In Lombardia “Qui la sanità è ormai privatizzata: un salasso per i cittadini”

Buongiorno, ma la sanità in Lombardia è stata privatizzata? Forse in tutta la confusione di questo periodo, mi sono perso questo passaggio! L’altro giorno ho dovuto fare due esami presso un laboratorio di analisi convenzionato: primo esame, con costo dichiarato di 46 euro, ho pagato 36 euro di ticket, mentre per il secondo, un singolo esame del sangue, con un costo di 36 euro, ho pagato la stessa cifra! Totale ben 72 euro. Con tutte le tasse che i lombardi pagano, se questo è il risultato…

Stefano Tacchini

Gentile signor Tacchini, posso assicurarle che non le è sfuggito nulla. Ha solo toccato con mano l’“eccellenza” della sanità lombarda. I suoi 72 euro di ticket hanno una spiegazione molto semplice: da oltre vent’anni, e a maggior ragione con la riforma varata a gennaio scorso dall’assessore Letizia Moratti, la sanità privata può “scegliersi” le prestazioni da erogare (e poi farsi rimborsare dalla Regione). Essendo aziende che devono guadagnare, le imprese sanitarie private “offrono” quasi esclusivamente le prestazioni più costose (non a caso ci sono più centri cardiologici in Lombardia che in tutta la Francia…). Il pubblico, invece, per legge deve offrire ogni tipo di prestazione e quindi ha bisogno di tanti fondi per continuare ad assicurarle. Da qui la necessità di “raccogliere” soldi (nonostante il budget sanitario regionale superi i 20 miliardi di euro l’anno) con i ticket. Altra conseguenza è che le liste d’attesa per le visite nel pubblico sono chilometriche, mentre col privato, basta aspettare 24/48 ore. Secondo i dati di Ats Milano, per una polipectomia o una colonscopia l’attesa oggi è di 399 giorni. Va “meglio” per una risonanza magnetica alla colonna vertebrale, per la quale si otterrà un appuntamento solo tra 151 giorni, tra 114 per un elettrocardiogramma e così via… Il 1° febbraio scorso il governo ha chiesto di emendare la riforma Moratti in ben 18 punti: dalla scelta dei direttori generali alla composizione e gestione delle Case di comunità, fino alla dichiarata totale equivalenza tra pubblico e privato. A tal proposito il Mef ha ricordato il dl 302/1992, il quale prevede “il preminente ruolo dell’ente pubblico che, in quanto titolare della funzione sanitaria, definisce il fabbisogno e, in coerenza con questo, decide quali prestazioni acquistare dal privato accreditato”. Il testo dovrà tornare in aula per i cambiamenti imposti. Tuttavia, non facciamoci illusioni, quei 72 euro di ticket continueremo a spenderli.

Andrea Sparaciari

Caso Open, se chatti con un deputato hai “diritto alla privacy”

Oggi la nostra solidarietà va tutta a quelle decine di migliaia di criminali che negli ultimi anni sono stati condannati per spaccio, truffa, stalking, estorsione e molti altri reati solo perché nel loro telefono cellulare o in quello dei loro clienti o delle loro vittime erano stati trovati scambi di messaggi o chat compromettenti. Immaginiamo la loro rabbia nello scoprire che secondo la maggioranza del Senato i testi delle conversazioni via Whatsapp vanno considerati al pari di uno scambio di corrispondenza e che quindi, ai sensi dell’articolo 68 della Costituzione, in assenza di un’autorizzazione preventiva delle Camere non possono essere sequestrati, nemmeno se si trovano nello smartphone di un non parlamentare.

Finora secondo la “giurisprudenza consolidata” in più sentenze della Corte di Cassazione se si sequestrava un telefonino a un indagato o a un testimone tutto quello che c’era dentro andava considerato come semplice documentazione. Non era cioè necessario che un giudice avesse autorizzato un’intercettazione informatica o un sequestro di corrispondenza per leggerne il contenuto e acquisirlo agli atti. I magistrati di terzo grado avevano spiegato che le norme che regolano la segretezza della corrispondenza valgono solo se un pm decide di far aprire le lettere intervenendo sul postino prima della consegna o se vuole leggere una chat in tempo reale. Dopo invece valgono le regole che disciplinano le perquisizioni: quello che trovi, trovi.

Oggi, almeno per i parlamentari, tutto rischia di cambiare. Matteo Renzi ha chiesto e ottenuto dai suoi colleghi del Senato l’apertura di un conflitto di attribuzioni davanti alla Corte costituzionale perché i giudici stabiliscano che le chat restino coperte da segreto, salvo che le Camere in via preventiva non abbiano dato un’autorizzazione.

Se la Consulta accetterà questa tesi ci troveremo di fronte a due risultati ingiusti e paradossali. Il primo riguarda l’impossibilità di acquisire qualsiasi messaggio Whastapp inviato da un eletto in Parlamento a una terza persona. Infatti anche se la perquisizione del terzo sarà eseguita con tutti i crismi previsti dalla legge ne mancherà sempre uno: l’autorizzazione ex ante della Camera di appartenenza. Che ovviamente non può essere richiesta se non si sa anticipo cosa c’è nel telefonino del terzo. La seconda conseguenza paradossale è che se un criminale conversa via chat con un deputato o un senatore avrà un vantaggio rispetto ai suoi colleghi delinquenti che non hanno relazioni di questo tipo. Senza l’autorizzazione preventiva delle Camere i testi delle sue conversazioni non potranno essere utilizzati nemmeno contro di lui. Da questo punto di vista è facile prevedere che molti di loro si attrezzeranno per trovare numeri di telefono di parlamentari per poi inviare loro messaggi a caso. Basterà che un eletto risponda “Chi sei?” per sperare di farla franca.

Ovviamente tutti i senatori, dal Pd fino al centrodestra, che ieri hanno votato per sollevare il conflitto di attribuzione queste cose le sanno. Anche perché non è mancato chi le ha ricordate in aula. Ma la logica ha poco a che fare con lo spirito di autoconservazione di quella che un tempo molti avevano ancora la forza di definire “Casta”. Così, ora, dichiarandoci sconfitti, ci sentiamo in dovere anche noi di approfittare della situazione e di tifare perché la Corte costituzionale dia ragione a Renzi. Se così sarà anche i nostri telefonini, pieni zeppi di messaggi con gli eletti, diventeranno da un giorno all’altro non sequestrabili. Grazie Matteo.

 

Salario minimo Si discute sui 9 euro lordi all’ora. Come se fossero “troppi”

Siccome ci travolge l’infinitamente grande, la guerra eccetera, occupiamoci dell’infinitamente piccolo: un euro, un euro e mezzo. Lo so, è volgare parlare di soldi, e questa è una cosa che dicono soprattutto quelli che i soldi ce li hanno. Ma approfittiamo per una volta del fatto che la politica – cioè, pardon, i partiti – avranno a che fare con gli spiccioli, contanti, calcolati al millimetro, insomma con la vita reale della gente misurata in termini di budget di sopravvivenza.

Non si parla, per una volta, dei millemila miliardi luccicanti che dovrebbero pioverci addosso secondo la narrazione corrente, ma della differenza tra 9 euro lordi all’ora (proposta del ddl Catalfo) e le offerte “a scendere” delle forze politiche, tutte o quasi, con emendamenti molto somiglianti che puntano a togliere dalla legge una piccola frasetta, questa: “E comunque non inferiore a 9 euro all’ora al lordo degli oneri contributivi e previdenziali”. Lega, Forza Italia e Pd uniti nella lotta. In poche parole si vuole togliere il cartellino del prezzo. Si accetta l’idea che finalmente anche in Italia, come quasi ovunque, non si possa guadagnare meno di una certa cifra, e il problema – ovvio – diventa la cifra.

Tanto per capire di quante vite si sta discutendo, ci sono almeno quattro milioni e mezzo di persone che guadagnano meno di nove euro lordi all’ora (lo dice l’Inps) e fissando quella soglia, quasi il 30 per cento dei lavoratori dovrebbe avere un aumento (questo lo dicono gli esperti del ministero del Lavoro). Segue il pianto solito di Confindustria: il salario minimo a nove euro lordi costerebbe alle imprese più di sei miliardi, tra tempi pieni, part-time, tenendo fuori il settore agricolo e quello domestico. Insomma, troppo: porterebbe il salario minimo italiano (quasi) al livello di quelli europei, appena sotto Belgio, Francia, Germania, Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi e Regno Unito. Chi vi credete di essere, un tedesco? Troppi soldi, sacrilegio.

Ora è probabile che si arriverà a infinite schermaglie sui centesimi, cioè i conti della serva, e la faccenda diventerà una battaglia di cifre, sistemi di calcolo, questioni politiche, mostrare muscoli ed esibire studi e grafici. Insomma, si litigherà molto su quell’euro e mezzo di differenza, perché le cifre che emergono nello stanco ribollire del dibattito politico partono da sette euro lordi l’ora fino ai nove previsti dal ddl. È un gioco a chi offre di meno.

Lasciamo dunque la faccenda alle schermaglie parlamentari, agli emendamenti, alle commissioni che dovrebbero riunirsi eccetera eccetera, non è difficile capire come andrà a finire: nove euro lordi l’ora verranno considerati una sciccheria, un lusso che il nostro sistema economico non può permettersi. Si parla di strumenti di verifica e controllo, di commissioni congiunte tra imprese e lavoratori (il che apre il fronte delle rappresentanze sindacali), addirittura sedute ai tavoli del Cnel, per decidere quanto vale, come minimo, un’ora di lavoro. Una cosa che rende piuttosto plastico e simbolico il vecchio detto “stare dalla parte dei lavoratori”. Di quanto? Di un euro? Due? Quanto si limerà da quei nove euro? Quando si avrà il coraggio di dire: “No, con nove euro all’ora guadagnerebbero troppo!”. La partita è solo all’inizio, sui centesimi di lavoro, di tempo, di vite, si formeranno forse inedite maggioranze, lunghe discussioni, trappole e trucchetti. Uno spettacolo interessante per quasi cinque milioni di italiani, che poi, magari, andranno anche a votare.

 

Putin sa fare la guerra: abbatterlo è una pazzia

Il potere di Vladimir Putin ha coinciso fin dal principio, nel lontano 1999, con la sua capacità di fare la guerra. La prima, scatenata subito in quell’anno per la riconquista della Cecenia, resta per ora la più sanguinosa: oltre 50 mila morti. Gli è valsa l’ammirazione delle destre identitarie europee che in lui hanno visto un baluardo contro l’espansionismo islamico e l’“invasione” dei migranti. Come già Mussolini piacque a Churchill e Roosevelt per la sua capacità di tenere a bada un popolo irrequieto con pugno di ferro, così la spietatezza di Putin, al comando in Russia da oltre un ventennio, ha irretito vari leader conservatori: da Bush a Trump, da Sarkozy a Berlusconi (senza contare controfigure minori alla Salvini che nella sua autobiografia l’ha eletto suo modello).

La sequenza delle guerre di Putin è impressionante. Dopo la Cecenia, nel 2008 attacca la Georgia. Nel 2014 si riannette la Crimea e la Transnistria. Nel 2015 interviene in Siria a sostegno di Assad. Nel 2019 invia i suoi mercenari in Libia. Nel 2021 li muove nell’Africa subsahariana sloggiando i francesi dal Mali e dal Burkina Faso. Non ha avuto bisogno di sparare per mantenere il controllo della Bielorussia, mentre il conflitto sul fronte orientale dell’Ucraina è già costato 14 mila morti.

Con la lusinga del rifornimento energetico e con i soldi del capitalismo oligarchico scaturiti dall’accaparramento dei resti dell’economia sovietica, Putin ha proposto il suo nazionalismo aggressivo come alternativa alla crisi delle democrazie occidentali, liquidando il liberalismo e il multiculturalismo come inutili orpelli. “L’idea liberale è diventata obsoleta. È entrata in conflitto con gli interessi della stragrande maggioranza della popolazione”, proclamava nel giugno 2019 in un’intervista al direttore del Financial Times, elogiando Trump e criticando la Merkel.

Proprio come i vincitori della Prima guerra mondiale s’illusero di schiacciare nell’angolo e umiliare la Germania (tragico errore denunciato da Keynes), così, dopo la fine della Guerra fredda, gli Usa hanno puntato a smembrare la potenza russa, col risultato che oggi è sotto gli occhi di tutti. Forte solo dei propri arsenali militari, Putin scommette di nuovo su una guerra che la Nato non sembra più in grado di muovergli. L’indecorosa ritirata dall’Afghanistan lo ha convinto che le minacce di Biden siano solo un bluff e che l’Unione europea non seguirà l’America, avendo troppo da perdere in questa avventura. A rendere pericolosissima la situazione sono anche le spinte belligeranti che potrebbero venire dalla Polonia e dai Paesi baltici entrati nella Nato, timorosi di diventare le prossime vittime designate delle mire imperiali di quella superpotenza fragile che è la Russia. Riconoscere la miopia di chi ha scommesso sull’isolamento di Mosca e ora predica una nuova Guerra fredda per abbattere il regime di Putin non significa certo simpatizzare per la sua prepotenza criminale. Al contrario, significa ammettere che la deterrenza armata rivolta contro Mosca sarebbe irresponsabile. L’atlantismo è un residuo del passato. Non vivessimo una tragedia dagli esiti incerti, per il popolo ucraino ma anche per il futuro delle nostre economie, ci sarebbe da sorridere delle critiche lasciate trapelare dagli Usa nei confronti del nostro primo ministro Draghi, da sempre loro fedelissimo, ma giustamente allarmato dall’ipotesi di un blocco delle forniture di gas e dall’inflazione galoppante. Anziché ironizzare sulla presunta latitanza dei movimenti pacifisti – solo perché oggi l’aggressore è l’“Orso russo” invece che l’America – sarebbe meglio ammettere che la pace non si difende contrapponendo militarismo a militarismo. Rischiamo di replicare su vasta scala gli esiti cruenti della dissoluzione della Jugoslavia e del suo mosaico di nazionalità. L’alleanza atlantica non è più in grado di svolgere una funzione di gendarme garante dell’ordine mondiale sotto l’egida di Washington, come nel secolo scorso. Liquidare i tentativi di mediazione operati da Macron e Scholz, quasi si trattasse di una defezione indisciplinata rispetto alle gerarchie Nato, significherebbe rinunciare alla prospettiva dell’autonomia politica europea, oggi più che mai necessaria.

La Russia di Putin mette in pericolo la pace, ma non può essere trattata alla stregua di uno Stato-canaglia, e dirlo non significa essere filorussi. Lo stesso vale per l’Iran e per la Turchia: il nuovo ordine mondiale deve prevedere un armonico spazio vitale per queste potenze millenarie, in grado di estendere la loro influenza fuori dai loro confini. Abbatterle con la forza sarebbe velleitario, ciò che varrà, a maggior ragione, per la Cina.

Putin finora è stato un freddo calcolatore nell’impiego della forza. Domani non si sa. Reagire è necessario. Ma demolire lo Stato più grande del mondo è una pazzia.

 

“Lol”, Guzzanti e “Tabloid”: la satira non è morta, ha soltanto traslocato

Renato Franco, sul Corriere, ha intervistato Corrado Guzzanti, che vedremo nella seconda stagione di Lol (Amazon Prime). L’esigenza di concisione li ha portati a esprimere opinioni sulla satira un po’ troppo spicce. Scrive Franco: “Adesso funziona l’immediatezza: Osho (una foto, una battuta), Lercio (false notizie con taglio ironico), Spinoza (la satira sull’attualità in un tweet). La satira è morta?”. Questa premessa è inesatta, fa confusione ed è revisionista. Inesatta per due motivi. Innanzitutto, in comicità l’immediatezza funziona da sempre. Senza riandare a Shakespeare (“Brevity is the soul of wit”), e ai fasti del Male e di Cuore, un comico italiano usava quelle tre forme espressive un quarto di secolo fa.

Foto di politici con dialogo buffo: in Lepidezze postribolari (2007) c’è D’Alema a un convegno che bisbiglia a Fassino: “L’inflazione è quando i prezzi vanno su”. C’è Gasparri col ditino alzato che chiede a Berlusconi (che lo guarda come si guarda un cretino): “Una domanda: come fanno le persone a entrare nel televisore?”. C’è Berlusconi che all’aeroporto accoglie Clementina Cantoni, appena liberata dai suoi aguzzini e visibilmente provata, con una barzelletta: “E il cavallo dice: ‘Non è un gelato, ma continua a leccare’”. False notizie con taglio ironico: la cronaca sulle migliaia di ballerine del Crazy Horse che sbarcano sulle spiagge di Rimini (1992) e quella sugli animalisti che liberano batteri e virus (1993) ne sono un modello (Adenoidi). La satira sull’attualità con un tweet ha infine un precedente nelle battute brevi di Tabloid (1996): “Papa Wojtyla farà di nuovo un giro intorno al mondo: aprirà i concerti di Prince”. “Medio Oriente. Prosegue il processo di pace. 67 morti”. “‘Farai un film con Valeria Marini’: truffati in duemila a Padova. Era vero”. In secondo luogo, quelle tre forme non esauriscono l’offerta satirica italiana contemporanea. Ecco però la confusione fra apparenza e realtà: le reti generaliste italiane non danno accesso a questa satira nella forma libera che le è propria, sicché pare sparita, mentre quella breve può sfogarsi sui social, dove non ha impatto.

Il revisionismo consiste allora in questo: nel far passare come dato meteorologico un fatto di censura, alla quale si aggiunge purtroppo l’autocensura di tanti nuovi comici che, capita l’antifona, si dedicano alla comicità surreale, con i giornaloni prontissimi a esaltarla, specie se si tratta di cazzate (potere selettivo dell’ambiente). La satira è un giudizio corrosivo, e finirà solo con l’estinzione dell’umanità, ma per la tv italiana è come se Il Male non fosse mai esistito (sintonizzato sullo Zeitgeist, o forse solo invecchiato, dunque più indulgente, il direttore di Cuore ha addirittura abiurato il suo passato anti-craxiano). Corrado risponde: “Oggi è più difficile fare satira, il livello della politica negli ultimi anni si è talmente abbassato che fare le parodie diventa un esercizio sterile: una parte della classe politica è satiricamente totalmente autosufficiente, non ha bisogno di commenti”. Non sono d’accordo. È vero che il livello dei politici si è abbassato, ma la parodia è sterile solo se si limita alla caricatura: diventa satira quando esprime un giudizio, e questo non è mai stato facile. Occorre avere opinioni: non ce le hai, se non sei informato. Servono quindi interesse per la materia e tanta applicazione. L’interesse si può perdere, e la voglia di applicarsi può venir meno: la colpa però non è nel fatto che fare satira oggi sia più difficile. Né esistono politici “satiricamente autosufficienti”, poiché anche il politico più ridicolo ha una sua funzione nei giochi di potere che la grande satira di Corrado metteva alla berlina. (1. Continua)

 

Se c’è guerra c’è speranza (per i leader)

Nel vedere in tv un Boris Johnson quanto mai tonico e ringalluzzito che annuncia “raffiche di sanzioni” contro la Russia del perfido Putin viene in mente il Boris di qualche giorno fa umiliato e sull’orlo della cacciata per il party-gate consumato in piena pandemia. E che dire di Joe Biden che grazie alla scossa Vladimir ha dato finalmente segnali di esistenza in vita firmando l’ordine esecutivo per imporre le prime sanzioni alle “repubbliche” di Donetsk e Lugansk. Per poi alzare decisamente i toni minacciando ritorsioni molto pesanti contro Mosca che arrivano a coinvolgere perfino i familiari di Putin. Non occorre un’aquila per capire che finché quella ai confini dell’Ucraina resta una mezza guerra (e sperando che si possa giungere a una mezza pace) quasi tutti i protagonisti hanno qualcosa da guadagnarci in termini di politica interna e di visibilità. Infatti, Emmanuel Macron si è ripreso la scena a pochi mesi dalle presidenziali francesi. Mentre per il cancelliere tedesco Olaf Scholz è stato come essere invitato al ballo delle debuttanti dopo aver fatto tappezzeria. Che poi i tentativi per convincere lo zar si siano risolti, al momento, in un frenetico attivismo fine a se stesso poco importa se nei tg serali sei arruolato nella squadra dei buoni. Anche perché quest’anno Putin concorre da solo all’Oscar di miglior cattivo (senza contare l’imperdonabile pippone storico inflittoci, da Lenin ai nostri giorni).

Detto che anche l’Onu (con il Cnel, menzione speciale per Chi l’ha visto?) è riuscito a piazzare un comunicato, restano da auscultare gli strani rumori provenienti dal cortile italiano. Dove c’è un presidente del Consiglio che raccontano con la valigia pronta ma che dovrà farsi carico delle ulteriori gravi conseguenze sul piano energetico che la crisi potrebbe comportare sulla produzione industriale e sulle bollette degli italiani. Mentre tutto il cucuzzaro, da destra a sinistra, si sgola a chiedere che il governo riferisca in Parlamento, consueto rifugio di chi non sa cosa diavolo dire. Anche perché pochi si aspettavano che dopo la pandemia il mondo potesse subire un altro contagio, quello delle armi, dagli effetti imprevedibili.

Matteo come Silvio: nel 2011 stesso voto su Ruby e Mubarak

Matteo Renzi non ha inventato niente: il conflitto d’attribuzione tra poteri dello Stato (che ha voluto oggi per far sparire dall’inchiesta Open alcuni suoi messaggi whatsapp che in verità erano stati trovati nel telefonino dell’imprenditore Vincenzo Manes) era già stato sollevato, nell’aprile 2011, da Silvio Berlusconi. L’allora presidente del Consiglio era sotto inchiesta per il caso Ruby, accusato di prostituzione minorile e (soprattutto) di concussione, per aver fatto pressioni, nella notte, sui dirigenti della Questura di Milano affinché liberassero “la nipote di Mubarak” fermata per furto. Mentre “bunga-bunga” diventa l’espressione italiana più citata nel mondo, Berlusconi e i suoi avvocati cercano il modo per bloccare il processo. Se ne incaricano i tre capigruppo della maggioranza, Fabrizio Cicchitto (Forza Italia), Marco Reguzzoni (Lega) e Luciano Sardelli (Gruppo misto) che mandano una letterina all’allora presidente della Camera, Gianfranco Fini. Gli chiedono di sollevare conflitto di attribuzioni fra i poteri dello Stato “a tutela delle prerogative della Camera”, contro l’invasione di campo della magistratura. I tre capigruppo sostengono che il loro capo non può essere processato da un tribunale normale, ma solo dal Tribunale dei ministri, perché il più grave reato contestato (la concussione) è stato (eventualmente) commesso da Berlusconi come presidente del Consiglio: ha chiamato i funzionari della Questura per evitare una grave crisi internazionale, poiché era convinto che Ruby fosse “la nipote di Mubarak”. “All’Organismo parlamentare non può essere sottratta una propria autonoma valutazione sulla natura ministeriale o non ministeriale dei reati oggetto di indagine giudiziaria”, scrivono i tre. E la Camera aveva già deciso che il reato era ministeriale: con la famosa votazione in cui, galvanizzata dalle ardite parole dell’avvocato-parlamentare Maurizio Paniz, l’aula aveva mostrato di credere che Karima El Mahrough in arte Ruby Rubacuori (marocchina) fosse davvero la nipote di Mubarak (egiziano). I magistrati di Milano erano andati avanti a sostenere che il reato eventualmente commesso non era affatto ministeriale, ecco allora intervenire i tre capigruppo, a chiedere l’intervento della Corte costituzionale.

“Si sono esposti al ridicolo di fronte al mondo”, dichiarò allora il dem Dario Franceschini, “sostenendo che si tratti di un reato ministeriale perché il presidente del Consiglio avrebbe detto che credeva che Ruby fosse la nipote di Mubarak”. La Corte costituzionale il 6 luglio 2011 dichiarò ammissibile il conflitto sollevato dalla Camera. Ma il 14 febbraio 2012 arrivò, con un comunicato di due righette, la decisione dei giudici: “In relazione al conflitto sollevato dalla Camera dei deputati nei confronti della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano e del Giudice per le indagini preliminari presso lo stesso Tribunale, la Corte ha respinto il ricorso”.

Un conflitto d’attribuzione davanti alla Consulta fu sollevato anche dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, per impedire che la Procura di Palermo utilizzasse nel processo sulla trattativa Stato-mafia le intercettazioni a Nicola Mancino in cui era stata registrata anche la sua voce. La Corte nel 2013 gli diede ragione e quelle telefonate furono distrutte. Nel 2014 diede ragione alla presidenza del Consiglio contro i magistrati che avevano indagato e processato gli agenti segreti accusati del sequestro a Milano dell’imam egiziano Abu Omar. I condannati, tra cui Niccolò Pollari e il suo braccio destro Marco Mancini, furono dichiarati improcessabili per segreto di Stato.

Dalla Cassazione al babbo: l’ex premier fa il furbo sette volte

22 febbraio, otto anni dopo. Nel 2014 Matteo Renzi giurava come presidente del Consiglio, ieri nell’aula del Senato chiedeva di sollevare il conflitto di attribuzione davanti alla Consulta sulla questione delle chat finite agli atti dell’indagine della procura di Firenze sulla fondazione Open. Secondo la Giunta per le immunità sulle conversazioni di quando Renzi era già senatore i pm avrebbero dovuto chiedere prima l’autorizzazione al Senato. E ieri il leader di Iv ha incassato l’ok anche di Palazzo Madama. Renzi ieri è intervenuto in aula: vediamo dunque cosa ha detto e cosa dicono le carte dell’inchiesta fiorentina.

1. Conflitto di attribuzione. Pietro Grasso, presidente di LeU ed ex magistrato, ha votato contro il conflitto di attribuzione e ha spiegato il perché: “Il provvedimento di sequestro non è stato eseguito nei confronti di Renzi, ma di un terzo non parlamentare”. “I messaggi di cui ci occupiamo – ha aggiunto – non rientrano nella nozione di corrispondenza che implica attività dinamiche di spedizione e di ricezione, né costituiscono attività di intercettazione (…), ma hanno la natura di documenti, un tertium genus non previsto dalla legge costituzionale 140/2003”. Grasso cita una sentenza di Cassazione del 2021, in cui “si chiarisce che: sms, whatsapp, posta elettronica scaricata o conservata nella memoria, rinvenuti in un cellulare sottoposto a sequestro hanno natura di documenti”. Di conseguenza, spiega Grasso, l’acquisizione “non soggiace alle regole stabilite per la corrispondenza o per le intercettazioni”.

2. La cassazione. Renzi nel suo discorso ha fatto più volte riferimento alle pronunce di Cassazione. Sono quelle che riguardano l’imprenditore Marco Carrai il quale, presentando ricorso contro le perquisizioni subite nel 2019, ha incassato pareri favorevoli della Cassazione. L’ultimo, stavolta senza rinvio, è del 18 febbraio Si attendono le motivazioni.

3. Articolazione di partito. “Il giudice penale decide cosa è una corrente di partito”, è il concetto ribadito da Renzi. Ma qual è il capo di imputazione contestato all’ex premier? I pm ritengono che la Open sia stata un’articolazione politico-organizzativa della corrente renziana del Pd e che parte dei contributi incassati (“trasparenti e bonificati”, come dice Renzi) da Open tra il 2014 e il 2018 siano stati utilizzati “per sostenere l’attività politica di Renzi, Lotti, Boschi e della corrente renziana”.

4. i conti e la lettera del babbo. Ieri in aula il leader di Iv ha fatto riferimento a due circostanze: i conti correnti e la lettera del padre. Nel primo caso si tratta dell’estratto del conto (periodo giugno 2018-marzo 2020) allegato in un’informativa della Finanza, e dunque depositato agli atti. Più recente è la lettera del padre, documento depositato nel processo in corso in primo grado a carico di altri, ossia Tiziano Renzi, della moglie Laura Bovoli e altri per bancarotta. Su questa lettera gli avvocati dei genitori di Renzi si sono opposti con l’argomentazione dell’immunità parlamentare, ma il 18 gennaio scorso il presidente del Tribunale Fabio Gugliotta con la sua ordinanza ha risposto che “tali oggetti non costituiscono corrispondenza implicando tale nozione un’attività di spedizione in corso”.

6. nessun attacco ai pm. “Si vergogni chi dice che stiamo attaccando i magistrati”. Eppure nei giorni scorsi, dopo la notizia della richiesta di rinvio a giudizio da parte della Procura di Firenze, sulla quale deve ancora esprimersi il gup, in una nota di Italia Viva, si è parlato dei tre magistrati (contro i quali Renzi ha anche depositato un esposto a Genova). Creazzo? “Sanzionato per molestie sessuali dal Csm”. Luca Turco? “Volle l’arresto dei genitori di Renzi poi annullato dal Tribunale della Libertà”. Antonino Nastasi? “È accusato da un carabiniere di aver inquinato la scena criminis nell’ambito della morte del dirigente Mps Rossi”. Tutte affermazioni riportate nella nota, su questioni che non hanno a che fare con l’indagine Open.

7. la stampa. “Noi difendiamo la libertà dell’informazione – ha detto ieri Renzi – ma non può vederci silenziosi davanti a una velina del procura che vale di più di una sentenza della Cassazione”. L’indagine sulla fondazione Open conta 11 indagati e 4 società, difesi in totale da 19 avvocati. Quelli finiti sulla stampa sono atti depositati, che tutti questi soggetti avevano a disposizione.

Il Senato processa i pm: Renzi è un “perseguitato” per Lega, Pd, FI e FdI

Fratelli d’Italia prende l’occasione per chiedere al Parlamento un sussulto di dignità che consenta di eliminare “il privilegio feudale della non responsabilità dei magistrati”. Forza Italia per togliersi il solito sassolino dalla scarpa e stigmatizzare la “persecuzione” giudiziaria subita dal leader Silvio Berlusconi. Segue a ruota la Lega che tuona contro l’aula che usa graziare i suoi senatori dalle grinfie della giustizia a seconda del loro nome e cognome, e che ha invece mandato a processo Matteo Salvini: “Ricordiamoci sempre del garantismo. Il nostro Attilio Fontana è stato crocifisso per un avviso di garanzia”.

Senato, 22 febbraio: l’aula del Senato a larghissima maggioranza decide di trascinare i magistrati della Procura di Firenze che hanno chiesto il rinvio a giudizio per Matteo Renzi davanti alla Consulta. Il centrodestra unito come un sol uomo assieme a Italia Viva e pure al Pd votano perché il Senato sollevi il conflitto di attribuzione: a Firenze gli inquirenti dell’indagine su Fondazione Open avrebbero violato le prerogative di Palazzo Madama con un’invasione di campo che non può restare impunita. A votare No solo i 5S che pensano sia una forzatura e che, per dirla con Giuseppe Conte, “i politici devono difendersi nei processi e non dai processi”. E LeU con l’ex procuratore Antimafia, Pietro Grasso, che a tutti chiede di gettare la maschera: “Se si vuole reintrodurre una nuova e più ampia forma di immunità, o la vecchia autorizzazione a procedere abrogata nel 1993, metteteci la faccia”. Finisce 167 voti a favore e 76 contro.

Di cosa sono “accusati” i magistrati? Di aver agito senza l’autorizzazione preventiva della Camera di appartenenza di Renzi come prescritto dallo scudo previsto dall’articolo 68 a garanzia della libertà dei parlamentari. Per quanto si trattasse di documentazione sequestrata a terzi che parlamentari non sono. “Su questo tema si combatte una battaglia di civiltà giuridica e di dignità della politica. Qua parliamo di Costituzione”, ha detto il leader di Italia Viva intervenendo in aula dove ha sottolineato come le carte della discordia “siano state illegittimamente acquisite dai magistrati. Non lo dico io, lo dice la Corte di Cassazione che per cinque volte ha annullato i provvedimenti di Firenze. E questo significa che i pm non hanno rispettato le regole”. Applausi dai banchi di centrodestra dove Forza Italia si spella le mani quando lo stesso Renzi rincara la dose: “L’impunità non è consentita a nessuno, non ai parlamentari ma nemmeno ai magistrati. Se c’è un’ipotesi di non rispetto della legge, richiamare l’attenzione di altri magistrati ad andare a verificare è un atto di civiltà. Non stiamo compiendo atti eversivi. Si vergogni chi pensa che qua stiamo attaccando la magistratura. L’indagine parte dall’assunzione del fatto che il giudice penale desidera stabilire che cos’è una corrente di partito, come si deve organizzare, quali modalità concrete di organizzazione della politica si possano fare oppure no. Laddove il giudice penale interviene nelle dinamiche organizzative della politica viene meno il concetto di separazione dei poteri e la libertà del Parlamento di definire le modalità democratiche della politica”. Ancora applausi fino all’apoteosi finale: “Quando ho fatto la promessa scout, quando ho giurato sulla Costituzione, quando sono cresciuto con i ragazzi della Rosa bianca come modello, io ho promesso a me stesso che non avrei mai rinunciato a una battaglia per paura. Ho promesso a me stesso che non avrei mai evitato di fare una battaglia di coraggio anche quando gli altri non la fanno”. E anche se da un punto di vista giudiziario non gli conviene farla “perché per me non cambia niente”, giura.

E il Pd? Ha deciso di votare per il sì al conflitto di attribuzione per non consegnare Renzi alla destra, e fa parlare Dario Parrini anziché Anna Rossomando che in Giunta si era astenuta e che decide di non partecipare al voto in aula. Tra i dem infatti c’è chi gioisce, come Andrea Marcucci. E chi per l’imbarazzo non ha votato come l’altro pezzo da novanta, Luigi Zanda. Mentre restano nell’aria le parole di Grasso e la pericolosità del precedente su cui ci si è incamminati. “Basterebbe che in un telefono sequestrato a un mafioso vi fosse un whatsapp a un parlamentare per determinarne l’inutilizzabilità anche nei confronti del mafioso”. Il centrodestra e non solo fa spallucce: “Roba da azzeccagarbugli”.

Rischio palude, Conte fa rivotare

La paura dell’avvocato è la palude. Ossia che il Tribunale civile di Napoli, da qui ai primi di marzo, si dichiari incompetente a livello territoriale, trasferendo a Roma il processo che ha già “congelato” il M5S: e sarebbe un drammatico slittamento dei tempi. Per questo Giuseppe Conte, consultato il Garante, Beppe Grillo – che ieri sera aveva un suo emissario a Roma – ha convocato per il 10 e 11 marzo l’assemblea degli iscritti ai Cinque Stelle, così da approvare le modifiche allo Statuto.

Necessarie per tentare di accedere ai fondi del 2 per mille, in prima istanza negati al Movimento dalla commissione di garanzia degli statuti. Ma anche e soprattutto per provare a blindare la sua carica di presidente del M5S dalle contestazioni in tribunale e da nuovi, prevedibili ricorsi. Un’urgenza, visto che a oggi il Movimento fatica perfino a fare le liste per le amministrative con il proprio simbolo. È bloccato, Conte, in attesa che un giudice del Tribunale di Napoli il 1° marzo decida sul suo ricorso contro l’ordinanza con cui il collegio partenopeo aveva congelato lo statuto del M5S e quindi tutte le cariche, compreso lui, il presidente Conte. Tutte tranne il Garante, Grillo, che ha dato il suo assenso a una nuova votazione a stretto giro.

A convocarla, spiegano fonti vicine a Conte, è stato proprio il leader: “Per quanto sospeso è legittimato a rinviare alla sovranità dell’assemblea la decisione per uscire dallo stallo”. Una tesi che può suonare come una forzatura, ma di cui l’ex premier è convinto a livello giuridico. La certezza è che assieme a lui hanno firmato la convocazione Paola Taverna, in qualità di vicepresidente vicaria, e l’ex reggente Vito Crimi, “in quanto membro più anziano del comitato di garanzia previsto dal vecchio statuto”. Dettagli fatti filtrare anche per prevenire l’avvocato che ha costruito il ricorso degli attivisti a Napoli, Lorenzo Borrè, il quale in serata già evocava il burrone per Conte: “Nuova votazione? Sembra che il M5S stia imboccando un’autostrada contromano, a fari spenti”. Ma così ha scelto l’ex premier, su cui incombe sempre la decisione sul ricorso contro l’ordinanza. In caso venisse respinto, la convocazione dell’assemblea prenderebbe i contorni di un azzardo. Nell’attesa, ieri l’ex premier ha assestato un colpetto all’avversario interno, Luigi Di Maio.

Questa almeno la lettura di molti 5Stelle dopo le votazioni alla Camera, dove sono stati eletti tre vicepresidenti di area, deputati che andranno a far parte del Direttivo con incarichi tematici. E nella partita più rilevante, quella per l’area economica, è stato eletto con 16 voti il contiano Luigi Gallo, che ha superato Cosimo Adelizzi, dimaiano di ferro fermo a 7.