Il timbro di voce, i vocaboli, i neologismi; e poi una calma e un’educazione perfetti per avvolgere il tutto da una pellicola di saggezza, quasi ieratica, ma senza perdere il gusto dell’incertezza e della sorpresa di chi artista è, anche se nega qualunque cornice (“Chi si definisce tale è un po’ cretino”).
Eppure Shel Shapiro è icona da quasi sessant’anni, pari a cinque Papi, 9 presidenti della Repubblica, mentre i governi non fanno classifica; lui è un incrocio, o una sintesi di culture, paesi, religioni, esperienze: dal Portogallo dove nel 1500 ha origine parte della sua famiglia, per passare dalla Russia degli zar (“mio nonno suonava nella banda”), fino all’Inghilterra dei Beatles, e finalmente l’Italia.
Ha visto, vissuto, ragionato. E ora esce con un nuovo singolo, Non dipende da Dio, un prossimo album di inediti e soprattutto l’obiettivo di tornare su un palco (“non ne posso più, è una necessità mentale”).
Quante lingue parla?
Benissimo l’inglese, benissimo l’italiano nonostante una leggera inflessione straniera, un po’ di francese, una volta anche lo spagnolo.
Una sua immagine legata agli anni Sessanta…
(Sospira, riflette) Probabilmente una foto legata al Piper di Roma: quel luogo è stato molto importante, decisivo, ma oggi ho qualche difficoltà nel ricordare com’era e com’ero.
Spesso insulta chi le chiede di quel periodo…
(Ride) È vero e in realtà la memoria c’è, ma non me ne frega nulla: è come se uno mi domandasse di quando avevo sei anni e magari ho litigato con un compagno di classe per una macchinina; (pausa) è un’altra vita, un’epoca molto lontana.
Allora derubrichiamo anche il suo incontro con Gene Vincent?
In qualche modo mi ha insegnato gli atteggiamenti della rockstar: a vestire di pelle nera con le borchie, a mandare a quel paese chiunque non si adeguasse alle tue richieste, ma in assoluto non lo ritengo un modello di vita, su di me non ha influito più di tanto; però il suo Be-bop-a-Lula resta fondamentale per la musica di quegli anni.
Quando ha capito di essere un artista?
Ora rischio di apparire umile, e non voglio…
Quindi?
Non credo ci sia un momento in particolare, e chi si definisce da solo come tale esprime solo cagate; in realtà solo oggi, con tutti questi anni che mi porto sulle spalle, mi rendo conto di aver realizzato qualcosa di valore e in alcuni momenti specifici. Ma sono momenti, non un’esistenza intera;( ci pensa ) è come la felicità: micro secondi all’interno della vita intera.
Low profile.
Chi si dichiara “artista” lo trovo presuntuoso e fuori tempo massimo.
Molti suoi colleghi non sarebbero d’accordo, amano quella definizione.
Sì, ho capito. E aggiungo: chi se ne frega; uno non si può riempire la bocca con quel termine, ma riempire il cuore con delle emozioni.
Negli anni Sessanta è mai stato contestato?
Al Cantagiro sono arrivati a tirare le buste piene di merda, ma non a noi; comunque era un esercizio di democrazia, poi quegli episodi vennero strumentalizzati, da perfetta tradizione della politica italiana.
Le buste piene, democrazia?
Se per questo anche i sassi o qualunque altro oggetto a disposizione, ma certi gesti erano compiuti quasi sempre da piccoli criminali; è la politica poi ad averci ricamato.
Lei vota?
Sempre, lo considero un gesto necessarissimo, come è necessarissimo capire per chi, evitando il più possibile atteggiamenti di pancia.
In questi anni quale politico l’ha emozionata?
È una domanda difficile, perché un politico non deve emozionare, ma rispondere ad alcuni pensieri; (pausa) in Enrico Letta ho trovato qualcosa, e in una situazione così grave nessun premier degli ultimi 30 anni si sarebbe comportato meglio di Giuseppe Conte.
Ha dichiarato: “A volte ho sentito il mondo nel mio pugno”.
Davvero? Nell’immediato non ho mai avuto alcuna percezione del potere, solo successivamente mi sono reso conto di come venivo considerato e in quale situazione mi trovavo; (silenzio) forse solo in un paio di occasioni, e al tempo dei Rokes, percezione e realtà hanno coinciso, soprattutto quando generali, sindaci, carabinieri ci venivano a omaggiare; però nella mia testa quelli non rappresentavano il potere, ma solo figure istituzionali.
Nel 1967 cantava Bisogna saper perdere…
Portata a Sanremo, un Festival particolare, con il suicidio di Luigi (Tenco, ndr).
Come lo ha vissuto?
Come una violenza: tutti in teoria parlavano di rimandare, io non volevo rinunciare a una situazione per la quale avevo lavorato degli anni; non volevo rinunciare a 28 milioni di spettatori.
Eravate in coppia con Lucio Dalla. Lui era sconvolto.
Ognuno di noi era colpito, non si può ignorare una situazione così tragica, ma dal giorno dopo il suicidio ho visto molti colleghi piangere solo quando si accorgevano della telecamera accesa.
A 78 anni è un bell’uomo. Quando si guarda, cosa pensa?
Che avrei potuto arrivarci meglio; davanti allo specchio cerco di vedere la realtà, e per riuscirci è fondamentale non dimenticare la propria età, guardare le rughe e magari attenuarle, non mascherarle…
Come?
Non lo so.
Molti suoi colleghi del tempo sono stati gabbati da discografici o pseudo affaristi. Lei?
Se i lestofanti offrono è perché tu in qualche modo hai permesso che accadesse; io non ho mai avuto la percezione di gente che si arricchiva alle mie spalle, ma questo atteggiamento predatorio è arrivato più verso la fine degli anni Settanta, primi Ottanta, quando la musica si è trasformata in un business clamoroso; nei Sessanta era ancora innocente.
Da musicista, come si considera?
Non un grande, ma quando mi concentro e trovo l’energia riesco ancora a tenere testa; (ci ripensa) non ho questa sensazione di auto stima, auto vantazione, però sono molto rigoroso con me stesso, sono capace di buttare via l’80 per cento dei brani che scrivo e in alcuni secondi posso toccare la genialità. Ma sono secondi, niente di costante.
Con un genio ha recitato da giovanissimo: Totò.
È vero, eppure non sono stato in grado di comprendere la sua portata, e come me anche tutto il mondo del cinema e del giornalismo; (sorride) ci incontravamo la mattina sul set, era già quasi cieco, in perenne difficoltà con se stesso riusciva a vedere delle ombre e solo quando accendevano i fari della macchina da presa. Per il resto nulla. Recitava e si isolava…
È andata peggio con Brancaleone alle crociate…
Stavo palesemente sulle palle a Monicelli e Gassman e durante le riprese più e più volte mi sono chiesto il perché mi avessero preso…
Risposta?
Allora il mio ufficio stampa era Gianni Minà e credo sia stato lui a coinvolgermi; ( ride) solo verso la fine delle riprese Monicelli ha leggermente cambiato il suo atteggiamento, tanto da impedire il mio doppiaggio: “No, lasciate così: secondo me nell’anno Mille parlavano tutti come lui”; e poi quel set fu complicatissimo: la notte suonavo sulla Riviera romagnola, poi salivo in auto e, a seconda di dove si girava, li raggiungevo sul lago di Bracciano o nella campagna senese; però legai molto con Villaggio, con lui ridevo tanto, diventammo amici.
Come amica aveva Mia Martini…
Le ho prodotto un disco in un suo momento complicato, quando le maldicenze avevano preso spazio sostanziale nella sua vita; lei aveva bisogno di tornare a vivere, e credo di averla aiutata, e in quel periodo era diventata importante non solo per me: mia figlia la chiamava zia; (cambia tono) le cattiverie su di lei erano talmente forti da attaccarsi pure a chi le stava vicino, così un paio di persone iniziarono a sostenere che anche io portassi sfiga.
Come si difese?
Minacciai azioni legali.
Ha prodotto Rino Gaetano.
Grande talento e grande capacità di sintesi: riusciva a condensare i messaggi e renderli visibili in dieci parole o dieci note musicali (e cita una lunga serie di titoli di brani), ma l’ho frequentato poco.
A Roma ha vissuto in un palazzo “variopinto”…
(Ride) In un piano c’erano Franco Califano e Gigi Rizzi, sopra Renzo Arbore, poi Mita Medici, Enzo Maiorca e all’ultimo una escort, considerata una delle donne più belle di Roma, credo prendesse un milione a sera, ma non l’ho mai incontrata, ne conoscevo solo la leggenda; ora che ci penso quasi nessuno di noi si vedeva, non organizzavamo cene o altro, eravamo tutti molto impegnati con i nostri lavori, e poi allora ero fidanzato con Mita, poi si è messa con Franco.
Mannaggia a Califano…
Un uomo di grande spessore popolare, con una rara sensibilità e valore etico e sociale.
Che padre è ed è stato?
Non credo di essere un genitore esemplare, ma quando ci sono stato gli ho dato molta attenzione, e oggi tutti e tre mi vogliono bene…
Un suo “no”.
Al massimo per gli orari di rientrata, ma ho puntato su un’educazione molto permissiva e a rischio mio e loro; da sempre credo sia meglio affrontare le conseguenze delle proprie azioni.
A cosa è sopravvissuto?
A situazioni di grande drammaticità familiare (Maria Lina Carreri, ex moglie, si è suicidata nel 1992); poi allo scioglimento dei Rokes; all’idea di andare a vivere dieci anni negli Stati Uniti; e alla necessità di non voler essere omologato, e questo ultimo punto non è semplice: uno non può limitarsi a dei semplici “no”, deve anche contestualmente avere un piano B, altrimenti diventi un idiota…
E non è mai diventato un “matusa”, come cantava.
Allora neanche conoscevo il significato di quel termine.
Ha dichiarato: “Sono un killer mancato”.
Perché nel cinema mi offrono solo ruoli da santone, come in Brancaleone, mentre avrei voluto radermi la testa a zero e tramutarmi in un serial killer.
A scuola era un leader?
No, quello lo sono diventato sul palco e con la chitarra in mano; a scuola ero un bambino bravino con il desiderio di diventare medico, poi ho cantato con degli amici in sinagoga e lì si è aperto uno squarcio nel mio cielo emotivo, un processo interiore, di pura energia mentale.
Suo nonno era nella banda dello Zar…
Sì, ma a quel tempo non ti ingegni in certi meccanismi per dare un significato a ciò che accade. Vivi. Più in là, con gli anni, ho collegato mio nonno alla mia passione.
Oltre al nonno, ha altri legami con la grande madre Russia?
Ne ho di maggiori con la grande madre ebraica: scrivo canzoni spesso e volentieri in mi minore, e la musica ebraica ha una linea melodica simile, ed è un lascito più legato alla famiglia paterna che materna; mia madre non era ebrea, si è convertita per il matrimonio.
Ha mai giocato alla lotteria?
(Stupito) Certo! Per mesi e sempre la stessa combinazione.
Come avrebbe impiegato la vincita?
Una casa su un’isola ai Caraibi.
Non originale.
Il mio sogno da “lotteria” era quello di non combattere più.
Prega?
No.
Mai?
Solo da ragazzino, era parte della nostra cultura.
Ultima canna.
Circa cinque anni fa, e solo perché mi è passata sotto il naso.
Ma…
Oggi mi rilassano o eccitano altre cose: scendere per strada, tornare sul palco, parlare con voi.
Chi è lei?
Credo di essere, spero di essere uno che sta imparando a crescere come artista. Ed è una dura battaglia.