Diluvio Universale. L’arcobaleno: segno del patto di Dio con il Creato

Il racconto del Diluvio Universale e dell’Arca di Noè è tra i più conosciuti della Bibbia, purtroppo solo per sommi capi (specie per le versioni per i libri dei bambini). In realtà è un racconto che si estende a lungo nel libro della Genesi (dal capitolo 6 al 9) ed è ricco di suggestioni ed espressioni solenni, drammatiche, con le ripetizioni tipiche delle tradizioni antiche per sottolineare gli aspetti più importanti.

Nel breve spazio a disposizione non posso che accennare a tre elementi. Prima di tutto il diluvio, forma di punizione estrema da parte di Dio per un’umanità profondamente corrotta e malvagia: “La fine di ogni essere vivente è giunta – dice Dio a Noè – poiché la terra, a causa degli uomini, è piena di violenza; ecco, io li distruggerò, insieme con la terra” (6,13). La condanna a morte giunge dopo un’indagine di Dio che constata con i suoi occhi che i fallimenti dell’essere umano, creato “a sua immagine e somiglianza” (1,26), quindi come suoi figli e figlie, non sono fatti episodici (Adamo ed Eva nel giardino dell’Eden e poi Caino e Abele) ma continui: “Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che il loro cuore concepiva soltanto disegni malvagi in ogni tempo” (5,5). Una constatazione che lo addolora, che lo distrugge, come un qualsiasi genitore che si rende conto di non poter fare più nulla per suo figlio o figlia: “Il Signore si pentì d’aver fatto l’uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo” (5,6).

L’arca: il termine ebraico è tevà, come la cesta in cui verrà trovato il piccolo Mosè in balia delle acque, salvato da donne ebree ed egiziane (Esodo 2,1-10). La cesta/arca del diluvio dunque non ha poppa e non ha prua e non ha remi, non vi sono ponti di comando e non c’è il timone. La cesta/arca deve galleggiare non navigare, come quella del piccolo Mosè: non è Noè – che pure ha trovato grazia agli occhi di Dio (6,8), una grazia immotivata, totalmente gratuita – che guiderà e quindi deciderà la destinazione, ma sarà Dio a farlo. E Noè lo accetta, si affida a Dio, non per l’idolatria religiosa che fa chiudere gli occhi e la mente di fronte alla ragione, ma per quella fede che spera oltre ogni speranza perché conosce Dio, la sua giustizia, il suo amore, la sua cura. Che è così grande tanto da proteggere non solo la vita degli abitanti dell’arca, ma anche la loro anima profonda: l’arca non ha finestre affinché non si possa vedere il dolore altrui e la devastazione. Infatti, non si può vedere il dolore degli altri – per curiosità e tantomeno per goderne, nemmeno se il dolore colpisce uomini cruenti e malvagi – senza esserne segnati e devastati.

E infine l’arcobaleno, il solenne “segno del patto” (9,13) che Dio fa con la nuova umanità, che non sarà più sterminata da diluvi futuri: “Io pongo il mio arco nella nuvola e servirà di segno del patto fra me e la terra. Avverrà che quando avrò raccolto delle nuvole al di sopra della terra, l’arco apparirà nelle nuvole; io mi ricorderò del mio patto fra me e voi” (9,13-15). Dio depone la sua arma letale (l’arco), niente più guerre tra l’umanità e Dio e neppure in nome di Dio. La storia dell’umanità può ricominciare. La fine non sta davanti, ma alle spalle, quindi niente paura, si può vivere con responsabilità e con fedeltà a Dio. L’arco di guerra si trasforma nell’arco nel cielo (così letteralmente in francese), nell’arcobaleno che ancora oggi fa stupire grandi e piccoli e riempie di speranza, di gioia, di pace, e che con i suoi molti colori insegna che non è la diversità che deve essere temuta ma, anzi, che non c’è pace se non c’è rispetto della diversità.

*Già moderatore della Tavola Valdese

 

Mail Box

 

Una situazione politica che mi dà sconforto

Alla vigilia del varo del nuovo governo una mia riflessione. Mi soffermo su tre aspetti: primo, sull’uscita dignitosa di Conte che meriterebbe un po’ più di riconoscenza per la serietà e l’onestà che hanno contraddistinto il suo impegno nel governare l’Italia in uno dei periodi più drammatici della sua storia. Secondo, sull’assunzione di responsabilità di Draghi paragonabile al comandante di una nave che cambia rotta per soccorrere i naufraghi senza fare alcuna distinzione tra di loro nel portarli a bordo in una grande ammucchiata. Terzo, sullo sconfortante quadro della partitocrazia che ci comanda smentendo continuamente i suoi pseudo valori.

Lucio Debernardis

 

Quando gestirà i soldi, l’ex Bce non sarà “forte”

Ho un brutto presentimento: il presidente Draghi, grazie alla ricchezza che dovrà distribuire in Italia, facendo contenti un po’ tutti, non darà l’esempio auspicabile dell’uomo “forte” al potere necessario all’Italia, soprattutto un domani quando dovremo pagare l’ulteriore debito pubblico accumulato?

Riccardo Suriano

 

Il fiore del neo governo sarebbe Marianna Madia

A proposito del “governo dei Migliori”: non poteva mancare Marianna Madia sottosegretario. Quella che ha copiato parte della tesi di dottorato e che il discutibile istituto d’eccellenza dove l’ha discussa ha lasciato senza sanzioni. Visto che c’era, perché Draghi non ha nominato il Trota? La solita discriminazione sui titoli di studio dell’Est Europa.

Livio Giuliani

 

Serve una bussola per orientarsi nella crisi

Caro direttore, ottimo editoriale. Sono ancora incredulo di fronte a quanto avvenuto negli ultimi due mesi. La fanfara giornaliera di quasi tutti i media ci stordisce. Per fortuna che c’è il Fatto che ci impedisce di perdere definitivamente la bussola. Spero di trovare ogni giorno un richiamo al tuo bel riassunto dell’incredibile crisi di governo. Dobbiamo recuperare l’esperienza del Conte-2.

Ernesto

 

“Mario” ha pure il merito delle missioni spaziali

Ho ascoltato due sere fa il dott. Di Bella al Tg3 della notte, a proposito dell’arrivo sul suolo marziano del rover della Nasa, Perseverance. Il dottore è riuscito a dire che Perseverance è “la prima macchina umana ad arrivare su Marte” (ma le “macchine” su Marte non si contano più, le prime furono le sonde Viking a fine anni 70), e che si tratta di una missione congiunta Nasa–Esa (altra cosa non vera: l’Esa partecipa alla missione di recupero dei campioni selezionati da Perseverance, non alla missione Perseverance) in “pieno spirito atlantico” e nello “spirito del governo Draghi”, tutto nello sforzo di far rientrare persino una missione spaziale, programmata da anni e lanciata nel luglio scorso, nella “operazione restaurazione”.

Giuseppe Cacopardo

 

La riforma Bonafede poteva essere congelata?

Ciao Marco, da incompetente mi chiedo: non poteva il governo Conte fare così come ha fatto pochi giorni fa la ministra Cartabia? E cioè congelare o rimandare a tempi migliori la relazione Giustizia del ministro Bonafede sul tema prescrizione, evitando così il rischio di andare sotto nella conta?

Ivo Casagrande

 

Caro Ivo, la relazione non era rinviabile e non riguardava la prescrizione, ma lo stato della Giustizia. La Cartabia non ha rinviato la relazione, ma congelato gli emendamenti presentati apposta da Iv, FI e +Europa per affossare la riforma Bonafede e liberarsi di Conte.

M. Trav.

 

Avrei una domanda semplice per De Angelis

Direttore, a De Angelis direi: “Ci sei o ci fai”?

Giovanni Cavalieri

 

Entrambe le cose, temo.

M. Trav.

 

I NOSTRI ERRORI

A causa di un refuso, nel mio articolo di ieri “Perché è caduto Conte?”, c’era uno zero di troppo nel tasso di mortalità da Covid in Italia. Quindi rettifico: i 12 detenuti morti in un anno con o per Covid (su un totale di circa 100mila) sono lo 0,00012% della popolazione carceraria, contro i 95.223 (su un totale di 60 milioni) deceduti fuori dalle celle, che rappresentano lo 0,0015% della popolazione.

Quindi, in barba alla vulgata corrente, il rischio di morire di Covid è oltre 10 volte superiore per chi sta fuori che per chi sta dentro.

M. Trav.

Il teste di Deliveroo? Un finto rider: è un loro ex dirigente

Davanti al Tribunale di Bologna, chiamato per testimoniare a favore dell’app Deliveroo, A. C. si è presentato come un semplice rider. Uno che lavora ogni tanto, effettua giusto qualche consegna alla settimana, ma conosce colleghi più attivi in grado di guadagnare fino a 4.000 euro al mese. L’ennesima rappresentazione del fattorino felice della flessibilità e grato alle aziende che gliela offrono. La realtà, però, è parecchio diversa: a parlare con il giudice, infatti, era un imprenditore, titolare di una società di consegne che vanta proprio Deliveroo tra i suoi clienti. E soprattutto una persona che, prima di mettersi in proprio, ha avuto un ruolo importante all’interno della stessa multinazionale: per due anni responsabile delle risorse umane per l’area Nord e Centro Italia.

Questo colpo di teatro è avvenuto durante l’udienza del 29 gennaio. Il processo nel capoluogo emiliano è partito da un ricorso di tre sigle Cgil (Filt, Filcams e Nidil), che mirano a far invalidare il contratto firmato a metà settembre dall’Assodelivery col sindacato Ugl. Le condizioni di quell’accordo sono state imposte a tutti i rider dall’inizio di novembre, con la minaccia di “licenziare” chi non le avesse accettate. Per gli avvocati della Cgil – Piccinini, Mangione, Bidetti, De Marchis e Vacirca – è una condotta anti-sindacale, perché favorisce l’unica organizzazione compiacente e penalizza le più critiche. Poche settimane fa, dunque, Deliveroo ha portato un ragazzo di 32 anni davanti al magistrato di Bologna. Il legale Marco Sideri lo ha introdotto come uno dei tanti rider. Lui stesso si è definito così: “Sono un corriere in bicicletta e svolgo attività di rider quando voglio”. Solo un paio d’ore alla sera, ha aggiunto, ma ci sono anche settimane o mesi di inattività. A seguire, una sfilza di argomentazioni per le quali – a suo dire – i fattorini vanno considerati lavoratori autonomi puri. Immancabile il racconto di tutti quegli amici rider che, stando in sella per molte ore alla settimana, metterebbero in tasca guadagni da manager.

Una narrazione che ultimamente è emersa più volte sulla stampa, in genere veicolata dall’Ugl, ma è sempre stata smentita nel giro di poche ore, il tempo di un paio di verifiche o di un paio di calcoli. Sempre durante la deposizione, A. C. ha sostenuto che, dato il carattere saltuario del suo impegno, non si è mai interessato della modalità di determinazione dei compensi. Bizzarro poiché, nonostante abbia omesso di dirlo al giudice, il testimone ha alle spalle un lungo trascorso come “vice responsabile team operations per Deliveroo Italia”. Non è un segreto, ma un’esperienza riportata sul suo stesso profilo Linkedin. Tra le mansioni svolte si parla di “reclutamento, formazione, management, apertura del servizio in varie città italiane, gestione della flotta”. Nel 2018 ha poi fondato una società di corrieri, la Cdm, che indica sul suo sito ufficiale Deliveroo tra i maggiori clienti. Definisce la sua impresa “una realtà solida ed etica dove poter crescere e trasformare un lavoro che molti reputano un ‘lavoretto’ in qualcosa di concreto e stabile”.

In sostanza, Deliveroo ha spacciato per comune rider freelance un suo ex dipendente con importanti funzioni che poi è diventato proprietario di un’azienda con cui ha rapporti commerciali. La Cgil ha in questi giorni inviato una nota per contestare la bontà delle dichiarazioni rese al giudice. La piattaforma ha in parte corretto il tiro precisando che quel testimone “è stato dipendente della società per poi dimettersi e diventare un corriere”.

La guerra giudiziaria tra la Cgil e le aziende che consegnano cibo a domicilio prosegue. Il sindacato nel 2020 ha inanellato una serie di vittorie. Dieci giorni fa, a Firenze, il Tribunale ha invece ritenuto di non poter dichiarare la condotta anti-sindacale di Deliveroo perché i fattorini non sono inquadrati come dipendenti e, in quel tipo di causa, non ha voluto acquisire prove per far emergere la subordinazione di fatto. Nel frattempo, le app continuano a propagandare la figura mitologica del rider ricco e contento. Come tale si è presentato, due settimane fa alla Stampa, un presunto ex commercialista, salvo poi scoprire che in realtà era un sindacalista dell’Ugl nemmeno iscritto all’albo. Come tale si è presentato il testimone in Tribunale salvo poi scoprire che è un imprenditore e fornitore di Deliveroo. Avanti il prossimo.

Delegato accusato di abusi su hostess. “Così la Cisl coprì”

La Cisl “ha taciuto e coperto” un delegato accusato di molestie. Chi punta il dito contro il sindacato sono due donne, le stesse che hanno contribuito a portare alla luce la storia di R.M., quadro della Fit Cisl, qualche giorno fa rinviato a giudizio dal Tribunale di Busto Arsizio. Per lui l’accusa è di aver molestato una hostess che si era rivolta al sindacato per cercare tutela. L’avrebbe insidiata, palpeggiandola e baciandola, in un ufficio della Cisl di Malpensa nei primi mesi del 2018. Una molestia che secondo il racconto delle delegate, è stata solo l’ultima di una serie di “situazioni simili”. Una delegata che testimonierà al processo riferisce di esser stata palpeggiata durante un volo Roma-Milano; un’altra di aver ricevuto insulti e atteggiamenti macisti. Le sindacaliste però raccontano anche di una circostanza che risale a inizio 2018, quando R.M. insegue in un bagno una hostess norvegese per baciarla e palpeggiarla durante una pausa di una riunione ufficiale dell’European Transport Workers’ Federation (Etf) a Bruxelles. Episodio segnalato immediatamente dalla vittima ai vertici Cisl e Etf. Che, secondo i racconti, non fecero nulla. Il silenzio si è rotto solo col rinvio a giudizio di R.M.. È allora che alla Cisl sono corsi ai ripari: in un comunicato l’organizzazione si è detta all’oscuro di tutto, di non aver mai avuto alcun sentore e di aver sospeso il delegato non appena venuta a conoscenza della vicenda. Una ricostruzione smentita sia dalla vittima (“ho scritto a tutti in Cisl, anche al segretario Anna Maria Furlan, senza ottenere mai una risposta, un muro di gomma”), sia dalle due delegate (“Le voci sulle molestie di R.M. le conoscevamo tutte”), sia da alcuni documenti interni della Cisl che Il Fatto ha visionato.

In particolare, c’è una lettera inviata il 9 marzo 2018 dall’ex segretario generale della Fit-Cisl, Antonio Piras, al segretario Etf, Eduardo Chagas, nella quale Piras si diceva indignato per le molestie subite dalla delegata norvegese e assicurava che ciò che veniva definito dall’Etf “un incidente indesiderabile” fosse per lui e “una ragione sufficiente per chiedere a M.F. di dimettersi da tutte le cariche”. Aggiungeva anche che, “qualora la vittima avesse deciso di denunciare l’accaduto, era pronto ad appoggiarla e sostenerla”. “Peccato che poi non successe nulla”, si sfoga una delegata. Non solo. La hostess norvegese, una volta resasi conto che le assicurazioni dei sindacati italiani e internazionale erano state parole vuote, ha anche denunciato pubblicamente l’accaduto durante una riunione plenaria dell’Etf: “Davanti a una platea di deputati increduli, ha spiegato l’accaduto e raccontato come l’uomo fosse stato rimosso dalla Cisl dagli incarichi internazionali ma non da quelli nazionali”, riferiscono le due sindacaliste. La risposta dell’Etf? “Visto che non hai fatto una denuncia penale, non abbiamo potuto fare nulla…”. “Vanno accertate le eventuali tolleranze della struttura sindacale regionale”, attacca Dario Balotta, ex segretario della Fit Cisl Lombardia. Al Fatto l’ufficio stampa della Cisl spiega: “La segretaria generale Furlan, dopo aver ricevuto tre anni fa la lettera dell’avvocato che segnalava le presunte molestie denunciate da una lavoratrice (…) ha immediatamente chiesto alla nostra categoria di intervenire. La Fit Cisl Lombardia ha chiesto e ottenuto le dimissioni del delegato da ogni incarico sindacale. (…) Poi, dopo aver appreso dai giornali del rinvio a giudizio, la Fit Cisl nazionale lo ha sospeso anche come iscritto alla Cisl (…). Come sindacato condanniamo ogni fenomeno di violenza, molestia e mobbing nei confronti delle donne”.

“Più che modello green, Berlino si muove solo dietro input dei giudici”

Dopo 15 anni di procedura di infrazione, e dopo 29 di attuazione incompleta della direttiva del 1992 sulla conservazione dell’habitat naturale di flora e fauna, la Commissione europea giovedì ha deciso di deferire la Germania alla Corte di giustizia europea. Il ritardo accumulato è troppo. I punti deboli sono due: non tutte le aree da proteggere sono state dichiarate protette e mancano piani e obiettivi di conservazione abbastanza chiari e misurabili in buona parte delle zone già protette, in totale 4.606. In cosa consiste la violazione e come è potuto accadere che un Paese considerato modello di tutela ambientale possa finire davanti alla Corte Ue per una violazione simile? Secondo l’eurodeputata tedesca del gruppo dei Verdi, Jutta Paulus, che a Bruxelles si occupa di questi temi, “la direttiva prevede alcuni obblighi: quali habitat devono essere protetti, quali specie, quale biodiversità deve essere mantenuta. La Germania è in ritardo con la designazione di queste aree protette in parte perché la protezione dell’ambiente è di competenza dei Laender, cioè non sono decisioni che prende il governo di Berlino, e in parte per mancanza di personale. Facciamo uscire molti soldi per le strade e le infrastrutture, ma non altrettanti per la protezione dell’ambiente”.

Cos’è che manca? Ci faccia un esempio.

Ieri ero in giro sul Lahn, un piccolo affluente del Reno. Lì c’è un’area protetta riconosciuta, la Lahnhaenge, ma non c’è nessun piano di cosa debba essere protetto, quali specie è bene proteggere, cos’è permesso e cosa è vietato, quanto è ricca la popolazione delle specie presenti, cosa si deve fare per conservarle e chi lo deve fare. Insomma, c’è un’area protetta ma manca il piano per conservare l’habitat di flora e fauna. Questa è una parte di ciò che ha contestato la commissione, l’altra parte è che non vengono dichiarate come aree protette quelle che invece dovrebbero esserlo. All’Agenzia europea per l’Ambiente si raccolgono dati da tutti gli uffici per la protezione dell’ambiente in Ue, ma anche dalle associazioni non governative. Quindi Bruxelles sa quali specie vengono e da dove. Di conseguenza la Commissione Ue è al corrente di specie rare che magari provengono da aree non protette.

Chi è responsabile di questa situazione? Un portavoce del ministero dell’Ambiente tedesco ha ribadito venerdì che Berlino ‘si trova nel ruolo del postino che trasmette il procedimento, perché la competenza è dei Laender. È giusto che il governo federale risponda in questo modo?

Naturalmente no. Non può essere un problema della Commissione Ue che la Germania non riesce a organizzarsi. Per esempio nel mio Land, in Renania Palatinato, doveva essere costruita un’autostrada e al livello regionale si era deciso di farla a 4 corsie per limitare l’impatto ambientale. Poi è intervenuta Berlino, che ha detto: ‘No, dovete fare 6 corsie’. Perché allora il governo federale non dovrebbe dire ai Lander: ‘Ora dovete applicare in modo giusto le direttive su flora e fauna’? Dire che si è solo ‘postini’ è minimizzare la faccenda, è come dire che non si è responsabili. Ma la legge prevede che i Laender siano obbligati a rispettare i loro doveri, non ci si può nascondere. Ci sono poi anche le aree protette di competenza del governo, come la superficie marina. Anche in queste non funziona tutto molto bene.

Ci sono 14 procedimenti di infrazione in Europa contro la Germania in ambito di politica ambientale e tre si sono aggiunti negli ultimi due anni. Come è potuto accadere?

Buona domanda. È tipico che il governo tedesco dica ‘siamo straordinari nella protezione dell’ambiente, facciamo molto più del necessario’, ma la realtà è diversa. A molti procedimenti, soprattutto quelli che riguardano la salubrità dell’aria – vedi lo scandalo diesel o l’ossido di azoto – siamo arrivati solo perché il governo non ha fatto rispettare l’applicazione dei limiti-soglia. Si è detto piuttosto: ‘d’accordo le nostre centraline di misurazione registrano valori sopra la norma ma finché nessuno fa causa, si va avanti’. Così non può essere. In molte città, dove i valori erano sopra la norma, l’Ong Umwelthilfe ha fatto causa dicendo che non si rispettavano i limiti e le città non facevano niente per evitarlo. Ma non può essere che una Ong debba fare causa perché una legge sia applicata. Questo è compito del governo.

Per noi è strano che questo accada in un Paese che ha uno dei partiti ambientalisti più forti d’Europa. Cambieranno le cose quando i Verdi saranno al governo?

Lo spero fortemente! Non siamo più al governo da 15 anni. Se ci fosse stato un esponente dei Verdi al ministero dell’Ambiente, credo che saremmo stati un po’ più avanti e non ci sarebbero stati tutti questi procedimenti di infrazione.

Vaccinogate: ai politici le dosi per i test clinici

Non solo il Brasile con il suo vaccino per vip delle cliniche private. In una America Latina in crisi nera per la pandemia e alle prese con il vaccino che non arriva, anche in Perù un’inchiesta già definita “vaccinogate” scopre centinaia di personalità influenti già immunizzate di nascosto con dosi di Sinopharm, il siero cinese. Si tratta per lo più di politici dell’intero arco costituzionale: dal presidente deposto a novembre, Martin Vizcarra e i suoi ministri e familiari, al medico dell’ex presidente Alberto Fujimori, passando per il nunzio apostolico a Lima, fino ad alti funzionari che sono immuni in realtà già da settembre, vale a dire dall’immissione sul mercato del vaccino da parte della casa farmaceutica cinese. Uno scandalo apertosi qualche giorno fa, alla notizia trapelata da ambienti dell’attuale amministrazione, della vaccinazione di Vizcarra e sua moglie. A questa ha fatto poi seguito, nel giro di poche ore, quella dell’immunizzazione della ministra della Giustizia, Elisabeth Astete, dimessasi per aver nascosto di essersi vaccinata, al presidente ad interim, Francisco Sagasti.

Nessuno, una settimana fa, avrebbe potuto immaginare che si trattasse solo della punta dell’iceberg e che il vaccinogate avrebbe toccato quasi tutti i politici, come spesso accade in Perù. All’elenco – 460 persone in tutto – si sono aggiunti i nomi di Pilar Mazzetti, ministra della Salute: anche lei ha lasciato subito l’incarico venerdì. Dopo di lei, è toccato al nunzio apostolico, Nicola Girasoli, essere sbugiardato; poi è uscito il caso del marito di una deputata, quello della scorta dell’ex ministra Mazzetti; il fratello dell’ex presidente Vizcarra; i rettori dell’Università San Marco e Cayetano Heredia; per non parlare dei familiari dei medici che partecipavano alla sperimentazione; più i ricercatori. Di fronte a queste notizie, il Congresso dei deputati, martedì, ha nominato una commissione d’inchiesta per determinare le responsabilità delle vaccinazioni estranee al Piano nazionale, nonché alle sperimentazioni cliniche internazionali. Mentre i vaccini finora non sono arrivati neanche ai medici che combattono il Covid in prima linea. Un disastro il vaccinogate anche a livello comunicativo, in un Paese che conta 310 medici tra le vittime della pandemia, un fabbisogno giornaliero di 110 tonnellate di ossigeno e posti letti insufficienti ad affrontare la crisi sanitaria. In più, ora anche la reputazione degli scienziati è in dubbio, con molti di loro che esigono le dimissioni dei rettori che hanno realizzato test clinici di Sinopharm senza l’autorizzazione dell’Ema. Dal marzo scorso, in Perù, uno dei Paesi al mondo con maggiore incidenza di vittime di Covid, i morti sono stati 90 mila, secondo il conteggio statale, necessariamente sottostimato, visto che almeno fino all’estate inoltrata, molti peruviani non sono riusciti neanche a raggiungere gli ospedali. E la strada per il vaccino non è facile: ufficialmente il Paese ha ricevuto il primo lotto di 300 mila dosi del siero cinese il 7 febbraio, ma ai politici e alle personalità di cui sopra sono stati iniettati sieri dal lotto di 3.200 dosi arrivato a settembre sotto richiesta del capo ricercatore che si occupava dei test sul vaccino cinese. Un lotto destinato alla sperimentazione, dunque, che invece per metà è stato regalato ai cittadini di serie A.

La bugia più grande è proprio quella dell’ex ministra della Salute, Mazzetti, che in coda per il vaccino a febbraio – avendolo già ricevuto – ha dichiarato: “Teoricamente dovrei farlo la settimana prossima, ma il capitano non è sempre l’ultimo ad abbandonare la nave?”, lasciando intendere di immolarsi per il popolo. Ora a preoccupare sono le ripercussioni politiche del vaccinogate. Sagasti, il presidente ad interim che deve traghettare il Paese alle urne dell’11 aprile, è più debole che mai, debolezza che si somma alla crisi sanitaria che già di per sé potrebbe non attrarre al voto molti elettori, stanchi dell’eterna corruzione dei politici.

Libia: armi da Prince, amico di Trump

L’ex responsabile per la sicurezza della Blackwater, un sostenitore e finanziatore di Donald Trump, violò nel 2019 l’embargo dell’Onu in Libia inviando armi alle milizie del generale Khalifa Haftar, che stavano in quel momento attaccando Tripoli e cercando di fare cadere il governo libico guidato dal premier Fayez al Sarraj, formalmente sostenuto dalla comunità internazionale. Lo indica un rapporto confidenziale delle Nazioni Unite, di cui danno notizia il New York Times e il Washington Post. Erik Prince, ex Navy Seal, rampollo di una ricca famiglia, fondò la Blackwater, oggi Academi, nel 1997: la compagnia, che ha sede in Virginia, è una delle più importanti aziende militari private al mondo. Ebbe discussi ruoli di primo piano come security contractor in Iraq, divenendo simbolo degli eccessi di privatizzazione della difesa Usa quando suoi uomini, nel 2007, uccisero 17 civili iracheni. Prince è fratello di Betsy DeVos, che, come ministro dell’Istruzione di Trump, ha privilegiato le scuole private su quelle pubbliche, salvo dimettersi dopo l’assalto al Congresso sobillato dal magnate il 6 gennaio. Secondo l’indagine dell’Onu, nel giugno 2019, Prince spiegò unità di mercenari nell’Est della Libia, ponendole sotto il controllo di Haftar. Le dotò di aerei d’attacco, droni, elicotteri, battelli gonfiabili e di capacità di condurre cyber-operazioni. Un commando doveva individuare, seguire e colpire comandanti e personalità di spicco del governo di Accordo nazionale libico, civili e militari. L’operazione sarebbe costata 80 milioni di dollari. Non è chiaro chi abbia pagato ed eventualmente per conto di chi, ma Haftar gode dell’appoggio militare e finanziario di Egitto, Russia ed Emirati arabi uniti. A un certo punto, le autorità giordane si sarebbero frapposte all’operazione, bloccando un lotto d’armamenti destinato alla Libia. Nell’ambito dell’inchiesta, gli agenti dell’Onu volevano sentire Prince, per chiedergli conto di almeno due telefonate a funzionari ed esponenti giordani, fatte per sbloccare la partita di armi, ma Prince non s’è prestato. In una dichiarazione al Nyt, un suo avvocato ebbe a dire che Prince “non ha mai avuto nulla a che fare” con operazioni militari in Libia. Negli ultimi anni, l’imprenditore s’è riciclato come mediatore d’affari internazionale, specie nel settore dei minerali, ma anche delle armi, facendo affari soprattutto in Africa, in Paesi dilaniati da conflitti, ma ricchi di materie prime. Negli Usa, d’intesa con personaggi come Steve Bannon e Roger Stone, s’è molto dato da fare per “proteggere” Trump dai suoi critici. Era pure finito nell’inchiesta sul Russiagate, per i suoi contatti nel 2017 con un banchiere russo. L’accusa di avere violato l’embargo sulle armi alla Libia espone Prince a sanzioni dell’Onu, che possono includere limitazioni ai suoi spostamenti internazionali e il blocco di conti e beni. Ma l’indagine apre uno spiraglio su traffici di armi nel Medio Oriente che Biden intende frenare.

“Monicelli mi detestava. Il palco mi ha reso leader. E non chiamatemi artista”

Il timbro di voce, i vocaboli, i neologismi; e poi una calma e un’educazione perfetti per avvolgere il tutto da una pellicola di saggezza, quasi ieratica, ma senza perdere il gusto dell’incertezza e della sorpresa di chi artista è, anche se nega qualunque cornice (“Chi si definisce tale è un po’ cretino”).

Eppure Shel Shapiro è icona da quasi sessant’anni, pari a cinque Papi, 9 presidenti della Repubblica, mentre i governi non fanno classifica; lui è un incrocio, o una sintesi di culture, paesi, religioni, esperienze: dal Portogallo dove nel 1500 ha origine parte della sua famiglia, per passare dalla Russia degli zar (“mio nonno suonava nella banda”), fino all’Inghilterra dei Beatles, e finalmente l’Italia.

Ha visto, vissuto, ragionato. E ora esce con un nuovo singolo, Non dipende da Dio, un prossimo album di inediti e soprattutto l’obiettivo di tornare su un palco (“non ne posso più, è una necessità mentale”).

Quante lingue parla?

Benissimo l’inglese, benissimo l’italiano nonostante una leggera inflessione straniera, un po’ di francese, una volta anche lo spagnolo.

Una sua immagine legata agli anni Sessanta…

(Sospira, riflette) Probabilmente una foto legata al Piper di Roma: quel luogo è stato molto importante, decisivo, ma oggi ho qualche difficoltà nel ricordare com’era e com’ero.

Spesso insulta chi le chiede di quel periodo…

(Ride) È vero e in realtà la memoria c’è, ma non me ne frega nulla: è come se uno mi domandasse di quando avevo sei anni e magari ho litigato con un compagno di classe per una macchinina; (pausa) è un’altra vita, un’epoca molto lontana.

Allora derubrichiamo anche il suo incontro con Gene Vincent?

In qualche modo mi ha insegnato gli atteggiamenti della rockstar: a vestire di pelle nera con le borchie, a mandare a quel paese chiunque non si adeguasse alle tue richieste, ma in assoluto non lo ritengo un modello di vita, su di me non ha influito più di tanto; però il suo Be-bop-a-Lula resta fondamentale per la musica di quegli anni.

Quando ha capito di essere un artista?

Ora rischio di apparire umile, e non voglio…

Quindi?

Non credo ci sia un momento in particolare, e chi si definisce da solo come tale esprime solo cagate; in realtà solo oggi, con tutti questi anni che mi porto sulle spalle, mi rendo conto di aver realizzato qualcosa di valore e in alcuni momenti specifici. Ma sono momenti, non un’esistenza intera;( ci pensa ) è come la felicità: micro secondi all’interno della vita intera.

Low profile.

Chi si dichiara “artista” lo trovo presuntuoso e fuori tempo massimo.

Molti suoi colleghi non sarebbero d’accordo, amano quella definizione.

Sì, ho capito. E aggiungo: chi se ne frega; uno non si può riempire la bocca con quel termine, ma riempire il cuore con delle emozioni.

Negli anni Sessanta è mai stato contestato?

Al Cantagiro sono arrivati a tirare le buste piene di merda, ma non a noi; comunque era un esercizio di democrazia, poi quegli episodi vennero strumentalizzati, da perfetta tradizione della politica italiana.

Le buste piene, democrazia?

Se per questo anche i sassi o qualunque altro oggetto a disposizione, ma certi gesti erano compiuti quasi sempre da piccoli criminali; è la politica poi ad averci ricamato.

Lei vota?

Sempre, lo considero un gesto necessarissimo, come è necessarissimo capire per chi, evitando il più possibile atteggiamenti di pancia.

In questi anni quale politico l’ha emozionata?

È una domanda difficile, perché un politico non deve emozionare, ma rispondere ad alcuni pensieri; (pausa) in Enrico Letta ho trovato qualcosa, e in una situazione così grave nessun premier degli ultimi 30 anni si sarebbe comportato meglio di Giuseppe Conte.

Ha dichiarato: “A volte ho sentito il mondo nel mio pugno”.

Davvero? Nell’immediato non ho mai avuto alcuna percezione del potere, solo successivamente mi sono reso conto di come venivo considerato e in quale situazione mi trovavo; (silenzio) forse solo in un paio di occasioni, e al tempo dei Rokes, percezione e realtà hanno coinciso, soprattutto quando generali, sindaci, carabinieri ci venivano a omaggiare; però nella mia testa quelli non rappresentavano il potere, ma solo figure istituzionali.

Nel 1967 cantava Bisogna saper perdere

Portata a Sanremo, un Festival particolare, con il suicidio di Luigi (Tenco, ndr).

Come lo ha vissuto?

Come una violenza: tutti in teoria parlavano di rimandare, io non volevo rinunciare a una situazione per la quale avevo lavorato degli anni; non volevo rinunciare a 28 milioni di spettatori.

Eravate in coppia con Lucio Dalla. Lui era sconvolto.

Ognuno di noi era colpito, non si può ignorare una situazione così tragica, ma dal giorno dopo il suicidio ho visto molti colleghi piangere solo quando si accorgevano della telecamera accesa.

A 78 anni è un bell’uomo. Quando si guarda, cosa pensa?

Che avrei potuto arrivarci meglio; davanti allo specchio cerco di vedere la realtà, e per riuscirci è fondamentale non dimenticare la propria età, guardare le rughe e magari attenuarle, non mascherarle…

Come?

Non lo so.

Molti suoi colleghi del tempo sono stati gabbati da discografici o pseudo affaristi. Lei?

Se i lestofanti offrono è perché tu in qualche modo hai permesso che accadesse; io non ho mai avuto la percezione di gente che si arricchiva alle mie spalle, ma questo atteggiamento predatorio è arrivato più verso la fine degli anni Settanta, primi Ottanta, quando la musica si è trasformata in un business clamoroso; nei Sessanta era ancora innocente.

Da musicista, come si considera?

Non un grande, ma quando mi concentro e trovo l’energia riesco ancora a tenere testa; (ci ripensa) non ho questa sensazione di auto stima, auto vantazione, però sono molto rigoroso con me stesso, sono capace di buttare via l’80 per cento dei brani che scrivo e in alcuni secondi posso toccare la genialità. Ma sono secondi, niente di costante.

Con un genio ha recitato da giovanissimo: Totò.

È vero, eppure non sono stato in grado di comprendere la sua portata, e come me anche tutto il mondo del cinema e del giornalismo; (sorride) ci incontravamo la mattina sul set, era già quasi cieco, in perenne difficoltà con se stesso riusciva a vedere delle ombre e solo quando accendevano i fari della macchina da presa. Per il resto nulla. Recitava e si isolava…

È andata peggio con Brancaleone alle crociate

Stavo palesemente sulle palle a Monicelli e Gassman e durante le riprese più e più volte mi sono chiesto il perché mi avessero preso…

Risposta?

Allora il mio ufficio stampa era Gianni Minà e credo sia stato lui a coinvolgermi; ( ride) solo verso la fine delle riprese Monicelli ha leggermente cambiato il suo atteggiamento, tanto da impedire il mio doppiaggio: “No, lasciate così: secondo me nell’anno Mille parlavano tutti come lui”; e poi quel set fu complicatissimo: la notte suonavo sulla Riviera romagnola, poi salivo in auto e, a seconda di dove si girava, li raggiungevo sul lago di Bracciano o nella campagna senese; però legai molto con Villaggio, con lui ridevo tanto, diventammo amici.

Come amica aveva Mia Martini…

Le ho prodotto un disco in un suo momento complicato, quando le maldicenze avevano preso spazio sostanziale nella sua vita; lei aveva bisogno di tornare a vivere, e credo di averla aiutata, e in quel periodo era diventata importante non solo per me: mia figlia la chiamava zia; (cambia tono) le cattiverie su di lei erano talmente forti da attaccarsi pure a chi le stava vicino, così un paio di persone iniziarono a sostenere che anche io portassi sfiga.

Come si difese?

Minacciai azioni legali.

Ha prodotto Rino Gaetano.

Grande talento e grande capacità di sintesi: riusciva a condensare i messaggi e renderli visibili in dieci parole o dieci note musicali (e cita una lunga serie di titoli di brani), ma l’ho frequentato poco.

A Roma ha vissuto in un palazzo “variopinto”…

(Ride) In un piano c’erano Franco Califano e Gigi Rizzi, sopra Renzo Arbore, poi Mita Medici, Enzo Maiorca e all’ultimo una escort, considerata una delle donne più belle di Roma, credo prendesse un milione a sera, ma non l’ho mai incontrata, ne conoscevo solo la leggenda; ora che ci penso quasi nessuno di noi si vedeva, non organizzavamo cene o altro, eravamo tutti molto impegnati con i nostri lavori, e poi allora ero fidanzato con Mita, poi si è messa con Franco.

Mannaggia a Califano…

Un uomo di grande spessore popolare, con una rara sensibilità e valore etico e sociale.

Che padre è ed è stato?

Non credo di essere un genitore esemplare, ma quando ci sono stato gli ho dato molta attenzione, e oggi tutti e tre mi vogliono bene…

Un suo “no”.

Al massimo per gli orari di rientrata, ma ho puntato su un’educazione molto permissiva e a rischio mio e loro; da sempre credo sia meglio affrontare le conseguenze delle proprie azioni.

A cosa è sopravvissuto?

A situazioni di grande drammaticità familiare (Maria Lina Carreri, ex moglie, si è suicidata nel 1992); poi allo scioglimento dei Rokes; all’idea di andare a vivere dieci anni negli Stati Uniti; e alla necessità di non voler essere omologato, e questo ultimo punto non è semplice: uno non può limitarsi a dei semplici “no”, deve anche contestualmente avere un piano B, altrimenti diventi un idiota…

E non è mai diventato un “matusa”, come cantava.

Allora neanche conoscevo il significato di quel termine.

Ha dichiarato: “Sono un killer mancato”.

Perché nel cinema mi offrono solo ruoli da santone, come in Brancaleone, mentre avrei voluto radermi la testa a zero e tramutarmi in un serial killer.

A scuola era un leader?

No, quello lo sono diventato sul palco e con la chitarra in mano; a scuola ero un bambino bravino con il desiderio di diventare medico, poi ho cantato con degli amici in sinagoga e lì si è aperto uno squarcio nel mio cielo emotivo, un processo interiore, di pura energia mentale.

Suo nonno era nella banda dello Zar…

Sì, ma a quel tempo non ti ingegni in certi meccanismi per dare un significato a ciò che accade. Vivi. Più in là, con gli anni, ho collegato mio nonno alla mia passione.

Oltre al nonno, ha altri legami con la grande madre Russia?

Ne ho di maggiori con la grande madre ebraica: scrivo canzoni spesso e volentieri in mi minore, e la musica ebraica ha una linea melodica simile, ed è un lascito più legato alla famiglia paterna che materna; mia madre non era ebrea, si è convertita per il matrimonio.

Ha mai giocato alla lotteria?

(Stupito) Certo! Per mesi e sempre la stessa combinazione.

Come avrebbe impiegato la vincita?

Una casa su un’isola ai Caraibi.

Non originale.

Il mio sogno da “lotteria” era quello di non combattere più.

Prega?

No.

Mai?

Solo da ragazzino, era parte della nostra cultura.

Ultima canna.

Circa cinque anni fa, e solo perché mi è passata sotto il naso.

Ma…

Oggi mi rilassano o eccitano altre cose: scendere per strada, tornare sul palco, parlare con voi.

Chi è lei?

Credo di essere, spero di essere uno che sta imparando a crescere come artista. Ed è una dura battaglia.

 

“Racconto una generazione di outsider come me”

Come Chloé Zhao nessuna mai. Classe 1982, natali a Pechino, studi londinesi, apprendistato tra Los Angeles e New York, con il suo terzo film, Nomadland, ha vinto il Leone d’Oro all’ultima Mostra di Venezia, ha quattro nomination ai Golden Globes (premiazione il 1° marzo), cinque agli Spirit Awards e il 15 marzo ne prenota ancor più per i 94esimi Oscar. Se il 2020 gli è stato amico, quest’anno rischia l’apoteosi: dopo Nomadland, il cui budget oscilla tra i quattro e sei milioni di dollari, porterà in sala Gli Eterni, l’atteso Marvel movie da duecento milioni di sola produzione. Un colpo al cerchio autoriale, uno alla botte blockbuster, con spirito doroteo: “Idealmente mi piacerebbe fossero lo stesso cinema, del resto, una volta a vincere l’Oscar era un film apprezzato dal grande pubblico. Spero si possa ritrovare quell’equilibrio”. Ovvero, che possa scrivere il proprio nome in una storia, quella dell’Academy Award per la regia, fin qui proibitiva per le donne: l’apripista in cinquina fu Lina Wertmüller nel 1977 con Pasqualino Settebellezze, poi Jane Campion, Sofia Coppola, Kathryn Bigelow, l’unica a vincere nel 2010 con The Hurt Locker, e Greta Gerwig. Probabilmente il prossimo 25 aprile lo contenderà alla Regina King di One Night in Miami, senza alcun stupore: ancora nemmeno quarantenne, Zhao ha imparato presto a essere grande. Anche nell’autopromozione camuffata da understatement: al Lido mandò un video di ringraziamento con indosso, al pari della protagonista Frances McDormand che fortissimamente l’aveva voluta dietro la macchina da presa, un paio di Birkenstock, ora per l’ultimo miglio della corsa agli Academy Awards si professa “outsider, mi sento così ovunque, pertanto mi sono naturalmente identificata con i protagonisti di Nomadland. Ho dedicato agli outsider i miei tre lungometraggi, sono cresciuta in una nazione dove erano tutti come me, qui sono una asian american, ma rimango cinese”.

Tratto dal saggio omonimo di Jessica Bruder, il dramma segue la sessantunenne Fern che, dopo aver perso il marito e la città mineraria di residenza, prende il furgone e on the road trova l’amicizia di altri nomadi, veri come May, Swankie e Bob Wells, quella speciale di Dave (David Strathairn) e la corrispondenza della “natura, mentre lei si evolve; nelle terre selvagge, nelle rocce, negli alberi, nelle stelle, in un uragano. È qui che trova la propria indipendenza”. Co-presentato da Venezia e Toronto, per dire della vocazione universale di Chloé, Nomadland negli States è uscito il 19 febbraio sul grande schermo e su Hulu, da noi attenderà la riapertura dei cinema, nel frattempo veicola un women’s empowerment perfetto per i premi: “Il mio non è femminismo programmatico né impositivo, dico solo che per un uomo di quella generazione vivere in caravan può dare problemi di orgoglio, alle donne no, non gliene frega nulla, hanno più risorse. Eppure, non inquadro un genere, ma una generazione, e come la trattiamo”. Bacchettato il governo che “non sostiene i film arthouse né le sale colpite dalla pandemia: un disastro da scongiurare al più presto”, Zhao dà fiducia al neo presidente Joe Biden: “Difficile cambiare il sistema legato a logiche di contrapposizione partitica, ma sono speranzosa: Biden è un lavoratore e un servitore dello Stato, confido porterà chiarezza”. Lodi anche per il nostro Ludovico Einaudi, che provvede alle musiche: “Si ispira alla natura, era perfetto: la sua Elegy for the Arctic, ascoltatela!”.

 

Le “Sister act” piacciono più di Taylor Swift: dal Sussex le Clarisse scalano le classifiche

Il pop è cannibale e vampiro per sua natura, per proseguire necessita di sangue fresco di cui servirsi. Lo dimostrano i casi di album ispirati alla musica classica già negli anni Ottanta (Rondò veneziano si tutti) o i canti gregoriani con beat dance oppure i canti gospel usciti dal ghetto dell’r’n’b e trasformati in evergreen (Oh Happy Day). Quello che ancora mancava era un coro fondato nel 1253 da Santa Chiara di Assisi e San Francesco con il vizietto di cantare.

Le Clarisse di Arundel sono ben ventitré suore che vivono, lavorano e pregano in un piccolo convento nel Sussex, nei pressi di Arundel. Le sedici tracce – più altre sette nella versione deluxe composte essenzialmente da remix chill out – sono scarnificate per far emergere la forza del coro, con piccoli innesti di musica elettronica e classica. Siamo lontani anni luce dalle marchette a cui il pop ci ha abituato in questo senso, una delle più celebri è stata Sadness degli Enigma. Qui siamo in una forma sublimata e genuina di preghiere e canti di un ordine di clausura.

La sorpresa è che tutto questo è iperbolicamente volato nelle classifiche del Regno Unito scalzando mostri sacri quali Taylor Swift e The Weeknd. Mai un coro di suore era riuscito in una simile impresa. “Realizzare la registrazione è stata una grande avventura – commenta Suor Gabriel – siamo rimaste colpite dall’apertura e dal rispetto che la prestigiosa e autorevole etichetta discografica Decca ha mostrato nel comprendere le nostre paure e insicurezze nel rendere pubblici i nostri canti e il nostro lavoro. Troviamo una gioia profonda nel cantare e ora speriamo che la nostra musica raggiunga molte vite, portando pace, amore e un senso di benessere a tutti coloro che ascoltano”. Tutto quello che si ascolta nell’album è pratica quotidiana per le suore, la loro personale forma di meditazione e di invocazione alla pace. Sono inni sacri e testi medievali, laudi di Santa Chiara e San Francesco.

Light of the World è stato pubblicato alla fine dello scorso anno in Inghilterra raggiungendo la vetta della classifica di musica classica e, grazie al digitale, è diventato un successo pop; il cd nel nostro paese uscirà il 26 febbraio. Suor Gabriel ci tiene a specificare come questo album è nato con principi di condivisione, soprattutto per aiutare le persone in un momento così difficile: “Quando ascolterete Light for the World a casa, magari in un momento di stanchezza, di noia, di ansia o se vi sentirete depressi, sappiate che da qualche parte nel Sussex dell’Ovest c’è una comunità di donne che sono con voi”.

Il progetto avrà un nuovo slancio in occasione della Giornata mondiale del sonno il 18 marzo, con la pubblicazione di altre due versioni digitali. La prima è un Ep con quattro remix e la seconda è una variazione speciale della durata di otto ore, con i capitoli Vespera, Nocte, Aurora e Lux che seguono i percorsi del sonno. E per spazzare via l’insinuazione di lucrare sul sacro si apprende che tutti i proventi saranno donati a enti di beneficenza indicati dalle Clarisse. Chapeau.