Venti febbraio 2020, ore 20. Mi lascio cadere sul divano. Con una certa soddisfazione assaporo la serata tutta mia che sto per trascorrere: un panino, un bicchiere d’acqua. Malgrado ami cucinare, sono troppo stanca anche solo per una frittata. Qualche minuto di zapping e poi alla ricerca di un film, uno di quelli che strappano le lacrime e che fanno “cariare i denti” e che guardo più volte, certo non per la trama, ma per l’effetto emotivo.
Non faccio in tempo a scorrere le prime immagini di Albergo a 5 stelle che squilla il telefono. Rispondo, ignara che quella telefonata avrebbe suggellato la fine di un’epoca. Una porta, silenziosa ma impenetrabile si stava chiudendo alle spalle dell’umanità. Era Valeria Micheli, biologa del mio staff, di turno presso il laboratorio di Microbiologia Clinica, Virologia e Bioemergenze dell’Ospedale Sacco di Milano, che dirigo. È, tra le mie collaboratrici, fra le più ponderate, che non cedono mai all’ansia. Stranamente la sua voce è diversa dal solito.
“Cosa c’è, Valeria?”. “Prof, è arrivato un campione da Codogno, credevo fosse negativo come gli altri di questi ultimi giorni. È positivo!” “Arrivo”. Da casa mia al Sacco impiego normalmente 45 minuti. Quella sera, meno di trenta.
La tempesta perfetta era cominciata. Tutto sarebbe stato travolto, l’organizzazione del nostro laboratorio, la nostra vita personale. In un unico vortice, il meglio e il peggio di tutto. Il meglio, che amo ricordare, è stato soprattutto la solidarietà da parte della gente comune e tra di noi. Non più turni, ma sempre al lavoro, al massimo delle nostre energie. I miei meravigliosi collaboratori, “miei angeli”, come non finirò mai di chiamarli. I più anziani o quelli più liberi da impegni familiari costringevano a tornare a casa i colleghi che avevano bimbi da accudire ma che, malgrado tutto, non volevano far venir meno il loro aiuto. Alla porta del laboratorio, infermieri che continuavano a portare tamponi da analizzare, ma anche corrieri che consegnavano ogni ben di dio: dolci, pizze, torte. Erano inviati da anonimi generosi o da aziende milanesi. Siamo tutti ingrassati di almeno cinque o sei chili! Non c’era tempo per andare in mensa o a casa e allora si continuava a cibarsi involontariamente di quelle caloriche leccornie.
È arrivato anche tanto sostegno economico da banche, aziende private che hanno anche permesso interventi strutturali migliorativi nel nostro ospedale. Malgrado fossimo stati sommersi dalla diagnostica, non abbiamo mai trascurato la ricerca che è nel nostro Dna. A oggi ci vantiamo di aver pubblicato ben 30 lavori su riviste scientifiche internazionali, consolidando anche collaborazioni importanti con gruppi di ricerca europei e americani. Siamo fieri di aver scoperto, in collaborazione con il Cnr e l’Iss, che il virus era presente a Milano almeno dal novembre del 2019. L’emergenza ha dato l’opportunità di lavoro, seppur ancora precario, a giovani biologi e medici che già rivestivano il ruolo di volontari presso il mio laboratorio. Nella tragedia che si consumava a pochi metri da noi, in un ospedale che sprofondava in un silenzio abissale, si rinsaldava la collaborazione con la maggior parte dei colleghi. Ci siamo sentiti un’unica famiglia unita, con qualche figlio, come accade nella realtà, dal comportamento non sempre in linea.
Intorno all’ospedale, nelle strade, mentre si tornava a casa, ancora silenzio. Era l’effetto del lockdown. I miei familiari mi reputavano fortunata per il fatto che potessi almeno andare al lavoro. Loro erano in casa, prigionieri. Non tutto però è da salvare. Accanto al senso di impotenza e di sconfitta davanti al numero dei morti che la tenacia e il lavoro di noi tutti non sono mai riusciti ad azzerare, anche la tristezza generata dal comportamento di una parte di stampa che scrive più per far scoop e creare panico che per informare. E il panico dai media ha raggiunto tutti.
Mia nipote, Giulia, scuole elementari, mi telefona e mi dice “Non posso venire da te, se no ti ammazzo!”. La maestra l’aveva messa in guardia. I bambini, frequentando gli adulti, avrebbero potuto contagiarli e provocarne la morte. Panico, panico in tutte le trasmissioni, persino in quelle di cucina. Chi, come me, ha cercato di tranquillizzare, è stato criticato, persino minacciato. Se si dovesse descrivere questa pandemia con poche parole chiave, potremmo mettere al primo posto proprio panico e confusione.
Bisognerebbe obbligare chi fa comunicazione a frequentare corsi di crisis communication (comunicazione durante la crisi). La prima regola è non disseminare panico tra la gente, ancor più quando la situazione è grave. È avvenuto e avviene il contrario, non senza la collaborazione di qualche “tristo” collega dalla visione sempre pessimista. E sull’interpretazione dei dati e dei numeri si sono persino creati schieramenti anche tra noi esperti.
È a tutti noto il “partito” Galli-Crisanti e quello Bassetti-Vaia-Gismondo. Nessuno di noi si è sognato di costituirlo ma, di fatto, è stato così. Anche questo fa provare amarezza. Siamo stati tutti responsabili per aver creato una certa confusione e incertezza nella gente. Purtroppo è difficile spiegare che, soprattutto in un fenomeno di tale portata, non si possa essere tutti con lo stesso pensiero.
La scienza non è esatta, come si vorrebbe, ma è in continua evoluzione, alimentata dal confronto tra ricercatori. Forse questo confronto avremmo dovuto farlo fra di noi e non sui media. Dobbiamo tutti chiedere scusa al pubblico.
Non abbiamo avuto paura? Sì, certo. Per noi stessi e per i nostri cari. Una notte, mi sento male alle ossa, mal di gola, sintomi simil influenzali. Scappo in ospedale per fare un tampone. Temevo per me, ma sentivo anche una grande responsabilità verso i miei familiari. Il tampone è di esito incerto. Non nascondo di aver sentito un pugno allo stomaco. Ho capito cosa stesse provando tanta gente che vedeva nell’esito “positivo” una sentenza di morte. Fortunatamente, dopo qualche ora, il mio esito si confermava negativo.
Paura ne ho provata anche quando mia figlia mi ha comunicato, in piena pandemia, di essere incinta. In laboratorio stavamo conducendo ricerche sulla possibile trasmissione transplacentare del virus. Mentre Davide e Alessandro, miei bravissimi ricercatori, mostravano entusiasmo per aver forse dimostrato tale passaggio, mi sentii più volte tremare le vene. E se fosse successo a mia figlia? Mia, il nome della piccola, nasceva a settembre, bella, in salute, covid free, lei e la mamma. A tutt’oggi il suo mondo è popolato da esseri con la mascherina. Ha imparato a sorridere, per il tono di voce con il quale ci si rivolge. Non le è concesso vedere i nostri sorrisi.
È trascorso un anno. Siamo fieri del nostro lavoro, perché siamo consapevoli di aver dato tutti il massimo, ma siamo stanchi e tristi. Il virus continua a girare e a mietere vittime, malgrado oggi abbiamo imparato anche a curare e a mitigare la gravità della malattia. Siamo ancora nella condizione di affrontare temuti lockdown. Stanno arrivando le varianti, delle quali molti parlano senza alcun fondamento scientifico. Di fatto sappiamo solo che la variante “inglese” è più contagiosa. Nulla di certo sulle altre.
È un virus mutevole. Ce lo aspettavamo. Sono arrivati i vaccini. Al ritmo attuale non serviranno a molto. Ci chiediamo se e cosa sia stato non fatto o fatto erroneamente. Oggi ci accorgiamo che la lotta contro il virus sta mietendo troppe vittime al di fuori del Covid. Sono i depressi, i disoccupati, sono i pazienti a cui viene ancora negata una sanità ordinaria, sono i suicidi. Forse dovremmo prendere in considerazione che questo virus potrebbe restare nella specie umana e che non sarà possibile vivere per eliminarlo, ma di organizzarci per conviverci. Sembriamo ignorarlo. Ricordiamo la definizione di “benessere” fatta dall’Oms qualche anno fa: “Uno stato di benessere fisico, mentale e sociale e non semplice assenza di malattia”. È tempo per mettere in primo piano il ripristino di tale equilibrio.