Saranno le passioni a salvare la politica: soprattutto coi governi tecnici

Elena Pulcini è ormai un’autorità nello studio delle passioni e delle emozioni in politica. Ha mostrato, valorizzando gli scritti di David Hume, Adam Smith, Baruch Spinoza e poi ancora Amartya Sen e Martha Nussbaum, come la dimensione politica non sia riconducibile alle ragioni dell’homo oeconomicus, alla pretesa razionalità che riveste il legittimo interesse personale. Ma esiste una dimensione delle emozioni che muove il sentimento di giustizia e, come si argomenta in questo libro, in particolare il sentimento di cura che a quello deve accompagnarsi.

Adam Smith, in particolare, noto solo per la “mano invisibile” tanto cara ai cantori del libero mercato, nella sua Teoria dei sentimenti morali offre materiali preziosi per costruire una “società decente”.

L’attenzione è qui posta ai sentimenti positivi, Spinoza direbbe le “passioni gioiose” invece di quelle “tristi”. In tempi di populismo o di mobilitazioni, hanno avuto predominanza passioni come l’ira, l’indignazione (indignados), ma anche l’invidia e il risentimento. Passioni importanti per far muovere la società, combattere l’ingiustizia. Ma le passioni che consentono di costruire una società giusta sono quelle che animano l’amore per la cura, sia essa rivolta a chi è a noi vicino o a chi è lontano nello spazio (lo straniero) o nel tempo (le generazioni future). Sulla simpatia, l’empatia, la cura si può costruire un futuro, “immaginare che le cose potrebbero anche essere diverse da come sono”, secondo la formula di Hannah Arendt, a condizione di un impegno, di un’azione e di una paideia, una coltivazione delle passioni. L’emozione, scrive Pulcini, è “il luogo nevralgico dell’interazione con l’altro” e quindi quella paideia si basa sulla relazione che fonda la politica e permette di “generare il futuro”. Un esercizio più che necessario ai tempi in cui la politica si riduce alla tecnica.

 

Tra cura e giustizia Elena Pulcini – Pagine: 238 – Prezzo: 19 – Editore: Bollati Boringhieri

 

Bollicine, carpe, orge intellettuali: “La follia mi cura”

La scrittura è spesso un rituale, ma anche la lettura può esserlo. In ognuno dei suoi 29 romanzi – ne pubblica uno l’anno ma ne scrive 3,7, poi a istinto capisce qual è il migliore, il resto finisce in una scatola e viene abbandonato – Amélie Nothomb insuffla se stessa, vita e pensieri (per saperne di più conviene leggere La bocca delle carpe, conversazioni con Michel Robert) tra le pagine.

Per i nothombiani cogliere le analogie è così sfida giocosa. Lo si può fare anche con quest’ultimo, Aerostati. La diciannovenne Ange, brillante studentessa bruxellese di filologia, è sola e impopolare. Amélie, laureata in filologia romanza, sperimentò la stessa alienazione quando si trovò catapultata nella Capitale belga dopo aver viaggiato tra il natale Giappone, Pechino, New York, Bangladesh, Birmania, Laos, per seguire il padre, famoso diplomatico. Se l’infanzia fu felice (insaziabile di conoscenza, matematica e cioccolato era idolatrata dai compagni per l’intelligenza fuori dal comune), l’adolescenza fu violenta, complice anche uno stupro subito a 12 anni. “Ero soffocata dalla certezza di esser brutta. Mi sentivo spaventosa come lo scarafaggio di Kafka”. Un destino, quello di giramondo e adolescente dolente, comune pure all’altro protagonista di Aerostati, il sedicenne Pie, figlio unico di un ricco trader, nato in Svizzera ma sballottato tra New York e le Cayman, relegato in una dimora sontuosa ma senz’anima a Bruxelles. Asociale e apparentemente dislessico è dotato di schietto cinismo, fine intelligenza e spirito poetico, come Amélie. Ai suoi occhi gli aerostati sono “balene volanti, silenziosi e leggiadri”. In Ange trova un’insegnante di ripetizioni in grado di iniziarlo alla letteratura, ma anche un’amica capace di fornirgli un’arma di liberazione e vendetta, tema ricorrente, da genitori abominevoli.

“Pessimista allegra”, così si definisce Nothomb, pelle diafana, rossetto rosso in stile geisha, copricapi eccentrici, look total black, a richiamare la vena noir di ogni sua storia: è la cover di tutti i suoi libri. Ogni dì si alza all’alba, indossa il suo pigiama giapponese preferito che usa da trent’anni, ingurgita una caraffa di tè nero fortissimo, poi vomita, “faccio delle orge intellettuali e questo mi procura il vomito”, e si mette all’opera, in ginocchio, penna alla mano, per quattro ore. Non ha computer né cellulare. La bizzarria, dice, l’aiuta a sopportare la difficoltà di restare in vita. “Forse la mia esistenza assume forme bizzarre, ma se si scava c’è un’umanità che è di tutti. Molti si riconoscono in me”. Al pomeriggio si reca dal suo editore parigino e risponde alle missive cartacee dei lettori sempre che nessuno la inviti a bere champagne. Le bollicine che frizzano in romanzi come Petronille e I nomi epiceni, di cui va matta, le scivolavano in gola già da bimba. I genitori davano ricevimenti à go go e lei, senza nessuno a monitorarla, ne sorbiva in quantità dai fondi dei bicchieri tanto da diventarne dipendente. La scrittura, a cui comincia a dedicarsi con regolarità da adolescente, la salva dai momenti più bui. A pubblicare ci pensa però poi. “Vivevo in Giappone, lavoravo come interprete (in Stupori e tremori racconta di come l’azienda l’avesse mobbizzata, relegandola a guardiana dei servizi), ero fidanzata con un giapponese bello e ricco. All’improvviso ho mandato tutto a quel paese per tornare in Europa”. Fu allora, nel ’92, che scrisse l’undicesimo manoscritto, Igiene dell’assassino, suo esordio, subito un successo.

Ossessionata da ciò che è ripugnante, “attraverso il disgusto cerco l’essenza della bellezza”, a 4 anni rischiò di annegare in una fontana per ammirare carpe iridescenti di cui però trovava oscena la bocca, mentre in Birmania, a 13, decise con la sorella di non mangiare più perché “non dovevamo diventare adulte, quell’età non significava nulla per noi e i corpi dei grandi ci ripugnavano”. Amélie sfiorò la morte per anoressia, ne parla in Biografia della fame. L’attaccamento all’Eden dell’infanzia è cuore di Igiene dell’assassino dove uno scrittore uccide la cugina per evitarle la degenerazione dalla perfezione della fanciullezza. Uccidere è per Nothomb perfetto espediente per mantenere un legame con l’altro o farsi finalmente notare. Ma anche la penna, come strumento di conquista, fa il suo dovere.

Mille e una narrativa: le nuove “Voci arabe”

Sospeso tra Le mille e una notte e i romanzi del Nobel egiziano Nagib Mahfuz, il nostro immaginario collettivo sulla letteratura araba resta stentato. Nella nostra editoria non mancano certo traduzioni e pure di successo (da Leggere Lolita a Teheran dell’iraniana Azar Nafisi a Il cacciatore di aquiloni dell’afghano naturalizzato statunitense Khaled Hosseini) ma restano appunto oasi in un deserto. Una prospettiva più larga – come accade per le opere scandinave grazie all’editore Iperborea – è in effetti preclusa al lettore italiano.

A sfidare questa dispersione provvede ancora una volta Isabella Camera d’Afflitto. A distanza di quattro anni da un’antologia di classici della letteratura araba del Novecento, Bompiani pubblica il nuovo lavoro dell’eminente studiosa, affiancata qui da Maria Avino. In Voci di scrittori arabi di oggi e di domani la rassegna è tutta sulla contemporaneità. Sono una quarantina gli autori e le autrici che si contendono queste pagine con i loro racconti (la narrativa breve è il genere da sempre prediletto nella lingua araba). Il ricambio generazionale è lampante. La nuova comunità digitale ha rimosso ogni confine. Tanto è vero che sul piano culturale Il Cairo ha perso la sua centralità a vantaggio dei Paesi del Golfo. La selezione resta parziale ma è utile non solo per conoscere testi altrimenti inaccessibili ma per abbattere un muro di cliché. Sì, perché la realtà mediatica che emerge da Maghreb e vicino Oriente è quasi sempre ostaggio della geopolitica. Non che l’ispirazione degli artisti sfugga al buco nero della violenza di Stato, repressione, censura, violazione dei diritti, impoverimento. Ma se la letteratura ha un merito è quello di restituire tutta la complessità e di scavare là dove lo sguardo distratto passa oltre.

Tra le sezioni tematiche dell’antologia figurano “La sensualità del corpo” e “Fantascienza o il mondo di domani”. Erotismo e distopia si mescolano nelle novelle a migrazioni e orrori della guerra in uno spettro creativo semmai più variegato del nostro occidentale. La saudita Layla Ibrahim Al-Ahaydib in poche righe liquida con aperta disapprovazione l’abaya, il caratteristico manto nero che mortifica il corpo femminile. L’iracheno Khaled Kaki si inventa nell’anno 2103 un potente che tiranneggia i sudditi dal suo palazzo sulle rive del fiume Eufrate.

Poi certo non mancano i canovacci ricorrenti dell’identità araba. La paura è sempre il sentimento prevalente. Nel racconto del libico ‘Omar al-Kiddi i bambini temono di diventare grandi perché il mondo degli adulti è scandito da violenze e ingiustizie. La prigione, uno dei topoi più fertili, è sublimata nel racconto dell’omanita Mahmud Al-Rahbi: il suo protagonista dice che “i veri uomini prima o poi ci finiscono dentro”. Forse il racconto più emblematico, capace di coniugare storia e dramma privato, è quello firmato dallo yemenita Lutfi Al-Sarari. È la storia di un contadino che cerca di allontanare il pericolo di un bombardamento imminente ridipingendo di vari colori la sua casa per poi scrivere un messaggio di pace sul terrazzo di casa convinto che i piloti lo risparmino dai missili. Il racconto finisce con l’amaro in bocca: “Guardò verso la collina: la sua casa non c’era più”.

 

Voci di scrittori arabi di oggi e di domani A cura di I. Camera d’Afflitto, M. Avino – Pagine: 352- Prezzo: 15 – Editore: Bompiani

La prescrizione fa liberare il pedofilo e il giustiziere populista diventa serial killer

Sono tempi in cui dalla Scandinavia a Roma il giallo è affollato di giustizieri che vendicano i torti dei tribunali. Ma il punto di partenza di Piergiorgio Pulixi è geniale, oltre che di grandissima attualità politica. Il suo ultimo romanzo Un colpo al cuore si apre infatti con una scena consigliata soprattutto a renziani, berlusconiani e avvocati, adusi a confondere volutamente il garantismo con l’innocentismo. È una scena drammatica: la presidente di una Corte d’appello proscioglie un pedofilo a causa della prescrizione. Quindici anni tra primo e secondo grado, anni persi per cavilli e lungaggini varie. Però la presidente, consapevole dell’ingiustizia, chiede scusa “a nome del popolo italiano” alla vittima presente in aula. Era una bambina di sette anni quando subì le violenze dell’imputato. Il quale, dopo la sentenza, si gira verso di lei con un ghigno perfido.

Tra il pubblico però c’è un misterioso omone. Il pedofilo torna a casa e viene rapito. Poche ore e diventa virale sul web un video in cui compare immobilizzato e sanguinante. Il rapitore gli ha cavato tutti i denti e adesso lascia al pubblico la scelta finale: ucciderlo o rimetterlo in libertà. Si vota per tre ore su una piattaforma clandestina. I partecipanti sono 167mila. I sì per ucciderlo sono 159mila. E così il Dentista, questo il suo nomignolo mediatico, sgozza il pedofilo. A indagare sono tre noti personaggi degli ultimi libri di Pulixi, tra i migliori quarantenni del noir italiano. Da un lato il poliziotto criminologo Vito Strega, caraibico per parte di madre. Dall’altro le ispettrici Mara Rais ed Eva Croce. Siamo a Cagliari e Pulixi rende in modo magistrale gli estremi della giustizia italiana, l’innocentismo e le pulsioni della piazza che tifa per il Dentista e reclama il sangue degli impuniti. In mezzo i tic della tv trash del dolore con tanto di maratona quotidiana per seguire il populismo criminale minuto per minuto.

 

Un colpo al cuore Piergiorgio Pulixi – Pagine: 506 – Prezzo: 16 – Editore: Rizzoli

Disney+ “cresce” con Star: il canale delle fiction da adulti che sfida Netflix

Sei nuovi episodi di Boris, la serie tratta dal film Le Fate Ignoranti scritta e girata da Ferzan Özpetek e il crime drama The Good Mothers sulle donne della ’ndrangheta basata sul libro di Alex Perry. La presentazione di Star, il nuovo canale di Disney+ disponibile dal 23 febbraio, è diventata l’occasione per lanciare le nuove serie tv italiane targate Disney. Quello delle produzioni “locali” (dieci in tutto fra Italia, Francia, Germania e Paesi Bassi) rappresenta un passaggio fondamentale per la piattaforma che si candida a diventare la vera alternativa a Netflix. Del resto i numeri confermano che, complice la pandemia, l’operazione si sta rivelando un successo: a meno di un anno dal lancio, Disney+ ha già raggiunto quota 94,9 milioni di abbonati in tutto il mondo (Netflix, per dare un’idea, ha da poco superato i 200 milioni).

Nata puntando soprattutto ai bambini e alle famiglie, grazie al catalogo sterminato di cartoni animati Disney, Pixar e Marvel, Disney+ sta progressivamente conquistando quel pubblico adulto che, già abbonato, “è fortemente interessato ad avere ancora più contenuti dedicati”, come ha spiegato la general manager media Kathryn Fink. Dentro Star confluiranno 42 serie tv, 249 film e cinque titoli Star Original ancora inediti in Italia; nel corso del 2021 si aggiungeranno poi altri 400 film e sei mila episodi televisivi.

Il catalogo delle serie comprende titoli cult degli anni Novanta e Duemila come X-Files, Lost, Desperate Housewives, Prison Break, 24 e I Griffin. Le serie Star Original saranno invece Godfather of Harlem con Forest Whitaker, Big Sky firmata dal creatore di Big Little Lies e The Undoing David E. Kelley, Helstrom, la sitcom animata Solar Opposites e Love, Victor (spin-off del film Tuo, Simon). Molto attesa anche la terza stagione di Atlanta, di Donald Glover, che sarebbe dovuta uscire già lo scorso gennaio ma ha subito dei ritardi a causa del Covid-19. Dal 23 febbraio, con il lancio di Star, il prezzo dell’abbonamento a Disney+ salirà da 6,99 a 8,99 euro al mese.

 

Mr White in viaggio al termine del disonore

Fino a che punto può spingersi un uomo per salvare la sua famiglia? Fino a che punto è giusto, o perlomeno accettabile, violare la legge per il bene dei propri cari? A 13 anni dalla prima stagione di Breaking Bad, il crime drama che l’ha reso strafamoso per il ruolo di Walter White, Bryan Cranston torna a interpretare un padre costretto dalle circostanze a varcare la linea che separa bene e male. La miniserie s’intitola Your Honor e andrà in onda dal 24 febbraio, con due episodi alla settimana, su Sky Atlantic e Now Tv.

I primi minuti sono i più forti e probabilmente i più riusciti di tutta la serie. Adam sale in macchina diretto verso la zona industriale di New Orleans: a un anno dall’omicidio della madre, il ragazzo vuole lasciare una fotografia e un mazzo di fiori nel luogo in cui è stata uccisa. Nello stesso momento, dall’altra parte della città, il boss Jimmy Baxter regala al figlio Rocco una nuova moto per il suo compleanno. Di lì a poco la moto di Rocco si schianterà sull’auto di Adam, che in preda a un attacco di asma scapperà via lasciando il corpo senza vita del figlio del boss sulla strada.

Qui entra in gioco Bryan Cranston nei panni di Michael Desiato, giudice integerrimo e difensore dei più deboli, nonché padre di Adam. Appena scopre cos’è successo, Michael convince Adam a costituirsi. Quando però realizza che il motociclista ucciso è l’erede del criminale più pericoloso di New Orleans, il giudice Desiato cambia idea. Adam in carcere farebbe una brutta fine. Per salvarlo c’è una sola strada: sbarazzarsi dell’auto coinvolta nell’incidente, costruire per Adam un alibi di ferro, usare la sua esperienza e le sue conoscenze per impedire che il figlio finisca in prigione.

Il paragone con Walter White, il professore di chimica che scopre di avere un cancro e si trasforma in spacciatore di metanfetamine per garantire un futuro alla sua famiglia, è inevitabile. Ma all’inizio il giudice Desiato sembra decisamente più impacciato del professor White, come se i suoi saldi principi gli impedissero di passare, pur se per una buona causa, al lato oscuro. E così ogni via d’uscita che trova porta nuovi problemi, ogni bugia altre bugie: se all’inizio sembrava possibile tenere Adam lontano dai radar della polizia e degli scagnozzi di Baxter, ora già non lo è più.

Your Honor è l’adattamento dell’isrealiana Kvodo. È stata creata da Peter Moffat, lo sceneggiatore britannico di Criminal Justice, la serie che ha ispirato la bellissima The Night Of con John Turturro. E può contare su un cast di alto livello: accanto a Cranston compaiono Michael Stuhlbarg (Boardwalk Empire, A Serious Man, Chiamami col tuo nome) nel ruolo del boss Jimmy Baxter, Isiah Whitlock Jr. (The Wire, La 25ª ora) nella parte del politico che dà una mano a Michael e Margo Martindale (The Americans, The Good Wife) in quello della suocera. Eppure, nonostante le premesse, non si dimostra all’altezza delle aspettative.

I punti deboli sono principalmente due. Il primo è che Your Honor somiglia a molte serie uscite negli ultimi anni: basti pensare, solo per citare le più recenti, a The Undoing e a Defending Jacob, in cui un padre procuratore cerca di scagionare il figlio accusato di omicidio. Il secondo punto debole riguarda i personaggi, bidimensionali e troppo stereotipati. L’impressione è che Moffat si sia concentrato sui meccanismi della trama (problema, soluzione, nuovi problemi, nuove soluzioni) senza preoccuparsi di scavare nella psicologia dei protagonisti.

Soprattutto, su Your Honor pesa come un macigno il paragone obbligato con Breaking Bad. Le due serie esplorano lo stesso territorio: al centro di entrambe c’è un brav’uomo che si trova costretto a compiere atti malvagi. E la cosa potrebbe anche passare in secondo piano, se non fosse che i due protagonisti sono interpretati dallo stesso attore, Bryan Cranston. Breaking Bad è certamente una delle serie più iconiche degli ultimi due decenni e Walter White è considerato da molti il miglior personaggio televisivo di sempre: Your Honor e Michael Desiato, purtroppo per loro e per noi, non sono allo stesso livello.

 

Django diventa una serie, a Roma è iniziata la “Siccità”

Sono iniziate a Roma le riprese di Siccità, un nuovo film corale di Paolo Virzì interpretato tra gli altri da Monica Bellucci, Silvio Orlando, Valerio Mastandrea, Claudia Pandolfi, Sara Serraiocco, Max Tortora e Vinicio Marchioni. Sceneggiato dal regista con Paolo Giordano, Francesca Archibugi e Francesco Piccolo e prodotto da Wildside e Vision Distribution, è ambientato in una Roma dove non piove da tre anni e la mancanza d’acqua stravolge regole e abitudini. Nella città che muore di sete e di divieti si muove un coro di personaggi, giovani e vecchi, emarginati e di successo, vittime e approfittatori le cui esistenze sono legate in un unico disegno beffardo e tragico mentre ognuno cerca la propria redenzione.

Il classico del cinema western Django di Sergio Corbucci verrà rivisitato in una serie internazionale Sky Original e Création Originale Canal+ sul set a maggio in 10 episodi da 60’ interpretati dal belga Matthias Schoenaerts, i primi dei quali saranno diretti da Francesca Comencini, che è anche la direttrice artistica del progetto. La serie prodotta in inglese da Cattleya e da Atlantique Productions è stata creata e scritta da Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli.

Jacques Audiard sta finendo di montare Le Olimpiadi, adattamento del fumetto Les Intrus dell’americano Adrian Tomine con Noémie Merlant, Stephen Manas e Geneviève Doang interpreti di sei storie tra difficoltà di relazione, ricerca di sé e illusioni perdute.

Si sono concluse le riprese di Settembre, commedia sentimentale scritta e diretta da Giulia Steigerwalt e interpretata da Fabrizio Bentivoglio, Thony e dalla giovane Margherita Rebeggiani realizzata da Rai Cinema e Matteo Rovere per Lynn, la neonata divisione di Groenlandia dedicata a progetti esclusivamente diretti da donne.

Storia di Nilde e della “Tecnica” di essere libere

In attesa che Lorenzo Mieli o qualche altro illuminato showrunner nostrano faccia – fatelo! – Donne del Pd, la serie, possiamo rinfrescare le basi, o se preferite l’antitesi, con il prezioso documentario che Peter Marcias ha dedicato a Leonilde Iotti, la prima donna nella storia dell’Italia repubblicana a ricoprire una delle tre massime cariche dello Stato, ovvero la presidenza della Camera dei deputati, per quasi 13 anni e tre legislature, dal 20 giugno 1979 al 22 aprile 1992.

Disponibile sulla piattaforma #iorestoinsala – e dal 26 febbraio anche su quella di IWonderFull – Nilde Iotti, il tempo delle donne assembla materiale d’archivio, talking heads – da Marisa Rodano a Luciana Castellina, da Sergio Mattarella a Giorgio Napolitano – e i pensieri della politica restituiti da Paola Cortellesi, che le aveva dedicato il monologo teatrale La Leonilde. In verità questo terzo corno è il più debole, sopraffatto, se non estraniato, dalla potenza icastica del repertorio e dalla vita, e dalla Storia, vissuta dei testimoni.

Talento poliedrico e ultrasensibile, Marcias si mette in ascolto, riportando sullo schermo un’intelligenza collettiva al cospetto, anche dialettico, di Iotti. All’amica Loretta Giaroni si spezza la voce quando, ricordandone l’amore ricambiato per Togliatti, confessa che “noi qui l’abbiamo trattata male, proprio male. Parlo di Reggio, perché eravamo proprio dei bigotti, degli imbecilli, degli ignoranti”. Quando il leader del Partito Comunista Italiano morì, osserva l’attrice Piera Degli Esposti, vedemmo “una donna incredibilmente forte, anche in quel lutto aveva questa calma, aveva l’armonia in questo dolore. Lei era una donna che conosceva l’armonia, la calma e l’armonia, per questo è stata quello che è stata”.

Anche regista dell’emancipazione femminile, Nilde, in un tempo che relegava le registe tout court nel fuoricampo: “Non mi sono imposta – rammenta Cecilia Mangini, da poco scomparsa – per la regia come donna, ho detto mi comporto da uomo, non mi truccavo, portavo i pantaloni. (…) Io non ero una donna, ero un genere neutro, e meno male ho avuto la forza di farlo se no il cinema non l’avrei mai fatto”.

Federico Fellini ne fissò mirabilmente l’immagine: “Chi meglio di lei incarna così trionfalmente un certo tipo di donna per cui mi viene con spontanea immediatezza un’espressione che si usa dalle mie parti, che sono un pochino anche le parti della signora, la sdora, la reggitora, che sostiene, che dirige, che ha l’autorità e il peso del comando”. Nitida anche l’inquadratura della femminista Edda Billi: “Le donne sono straordinarie perché posseggono una cosa che gli uomini non hanno, la donnità. La presa di coscienza sul mondo, nella cui base c’è la cura, che è una delle cose più belle che possa esistere”. Già, Nilde Iotti è stata la cura, per il suo, per quello delle donne e per il nostro tempo. Vedetelo questo doc, vi sentirete parlare un italiano che non si parla più, maledetti noi.

 

“Tifo per la poesia di Federer e l’intelligenza di Serena”

“Non chiamatemi tennista”. Sorride mentre lo dice, Gerald Marzorati, classe 1954 e icona del tennis raccontato: in passato firma di spicco per Harper’s e in seguito direttore del New York Times Magazine, oggi – che è “in pensione” – scrive sempre di tennis sul New Yorker. Ma dopo una vita trascorsa a narrare la sua passione, è stato naturale scendere in campo. “Ho iniziato a giocare a 54 anni, non avevo mai preso una racchetta in mano prima. E ora che ne ho 68, anche se sono entrato nel National Senior Grass Court Championships (un torneo su prato tra vecchi giocatori, ndr) – dove mi sono scontrato con allenatori espertissimi, molto più bravi di me e che, in pratica, è stato umiliante –, questo non fa di me un giocatore. Rimango un giornalista, uno scrittore, un padre, un marito. La prova? Io non spacco racchette e non urlo di rabbia se sbaglio. Sono solo felice e grato di giocare e, se faccio qualche cavolata, al massimo sospiro”.

Ed è infatti la gratitudine a questo sport il centro d’attrazione sentimentale attorno cui ruota Tardi sulla palla (Add, traduzione di Paolo Falcone, in uscita mercoledì) l’appassionato memoir di Marzorati che sa anche essere ironico e cinico quando i ricordi e gli aneddoti di una vita a bordo campo a osservare i campioni si mescolano al mondo di tornei, allenamenti e rivalità tra ultrasessantenni che per forza di cose – Marzorati, per esempio, racconta di passare dall’artrite alle dita alla tendinite alla spalla – arrivano tardi sulla palla, come professa inesorabilmente il titolo.

La prima domanda è d’obbligo: Federer o Nadal?

Federer è il miglior giocatore di tennis che abbia mai avuto il privilegio di ammirare. È poetico. Come nel basket, per esempio, Michael Jordan. Detto ciò, anche Nadal è un campione. Non ha mai diminuito l’intensità dell’allenamento e non si è mai risparmiato nel gioco: disciplinatissimo, vuole essere e restare un top player.

E nel tennis femminile, chi incorona?

Serena Williams: non solo è potente, ma è dotata di intelligenza strategica e una volontà di ferro.

Come lei scrive, il tennis è uno sport solitario e, delle volte, la tensione tira fuori il peggio. Un esempio su tutti: Miami, 2008. Il russo Mikhail Youzhny, dopo aver sbagliato un rovescio contro lo spagnolo Nicolas Almagro, si prende a racchettate in testa fino a sanguinare.

Sarò onesto, queste manifestazioni di rabbia non mi danno fastidio, aggiungono un po’ di sale alla storia. È rinunciare alle partite che non sopporto. Per esempio, un giocatore talentuoso come Nick Kyrgios – a cui la disciplina di Nadal non interessa per nulla – può spaccare tutte le racchette che vuole, ma è quando rinuncia a giocare che non mi piace più. Smettere di giocare davvero è irrispettoso per i fan e per il tennis stesso.

Nello storytelling di questo sport, di per sé molto individualista, lei racconta che un posto d’onore lo occupano le rivalità. Ce n’è una che l’ha affascinata più delle altre?

Quella tra l’americana Chris Evert e la ceca Martina Navrátilová è stata la più grande rivalità nella storia del tennis, soprattutto perché loro erano amiche e lo sono rimaste. Ma voglio dare anche al pubblico sugli spalti un posto d’onore. Pensi al Roland Garros 1999: Martina Hingis contro Steffi Graf. La giovane Hingis, dopo essersi aggiudicata facilmente il primo set, stava vincendo anche il secondo e dunque il match quando, per via di una scorrettezza – attraversa il campo per opporsi all’arbitro che aveva chiamato la sua palla fuori –, il pubblico inizia a tifare per la Graf, che rimonta e vince.

In Tardi sulla palla, menziona molti professionisti. C’è qualcuno a cui si ispira?

L’unica cosa che abbiamo in comune è il campo in cui giochiamo sia io che loro. Per il resto non potrei ispirarmi in niente, tecnicamente parlando. Il confronto mi umilierebbe. Una cosa, però, me l’hanno insegnata: la pazienza.

In Tennis (Adelphi) John Mcphee racconta una delle partite del secolo: la semifinale di Forest Hills del ’68, Arthur Ashe vs Clark Graebner, la prima disputata da un giocatore nero agli albori dell’èra Open. Se toccasse a lei scegliere?

La finale dell’Australian Open 2012: Djokovic vs Nadal. Cinque set atroci, quasi sei ore! Quei due campioni, con la loro energia instancabile, hanno saputo allargare il campo e trasformare la difesa in attacco. È stato estenuante solo a guardarli. Che guerrieri! È stata la partita più bella che abbia mai visto.

Cosa può dirci sulla nuova generazione di tennisti?

Non faccio previsioni, ma secondo me i nuovi campioni arriveranno da Russia, Canada e Italia. Proprio pochi giorni fa ho visto il vostro Sinner perdere una combattutissima partita di cinque set contro Denis Shapovalov a Melbourne. Sinner ha talento, ma non ha ancora la forma fisica per giocare cinque set. Ci arriverà: è giovane.

Mya è morta, aveva 20 anni. È la prima vittima dei generali

Si chiamava Mya Thwate Thwate Khaing. Aveva compiuto 20 anni in ospedale, la vita attaccata a un respiratore: lo scorso 9 febbraio un proiettile sparato dall’esercito birmano l’aveva raggiunta alla testa, perforando il suo casco da motociclista, durante una manifestazione di protesta a Naypyitaw, la terza città birmana, contro la giunta militare che il 1° febbraio ha preso il potere in Myanmar.

Gira online una sua foto luminosa, i capelli lunghi mossi dal vento, in cui guarda lontano. Le hanno staccato la spina ieri mattina. Dopo aver tentato invano di rimuovere il proiettile, il 12 febbraio avevano decretato la morte cerebrale. È la prima vittima della repressione militare della democrazia birmana, scatenata all’alba del giorno in cui si sarebbe dovuto insediare il nuovo parlamento, dopo elezioni che avevano visto il trionfo della National League for Democracy, il partito di Aung San Suu Kyi; lei è da allora in arresto in località segreta. “Continuate a lottare contro il regime militare” ha dichiarato ieri la sorella Mya Thadoe Nwe alla testata indipendente in lingua inglese Myanmar Now. “Continuate a combatterlo finché non sarà completamente eradicato”. Durante il ricovero era diventata una icona del movimento di resistenza. Il 17 febbraio un manifesto di 15 metri con immagini dello scambio di colpi in cui è caduta era stato appeso da un ponte pedonale nel centro di Yangon; sue foto sono apparse sui cartelli dei manifestanti in tutto il Paese e sui social media. Il quotidiano mostra anche le immagini del memoriale improvvisato da alcuni cittadini per ricordarla, prima del funerale fissato per domenica.

È solo una delle molte azioni di resistenza di una popolazione che risponde al golpe con la disobbedienza civile. Ieri a Yangon è stato dichiarato lo sciopero generale e sono scesi in piazza anche migliaia di medici, infermieri e insegnanti. Ma la giunta sta alzando il tiro della repressione: ieri mattina, secondo le prime ricostruzioni giornalistiche, l’esercito avrebbe arrestato e picchiato brutalmente almeno 14 insegnanti che manifestavano pacificamente nella città di MyitKyiNa. La pena per chi protesta è di 20 anni di carcere.