“La situazione peggiora”: altre tre regioni arancioni, Speranza rinvia la stretta

Dalle prime valutazioni dei tecnici di ministero della Salute e Istituto superiore di Sanità sembrava che più di mezza Italia, compresi Lombardia e Lazio, dovesse passare in zona arancione. Non è andata così, il ministro Roberto Speranza ha preferito rimandare le inevitabili tensioni con i presidenti delle Regioni alla prossima settimana, quando si discuterà del nuovo dispositivo anti Covid-19: il 5 marzo scade infatti il Dpcm sull’Italia “a colori”. In quella data sarà prorogato anche il decreto che vieta gli spostamenti interregionali, in scadenza giovedì 25 febbraio. Al ministero della Salute ritengono necessaria un’ulteriore stretta, non un lockdown generalizzato ma, ad esempio, un paio di settimane in arancione per tutta Italia, con i giorni festivi in rosso come a Natale. Deciderà Mario Draghi.

Così, alla prova del monitoraggio settimanale, ieri Speranza ha disposto la zona arancione solo per tre Regioni che hanno l’indice di riproduzione del virus, nel valore puntuale calcolato al 3 febbraio, superiore a 1: Campania (1,16), Emilia-Romagna (1,06) e Molise (1,4). Si aggiungono ad Abruzzo (1,17), Liguria (1,08), Trentino (1,23), Alto Adige (1,16), Toscana (1,2) e Umbria (1,17), che erano già arancioni. L’Umbria, per circa due terzi rossa in base ai provvedimenti regionali anti-varianti, è l’unica Regione classificata a rischio alto. Naturalmente le zone rosse locali rimangono anche altrove, dalla Lombardia al Piemonte, dalle Marche all’Abruzzo e al Molise dove si sono verificati focolai connessi alla variante inglese e (a Perugia) a quella brasiliana, mentre l’elevatissima incidenza in Alto Adige, ragionevolmente connessa alla variante sudafricana che dilaga nel confinante Tirolo consiglia alla Provincia autonoma di mantenere un sostanziale lockdown.

A livello nazionale Rt è a 0,99: “Si confermano, per la terza settimana, segnali di tendenza a un graduale incremento nell’evoluzione epidemiologica”, scrive la Cabina di regia Salute/Iss. Aumenta lievemente l’incidenza (da 133,13 a 135,46 nuovi casi a settimana ogni 100 mila abitanti) con punte di 223,5 in Abruzzo, 254,66 a Trento, 277,07 in Umbria e ben 738,2 a Bolzano. Continuano a diminuire i ricoverati (da 2.143 a 2.074 nelle terapie intensive, da 19.512 a 18.463 nei reparti ordinari tra il 9 e il 16 febbraio) che restano sotto le soglie d’allerta, ma ogni giorno nelle rianimazioni entrano da 120 a 170 persone (ieri 151) e l’occupazione dei letti cresce in Abruzzo, Campania, Emilia-Romagna, Trento, Bolzano, Molise e Umbria. I decessi, ieri 353, calano molto lentamente.

 

Brusaferro: “No allarmismo ma la fase è delicata”

L’attenzione degli esperti si concentra sulle varianti contro le quali occorre “agire in maniera aggressiva, fare contenimento”, ha detto Gianni Rezza, direttore della Prevenzione al ministero. Quella inglese, ha spiegato ieri il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro, dimostra in Italia una trasmissibilità media superiore al ceppo ordinario del 39%, dunque non si arriva al 50% stimato in Gran Bretagna “anche per effetto delle misure in vigore”. La sua prevalenza, valutata al 17,8% dei casi in Italia nella prima indagine realizzata tra il 4 e il 5 febbraio, potrebbe essere salita fino al 30/35% in appena 15 giorni. Corre veloce, tutti si attendono che divenga prevalente in qualche settimana come accade in altri Paesi. Non crea problemi ai vaccini, ma forse è responsabile dell’aumento dell’incidenza rilevato nei giovani fino a 19 anni, fra i quali tuttavia “non c’è evidenza di un peggioramento dei quadri clinici”, ha osservato il professor Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità. Diminuiscono invece i nuovi casi tra gli over 80 “e questo – ha sottolineato Brusaferro – è un primo segnale importante che ci mostra l’importanza della campagna vaccinale” appena iniziata. La nuova indagine di ministero e Iss riguarda anche la brasiliana e la sudafricana, che invece mostrano resistenze ai vaccini.

L’elaborazione delle misure post 5 marzo sarà anche l’occasione per eventuali interventi sul Comitato tecnico scientifico e per la ridefinizione del piano vaccinale, nella cui logistica la Protezione civile e le Forze armate potrebbero ereditare alcune competenze del Commissario Domenico Arcuri.

Oltre al Mes, Renzi rinuncia alla bandierina-prescrizione

Chissà se, parafrasando il collega Davide Faraone, i renziani in queste ore si stiano rivolgendo al nuovo ministro della Giustizia, Marta Cartabia, come con Mario Draghi sul Mes: “Ministro, è lei la nostra prescrizione” potrebbe dire Lucia Annibali, responsabile Giustizia di Italia Viva, che fino a pochi giorni lottava per spazzare via la riforma “blocca prescrizione” di Alfonso Bonafede e oggi deve giustificare il rinvio del suo emendamento alle calende greche. Dopo il Mes, con il nuovo governo, i renziani vedono allontanarsi un altro di quei temi usati come clava per buttare giù il governo di Giuseppe Conte: la prescrizione.

Giovedì sera, infatti, dopo il voto di fiducia alla Camera, i rappresentanti dei partiti di maggioranza che si occupano di giustizia – da Alfredo Bazoli (Pd) a Mario Perantoni (M5S) passando per Francesco Paolo Sisto (FI) e Annibali (Iv) – e il ministro dei rapporti col Parlamento Federicò D’Incà, si sono riuniti a Montecitorio con il nuovo ministro Cartabia e hanno dovuto fare un passo indietro: tutti gli emendamenti al decreto Milleproroghe di renziani, berlusconiani, centristi e leghisti che avrebbero ripristinato la vecchia prescrizione sono stati eliminati e non saranno nemmeno discussi nel fine settimana in commissione Affari costituzionali e Bilancio della Camera.

In cambio, come primo atto politico, Cartabia si è impegnata a far approvare un ordine del giorno per affrontare il nodo della prescrizione solo all’interno di una più ampia riforma del processo penale che “consenta il bilanciamento dei principi costituzionali”, si legge nel documento firmato dall’ex presidente della Corte costituzionale. Lo strumento sarà quello della delega al governo. Il motivo ufficiale, spiegano da Via Arenula, è che gli effetti della riforma Bonafede che dal 1° gennaio 2020 blocca la prescrizione dopo la sentenza di primo grado si vedranno nel lungo periodo (5-6 anni) e quindi c’è tempo per mettere mano a una riforma che snellisca i tempi del processo.

Ma, in altre parole, questa decisione equivale a buttare la palla in tribuna disinnescando per i prossimi mesi la “mina” prescrizione: come spiegano fonti di governo, infatti, è molto difficile (per non dire impossibile) che una maggioranza così variegata – soprattutto sulla giustizia – approvi una riforma del processo penale. Obiettivo che non era stato raggiunto nemmeno dalla maggioranza più coesa che sosteneva il governo Conte bis. Tant’è che la mediazione raggiunta lascia l’amaro in bocca a chi, renziani e berlusconiani in primis, avrebbe voluto spazzar via subito la norma sulla prescrizione. Così da chi aveva presentato gli emendamenti al Milleproroghe filtra solo soddisfazione “per il nuovo metodo di condivisione” ma Annibali non commenta, mentre il forzista Sisto spiega che “ognuno è parzialmente scontento ma per il rispetto della ministra è stato giusto così: più che soddisfatto sono fiducioso che si possa arrivare al risultato”. Ma anche il responsabile giustizia di Forza Italia ammette che non sarà facile approvare una riforma del processo penale: “Vedremo nelle prossime settimane – dice – non so se ci riusciremo”.

Resta il fatto che, dopo quella sui 36 miliardi del Mes, i renziani devono accantonare un’altra delle battaglie usate per abbattere il governo Conte. L’ex premier si era dovuto dimettere proprio alla vigilia del voto al Senato sulla relazione sulla giustizia di Bonafede e, durante le trattative per la formazione del Conte ter, i renziani avevano abbandonato il tavolo perché non contenti del cosiddetto “lodo Orlando”, una mediazione secondo cui entro sei mesi la nuova maggioranza avrebbe dovuto approvare una riforma del processo penale pena la modifica della “blocca prescrizione”.

E se fino a dieci giorni fa la riforma della prescrizione per Annibali era “un tema dirimente” per cambiare “la cultura giuridica giustizialista in favore di una garantista”, oggi non è più una priorità. Secondo Costa invece, si sarebbe dovuta “sospendere” la “Bonafede” fino a quando non fosse stata approvata “una legge per snellire i processi”, mentre oggi l’avvocato eletto con FI deve accettare che la prescrizione resti intatta per diversi mesi: “È un primo punto di partenza – ammette – ma non sarà facile arrivare a una soluzione”.

 

L’assalto delle imprese alla commissione Via: l’ambiente è un ostacolo

Un “ingorgo”. Così il Sole 24 Ore ha definito ieri le 640 procedure di Valutazione di Impatto Ambientale che starebbero intasando il ministero dell’Ambiente e quindi rallentando – è il sottotesto – la realizzazione di opere grandi e piccole in tutto il Paese.

Per i non tecnici, si tratta grosso modo di quelle autorizzazioni che di fatto danno l’ok all’avvio di cantieri e lavori certificandone la fattibilità all’interno del contesto ambientale. Chi realizza le opere deve dimostrare il rispetto di norme e regolamenti e ottemperare a eventuali prescrizioni prima di poter procedere. Il compito di valutare è affidato a una commissione apposita. Eppure, da quanto risulta al Fatto, le istanze avanzate sono molte meno e non raggiungerebbero quel numero neanche se sommate a quelle per l’Aia, l’Autorizzazione integrata ambientale. Nessun intasamento, quindi, ma anzi spesso l’inadeguatezza dei committenti o di chi ignora la possibilità di ricorrere ai più rapidi Procedimenti unici ambientali.

Non è la prima volta che il giornale di Confindustria descrive l’iter della Via (che di fatto è emblema della “sostenibilità” in quanto serve a coniugare sviluppo e tutela ambientale) come un “ostacolo”. Una strategia tanto più preziosa se messa in atto, come ora, nella fase di transizione tra un ministro che esce e uno che arriva. Il suggerimento, però, si scontra con se stesso. Sempre sul Sole, il presidente della Commissione Via, Massimiliano Atelli, spiega come buona parte dei problemi sia attribuibile al modo in cui vengono presentati i progetti: carenze strutturali e istruttorie non adeguate. E nonostante questo i “no” sono meno del 10%. Certo, è difficile che le grandi aziende e le multinazionali – soprattutto energetiche – non sappiano impostare progetti a favore di Via e Vas. Dunque, la parafrasi di questa campagna mediatica è ben stringata: c’è chi preme perché tutto diventi più rapido e meno controllato e chi si difende respingendo al mittente questa possibilità.

In mezzo, ci sono i numeri, piegati alla bisogna. Da quando si è insediata, la nuova commissione Via (dopo ben 12 anni di proroga della precedente e dopo la selezione fatta dall’ex ministro Sergio Costa tra professori ed esperti) ha approvato in media un progetto al giorno. A richiedere più tempo, sono i progetti complessi oppure quelli per i quali servono ulteriori pareri tecnici, magari dell’Ispra (l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale). O ancora, le situazioni si complicano se ci sono passaggi da fare col ministero dello Sviluppo economico. Se al neo ministro della Transizione ambientale passerà anche la materia energetica, come annunciato da Draghi, tutto dovrebbe scorrere più agevolmente, alleviando ogni ansia. Salvo che dietro quest’allarme non si nasconda un ormai poco inedito appello alla semplificazione “modello Genova”.

La Corte dei Conti avvisa Draghi: “No al modello Genova”

È probabile che sia solo un’esegesi interessata delle parole di Mario Draghi. Fatto sta che pare ripartito l’assalto per liberare l’economia italiana da lacci e lacciuoli, che nel settore degli appalti pubblici passa sotto il nome di “modello Genova”. La cosa piace assai alla grande stampa. Il premier non l’ha mai evocato pubblicamente, ma i rumors già lo dipingono come il cuore dell’ennesimo decreto “semplificazioni” che si starebbe studiando al Tesoro, ovviamente per spendere meglio i fondi del Recovery Fund. Nessuna conferma, ma sindacati ed esperti sono già in allarme. Un assaggio lo si è avuto ieri all’inaugurazione dell’Anno giudiziario della Corte dei Conti dove Draghi ha tenuto il suo primo intervento pubblico.

Gran parte del discorso il premier lo ha dedicato al Piano di ripresa, elogiando il ruolo dei magistrati contabili che dovrà essere “ancora più cruciale” con l’arrivo dei fondi europei. Il controllo della Corte dev’essere “intransigente e rapido”, ha spiegato. “Può esservi ripresa solo in presenza di trasparenza, legalità finanziaria e controlli che garantiscano la realizzazione dei programmi finanziati”, gli ha fatto eco il presidente della Corte dei Conti, Guido Carlino.

Il tema è complesso, ma qualche differenza di vedute c’è. Giovedì, alla Camera, Draghi ha parlato della necessità ineludibile di “semplificare”. Perché è nella farraginosità delle norme, nella scarsa trasparenza anche “sul piano delle responsabilità” che si annidano l’inefficienza e i fenomeni illeciti. Ieri lo ha ribadito: bisogna evitare – ha spiegato –, gli effetti “paralizzanti della ‘fuga dalla firma’ da parte dei dirigenti, ma anche regimi di irresponsabilità a fronte degli illeciti più gravi per l’erario”. L’auspicio è che si eviti “la contrapposizione tra istituzioni, che è un gioco a somma negativa”. Come? Lavorando “per costruire un rapporto di collaborazione tra pubblici funzionari e Corte dei Conti… dando impulso ai processi che valorizzino il suo ruolo di supporto consulenziale rispetto alle amministrazioni”. Insomma, evitare di “scaricare sui funzionari pubblici responsabilità sproporzionate che sono la risultante di colpe e difetti a monte”.

L’allarme tra i magistrati contabili c’è. Carlino ha ricordato i tentativi lo scorso anno di inserire nel decreto Semplificazioni del governo Conte “proposte normative intese a incidere sull’ordinamento e sulle funzioni della Corte dei Conti, allentando i controlli o indebolendo la funzione di deterrenza che caratterizza la responsabilità amministrativa”. Il riferimento è al tentativo (poi saltato) di estendere a tutti gli atti della P.A. il controllo preventivo della Corte dei Conti (oggi previsto per i soli atti del governo) dimezzando i tempi di risposta ed eliminando i controlli ex post. Non è avvenuto, ma il decreto ha comunque eliminato la “colpa grave” (resta solo il dolo) come fattispecie di danno erariale per i funzionari che firmano gli atti fino a dicembre 2021. Una norma, tra le altre, bocciata ieri dal procuratore della Corte, Angelo Canale: “Pur se ispirati dall’obiettivo di evitare i ritardi – ha spiegato – questi interventi hanno reso più difficile l’azione di contrasto alla cattiva amministrazione”. Il timore che si segua questa strada serpeggia tra i magistrati contabili. Carlino ha auspicato che il governo coinvolga la Corte prima di intervenire di nuovo.

A ogni modo, se davvero sarà il “modello Genova” il cuore del provvedimento c’è da preoccuparsi. Parliamo, in sostanza, del potere discrezionale grazie al quale il Commissario di governo può affidare gli appalti senza gara, come si è fatto per il ponte Morandi. Che però aveva specificità uniche: l’urgenza, l’importo (solo 200 milioni), la spesa a carico di Autostrade per l’Italia, eccetera.

Il governo Conte-2 lo ha in parte ripreso nel decreto Semplificazioni di luglio, ma con alcuni presidi di legalità (contratti, trasparenza, limiti al subappalto etc.). Una lista di 52 commissari (per 59 opere) da nominare giace in Parlamento in attesa di un parere consultivo. Il modello non è replicabile tout court e peraltro in termini di extra-costi non ha dato grande prova (il contenzioso vale già 100 milioni), mentre l’Autorità anticorruzione è stata tenuta fuori dai controlli. Il centrodestra, specie la Lega, già esulta. La palla è nelle mani di Draghi.

 

Quel sistema senza gare e controlli

Con “modello Genova” si intende, in sostanza, il potere discrezionale grazie al quale il Commissario di governo può affidare gli appalti senza gara, come si è fatto per il ponte Morandi. Che però aveva specificità uniche: l’urgenza, l’importo (soltanto 200 milioni), la spesa a carico di Autostrade per l’Italia etc. È previsto dal decreto voluto nell’ottobre 2019 dal governo Conte I. Il Conte II lo ha in parte ripreso nel dl Semplificazioni, ma con alcuni paletti: una lista di 52 commissari da nominare è in attesa di essere approvata

Tocca insistere: ecco come andò coi soldi dell’Iit finiti a Lecce…

Nel 2006, l’Istituto italiano di tecnologia (Iit) di Genova diretto da Roberto Cingolani stipula una convenzione di ricerca col Cnr. Quello stesso anno, Cingolani ricopriva anche una carica al Cnr: era responsabile per l’accorpamento dei laboratori dell’Istituto di fisica della materia (Infm) chiuso nel 2005 e di cui era parte il Laboratorio nazionale di nanotecnologie (Nnl) di Lecce, fondato proprio da Cingolani e da lui diretto ancora nel 2006. In veste di responsabile Cnr, il 27 luglio 2006 Cingolani firma un atto in cui ratifica la convenzione tra Iit e Cnr del 7 giugno 2006 e dispone che i 3,5 milioni messi a disposizione dal suo Iit vadano al suo Nnl di Lecce. Cingolani ratifica che la responsabile per la gestione della convenzione e dei fondi sarà la fisica Rosaria Rinaldi, moglie di Cingolani “fino al 2004, poi ci siamo separati,” ha spiegato al Fatto Rinaldi. “Si figuri se dovevo favorire qualcuno,” ha detto l’altroieri Cingolani sempre al Fatto. Alla domanda se si tratti di conflitto di interessi, ha risposto che “il progetto era sulle nanotecnologie e i centri attrezzati erano a Lecce e alla Normale di Pisa”. Sì, era sulle nanotecnologie e lo aveva messo a punto lui come direttore di Iit: “Quei soldi non sono andati alla mia ex moglie, erano risorse destinate al laboratorio”. Ricapitolando. A firmare per il Cnr “l’esecuzione di attività di ricerca” a Lecce, è Cingolani: nell’atto si legge che “lo svolgimento delle attività previste” avvenga presso il Laboratorio Nnl di Lecce (da lui diretto, ndr) sotto la responsabilità scientifica della professoressa Rosaria Rinaldi” in quanto “responsabile della commessa Cnr” sulle nanotecnologie al laboratorio Nnl, qualifica che risale al 2005, quando Cingolani era direttore di Iit e del laboratorio salentino, oltre che responsabile Cnr-Infm.

Cingolani ha scelto i suoi tecnici: renziani e targati Confindustria

La battaglia su quale futuro economico e industriale dare al Paese, grossa parte della quale si svolge su quanto greenwashing ci sarà nell’ormai famigerata “transizione ecologica”, è centrale in questa fase. L’assetto del ministero che porta quel nome (ex Ambiente più deleghe sull’energia) – che gestirà almeno il 37% dei fondi del Recovery Plan – ce ne dà una prima idea: domina il business as usual, soprattutto il business in verità.

Il paradosso è che, pur essendo il motivo principale per cui il M5S ha detto sì a Mario Draghi, la struttura guidata dal fisico Roberto Cingolani nasce di fatto cancellando la stagione di Sergio Costa all’Ambiente, assai poco gradita alla Confindustria come dimostrano gli attacchi del Sole 24 Ore (vedi qui sotto). La squadra dell’ex generale, membro dei governi Conte in quota 5Stelle, è stata rasa al suolo e a guidare la “transizione ecologica” col neo ministro tornano i dirigenti che accompagnarono la non indimenticabile stagione di Gian Luca Galletti, politico Udc che fu a capo del dicastero con Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. Come abbiamo già scritto, capo di gabinetto sarà il consigliere parlamentare Roberto Cerreto, che ebbe lo stesso ruolo nel ministero per le Riforme di Maria Elena Boschi, che poi lo volle pure come capo del legislativo a Palazzo Chigi quando divenne sottosegretaria di Gentiloni: a proposito di ambiente, da capo di gabinetto della Boschi, Cerreto dovette occuparsi della scrittura dell’emendamento sui giacimenti di Tempa Rossa chiesto dalle compagnie petrolifere per aggirare le resistenze della Regione Puglia (fu al centro del caso che portò alle dimissioni dell’ex ministra dello Sviluppo Federica Guidi).

Anche all’ufficio legislativo tornano i tempi di Galletti: il capo sarà Marcello Cecchetti, professore a Sassari, giurista d’area Pd anche lui con ascendenze renziane (fu assistente di studio di Ugo De Siervo, i cui due figli – Luigi e Lucia – sono amici e sodali del capo di Italia Viva, che da sindaco nominò Cecchetti in una commissione per studiare “una legge speciale per Firenze”). Il suo vice sarà invece l’avvocato Marco Ravazzolo, anche lui a suo tempo consigliere di Galletti, ma soprattutto dirigente di Confindustria, di cui finora è stato responsabile Ambiente. Dalle legittime ragioni dell’impresa a dirigente di un ministero spesso in conflitto con quelle ragioni è un cambio non da poco. Ricordiamo per dovere di cronaca che i 5 Stelle si sono assai vantati in questi anni del fatto che Costa avesse imposto a tutti i dirigenti del ministero di tenere uno scrupoloso registro degli incontri coi lobbisti.

D’altra parte, la stessa scelta di Cingolani, che dall’estate 2019 è Chief Technology & Innovation Officer di Leonardo (la ex Finmeccanica), pone l’istituzione in una posizione imbarazzante. Ad esempio, tra i dossier su cui dovrà decidere a breve, il ministro, che è in aspettativa dal colosso della difesa, troverà anche l’ultimo capitolo di un lungo contenzioso proprio tra Leonardo e il ministero dell’Ambiente sul vecchio Sistri, una roba che vale circa 90 milioni di euro. La storia è antica: come deciso nel 2009 dall’allora ministra Stefania Prestigiacomo, Selex – poi inglobata in Leonardo e liquidata – doveva fornire al ministero il sistema di tracciamento dei rifiuti speciali (il Sistri appunto) per il periodo 2009-2014. Fu una storia di straordinario fallimento, visto che quel sistema non è di fatto mai entrato in funzione e oggi non esiste più: eppure fino al 2018 era costato allo Stato 141 milioni di euro. Problema: Selex ha fatto causa al ministero, il suo committente, per vedersi riconosciuto comunque l’intero importo del contratto, altri 190 milioni. Dopo anni in tribunale, si è recentemente deciso di transare sulla quota fissa (88 milioni), ma Costa si è invece rifiutato di cedere sui quasi 90 milioni di quella variabile: il neo ministro Cingolani, dipendente in aspettativa di Leonardo, dovrà dunque decidere se resistere in giudizio o andare al Tesoro e chiedere di pagare (e quanto) il suo datore di lavoro. Non solo transizione, allora, sarà anche ministro della transazione.

“Così il M5S evapora: mandano via chi ha dato il suo sangue”

Il Movimento 5 Stelle doveva essere un’idea diversa, ma ora è soprattutto un campo di battaglia. E Max Bugani, grillino della prima ora, osserva le macerie dello scontro: “Mi sembra di vivere un incubo. Spero che qualcuno venga a svegliarmi per dirmi che stavo solo sognando, ma non succederà”. La realtà del Movimento è questa, e lo sa perfettamente Bugani, capo staff della sindaca Virginia Raggi (“Ma oggi non è davvero la giornata per parlare di Roma”).

Perché il M5S è arrivato a questo punto?

Da anni ripetevo che era necessario definire un perimetro culturale prima ancora che politico, chiarire cosa fossimo e dove stessimo andando dopo aver ottenuto risultati come il Reddito di cittadinanza e la legge Spazzacorrotti. Con Luigi Di Maio come capo politico siamo scesi dal 33 al 17 per cento nel giro di un anno. Poi hanno detto a Vito Crimi vai avanti tu, che ci viene da ridere. Abbiamo svolto gli Stati Generali con due anni di ritardo, ma non sono serviti a nulla, perché nessuno si è messo in discussione seriamente. Ed eccoci qui.

Il Movimento è qui, come dice lei, anche perché è stato abbattuto Giuseppe Conte. E non può essere una colpa del M5S, non pensa?

Quando dici “o Conte o voto” devi tenere il punto. O Conte o voto, tertium non datur. La verità è che invece anche per molti parlamentari del M5S l’alternativa a Conte c’era, ed era qualsiasi altra cosa, pur di non andare a casa.

Non è così semplice. C’è una pandemia, e il Quirinale ha detto chiaramente che le elezioni non erano una via praticabile. Tutto questo avrà pesato, non crede?

E infatti c’era un presidente del Consiglio come Conte, che stava gestendo bene la situazione con un ampio consenso degli italiani. Per questo la dirigenza del M5S doveva far valere il proprio 33 per cento e poi parlare con sincerità. C’è chi in questi giorni ha definito il Movimento come una forza finalmente matura, che affronta la complessità. Ma non si è maturi, se invece di dire la verità ci si inventa un superministero e si mette sulla piattaforma Rousseau un quesito demenziale, che offende l’intelligenza degli iscritti.

Ma gli iscritti hanno comunque votato a favore di Draghi.

Quel quesito non era una cosa seria. Grillo aveva promesso un superministero e aveva detto che la Lega sarebbe rimasta fuori dal governo. C’è stata una sommossa affinché si rivotasse.

E ora le espulsioni, a pioggia. In fondo si potrebbe dire che è giusto sanzionare chi non rispetta la disciplina di partito.

Si manda via gente che ha dato il sangue al Movimento perché ha detto legittimamente no, rifiutando un quesito ridicolo e un governo come ne abbiamo già visti tanti in passato.

Tira aria di scissione, lei che ne dice? Continuano a evocare Alessandro Di Battista come leader…

Il vero rischio non è la scissione, ma l’evaporazione del M5S. Anche perché ora il Movimento dovrebbe governare con tutti e soprattutto con Forza Italia. Era la nostra linea invalicabile, ed è stata varcata.

Fuori ci sarebbe Giuseppe Conte. Può essere l’ancora di salvezza?

Spero che Giuseppe abbia capito come non sia stato solo Matteo Renzi a farlo cadere, ma che anche qualcuno nel Movimento non aspettasse altro. Conte si è rivelato un grande mediatore, facendo sintesi tra partiti che erano divisi al loro interno. Ma gli sconsiglierei di fare il capo del M5S. All’inizio otterrebbe grande consenso, ma subito dopo inizierebbe a logorarsi.

Ora che succederà?

Guardi, dopo dieci anni in politica ho imparato che a contare non è quello che si dice, ma è quello che si fa. A parte Roberto Speranza per ragioni legate alla gestione della pandemia, ci sono solo quattro persone che hanno ottenuto i ministeri che volevano: Di Maio, Franceschini, Giorgetti e Brunetta. E per me non è un caso. Sono quattro politici che parlano bene l’uno dell’altro da molti mesi. Ho la sensazione che qualcuno pensi di rifare la Balena Bianca (cioè la Democrazia Cristiana, ndr), ma al massimo può venire fuori un branzino.

Lei è duro nei confronti di Di Maio. Ma la decisione di appoggiare Draghi è stata innanzitutto di Grillo.

Ci sono persone che hanno perso il lavoro o rovinato rapporti familiari per stare nel Movimento. In questi anni Grillo ci chiamava per spronarci e ci diceva di volare alto. Ma ora, con tutto il bene che gli voglio, vorrei chiedergli io: “Beppe, come mai non riesci più a volare?”, per citare Fabrizio De André.

Quando lo ha sentito l’ultima volta ?

Non ci sentiamo da un anno. E mi dispiace davvero molto, mi creda.

 

I 5S vanno dritti sulle espulsioni. Ma coi ricorsi linea dura a rischio

Tutti contro tutti. Con decine di espulsi dai gruppi parlamentari che minacciano ricorsi e denunce, i probiviri che ora dovranno andarci pesanti, con tutti, e Davide Casaleggio infuriato con i 5Stelle di governo. Sullo sfondo, due nuovi gruppi parlamentari che già si profilano, con molti dei cacciati. Questo sono i Cinque Stelle frantumati dal sì a Mario Draghi. Anche se qualche big tende la mano ai “dissidenti” e lancia messaggi per scongiurare le espulsioni di massa, che tra Camera e Senato dovrebbero riguardare 40 parlamentari, tra chi ha votato no, si è astenuto o si è assentato senza valida giustificazione. “Ma non c’è nessuna trattativa, si andrà dritti”, confermano dai piani alti in serata. La stessa linea dei gelidi comunicati con cui i capigruppo hanno annunciato le espulsioni.

Poche righe su carta intestata di Montecitorio o Palazzo Madama per ribadire che il voto contrario “denota il mancato rispetto delle decisioni assunte dagli iscritti” e “pregiudica l’immagine e l’azione politica” del Movimento, per cui, “su indicazione del Capo politico e sentito il Comitato direttivo”, la conseguenza è l’immediata espulsione “senza ratifica degli iscritti”. Con un “cordiale saluto” da fine lettera si chiudono le avventure politiche nel M5S di decine di parlamentari per adesso espulsi dal gruppo e in attesa di giudizio sulla eventuale cacciata anche dal Movimento, che segue tempi e procedure diversi. Ma il reggente Vito Crimi, alle prese con le accuse quotidiane di chi lo considera ormai “abusivo” nel ruolo, ha le idee chiare: “Chi non ha votato la fiducia si è automaticamente collocato all’opposizione del Movimento ed era consapevole delle conseguenze”.

Non è tutto così semplice, però. Anche perché a decidere sulle espulsioni sarà il collegio dei probiviri formato dalla ministra alle Politiche giovanili, Fabiana Dadone, dall’ex consigliere regionale in Veneto, Jacopo Berti, e dalla consigliera comunale di Villorba (Treviso), Raffaella Andreola. E proprio la Andreola, parlando a LaCnews24, ha smentito il capo politico: “Ritengo opportuno sospendere tutte le attività del collegio, in attesa che gli organi vengano ricostituiti in maniera completa”. Tradotto: finché il M5S non dà seguito al voto dell’altro giorno su Rousseau, che ha modificato lo Statuto introducendo una segreteria a 5 al posto del capo politico, non è il caso di esprimersi su questioni decisive. Ma le sue frasi, spiegano, hanno complicato maledettamente il lavoro di mediazione fatto nelle ore precedenti. Così, oggi, i probiviri si riuniranno per aprire i procedimenti sui parlamentari, e si prenderanno dieci giorni per decidere. Ma a questo punto saranno tenuti alla massima severità. Non solo nei confronti di chi ha votato no, ma anche verso chi è indietro con le restituzioni o ha commesso altre violazioni. Ergo: anche con diversi “governisti”. Anche se in queste ore Berti, il motore del collegio, sta richiamando tutti alla calma e al rispetto delle norme. E comunque, dicono fonti qualificate, c’è il rischio dei tribunali. Perché alcuni degli espulsi faranno ricorso. “E in sede giudiziaria la proroga di Crimi come capo politico, fatta da Grillo con un’interpretazione autentica, potrebbe vacillare” è il sospetto (o l’auspicio). Fuori, una veterana come Paola Taverna invoca una tregua: “Ricordo che tanti colleghi che hanno votato in dissenso sono parte fondamentale del Movimento, serve unità adesso”.

Anche perché si avvicinano le nomine di viceministri e sottosegretari. E Crimi, sostengono, vorrebbe privilegiare gli eletti del Sud e magari del Senato, così da smentire l’accusa di un governo sbilanciato verso il Nord e calmare il gruppo di Palazzo Madama, il più agitato. Inevitabile però che a una scelta del genere corrispondano i malumori di chi resterà fuori, soprattutto alla Camera. Una grana che rende ancor più pesante l’aria nel gruppo parlamentare. Ieri alcune agenzie hanno riportato voci interne al Movimento che accusavano Alessandro Di Battista di voler organizzare uno scisma “come quello realizzato da Renzi nel Pd”. Ipotesi smentita dall’ex deputato, che oggi dirà la sua in una diretta social: “Invito i miei ex colleghi che hanno scelto legittimamente di passare dal Sì Conte No Renzi al No Conte Sì Renzi a non passare ai giornali stupidaggini del genere sul mio conto. Non mi occupo di correnti, scissioni, nuove forze politiche”.

Però qualcosa si muove, anche senza di lui. Così alla Camera dovrebbe nascere un gruppo dal nome provvisorio Alternativa (“L’alternativa c’è” hanno ripetuto molti dei deputati nei discorsi per il no). Mentre in Senato si lavora al gruppo con le insegne dell’Italia dei Valori. “Il simbolo Idv in Senato può far costituire un gruppo formato da almeno 10 senatori” conferma Elio Lannutti, già senatore con Di Pietro, tra i più duri nel no a Draghi. Prontissimo alla scissione.

Perché è caduto Conte?

Dopo due giorni di travolgente emozione, commozione, brividi e pelle d’oca per i Grandi Discorsi di Draghi tra Senato e Camera, sobriamente celebrati dalla maggioranza politico-mediatica modello Pyongyang come il ritorno di Demostene e Cicerone fusi insieme, è finalmente chiaro ciò che il governo farà di buono e giusto (tutto) e di cattivo e sbagliato (niente). Un solo interrogativo resta inevaso: perché è caduto il governo Conte-2? Breve catalogo di opzioni.

Incapace. Conte era un premier incapace con ministri scappati di casa provenienti da partiti incompetenti ed è stato travolto dal “fallimento della politica” e dalla “crisi di sistema”? Draghi governa coi partiti incompetenti che appoggiavano Conte (più Lega, FI ecc.) e con 9 dei suoi ministri più 2 tecnici (Bianchi e Colao) che operavano con lui. Poi ci sono Brunetta, Gelmini, Giorgetti&C.

Recovery Plan. Conte aveva fallito sul piano, scritto coi piedi, in perenne ritardo e con una governance accentrata fra Mef, Mise e Affari Ue tipica dei dittatori, roba da cestinare e rifare da capo? Draghi dichiara al Senato che “il precedente governo ha già svolto una grande mole di lavoro sul Programma”, “finora costruito in base a obiettivi di alto livello” che ora “dobbiamo approfondire e completare, ma “le missioni del Programma resteranno quelle enunciate nei documenti del governo uscente”. Resta da fare ciò che due mesi di crisi impedirono a Conte di fare: “rafforzarlo per gli obiettivi strategici e le riforme che li accompagnano”. E la governance? Draghi l’accentra al Mef, molto più dell’accentratore Conte.

Pandemia. Conte ha fallito sulla gestione della pandemia, con le arlecchinesche Regioni a colori, le troppe chiusure, i ritardi sui vaccini, i disastri di Speranza, Arcuri e Cts? Draghi dichiara al Senato: “Ringrazio il mio predecessore Giuseppe Conte che ha affrontato una situazione di emergenza sanitaria ed economica come mai era accaduto dall’Unità d’Italia”. Conferma Speranza, il Cts e probabilmente Arcuri. E sui vaccini – salvo che riesca a fabbricarli in proprio – attende anche lui notizie dalla Commissione europea, quella dei competenti che si son fatti fregare dalle case farmaceutiche con contratti suicidi.

Prescrizione. Conte ha fallito perché non voleva cancellare la blocca-prescrizione di Bonafede? Draghi non la nomina, la Cartabia la rinvia a data da destinarsi e gli emendamenti contrari vengono ritirati da FI, Iv, Azione e +Europa che fino all’altroieri li ritenevano urgentissimi e decisivi.

Giustizia. Conte, presentando al Senato il suo secondo governo, annunciò “una riforma della giustizia civile, penale e tributaria, anche attraverso una drastica riduzione dei tempi”.

E si dilungò sulla lotta alla mafia. Draghi promette di “aumentare l’efficienza del sistema giudiziario civile”; di penale e di mafia non parla, se non in replica; e aggiunge che la giustizia deve rispettare “garanzie e principi costituzionali che richiedono a un tempo un processo giusto e di durata ragionevole”. Ovvietà copiate dall’art. 111 della Costituzione e dai discorsi degli ultimi 30-40 predecessori. Per sua fortuna la relazione Bonafede, su cui è caduto il Conte-2, già prevede 16 mila nuovi assunti nei tribunali con 2,8 miliardi del Recovery.

Carceri. Conte non fece nulla contro il sovraffollamento delle carceri, Draghi sermoneggia fra le standing ovation sulle “carceri, spesso sovraffollate” e su chi ci vive “esposto al rischio della paura del contagio e particolarmente colpito dalle misure contro la diffusione del virus”. Ma il rischio Covid è molto più alto fuori che dentro (in un anno 12 morti in carcere su 100mila detenuti passati per le celle, contro i 95.223 morti fuori su 60 milioni: 0,00012% contro 0,00015); e Bonafede nell’anno del Covid ha ridotto l’affollamento dai 61mila presenti a marzo ai 52.515 di oggi.

Mes. Gli incompetenti Conte e Gualtieri, per compiacere la follia dei 5S, rifiutavano i 36 miliardi del Mes? Il competentissimo Draghi manco lo cita e chi lo invocava un giorno sì e l’altro pure – FI, Iv&giornaloni – ha improvvisamente deciso che non serve più.

Ponte sullo Stretto. Vedi Mes, una prece.

Scuola. Conte ha fallito sulla scuola per colpa dell’incompetente Azzolina? Draghi nomina ministro Bianchi (già capo della task force dell’Azzolina); promette di “tornare rapidamente a un orario scolastico normale” (difficile, con l’aumento dei contagi con varianti Covid) e di “recuperare le ore di didattica in presenza perse” con le scuole aperte fino a giugno. Ma questo l’aveva già detto la Azzolina che, dopo aver garantito in piena pandemia un numero di ore in presenza superiore alla media Ue (dati Unesco), vede elogiare la Dad da lei inventata un anno fa come “notevole e rapida” nella kermesse mondiale Google Education, in corso negli Usa.

Ambiente. Conte non era abbastanza ambientalista? Draghi ha dato fondo a tutti gli slogan sul tema. Conte già nel settembre 2019 parlò di “transizione ecologica”, “riconversione energetica, fonti rinnovabili, biodiversità dei mari, dissesto idrogeologico, economia circolare” e stop alle trivelle. E disse le stesse cose che avrebbe detto Draghi 17 mesi dopo anche su fisco, pagamenti elettronici, Sud, atlantismo, europeismo, ricerca, Pa, digitalizzazione e migranti. Quindi il giallo del premiericidio senza movente rimane irrisolto: perché è caduto il governo Conte?

Immatricolazioni sempre peggio: a gennaio -25% rispetto al 2020

Si ricomincia come si era finito. Ovvero da un pesante ridimensionamento delle immatricolazioni.

A gennaio, l’Europa dell’auto ne ha perse oltre un quarto rispetto allo stesso mese del 2020, anno che tra l’altro si era chiuso con un -24,3% complessivo. Quasi tutti i Paesi dell’Ue hanno subito battute d’arresto ma a tradire sono state soprattutto le quattro piazze più grandi, vale a dire la Spagna (-51,5%), la Germania (-31,1%), l’Italia (-14%) e la Francia (-5,8%), tutte accomunate dal medesimo declino.

E volendo metterla dentro, anche se formalmente non c’è più ma restano comunque gli interscambi commerciali, anche l’Inghilterra non se la passa meglio col suo -39,5%, figlio più che altro delle misure restrittive che sta mettendo in campo contro la pandemia.

Cosa che, peraltro, sta accadendo in diversi altri Paesi. La potremmo definire l’onda lunga del Covid e delle sue varianti, visto che le contrazioni nella domanda principalmente a quello sono dovute.

Ma c’è anche un’altra tendenza da registrare, ed è la crescita percentuale di veicoli elettrici e ibridi plug-in, ovvero ricaricabili. Che soprattutto grazie agli incentivi statali mantengono un tasso costante di immatricolazioni nonostante il crollo del mercato.

Il problema è che, trattandosi di una fetta ancora molto limitata del totale, non riescono a compensare la diminuzione dei volumi totali. E, col venire meno dei programmi di sostegno pubblici, anche la loro spinta potrebbe affievolirsi.