Logoramento e inciampi: la Lega lavora per le urne

Il verbo che in queste ore circola con più insistenza tra i fedelissimi di Matteo Salvini è “scivolare”. Verso la palude prima, verso la rottura poi, infine verso il voto. Non a giugno però –­“è troppo presto c’è già il referendum” dicono da via Bellerio – ma più probabilmente in autunno. Ché la situazione, vista con gli occhi del leader della Lega, è fin troppo chiara: “Questo governo ha senso solo se fa le cose per cui è stato chiamato, cioè gestione dell’emergenza e Pnrr – ha riferito Salvini nelle ultime ore ai suoi colonnelli –­ora che l’emergenza è finita e il Recovery è stato messo in piedi, o si rilancia coinvolgendo i partiti oppure meglio andare alle urne”. E quindi è in questo contesto che si inserisce la guerriglia parlamentare della Lega dopo la battaglia del Quirinale.

Una strategia di logoramento, iniziata con il non voto in Cdm sul decreto Covid, il tetto al contante rialzato a 2 mila euro nel Milleproroghe passando per la richiesta di abolire il green pass dal 31 marzo. E che continuerà nei prossimi giorni su altri provvedimenti come la riforma del Csm, il ddl sui balneari e sul fisco su cui il salviniano Massimo Bitonci l’ha già giurata a Francesco Giavazzi, consigliere del premier: “Se non viene stralciata la riforma del catasto noi non la votiamo”. E dunque si torna alla palude. Con conseguenze inesplorate: “Il rischio – conferma un salviniano – è che gli incidenti parlamentari si sommino e alla fine si scivoli verso il voto”.

E il sospetto, che cresce nella maggioranza, aumenta se si guarda all’accanimento della Lega sul superamento dello stato d’emergenza al 31 marzo. Una posizione condivisa anche dal governo che sta agendo sotto traccia, mentre Salvini la sbandiera urbi et orbi insieme al superamento delle restrizioni. Un obiettivo che servirebbe al leader del Carroccio per superare l’ostacolo Colle: senza più l’ombrello dell’emergenza, Mattarella non potrebbe più impedire lo scioglimento anticipato delle Camere. “Il punto fondamentale è proprio il superamento dell’emergenza” conferma il salviniano Edoardo Rixi. Posizione che trova unita tutta la Lega: dai governatori a Giorgetti tutti si dicono d’accordo con il segretario sulla fine delle restrizioni. Meno sull’idea del voto anticipato. Che però non viene escluso nemmeno da Giorgetti, ormai rassegnato al peggio: “Se bisogna andare avanti così, meglio che salti tutto” si è sfogato con i suoi. Una ritrovata convergenza con i nemici interni che si spiega così: sarà Salvini a fare le liste e quindi tutti sull’attenti.

Ed è in questo quadro che si inseriscono le tensioni nella maggioranza. Che aumenteranno ancora. I partiti non hanno intenzione di rinunciare alle proprie battaglie in aula. Tant’è che il governo è costretto a ricorrere alla fiducia: lo ha fatto ieri sul dl Covid e sul Milleproroghe e vuole ripetersi su balneari e Csm. Le prossime mine però sono dietro l’angolo: entro il 16 marzo il Parlamento dovrà ratificare il Mes con grande scorno di Lega e M5S, mentre FdI presenterà un ordine del giorno per chiedere al governo di finanziare 1,7 miliardi per la realizzazione del Tav Torino-Lione. Una bomba pronta ad esplodere. Così la sentenza spetta a Roberto Calderoli: “Il Parlamento è come una pentola a pressione: bisogna lasciare la valvola aperta, sennò scoppia”. Ieri Salvini ha segnato un punto sul referendum con l’approvazione a larga maggioranza di un odg per l’election day che accorpi la consultazione con le amministrative. Dal Viminale fanno sapere che la ministra Lamorgese non è pregiudizialmente contraria: porterà diverse opzioni in Cdm e sarà il governo, collegialmente, a decidere. Ma Salvini torna già all’attacco: “Il referendum venga accorpato al primo turno, non ai ballottaggi”.

Il premier resta immobile sulla crisi: oggi in Parlamento parla Di Maio

Sembrava seguire passo dopo passo la situazione, pronto a intervenire. Tanto che aveva annunciato un suo viaggio a Mosca, per incontrare Vladimir Putin, con l’obiettivo di far sedere al tavolo il presidente russo e quello ucraino, Volodymyr Zelenski. Sulla scia dell’attivismo mostrato dal presidente francese Emmanuel Macron e da quello tedesco Olaf Scholz, entrambi immortalati a Mosca davanti all’ormai celebre tavolone bianco. E invece Mario Draghi sembra preso in contropiede dall’escalation della crisi Ucraina. Già ieri, per esempio, di viaggio a Mosca a Palazzo Chigi non si parlava più, ma pure in Parlamento la questione era inesistente.

Solo nel primo pomeriggio è stata annunciata un’informativa, oggi, del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che stamattina interverrà in Senato e poi sarà a Montecitorio. “E cosa bisognava aspettare ancora?”, è l’umore che si respira tra i deputati. Verrà Di Maio, ma non il presidente del Consiglio, però. Che riferirà in Aula solo la prossima settimana. Col rischio, nel caso di una guerra lampo, che le sue parole al Parlamento giungano a cose fatte. E comunque in netto ritardo. Ieri, intanto, Draghi qualcosa ha detto. “Il riconoscimento dei territori separatisti del Donbass è un’inaccettabile violazione della sovranità democratica e dell’integrità territoriale”, ha affermato il premier. “La via del dialogo resta essenziale, ma stiamo definendo a livello Ue misure e sanzioni nei confronti della Russia”, ha poi aggiunto.

Draghi però sulla questione ha mostrato un certo attendismo, non si sa se per eccesso di prudenza o “insicurezza” sul da farsi, che ieri gli è stato rimproverato, come pure a tutta l’Ue, anche dal Wall Street Journal. E che l’inerzia italiana sia un nervo scoperto lo dimostra anche una sfuriata dell’ex mister Bce dopo aver visto un servizio di Sky Tg24 critico verso l’immobilismo italiano. Che però la mancata interlocuzione con Mosca e l’assenza in Parlamento non fanno che confermare. “Draghi snobba le Camere e manda Di Maio, un segnale di poca attenzione. Lui è lì perché è autorevole, vorremmo però capire come sta spendendo questa sua autorevolezza internazionale”, fa notare con una punta di malizia il capogruppo di Fdi, Francesco Lollobrigida. Insomma, se qualcuno si aspettava che super Mario alzasse il telefono e risolvesse la crisi dell’alto del suo prestigio è rimasto deluso.

Nel frattempo un invito a riferire sulla crisi Ucraina gli è arrivato anche dal Copasir, in particolare “sulle possibili ricadute sulla sicurezza nazionale”, si legge in una nota. Mentre la speranza “che Draghi vada sia a Kiev che a Mosca” è stata ieri di nuovo espressa dal leader della Lega, Matteo Salvini. Che sul tema sanzioni – mentre Di Maio è in prima linea nel chiederle e oggi lo ribadirà alle Camere – invece frena, confermando la vicinanza mai sopita della Lega verso la Russia di Putin. “Dobbiamo fare di tutto per scongiurare una guerra, ma le sanzioni sono l’ultima delle soluzioni possibili”, sostiene Salvini. Che poi tira una frecciata al Pd: “I confini sono sacri, ma è bizzarro che la sinistra si preoccupi più dei confini altrui che di quelli propri”. Ma in quanto a vicinanza a Putin, Salvini è in buona compagnia: c’è un pezzo di Lega, qualche 5S, la destra sovranista e la sinistra radicale, come quella di Marco Rizzo.

“Altro che Ue, solo Francesco può imporre la pace a Putin”

“La pericolosità di questa crisi è che da evento in qualche modo regionale si è trasformata in una competizione personalistica, in un regolamento di conti tra Biden e Putin. Perciò la faccenda si va complicando al punto di…”.

Il punto sul quale Sergio Romano, il decano dei diplomatici italiani, il più attrezzato ambasciatore a Mosca che l’Italia abbia avuto, ritiene che la competizione militare possa davvero deflagrare, è che Putin non si sazierà con l’annessione del Donbass.

È chiaro che dopo la Georgia, l’Ucraina, la Transnistria, toccherà alle altre Repubbliche nate dopo il disfacimento dell’ex Urss.

Domani parleremo dell’Estonia, della Lituania?

È del tutto plausibile uno scenario siffatto. Pericolosissimo.

Chi sta sbagliando di più? Come dobbiamo valutare questa escalation seguendo l’ordine degli errori compiuti da ambedue le parti?

A mio avviso dopo la Guerra fredda, l’Occidente doveva avviare la smobilitazione della Nato. Era una struttura nata al tempo della contrapposizione col Patto di Varsavia. Collassato quest’ultimo non aveva senso tenere in piedi un assetto militare che sarebbe stato visto come struttura di pura aggressione.

È ciò che lamenta Putin.

E – vista la situazione con i suoi occhi – non ha tutti i torti. Aver avanzato con gli insediamenti Nato nell’area dell’ex Urss ha mortificato l’orgoglio russo e in qualche modo sollecita una risposta.

La risposta sarebbe quella di riannettere i territori perduti?

E qui c’è l’errore di Putin, descritto ingiustamente come un autocrate. Anche il governo di Mosca ha un’opinione pubblica cui rispondere, certo lì non siamo in una democrazia liberale, ma ha quasi gli stessi problemi di Joe Biden. Ambedue in qualche modo costretti a queste prove di forza.

È stato un errore far immaginare l’Ucraina nella Nato?

Doppio errore da matitone blu. Non solo perché, l’abbiamo appena detto, la Nato non ha senso di tenerla in piedi così come l’abbiamo conosciuta durante la Guerra fredda. Non solo non l’abbiamo trasformata, rimodulata, aggiornata, ma abbiamo pensato possibile che al confine con Mosca l’Occidente potesse puntare i cannoni e tenere lo zar sotto tiro.

Siamo aggressori noi occidentali?

Dobbiamo sforzarci di valutare con equilibrio la situazione. Come ci sarebbe parso se la struttura militare del mondo che si contrappone a noi avesse messo radici in Svizzera, a un tiro di schioppo da Milano? Sarebbe o no stata destabilizzante questa situazione?

Qual è dunque una negoziazione possibile, realistica, dove la corda non solo non la si tiri più giacché è già stata spezzata, ma neanche si immagini di fabbricarne.

Secondo me l’Ucraina deve divenire territorio smilitarizzato, cuscinetto tra l’Ovest e l’Est, Paese neutrale.

L’Ucraina una sorta di grande Svizzera dell’Est.

Certamente più povera, ma simile nell’assetto politico. Washington e Mosca devono impegnarsi a evitare ogni ingerenza militare.

Lei pensa che basti?

Al punto in cui siamo, io mi preoccuperei di sapere chi sarebbe il facitore di questa pace. Questa domanda dovrebbe ottenere una risposta.

Pensa che gli europei non abbiamo la forza di imporre la pace a Putin né di chiedere a Biden di non giocare a braccio di ferro con la Russia? Biden ha da rispondere alla sua opinione pubblica.

Infatti si sta giocando la rielezione. Se perderà la partita con Putin addio sogni di gloria.

Se l’Europa è fuori gioco e gli americani troppo dentro il gioco, chi può obbligare Biden e Putin a firmare la pace?

Il Papa.

Papa Francesco ha spiegato con dolore che la guerra è la prima chance dell’uomo. E questa guerra sembra sia attesa, annunciata, favorita, sostenuta da un club di potenze personali.

Più la guerra sembrerà inevitabile, più i toni si alzeranno.

Secondo lei a quale punto si arriverà?

Due grandi potenze nucleari che si affrontano. Stiamo parlando di questo.

Sarebbe un punto di non ritorno?

Solo il Papa potrebbe chiedere un atto di sincera e buona volontà.

La proposta che lei intravede sarebbe l’Ucraina nuova Svizzera d’Europa.

Io penso di sì.

Colombia, la Consulta fa la “rivoluzione”: legalizzato l’aborto fino alla 24ª settimana

La Colombia ha depenalizzato l’aborto. L’interruzione di gravidanza sarà lecita se praticata entro le prime 24 settimane di gestazione. Lo ha stabilito la Corte costituzionale del Paese sudamericano, che con cinque voti a favore su nove ha reso possibile qualcosa di difficilmente immaginabile in una nazione a netta maggioranza cattolica e conservatrice. Fino a questa decisione, la pratica era consentita solo nei casi di stupro, di grave malformazione del feto o di serio pericolo per la vita della donna, e chiunque aiutava a interrompere una gravidanza rischiava pene fino a quattro anni e mezzo di carcere. Per questo, secondo la stima dell’emittente “Blu Radio”, dei circa 400 mila aborti che vengono praticati nel Paese più del 90 per cento vengono eseguiti fuori dalle strutture sanitarie. Adesso invece sarà possibile farlo senza fornire alcuna motivazione, a patto che lo si faccia entro un periodo di sei mesi che è molto superiore rispetto ai limiti di molti altri Paesi : in Italia, ad esempio, è possibile soltanto nelle prime dodici settimane.

L’avvocato Mariana Ardila della Women’s Link Worldwide, fra le organizzazioni legali che si sono opposte alla criminalizzazione dell’aborto, l’ha definita una svolta storica: “Questo mette la Colombia all’avanguardia in America Latina”. Causa Justa, altro gruppo che si batte per il diritto delle donne a decidere in autonomia su ciò che riguarda il proprio corpo, aveva presentato alla Corte una petizione che evidenziava come le donne preferissero rivolgersi alle cliniche private rischiando la vita. “Queste barriere colpiscono soprattutto quelle che vivono in zone rurali e remote, a basso reddito, con ragazze che vivono in situazioni di conflitto armato e vittime di violenza di genere”, ha sottolineato l’associazione in una nota.

La notizia non riguarda però solo la Colombia, ma l’intero Sudamerica, dove negli ultimi anni si sono imposti gruppi di giovani donne laiche. Dopo che l’interruzione della gravidanza è stata legalizzata in Argentina a fine 2020, si sono susseguite nei Paesi vicini le cosiddette “maree verdi”, manifestazioni dove migliaia di femministe sventolavano fazzoletti (pañuelos) del medesimo colore, simbolo del movimento argentino per i diritti all’aborto. Da allora l’interruzione di gravidanza è stata resa possibile in uno Stato del Messico e in Ecuador, ma solo per le donne vittime di stupro.

Biden promette: “Sarà peggio della Crimea…”

Il presidente Usa, Joe Biden, denuncia “l’inizio dell’invasione” dell’Ucraina da parte della Russia, “una flagrante violazione delle leggi internazionali, che richiede una ferma risposta”; e annuncia sanzioni “molto al di là” di quelle adottate nel 2014, dopo l’annessione della Crimea. Una prima tranche di provvedimenti contro istituzioni finanziarie russe e il debito sovrano russo, oltre che contro esponenti del- l’élite russa e le loro famiglie, entra in vigore oggi. In un breve discorso, ieri sera, dalla Casa Bianca, Biden ha detto che gli Usa continueranno a offrire “assistenza militare” all’Ucraina, ma ha affermato che le misure adottate hanno carattere “difensivo”: “Non vogliamo combattere la Russia, ma difenderemo ogni pollice del territorio Nato”.

Il presidente ha ammesso che “difendere la libertà avrà dei costi, anche per noi”, ma ha rilevato che “l’aggressione russa non ha giustificazioni” e ha avvertito che Mosca potrebbe decidere di lanciare attacchi contro varie città ucraine, “compresa la capitale Kiev”. C’è, però, ancora modo “di evitare lo scenario peggiore”: gli Usa e i loro alleati restano aperti a soluzioni diplomatiche. La definizione di “invasione” usata da Biden segna un’escalation, perché, lunedì, la Casa Bianca aveva evitato di definire “un’invasione” l’azione russa. Mentre la Russia s’affretta a mettere in sicurezza le Repubbliche secessioniste, l’Occidente s’affanna a coordinare la propria risposta. La novità più importante è l’abbandono, da parte della Germania, che l’aveva sempre sostenuto, anche contro il parere Usa, del progetto di gasdotto sottomarino Nord Stream 2, destinato a convogliare gas naturale russo direttamente dai campi di produzione al nord della Germania. È lo smacco maggiore finora inflitto a Putin dopo la sua decisione.

I leader dell’Ue e della Gran Bretagna si sono impegnati a imporre sanzioni a Mosca e hanno chiesto una riunione d’urgenza del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, durante la quale numerosi Paesi hanno condannato l’escalation russa. Il sostegno della Cina alla Russia non è stato esplicito. Il presidente ucraino Volodymyr Zelenski invita suoi connazionali a restare calmi: “Siamo – dice – nel nostro Paese, nella nostra terra. Non abbiamo paura di nulla e di nessuno”. Il segretario generale dell’Alleanza atlantica, Jens Stoltenberg, raccomanda all’Ucraina di non andare allo scontro, pur avvertendo che la Russia potrebbe ancora lanciare un attacco “su larga scala”.

Il Cremlino non pare impressionato dalla risposta occidentale. Il portavoce Dmitry Peskov ha dichiarato che il riconoscimento dell’indipendenza delle due Repubbliche si applica ai territori che i separatisti controllavano al momento della secessione. Poiché da allora, in 8 anni di guerra e 14 mila vittime, le forze ucraine hanno riconquistato ampie fette di quei territori, si può temere che Mosca invada il territorio ucraino controllato dai lealisti, ma reclamato dai secessionisti. Anche il discorso pronunciato l’altra sera da Putin lo lascia pensare: il presidente ha affermato che l’Ucraina è un Paese “creato dalla Russia” ed è “una marionetta degli Usa”, i cui cittadini russofoni vengono “brutalizzati”; oggi l’ha definita “una minaccia”, dotata “di armi nucleari”. Dopo una riunione dei ministri degli Esteri dei 27 a Parigi, il responsabile della politica estera dell’Ue Josep Borrell ha illustrato le grandi linee di un piano per colpire persone ed enti collegati alle mosse russe, fra cui i 351 membri della Duma che hanno votato a favore del riconoscimento delle Repubbliche secessioniste e 27 “soggetti ed enti che hanno un ruolo nel minacciare l’integrità, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina”, fra cui banche e organismi finanziari e industrie che forniscono supporto materiale alle truppe russe. L’Ue, inoltre, intende colpire la Russia con sanzioni già definite “massicce”. Restano, tuttavia, incertezze sui modi e sui tempi con cui queste misure saranno attuate: l’impressione è che l’Unione intenda procedere passo passo e che non colpirà subito Putin con “la madre di tutte le sanzioni”. Questa opzione è preferita anche dall’Italia.

La guerra delle sanzioni: ecco chi ci rimette di più

Il grande gioco delle sanzioni internazionali alla Russia è entrato in una nuova fase per la crisi nell’Ucraina orientale. Si ripete quanto avvenne con la guerra di fine febbraio 2014, che portò all’annessione russa della Crimea. Le sanzioni imposte il 17 marzo 2014 da Usa, Ue e altri Paesi colpirono individui e imprese, causando a Mosca il crollo del rublo e la fuga di capitali, la crisi finanziaria e una recessione. A metà 2016, la Russia aveva perso circa 170 miliardi di dollari per le sanzioni più altri 400 miliardi di mancate entrate dall’export di gas naturale e petrolio. Putin il 20 marzo 2014 rispose con misure analoghe, compreso il blocco dell’import alimentare da Australia, Canada, Norvegia, Usa e Ue. Dal 2015 le perdite per la Ue sono stimate in almeno 100 miliardi. Nel 2018 Germania e Austria dissero no a Washington per nuove sanzioni contro Mosca sul fronte dell’energia. A gennaio scorso, Bruxelles aveva prorogato le sue misure fino al 31 luglio, ma il precipitare degli eventi ha cambiato la situazione. Le conseguenze non lasceranno indenne nessuno: ecco la fotografia che si va delineando in queste ore, ma che è destinata a mutare.

 

Russia Caute Bruxelles e Londra, Berlino dura

Bruxelles e Londra per ora fanno la faccia feroce ma non graffiano, Berlino pare più dura. Il primo ministro del Regno Unito Boris Johnson ha annunciato sanzioni contro cinque banche russe e tre oligarchi, mossa considerata moderata visto che i nomi erano già dal 2018 nell’elenco delle sanzioni Usa. Bruxelles dice di lavorare a misure per limitare “la capacità dellaRussia di accedere a capitali, mercati finanziari e servizi della Ue”. L’obiettivo potrebbero essere i colossi energetici pubblici russi Rosneft e Gazprom, che potrebbero dover affrontare il divieto di prendere prestiti da investitori e creditori occidentali. Ciò limiterebbe la loro capacità di investire ma non interromperebbe automaticamente le forniture di energia all’Europa, che riceve il 40% del suo fabbisogno di metano da Mosca. Berlino invece ha annunciato il congelamento dell’autorizzazione al gasdotto Nord Stream 2, non ancora in funzione, che collega la Russia alla Germania. Ma i 27 Stati dell’Unione rischiano la spaccatura per i diversi interessi nazionali in gioco. L’amministrazione Biden invece annuncerà nelle prossime ore le sue misure. L’escalation verrà commisurata alle mosse di Mosca. L’arma finale, una “bomba atomica finanziaria” già esaminata nel 2014, è la possibilità di tagliare fuori la Russia dal sistema di pagamento globale Swift, usato da oltre 11mila istituzioni finanziarie in 200 Paesi, come accadde all’Iran dieci anni fa per il mancato stop al suo programma nucleare. Teheran perse metà dei proventi dall’export di petrolio e il 30% del commercio estero. Ma questa mossa equivarrebbe nei fatti a una gigantesca cancellazione del debito russo, con conseguenze devastanti per le banche europee più esposte verso Mosca, non a caso contrarie a includere i titoli russi nell’elenco delle sanzioni.

 

Germania Nord Stream 2, alla canna del gas

La Germania è il Paese europeo più esposto a sanzioni verso Mosca. Secondo la rivista tedesca Wirtschaftswoche, Putin ha in pugno Berlino come un pusher fa con un drogato: la dose è il metano. Il cancelliere Olaf Scholz ha fermato il gasdotto Nord Stream 2, la cui entrata in funzione avrebbe raddoppiato l’import tedesco a 110 miliardi di metri cubi l’anno. Per Mosca le fonti fossili valgono la maggior parte dell’export: nel 2020 le vendite di gas le hanno fruttato 55,5 miliardi di dollari, principalmente dall’Europa, un record dal 2013, anche perché i prezzi sono quintuplicati nell’ultimo anno. Berlino dipende dall’import per il 97% del suo fabbisogno nazionale di gas: Nord Stream 1, che parte dalla Russia, fornisce già due terzi dell’import di energia alla Germania. Ieri il prezzo di riferimento del gas europeo è aumentato del 9,2% a 78,5 euro per megawattora. Dmitry Medvedev, vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo, ha riso: “Benvenuti nel nuovo mondo, dove gli europei pagheranno 2mila euro per il gas!”. In gioco c’è anche l’interscambio tra Berlino e Mosca, cresciuto del 34% nel 2021: i produttori di auto Bmw, Mercedes-Benz e Volkswagen tremano. Siemens realizza circa l’1% del suo fatturato in Russia, dove sta sviluppando treni ad alta velocità con partner locali e costruisce 57 parchi eolici.

Regno UnitoStop ai capitali russi nella City di Londra

Gli istituti di credito europei detengono la maggior parte dei quasi 30 miliardi di dollari di esposizione estera delle banche russe. Per la Banca centrale di Mosca il totale delle attività e passività bancarie estere russe ammontava a 200,6 e 134,5 miliardi di dollari, con la quota denominata in dollari pari a circa il 53% di entrambi, in calo dal 76-81% di vent’anni fa. Il primo ministro britannico Boris Johnson ha minacciato di impedire alle società russe di raccogliere capitali alla Borsa di Londra. Ma per la City sarebbe un salasso, tra perdita di clienti e mancate commissioni.

 

Francia I crediti allarmano Parigi

Le banche francesi e italiane sono le più esposte al mondo nei confronti della Russia, con crediti in sospeso a settembre scorso per 25 miliardi di dollari per ciascuno dei due Paesi. Seguono quelle austriache con 17,5 miliardi, poi quelle Usa per “appena” 14,7 miliardi. Secondo JPMorgan, gli istituti più esposti sono la francese Société Générale, UniCredit, l’austriaca Raiffeisen Bank International austriaca e l’olandese Ing.

Ma anche in questo caso c’è in ballo il metano: il produttore russo Novatek potrebbe essere un obiettivo, ma il 19,4% della società è della francese TotalEnergies. Renault, poi, possiede la più grande casa automobilistica russa, Avtovaz. Ecco perché Parigi è molto cauta sulle sanzioni.

 

Italia Banche, alimentare, meccanica: roma trema

Nei primi 11 mesi del 2021 l’interscambio tra l’Italia e la Russia è tornato ai livelli pre Covid a quasi 20 miliardi, anche se Mosca è solo il 14esimo partner commerciale italiano e l’export nazionale in Russia non ha mai recuperato i livelli toccati prima delle sanzioni del 2014. Ma le vendite in Russia sono importanti per abbigliamento, mobili, elettrodomestici e macchinari. Per Mosca invece l’Italia è il nono mercato di sbocco, per più della metà rappresentato dall’export di petrolio e metano.

Secondo la Coldiretti, il blocco russo all’import agroalimentare dalla Ue, deciso nel 2014, è già costato all’Italia 1,5 miliardi. L’embargo di Mosca tuttora in vigore colpisce – sottolinea l’organizzazione agricola – un’importante lista di prodotti agroalimentari con il divieto all’ingresso di frutta e verdura, formaggi, carne, salumi, pesce e l’azzeramento dell’export di prodotti Doc e Dop come Parmigiano Reggiano, Grana Padano, prosciutti di Parma e San Daniele. Al danno diretto delle mancate esportazioni si aggiunge la beffa della diffusione di imitazioni russe. Stellantis, presente in Russia con propri impianti, prevede di importare in Europa furgoni dei suoi marchi Peugeot, Opel e Citroen prodotti dal suo stabilimento di Kaluga. In Russia Pirelli ha due stabilimenti che impiegano circa 2.500 persone.

Oltre a UniCredit, la maggior banca estera presente dal 1989 con 2 milioni di clienti, in Russia c’è anche Intesa SanPaolo che afferma che la sua missione non è cambiata. Non così per UniCredit: a fine gennaio, proprio a causa della crisi ucraina, il gruppo guidato da Andrea Orcel ha ritirato una potenziale offerta per l’istituto statale russo Otkritie Bank.

“Il Cremlino vuole l’Est senza truppe americane”

Tedesco, ma di origini italiane, Carlo Masala è un professore di Scienze politiche all’Università della Bundeswehr, l’esercito tedesco, a Monaco. Analista di politica internazionale specializzato nei rapporti transatlantici, Masala ha insegnato anche alla scuola militare della Nato.

Cosa vuole Putin?

Mettere pressione a Usa e Nato così da ottenere concessioni prima su una parte, poi su tutta l’Ucraina. Il fine ultimo è la richiesta del ritiro delle forze statunitensi da tutta l’Europa. Chiederà alla Nato di ritirare i militari dai nuovi Stati membri. E anche se non ci arriveremo mai, ha già ottenuto che l’Ucraina non entri a far parte dell’Alleanza atlantica, almeno per molti anni a venire.

Insomma, Putin ha già vinto?

Sì, ma si è chiuso in un angolo. Adesso non può smontare tutto questo scenario che ha creato senza mostrare in patria di avere ottenuto qualcosa di grande. Farebbe la figura del perdente. Se non ottiene sostanziali concessioni politiche si sentirà costretto a intraprendere un’azione militare su larga scala. Con 160/170 mila uomini potrebbe conquistare Kiev, ma non sarebbe in grado di controllare il Paese. Ci sono 45 milioni di abitanti, non basterebbero nemmeno i 190 mila militari che ha già schierato.

Le truppe russe al confine bielorusso, a meno di 200 km da Kiev, sono lì per un’invasione via terra?

Non penso. Guardando la mappa si vedono le truppe russe radunate su tre fronti. E il lato bielorusso mi sembra il meno preoccupante. La Russia non vuole invadere tutto il Paese. Non trovo questo scenario plausibile. Ma dalla Bielorussia possono facilmente lanciare dei missili Cruise su Kiev. Quindi è una minaccia, ma non per prendere il controllo del Paese. Penso invece che occuperà il Donbass e creerà un corridoio via terra per arrivare fino alla Crimea. Così un terzo del territorio ucraino sarebbe staccato dal resto dello Stato.

Come giudica la situazione in Donbass?

La situazione è molto tesa, l’impressione è che i separatisti stiano cercando di trascinare le forze ucraine in un conflitto più grande. Ci sono scontri. Sembra venga usata anche dell’artiglieria pesante. Immagino sia russa, perché i separatisti non hanno questo genere di armi. Sono attacchi di cui non sappiamo molto, ma sembrano falsi, come nel caso delle auto dei leader separatisti fatte esplodere.

Perché inscenare dei falsi attacchi?

Così Mosca può avere un pretesto per poter intervenire militarmente. Con la scusa di proteggere la popolazione russa del Donbass.

Ma questi scontri vanno avanti da anni. Cosa c’è di diverso oggi?

Il piano su cui la Russia minaccia l’Ucraina e le richieste che sta avanzando a Nato e Stati Uniti.

La Germania invierà armi all’Ucraina?

Potremmo spedire missili Patriot. Ma vorrebbe dire che dei militari tedeschi dovrebbero andare ad addestrare gli ucraini: inaccettabile per l’opinione pubblica in Germania.

L’allargamento Nato è l’altro responsabile del conflitto ucraino

L’autocrate russo compie una mossa fuori dal diritto internazionale, responsabile di scatenare un conflitto sempre più esteso, mettendo a rischio i diritti umani. Ma per capire il conflitto occorre osservare anche l’altro campo, il fronte Nato. Che sembra immune da responsabilità, abituati come siamo a un Occidente sempre dalla parte giusta della Storia.

La cartina che mostra il progressivo allargamento a Est della Nato, fino a un tiro di schioppo dai territori della Federazione Russa, è invece magna parte di questa contesa e porta delle responsabilità che sarebbe ipocrita tacere. E se oggi i Paesi europei sembrano tutti allineati agli Usa, uno degli obiettivi di Joe Biden sembra essere raggiunto, almeno per ora.

Ma che il conflitto non sia circoscritto solo all’Ucraina e riguardi tutti gli schieramenti e le loro aree di influenza, presenti e future, lo dimostrano proprio le mappe. Se quella russa è senz’altro una modalità “neo-imperialista”, perché la Nato dovrebbe sfuggire a questa definizione?

Pochi giorni fa, il settimanale tedesco Der Spiegel ha dato conto di una nota ritrovata nell’archivio nazionale britannico dallo studio Usa Joshua Shifrinson, secondo la quale in un incontro tra i direttori politici dei ministeri degli Esteri di Usa, Gran Bretagna, Francia e Germania, del 6 marzo 1991, il rappresentante degli Usa, Raymond Seitz, avrebbe detto: “Abbiamo chiarito all’Unione Sovietica che non trarremo alcun vantaggio dal ritiro delle truppe sovietiche dall’Europa dell’Est”. Quando Putin richiama accordi così lontani nel tempo, si riferisce a quel periodo. Ma dagli anni 90 la strategia militare e politica della Nato cambia. E cambia proprio dopo il suo primo vero utilizzo dalla fondazione del 1949, in occasione delle guerre nella ex Jugoslavia. Guerre che prendono l’avvio, guarda caso, proprio con i riconoscimenti occidentali, in primis di Germania e Vaticano, della indipendenza proclamata dalla Croazia. La Nato, con le operazioni “fuori-area” prima in Bosnia e poi in Kosovo, esce dalla linea di “difesa collettiva” e inizia a operare per “la gestione delle crisi”. Il concetto strategico si modifica con gli accordi del 1999 firmati anche dal governo di Massimo D’Alema. E verrà ancora aggiornato nel 2010 con l’espressione “sicurezza cooperativa”, un altro modo per dare seguito a una politica di espansione. In seguito all’11 settembre 2001, la Nato invoca per la prima volta l’articolo 5 (l’Alleanza viene attaccata se uno Stato membro lo è) e si muove fino all’Afghanistan. L’Alleanza che nella Guerra fredda doveva proteggere l’Occidente dal nemico sovietico, ora agisce in libertà per difendere i suoi “interessi strategici”.

Disattendendo quegli impegni del 1991, dopo lo sgretolamento dell’ex area sovietica inizia il percorso di allargamento. La Repubblica Ceca, l’Ungheria e la Polonia avviano i primi colloqui per l’ingresso nella Nato nel 1997 e il 12 marzo 1999 diventano i primi membri dell’ex Patto di Varsavia a far parte dell’Alleanza occidentale. Il 29 marzo 2004 è la volta di Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia che contribuiscono al più grande allargamento nella storia della Nato. Il 1º aprile 2009 entrano ufficialmente l’Albania e la Croazia. Il 5 giugno 2017 tocca al Montenegro che aveva già partecipato a delle missioni in Afghanistan. Infine, il 30° membro della Nato è la Repubblica di Macedonia.

Si può affermare che questi Paesi hanno scelto liberamente di far parte della Nato anche se il loro ingresso è il frutto di un rapporto di forza agito dagli Stati Uniti. Che con l’alleanza militare hanno sempre voluto seguire passo passo le evoluzioni dell’Unione europea, cercando di diminuirne la forza politica. Una osservazione questa che si ritrova spesso nei ragionamenti di figure non sospette di fedeltà atlantica come Romano Prodi.

Ma l’espansione militare non può non tenere conto delle reazioni dei Paesi che da quell’allargamento si sentono minacciati. Non a caso Putin torna a chiedere che Kiev resti fuori dalla Nato pur rispolverando il mito imperiale della Russia. Ma anche la Nato ha lavorato per affermare la propria egemonia. L’allargamento avviato nel 1999, infatti, non è ancora terminato.

Putin: “L’Ucraina? Una minaccia” Biden: “Ora anche Kiev a rischio”

La storia ucraina si decide sempre in febbraio. Mentre Kiev si appresta a celebrare l’ottavo anniversario di Maidan, potrebbe essere attaccata “insieme ad altre città” dalla Russia, ha detto ieri il presidente Usa Biden. In ritardo di oltre un’ora alla Casa Bianca, ha chiosato “all’aggressore” russo che non verrà “ceduto nemmeno un centimetro del territorio Nato”. Inoltre “Putin ha una visione distorta della storia” quando parla di minacce dalla Nato.

Nelle ore precedenti, ieri, a Mosca, la Camera bassa del Parlamento, che aveva appena approvato all’unanimità la ratifica del “Trattato di amicizia con le Repubbliche di Donetsk e Luhansk”, ha detto “da” anche alla nuova richiesta di Putin: spedire truppe russe all’estero. Mentre i soldati di Mosca si apprestano a penetrare il perimetro del Donbas, il personale diplomatico russo lascia Kiev: il portavoce di Putin, Dmitry Peskov, ha detto che però “una rottura delle relazioni diplomatiche con l’Ucraina sarebbe estremamente sgradita”. Mosca è stata costretta alla sua mossa “poiché l’Europa non è stata in grado di costringere Kiev a rispettare gli accordi”: quelli di Minsk “che non esistono più”, ha detto Putin. Il presidente – che due giorni fa ha dato ai russi la sua versione della storia, e con qualche firma, anche della geografia, corretta a colpi di ukaz firmati in tv – ha specificato che la Russia riconosce le due Repubbliche nei confini che esistevano quando hanno proclamato l’indipendenza nel 2014. Di quei territori – in parte ancora occupati dagli ucraini – fa parte anche Mariupol e il suo porto, importante snodo sul mare per i gialloblu. Per il Cremlino le regole sul rispetto delle frontiere verranno dibattute tra i governi della Dnr e Lnr – con cui la Rada ha sempre rifiutato di parlare – e Kiev, che ha già risposto: “Non sappiamo chi sono”. Intanto il presidente ucraino ha richiesto d’urgenza un nuovo summit del Quartetto di Normandia. Solo ieri si è rivolto ai suoi cittadini: “Non cederemo niente a nessuno. Non abbiamo paura della Russia”. Durante un incontro con il presidente estone Alar Karis – in visita nel Paese dove oggi sono attesi anche il presidente lituano Gitanas Nauseda e quello polacco Andrzej Duda – Zelenski ha ribadito che “non ci sarà una guerra totale contro l’Ucraina”. A smentirlo ci ha pensato nelle stesse ore il segretario generale Nato, Jens Stoltenberg: “la Russia non ha smesso di pianificare un’invasione su larga scala”. Solidarietà all’ex comico, che ha promesso l’introduzione della legge marziale in caso di attacco, l’ha data anche il turco Erdogan.

Al Consiglio di Sicurezza Onu l’ambasciatore russo Vassily Nebenzia ha chiesto all’Ovest di non “peggiorare la situazione”: la porta diplomatica di Mosca non è serrata, ma “non si permetterà un nuovo bagno di sangue nel Donbass”. Il sangue invece scorre già: durante un bombardamento, due soldati ucraini sono morti nella notte. Molto Donbass adesso è a Rostov, dove migliaia di civili sono arrivati in autobus. Per il riconoscimento delle Repubbliche in Russia c’è stata qualche bandiera in strada, ma aleggia il fantasma dell’euforia collettiva che si scatenò per il ritorno della penisola sul Mar Nero all’interno dei confini russi nel 2014. A mancare ieri è stata la gioia palese e la trasversale approvazione che ci fu per l’annessione della Crimea. La scelta di Putin “personifica la volontà di unità dei russi” ha scritto Denis Pushilin, leader di Donetsk. Il Donbass adesso è diventatode facto l’ultimo, nuovo kraj, confine russo. Dall’altro lato della barricata però per gli ucraini quelle regioni sono ancora kraina, nazione.

Dov’è Mario?

L’altra sera, mentre tg e talk rilanciavano l’ennesima fake news americana dell’invasione russa dell’Ucraina (ancora rinviata causa bel tempo), eravamo tutti col fiato sospeso in attesa del Verbo. Ora – ci dicevamo – parla Draghi, nuovo Salvator Mundi, e mette in riga quel tamarro di Putin. Stiamo parlando dell’Uomo che “può imporsi come nuovo leader europeo” (Domani), a cui “la Merkel lascia il testimone della guida della Ue” (Stampa), “lo ama” (Libero) e gli dice “Sei tu il capo dell’Europa” (Riformista), tant’è che “Draghi è l’Europa” (Foglio), “incoronato leader europeo” (Giornale), dunque “ha un piano per comandare in Europa” (Libero), “è il faro del dopo Merkel” (Alan Friedman, Stampa), “fa sognare un miracolo europeo” grazie all’“amour fou di Parigi per Draghi” (Foglio), “riscrive le regole Ue” (Corriere), con la sola forza del pensiero stringe “patti” e crea “assi” con tutto l’orbe terracqueo, piega Paesi e continenti al suo “metodo”, alla sua “agenda”, al “fattore Draghi”, “indica la strada al G7” (Stampa), “guida la svolta del G20” (Messaggero), “punta a guidare la Nato” (Giornale), dirige “la svolta egiziana” (Rep), “smuove Pechino e Mosca con la tattica dell’empatia” (Corriere), è la “bussola tra Biden e Macron”, va “contro la fame nel mondo” (Stampa) e, già che c’è, spezza le reni agli “autocrati” (Rep), “allontana i turchi dalla Libia” (Verità), “si impone sui populisti” (Corriere), “li fa impazzire” (Foglio), “sfida i sovranisti” (Stampa), stipula con Biden un’“intesa atlantica” che “riunisce l’Occidente” (Rep), “Italia di SuperMario mai così centrale dai tempi di Cavour” (Varano, Dubbio), “quando parla Draghi tutti sono in ascolto e non succedeva da Ottaviano Augusto, perché supera anche leader regionali come Cavour e De Gasperi nel bene e come Mussolini nel male” (Brunetta), “ha fatto sognare il mondo” (Fabio Martini, Stampa).

Vi pare che un tal pezzo d’uomo non sia in grado di fermare l’Armata Rossa? È vero che non riesce neppure a spegnere le scaramucce fra i partiti presunti alleati del suo governicchio alla frutta, ma queste sono miserie su cui nemmeno s’abbassa. Grande è stata la nostra delusione nel veder esternare tutti i leader e sottoleader del mondo, tranne uno: il Fenomeno. Forse deluso dall’esito della sua annunciata missione a Mosca, che in patria gli è valsa candidature al Nobel per la Pace, ma al Cremlino non ha suscitato neppure un plissé: manco un appuntamento nell’anticamera di Putin, o sotto il tavolone. E Biden chiama tutti, da Macron a Scholz, e si scorda proprioil Capo dell’Ue appena incoronato sul trono del Sacro Draghiano Impero. Perché non se lo fila nessuno? La risposta non può essere che una: hanno tutti troppa paura di Lui.