a Palazzo Chigi e per fare cosa. Partiamo proprio da qui: la recessione innescata dal Covid, com’è noto, non ha paragoni in tempo di pace e ora bisogna stare attenti a “evitare gli errori fatti nella crisi del 2008 e non tarpare le ali alla ripresa”, eliminando gli aiuti troppo presto. In particolare, dice Gentiloni, “nelle prossime settimane decideremo (a livello europeo, ndr) se e come prolungare il congelamento del Patto di Stabilità, mentre nei prossimi mesi avvieremo una riflessione cruciale su come ricalibrarlo”.

Tradotto: l’Italia deve evitare in ogni modo che tornino i vecchi vincoli di bilancio che ci costringerebbero a fare forti avanzi primari (austerità) fin dal 2023. Il governo Conte – è il ragionamento – non dava abbastanza garanzie ai rigoristi del Nord Europa: “Un’Italia finalmente virtuosa può spostare gli equilibri interni all’Ue”, essendo “più concentrata sulle riforme strutturali per una crescita sostenibile e meno disattenta alla dinamica del debito” (si tratterebbe, par di capire, di fare da soli quel che dice Bruxelles per evitare che ce lo chiedano dopo). Al di là di questo, Draghi – sempre secondo Gentiloni – dà maggiori garanzie sulla collocazione internazionale dell’Italia, insomma piace di più agli Usa: “Il governo Draghi è fortemente atlantista ed europeista”, mentre Conte da premier gialloverde aveva “avuto alcune gravi sbandate. Il nuovo governo ha ora le carte in regola non solo per farsi accettare, ma anche per farsi valere in Europa. Una differenza notevole”. Per non fare che un esempio, “l’atlantismo” di Draghi conterà assai su una partita come quella del 5G, centrale nel Recovery Plan, che gli americani vogliono “depurare” della presenza cinese: le deleghe sul tema a Giancarlo Giorgetti e Vittorio Colao – che Gentiloni già “impose” a Conte ai tempi della famigerata task force – sono una garanzia per Washington.

Questa sorta di “confessione” di Gentiloni permette di rileggere in controluce le mosse del commissario europeo dalla fine dell’anno scorso: attento a non sbilanciarsi, Gentiloni ha fatto da sponda all’operazione Draghi, disseminando segnali più forti via via che Conte si indeboliva. D’altra parte, Gentiloni e Draghi si conoscono da tempo e sono tra i principali punti di riferimento (informali) di Sergio Mattarella su quanto si muove sullo scenario internazionale. Era ancora novembre quando il Corriere pubblicò stralci di un documento del capo di gabinetto di Gentiloni, Marco Buti, che insisteva sulla necessità di una cabina di regia per il Recovery Plan, ma esprimeva anche una serie di preoccupazioni sulle fragilità italiane. Due giorni dopo, il commissario Ue smentiva ritardi del nostro paese. Una sorta di gioco delle parti che, comunque, puntava i riflettori sulla gestione dei fondi da parte di Conte.

Nei due mesi successivi, Gentiloni ha buttato lì i suoi timori sulla situazione italiana, senza attaccare mai Conte. Il 29 dicembre a Repubblica, Gentiloni esprimeva preoccupazione per la “qualità” del Recovery Plan italiano e sulla capacità di attuarlo, invocando procedure straordinarie; all’Eurogruppo del 18 gennaio esprimeva l’esigenza di un suo rafforzamento con obiettivi e riforme. Intanto in Italia, la linea del commissario europeo era quella di Luigi Zanda, stavolta distante sia dal suo capo-corrente Franceschini che dal segretario Zingaretti: il 3 gennaio invitava Conte ad affrontare “le fratture” aperte da Renzi; il 17 – mentre il Pd si attestava sulla linea “o Conte o voto” – si esprimeva contro le elezioni; il 1° febbraio, mentre Roberto Fico “esplorava”, lanciava un governo di “alte personalità”. E così, di fatto, il congresso del Pd si è aperto in mezzo alla crisi.

Anche nell’esecutivo non mancano le impronte di Gentiloni: il capo di gabinetto di Draghi è lo stesso che fu con lui a Palazzo Chigi, Antonio Funiciello; lo stesso Colao è passato dalla task force a un ministero; un pezzo della burocratja ministeriale è stata suggerita da lui. Draghi non ha certo bisogno di king maker, ma l’aiuto lo avrà gradito di sicuro.

Dopo il Mes, i Servizi: Renzi ammaina un’altra bandierina anti-Conte

Mancavano giusto i Servizi segreti. Dopo il Mes, la prescrizione, l’Ilva e i vaccini, Matteo Renzi e i suoi – insieme al resto della maggioranza – si preparano ad ammainare un’altra delle bandiere con cui per un mese avevano riempito giornali e tv nel tentativo – poi riuscito – di far cadere il governo Conte.

Proprio all’ex premier era stato imputato di voler rincorrere “i pieni poteri”, di non “rispettare le regole democratiche”, e tutto perché aveva intenzione di tenere per sé la delega all’intelligence. Un orientamento condiviso adesso da Mario Draghi, che pare intenzionato a occuparsi in prima persona degli 007, senza che nessuno della sua maggioranza alzi un dito per chiedere spiegazioni.

Magari alla fine non se ne farà nulla e Draghi cambierà idea all’ultimo minuto, ma le diverse anticipazioni uscite sui giornali sarebbero dovute bastare per stanare eventuali pasdaran delle deleghe, come era stato a dicembre con Giuseppe Conte a Palazzo Chigi. Oggi invece non c’è traccia delle accuse di un tempo. E pensare che il 17 gennaio, sulla questione dei servizi, Renzi era netto: “Penso che si debbano rispettare le tradizioni democratiche. È l’ennesimo segno di un modello democratico che viene messo in discussione”. Qualche giorno prima, il leader di Iv si era lamentato della deriva autoritaria dell’ex premier: “I pieni poteri non vanno dati a nessuno, nemmeno a Conte. Per questo ho chiesto spiegazioni sulla gestione dei servizi segreti”.

Parole a cui facevano sponda diversi esponenti del Pd, tra cui il capogruppo alla Camera, Graziano Delrio: “Quello dei Servizi è uno dei temi su cui anche noi abbiamo stimolato una riflessione. È una questione che va posta: è chiaro che è in capo al presidente del Consiglio, ma diverse volte è stata delegata ad altri”. Per non dire di Pier Ferdinando Casini, che definiva “incomprensibile” la scelta di Conte, figlia di “un accanimento” che “non dovrebbe esistere”.

Fiumi di parole che ora fanno posto a un ossequioso silenzio, proprio come già successo su alcuni dei temi per i quali – a suo dire – Renzi aveva aperto la crisi. Primo su tutti, quel fantomatico Mes che per mesi era stato descritto come “indispensabile” e per il quale era persino nato un intergruppo parlamentare a cui avevano aderito più di 100 tra deputati e senatori. Tutto finito in soffitta per ammissione degli stessi renziani e dei forzisti, che qualche giorno fa hanno chiarito come il tema “non sia più all’ordine del giorno” e come “non si debba creare problemi al governo Draghi”.

Un cambio di rotta niente male, che fa il paio con quanto successo sulla giustizia. Quasi tutti i partiti di maggioranza, ad esclusione dei 5 Stelle, avevano presentato emendamenti per eliminare il congelamento della prescrizione voluto dall’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede, di cui Renzi aveva chiesto la testa. Al momento, però, il governo ha rinviato tutto a data da destinarsi: troppo divisivo il tema della giustizia per incartarsi al primo mese di esecutivo. Nel frattempo, la legge Bonafede rimane in vigore.

Che dire poi del commissario Domenico Arcuri, a cui Renzi e compagni hanno imputato i presunti disastri di una campagna vaccinale che invece, non più tardi di due settimane fa, è stata elogiata dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Arcuri è ancora al suo posto e nel frattempo ha visto pure il nuovo governo confermare l’impianto del precedente esecutivo sulla questione Ilva. Il commissario all’emergenza Covid guida infatti anche Invitalia, l’agenzia pubblica che si farà carico di entrare nel capitale dell’acciaieria con pesanti investimenti statali, in modo da risolvere un contenzioso con Arcelor Mittal che dura da anni. Questa strategia, portata avanti dal Conte-2, è stata benedetta tre giorni fa dal nuovo titolare del Mise, il leghista Giancarlo Giorgetti, che ha incontrato i sindacati auspicando che “Invitalia prosegua nel percorso dell’accordo”. Con tanti saluti, anche in questo caso, a Italia Viva e alle sue rumorose proteste anti-Conte.

67 magistrati scrivono al Colle: “Urge una riforma elettorale del Csm”

Sul tavolo del presidente della Repubblica Sergio Mattarella c’è una lunga lettera di 67 magistrati, diversi fanno parte del gruppo “Articolo 101”, altri non sono neppure iscritti all’Anm. Chiedono al presidente di tornare a intervenire sulla necessità di una “radicale” riforma dell’ordinamento giudiziario, a cominciare dalle elezioni per il Csm. Ma nella stessa lettera c’è anche un attacco frontale al Procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi che avrebbe usato criteri “assolutori” per stabilire quali condotte costituiscano illecito disciplinare rispetto al contenuto delle chat di magistrati questuanti con l’ex ras delle nomine, l’ex Csm Luca Palamara. “Signor Presidente – si legge – le scriviamo avendo ben presente il Suo discorso del 21 giugno 2019 al Plenum del Csm, nel quale esprimeva, con fermezza, il grave sconcerto e la riprovazione per la degenerazione del sistema correntizio e l’inammissibile commistione fra politici e magistrati… È tornato sul concetto un anno dopo, il 29 maggio 2020, quando Ella ha ribadito come sia compito del Parlamento quello di predisporre e approvare una legge che preveda un Csm formato in base a criteri nuovi e diversi”. Ma poiché è tutto fermo, si rivolgono a Mattarella: “Avvertiamo perfetta sintonia con quanto Ella, purtroppo finora inascoltata, ha così autorevolmente e ripetutamente sollecitato. Due dovrebbero essere, a nostro giudizio, i punti essenziali e imprescindibili di tale iniziativa: l’inserimento del sorteggio nella procedura di selezione dei componenti del Csm e la rotazione degli incarichi direttivi e semi-direttivi”. Quanto alle iniziative in corso per punire le condotte dei magistrati questuanti, il Pg Salvi, accusano, ha avuto la manica larga: “Sotto il profilo disciplinare si è registrata l’adozione di una generale direttiva assolutoria, col conseguente rischio che comportamenti di tale genere, anziché essere sanzionati, siano avallati e ulteriormente incentivati”. Il riferimento, chiaro, è alla circolare di Salvi che esclude le autopromozioni dei magistrati come illecito disciplinare. E a questo proposito, c’è l’affondo a Salvi, mai citato per nome, che, a detta di Palamara, lo avrebbe incontrato quando il Csm doveva nominare il Pg della Cassazione. Era il 2016 e a Salvi il Csm preferì Riccardo Fuzio: “Allarma, al riguardo, apprendere dal racconto” di Palamara “che non risulta né smentito né oggetto di querele, che comportamenti di questo tipo (autopromozioni, ndr) sarebbero stati realizzati da chi, proprio in nome di una forte discontinuità con il comportamento del suo predecessore costretto alle dimissioni (Fuzio, ndr) ha adottato siffatta generale direttiva”.

“Così Palamara spifferava notizie sulle indagini in corso”

Nuove accuse per Luca Palamara: corruzione in atti giudiziari. In questa sorta di elastico – le contestazioni sono già mutate tre volte – nell’inchiesta perugina prende un ruolo centrale Piero Amara, l’eminenza grigia delle maggiori inchieste per corruzione di magistrati degli ultimi anni.

Sentito a Perugia come persona informata sui fatti, Amara ha spiegato che riusciva a ottenere informazioni riservate sulle indagini che lo riguardavano a Roma e Messina. La sua fonte era l’imprenditore Fabrizio Centofanti, il quale prendeva notizie da Palamara che, a sua volta, da un lato le carpiva al pm di Roma, Stefano Fava – che indagava su Amara nella Capitale – e dall’altro attraverso l’attuale procuratore generale di Messina, all’epoca procuratore aggiunto, Vincenzo Barbaro. Quest’ultimo ieri ha precisato: “La rivelazione di notizie è palesemente insussistente, come potrà essere comprovato nelle competenti sedi con inoppugnabile produzione documentale, oltre che con la deposizione di tutti i soggetti che a vario titolo si sono occupati del processo. Preannuncio iniziative giudiziarie nei confronti dei responsabili”.

I pm di Perugia – Gemma Miliani e Mario Formisano, coordinati dal procuratore capo Raffaele Cantone – hanno cercato riscontri alla versione di Amara e sono convinti di averli trovati. Prima di passare ai riscontri, però, riordiniamo la matassa delle accuse e mettiamo a fuoco la figura di Amara e Centofanti. Amara – avvocato ed ex legale esterno di Eni – è da anni al centro di numerose inchieste in tutta Italia. È stato condannato a Messina per aver corrotto l’ex pm di Siracusa, Giancarlo Longo, affinché istruisse un fascicolo farlocco, quello sull’inesistente complotto per far cadere l’ad di Eni Claudio Descalzi e finalizzato a depistare il fascicolo in cui lo stesso Descalzi è accusato, a Milano, di corruzione internazionale per l’acquisto del giacimento nigeriano Opl 245 da parte del colosso petrolifero italiano. Per questo “depistaggio” è indagato a Milano. È stato accusato a Roma di aver corrotto magistrati amministrativi per pilotare sentenze.

Amara e Palamara hanno un amico in comune: l’imprenditore Fabrizio Centofanti. E proprio nell’inchiesta romana i finanzieri del Gico hanno individuato un giro di fatture sospette emesse da Amara e Centofanti. Quest’ultimo, a sua volta, è l’uomo che ha pagato a Palamara viaggi e soggiorni in hotel, nonché la ristrutturazione dell’appartamento di una donna all’epoca a lui vicina. In sostanza, secondo la procura di Perugia, Centofanti avrebbe corrotto Palamara. In cambio di cosa? Nella prospettazione iniziale era indagato a Perugia anche Amara: Palamara – fatto poi ritenuto insussistente dai pm – avrebbe incassato 40mila euro per interessarsi alla nomina di Longo (mai avvenuta) come capo della procura di Gela. Amara viene poi archiviato e i pm derubricano l’accusa, per Palamara, in corruzione per esercizio della funzione. Accusa nuovamente cambiata ieri perché, interrogando Amara il 4 febbraio (e non soltanto lui), emerge un fatto nuovo: Amara sostiene di aver avuto notizie sulle sue indagini da Centofanti – sia su Roma sia su Messina – attraverso Palamara che le carpisce in qualche modo a Fava e Barbaro (non indagati). Un primo riscontro può giungere dagli atti d’indagine: Barbaro, da procuratore aggiunto a Messina, partecipava al coordinamento delle indagini con Roma. Ma c’è di più. Il suo nome compare nelle chat con Palamara – al solito si discute di nomine – e, soprattutto, il 14 ottobre 2017 Barbaro scrive una relazione al procuratore capo di Messina sostenendo che l’ex presidente dell’Anm gli aveva dimostrato di conoscere elementi del fascicolo in cui era indagato un suo amico. L’amico – che nella relazione non è menzionato – potrebbe essere proprio Centofanti sul quale, in quel momento storico, non c’era atti ufficiali: era tutto coperto dal segreto istruttorio.

La difesa di Palamara – sostenuta dagli avvocati Benedetto e Mariano Buratti e Roberto Rampioni – ha un’altra tesi. Le interlocuzioni con Barbaro riguardavano un procedimento disciplinare su Longo (che era appunto indagato a Messina): Palamara si informava per avere elementi utili alla decisione finale. Le conversazioni riguardavano anche la nomina da procuratore generale di Barbaro che infatti promette in chat di ringraziarlo con dei torroncini. Secondo Amara, il secondo canale informativo – ammesso che sia riuscito a carpirgli qualcosa, essendo noto il suo rigore – riguarda invece l’inconsapevole pm Fava. L’occasione – emerge da alcune chat con il poliziotto Renato Panvino – era rappresentata da alcuni incontri a tennis tra i due. Panvino ha confermato che, quando nelle chat citava le partite a tennis, intendeva riferirsi a incontri tra Palamara e Fava. Anche Amara ha fornito la stessa versione.

“Ma la Lombardia non ha imparato: ancora troppi errori”

La vita cambiata per sempre, quella privata e quella pubblica. Consuelo Locati, di Seriate, avvocato e figlia. “Mio padre Vincenzo l’abbiamo visto per l’ultima volta il 22 marzo. Quella notte è stato portato alla clinica Gavazzeni di Bergamo. Poi più niente. Ho potuto riabbracciare l’urna con le sue ceneri il 20 aprile”. Da avvocato, Consuelo fa parte del team legale che assiste i famigliari delle vittime del Covid.

A un anno dall’esplosione della pandemia nella zona di Bergamo, quali ricordi le restano più impressi?

L’annuncio dei primi due casi di contagio nell’ospedale di Alzano Lombardo, il 23 febbraio; l’esercito che arriva in zona, ai primi di marzo; e poi le telefonate, tante, continue, che annunciavano la morte di persone che conoscevamo o che ci erano vicine. Fino a quando è toccato anche a papà. Morto da solo il 27 marzo.

Com’è nato l’impegno pubblico dell’avvocato Locati?

Quando mio padre è stato portato via, io vagavo in internet per cercare di non pensare a papà. Mi sono imbattuta nel gruppo Facebook “Noi Denunceremo” che era appena stato creato. Sono subito entrata e insieme a Luca Fusco ho creato il comitato. Le persone colpite e i loro famigliari, da quella pagina chiedevano non solo di poter raccontare il loro dolore, ma anche di “fare qualcosa”: per capire se ci fossero responsabilità. Con altri avvocati abbiamo costituto il team legale che ha redatto circa 300 esposti individuali che gli interessati hanno potuto depositare alla Procura di Bergamo. Poi sulla mancanza di un piano pandemico abbiamo avviato anche una causa civile presso il Tribunale di Roma.

Negli ultimi giorni la Lombardia ha chiuso in zona rossa quattro Comuni. È la prova che si poteva fare anche un anno fa, quando non fu chiuso il focolaio di Alzano e Nembro.

Il 7 settembre 2020, il coordinatore del Comitato tecnico-scientifico, Agostino Miozzo, ha ammesso: “Sì, ma chiudere quell’area significava fermare un polmone economico del Paese. Forse avremmo salvato qualche vita, ma è facile sentenziare col senno di poi”. A me pare un’ammissione gravissima. Poteva chiudere il governo, lo potevano fare la Regione e le autorità locali che sono sul territorio e conoscono la situazione. Oggi la Lombardia sostiene che le zone rosse attuali sono state fatte in forza di un Dpcm del gennaio 2021. Peccato che già ci fosse un Dpcm del 23 febbraio 2020 che all’articolo 1 disponeva che le autorità locali potessero intervenire immeditamente.

Non lo hanno fatto. E Bergamo è diventata l’area con più morti e infetti d’Europa.

Davvero: la Wuhan dell’Occidente. Eppure già il 30 gennaio 2020 una circolare del ministro Speranza disponeva che il Covid fosse trattato “come la peste”. E il 28 febbraio una email del consulente del Cts Stefano Merler comunicava alla Regione l’aumento dei casi proprio in territorio bergamasco. Si sapeva. Ma noi siamo stati lasciati soli. I numeri d’emergenza erano sempre occupati, le ambulanze non si trovavamo, le bombole d’ossigeno erano finite. Abbiamo sperimentato l’isolamento, l’abbandono, la disperazione di non riuscire a salvare chi moriva davanti ai nostri occhi. Non so come abbiamo potuto superare quei momenti, comunque i danni psicologici in noi sopravvissuti sono pesanti. Siamo superstiti di guerra.

Ora il vostro team legale chiede un indennizzo per le vittime.

Sì, una legge che riconosca un indennizzo, perché le responsabilità dei contagi e delle morti non sono dei cittadini, ma delle istituzioni. È come nel caso del sangue infetto che fece ammalare centinaia di persone.

La lezione ci è servita?

No. Non abbiamo imparato niente. A Milano, a Monza, a Lecco, a Varese, a novembre si è ripetuto quello che era già successo a marzo-aprile a Bergamo.

Lei è uscita dal comitato “Noi Denunceremo”.

Sì. Non voglio che le morti e le sofferenze siano usate per fini politici.

Alzano Lombardo, la regione, il peccato originale

Un anno fa è cambiato il volto della Val Seriana, di Bergamo e con loro dell’Italia intera. Il 23 febbraio 2020 ancora non lo sapevamo, ma si sarebbe scritta una delle pagine più drammatiche della storia del nostro Paese. Quel giorno lo ricordo come se fosse ieri. Ho cristallizzato dentro la mia mente ogni singolo istante. Ricordo i messaggi concitati dei miei familiari, gli allarmi e gli immediati dietrofront, le informazioni filtrate con il contagocce, il panico, la confusione e la consapevolezza che nulla sarebbe stato più come prima.

Il 23 febbraio, dopo che venne data la notizia dei primi due casi Covid diagnosticati nella Bergamasca violando i protocolli ministeriali, nell’ospedale di Alzano Lombardo c’erano una decina di caschi Cpap, ma non gli erogatori. Fu così che un anestesista – l’unico rimasto di turno, con un ottantina di pazienti in crisi respiratoria – cercò nei reparti delle prese compatibili con un erogatore che realizzò artigianalmente. Trovò l’attacco compatibile in una stanza al primo piano di Chirurgia. Contattò il primario e chiese l’autorizzazione a ricoverare un paziente affamato di ossigeno nel suo reparto. Poi lavorò per 36 ore di fila, era l’unico anestesista rimasto: gli altri si erano tutti ammalati. La sua storia – che ho raccolto da una fonte riservata – è emblematica dell’eroismo e dello stato di abbandono vissuto dagli operatori sanitari dell’ospedale di Alzano Lombardo quella maledetta domenica di fine febbraio.

Poche ore prima, sabato 22 febbraio alle ore 23.48, dalla segreteria della direzione generale del Welfare partì un’email per conto dell’allora dg Luigi Cajazzo indirizzata a tutte le direzioni degli ospedali lombardi, con un aggiornamento sulle procedure da adottare per l’emergenza in corso. I casi accertati in Lombardia erano già 54, si legge nel documento. E altri “casi sono stati segnalati in soggetti ricoverati presso diversi ospedali della Regione”. Nell’email si chiede di “valutare la possibilità di riunire in aree chiuse e definite i pazienti intensivi con infezione da coronavirus al fine di creare un isolamento a coorte” e di “valutare la possibilità di individuare una postazione chiusa, possibilmente a pressione negativa” dove trattare i pazienti sospetti covid prima della diagnosi. Non solo. Viene chiesto agli ospedali sede di pronto soccorso di sospendere tutte le attività programmate e gli interventi non procrastinabili e di procedere alla sanificazione degli ambienti in cui “ha soggiornato un paziente positivo al coronavirus”, come da circolare ministeriale n. 1997 del 22 gennaio 2020. Troppo tardi. Queste indicazioni arrivarono quando Alzano Lombardo era già un lazzaretto. L’ospedale “Pesenti Fenaroli” non ebbe il tempo materiale di organizzare nulla, anche perché – come riferiscono le fonti interne con cui ho parlato in questo anno, primo fra tutti l’ex direttore medico Giuseppe Marzulli, e che ho riportato nel mio libro Il focolaio – la direzione generale dell’Asst Bergamo Est e la Regione non diedero nessuna indicazione prima dell’emergenza. Perché il famoso piano pandemico regionale non venne mai applicato.

I piani pandemici prevedono, ad esempio, un censimento delle strutture ospedaliere. E quella di Alzano non era idonea a trattare pazienti covid. “A fare i percorsi pulito/sporco non ci riuscimmo del tutto nemmmeno poi, con la calma – mi dice il dottor Marzulli – c’erano tratti in cui si incrociavano per forza”. Ecco perché l’unica soluzione era chiudere subito tutto. E fu questo l’ordine che diede immediatamente il direttore medico, rifiutandosi poi di riaprire quando arrivò l’indicazione opposta dalla Regione. Il pronto soccorso di Codogno, al contrario, venne chiuso subito il 21 febbraio, per oltre 100 giorni. A ordinarlo fu l’allora direttore generale della Asst di Lodi, Massimo Lombardo, che comunicò per iscritto la decisione alla Regione, senza chiedere permesso o autorizzazione ad alcuno. Era nelle sue prerogative. Era lui il responsabile. Perché, invece, la direzione generale e sanitaria della Asst Bergamo Est, da cui dipende l’ospedale di Alzano, chiese un “lasciapassare” politico? E perché l’ordine della Regione di riaprire tutto non venne comunicato per iscritto, ma solo telefonicamente? Quella domenica 23 febbraio, l’ospedale di Alzano venne riaperto tre ore dopo la chiusura. Quel giorno aveva a disposizione solo 13 tamponi portati da Seriate personalmente dal dottor Marzulli, ma bisognava tamponare oltre 600 persone. Subito. Operatori sanitari e familiari dei pazienti, invece, vennero mandati a casa. E fino al primo marzo ad Alzano arrivarono 7/8 tamponi al giorno.

Dopotutto, che ci fosse un’emergenza sanitaria in corso in Lombardia lo dimostrano i dati raccolti da Areu, l’Agenzia Regionale di Emergenza Urgenza. Certificano come già nei giorni precedenti al 23 di febbraio 2020 ci fosse un incremento esponenziale delle richieste di soccorso al 112 da parte dei cittadini lombardi, e bergamaschi in particolare. Le telefonate di tutta la regione passano da quasi 12 mila il 20 febbraio, alle quasi 40 mila del 23. Certo, era già scoppiato il caso Codogno. Ma interessante sarebbe oggi avere i dati dei picchi influenzali registrati a livello granulare allora nei singoli comuni, in particolare per quelli maggiormente colpiti dall’epidemia, come Alzano e Nembro. Dei picchi anomali a intervalli seriali, se si guarda il grafico pubblicato in pagina, vengono registrati nei comuni lombardi più duramente colpiti dalla prima ondata, già prima della scoperta del paziente 1. Eppure per la Bergamasca non scattò alcun campanello di allarme per isolare e spegnere i focolai nascenti. Nè prima, né dopo. Eppure Regione Lombardia la possibilità di intervenire per mitigare la violenza del contagio l’aveva. Aveva i dati. Notizia di ieri è un’email del 28 febbraio 2020 – acquisita dalla Procura di Bergamo e riferita dal Corriere edizione Bergamo – inviata a Regione Lombardia dal matematico della Fondazione Bruno Kessler, Stefano Merler, nella quale si evidenziava il pericolo dell’aumento di casi proprio nella Bergamasca, con tanto di dati. Dunque la Giunta Fontana sapeva, aveva contezza del pericolo in corso e poteva intervenire, tant’è che poi fu la Regione stessa a comunicare a Roma la crescita esponenziale dei contagi: 366 casi positivi solo nella Bergamasca, 1.520 in tutta la Regione. Era il 3 marzo. Il 24% dei casi lombardi era concentrato nella Val Seriana. Era da sigillare la Lombardia seduta stante. E invece abbiamo assistito a una strage.