“Non chiamatemi tennista”. Sorride mentre lo dice, Gerald Marzorati, classe 1954 e icona del tennis raccontato: in passato firma di spicco per Harper’s e in seguito direttore del New York Times Magazine, oggi – che è “in pensione” – scrive sempre di tennis sul New Yorker. Ma dopo una vita trascorsa a narrare la sua passione, è stato naturale scendere in campo. “Ho iniziato a giocare a 54 anni, non avevo mai preso una racchetta in mano prima. E ora che ne ho 68, anche se sono entrato nel National Senior Grass Court Championships (un torneo su prato tra vecchi giocatori, ndr) – dove mi sono scontrato con allenatori espertissimi, molto più bravi di me e che, in pratica, è stato umiliante –, questo non fa di me un giocatore. Rimango un giornalista, uno scrittore, un padre, un marito. La prova? Io non spacco racchette e non urlo di rabbia se sbaglio. Sono solo felice e grato di giocare e, se faccio qualche cavolata, al massimo sospiro”.
Ed è infatti la gratitudine a questo sport il centro d’attrazione sentimentale attorno cui ruota Tardi sulla palla (Add, traduzione di Paolo Falcone, in uscita mercoledì) l’appassionato memoir di Marzorati che sa anche essere ironico e cinico quando i ricordi e gli aneddoti di una vita a bordo campo a osservare i campioni si mescolano al mondo di tornei, allenamenti e rivalità tra ultrasessantenni che per forza di cose – Marzorati, per esempio, racconta di passare dall’artrite alle dita alla tendinite alla spalla – arrivano tardi sulla palla, come professa inesorabilmente il titolo.
La prima domanda è d’obbligo: Federer o Nadal?
Federer è il miglior giocatore di tennis che abbia mai avuto il privilegio di ammirare. È poetico. Come nel basket, per esempio, Michael Jordan. Detto ciò, anche Nadal è un campione. Non ha mai diminuito l’intensità dell’allenamento e non si è mai risparmiato nel gioco: disciplinatissimo, vuole essere e restare un top player.
E nel tennis femminile, chi incorona?
Serena Williams: non solo è potente, ma è dotata di intelligenza strategica e una volontà di ferro.
Come lei scrive, il tennis è uno sport solitario e, delle volte, la tensione tira fuori il peggio. Un esempio su tutti: Miami, 2008. Il russo Mikhail Youzhny, dopo aver sbagliato un rovescio contro lo spagnolo Nicolas Almagro, si prende a racchettate in testa fino a sanguinare.
Sarò onesto, queste manifestazioni di rabbia non mi danno fastidio, aggiungono un po’ di sale alla storia. È rinunciare alle partite che non sopporto. Per esempio, un giocatore talentuoso come Nick Kyrgios – a cui la disciplina di Nadal non interessa per nulla – può spaccare tutte le racchette che vuole, ma è quando rinuncia a giocare che non mi piace più. Smettere di giocare davvero è irrispettoso per i fan e per il tennis stesso.
Nello storytelling di questo sport, di per sé molto individualista, lei racconta che un posto d’onore lo occupano le rivalità. Ce n’è una che l’ha affascinata più delle altre?
Quella tra l’americana Chris Evert e la ceca Martina Navrátilová è stata la più grande rivalità nella storia del tennis, soprattutto perché loro erano amiche e lo sono rimaste. Ma voglio dare anche al pubblico sugli spalti un posto d’onore. Pensi al Roland Garros 1999: Martina Hingis contro Steffi Graf. La giovane Hingis, dopo essersi aggiudicata facilmente il primo set, stava vincendo anche il secondo e dunque il match quando, per via di una scorrettezza – attraversa il campo per opporsi all’arbitro che aveva chiamato la sua palla fuori –, il pubblico inizia a tifare per la Graf, che rimonta e vince.
In Tardi sulla palla, menziona molti professionisti. C’è qualcuno a cui si ispira?
L’unica cosa che abbiamo in comune è il campo in cui giochiamo sia io che loro. Per il resto non potrei ispirarmi in niente, tecnicamente parlando. Il confronto mi umilierebbe. Una cosa, però, me l’hanno insegnata: la pazienza.
In Tennis (Adelphi) John Mcphee racconta una delle partite del secolo: la semifinale di Forest Hills del ’68, Arthur Ashe vs Clark Graebner, la prima disputata da un giocatore nero agli albori dell’èra Open. Se toccasse a lei scegliere?
La finale dell’Australian Open 2012: Djokovic vs Nadal. Cinque set atroci, quasi sei ore! Quei due campioni, con la loro energia instancabile, hanno saputo allargare il campo e trasformare la difesa in attacco. È stato estenuante solo a guardarli. Che guerrieri! È stata la partita più bella che abbia mai visto.
Cosa può dirci sulla nuova generazione di tennisti?
Non faccio previsioni, ma secondo me i nuovi campioni arriveranno da Russia, Canada e Italia. Proprio pochi giorni fa ho visto il vostro Sinner perdere una combattutissima partita di cinque set contro Denis Shapovalov a Melbourne. Sinner ha talento, ma non ha ancora la forma fisica per giocare cinque set. Ci arriverà: è giovane.