Anche Ford prepara l’addio al termico

Puntare sull’elettrificazione. E, se possibile, su modelli 100% a batteria. È la strada che stanno imboccando, o decidendo di imboccare, diversi costruttori. Prendendosi ovviamente tutti i rischi di un mercato che, seppur in crescita, al momento non può dirsi maturo al punto da ripagare gli ingenti investimenti che richiede la mobilità a basso impatto ambientale.

L’ultimo marchio in ordine di tempo a sposare la causa è stato Ford, che in settimana ha annunciato un importante piano di elettrificazione che la porterà a produrre e vendere solo veicoli 100% elettrici in Europa a partire dal 2030, rinunciando in maniera definitiva a quelli con motore termico. Con uno step intermedio fissato al 2026, anno nel quale tutta la gamma sarà elettrificata grazie a modelli ibridi e plug-in.

“Abbiamo ristrutturato con successo Ford Europa e siamo tornati alla redditività nel quarto trimestre del 2020. Ora ci stiamo avviando verso un futuro completamente elettrico”, ha spiegato Stuart Rowley, presidente di Ford Europe. Nel piano sono compresi anche i veicoli commerciali, la cui gamma diventerà elettrica o ibrida alla spina entro il 2024, in modo che i van plug-in possano rappresentare la fetta più grossa delle vendite entro la fine di questo decennio.

Una strategia in linea con la decisione, già annunciata, di investire circa 22 miliardi di dollari sull’elettrificazione, da qui al 2025. E che vedrà la Germania, sede delle operazioni Ford nel vecchio continente, in prima linea. Anche perché su quel fronte è impegnata anche la sua alleata Volkswagen: proprio sulla piattaforma Meb messa in campo dal colosso di Wolfsburg nascerà nel 2023 un modello Ford 100% elettrico specifico per il mercato europeo.

Il centro nevralgico delle operazioni “elettriche” europee Ford sarà la fabbrica di Colonia, su cui l’azienda sta investendo oltre 800 milioni di euro per adeguarne le linee produttive al nuovo piano strategico. È lì da 90 anni e, come ha già fatto, accompagnerà ancora una volta l’Ovale Blu verso una nuova era dell’auto.

 

Qashqai, atto terzo: il crossover Nissan si reinventa elettrico

“Il punto di partenza per la progettazione e lo sviluppo del nuovo Qashqai è stata un’analisi approfondita delle relazioni che abbiamo instaurato con i nostri clienti Qashqai nel corso degli ultimi 13 anni. Questo ci ha consentito di comprendere le loro necessità e in particolare approfondire cosa apprezzano del crossover che impiegano quotidianamente”: con queste parole Marco Fioravanti, vice president product planning di Nissan Europa, presenta la nuova Qashqai, una best seller da oltre 3 milioni di esemplari venduti in Europa dal 2007.

Già al primo sguardo è evidente il salto in avanti fatto dall’auto in termini di design, dotazione e tecnologia. L’auto è costruita sulla base della piattaforma CMF-C dell’Alleanza Renault-Nissan ed è stata progettata in Inghilterra. Al frontale spiccano i sottili fari full led con luci diurne a boomerang, mentre la fiancata beneficia dei cerchi da 20”, che ne amplificano la muscolosità.

Lunga 4,43 m, Qashqai è stata rivoluzionata anche all’interno, che punta su ergonomia, qualità percepita e spaziosità. Il sistema infotelematico sfrutta un display ad alta risoluzione da 9”, dotato di gps e compatibile con Android Auto e Apple CarPlay.

La tradizionale strumentazione tachimetrica ha lasciato il posto a un nuovo display Tft multifunzione da 12,3” ad alta definizione e all’Head Up display da 10,8”, che proietta sul parabrezza le principali informazioni di guida e traffico. Il passo, più lungo di 20 mm, assicura un abitacolo più arioso per chi siede dietro. Dal portellone elettrico posteriore, poi, si accede a un bagagliaio da 504 litri di capacità (74 più che in passato).

Altra novità importante è che dalla gamma motori spariscono i turbodiesel: ora l’offerta prevede soltanto unità elettrificate. Alla base c’è il quattro cilindri 1.3 turbobenzina da 140 e 158 cavalli con tecnologia mild hybrid a 12 Volt, che nella versione più potente è disponibile pure con cambio automatico e trazione integrale (in questo caso le sospensioni posteriori sono multi-link).

Tuttavia la vera novità è la motorizzazione E-Power, che sfrutta una batteria ad alta capacità, un motore 1.5 a benzina da 157 Cv con rapporto di compressione variabile, un generatore, un inverter e un motore elettrico da 190 Cv: è sempre l’unità elettrica a trainare il veicolo, mentre il propulsore a benzina funziona come un generatore di elettricità, massimizzando l’efficienza e riducendo le emissioni di anidride carbonica. Completo il corredo di sicurezza, che include cruise control adattivo, frenata automatica di emergenza e sistema di mantenimento della corsia di marcia. La nuova Qashqai sarà in commercio entro l’estate, con listino prezzi ancora da definire.

Risuona l’eco di Umberto

La stanza di Eco è grande, non sa neanche lui quanto. Eco non è un esploratore, è un indagatore di misteri che non finiscono, ed è sempre un’avventura rimettersi in strada e andare a indagare. C’è una buona luce nella stanza di Eco, una luce allegra… Quando Eco si è assentato, sembrava che il suo vasto lavoro d’indagine fosse durato una lunga vita, invece era appena all’inizio. E anche la sua voglia, niente affatto stanca, di mettersi alla testa di quel lavoro in cui, come nei giochi dei bambini, c’era sempre una sorpresa, e lui la vedeva in anticipo e se la gustava prima di rivelartela.

Non è che Eco non si possa dimenticare, è Eco che non si è dimenticato di nulla. Nel vasto territorio del suo lavoro, non ha mai scansato ostacoli o lasciato perdere una questione per quanto ambigua e intricata, o scomoda. Sapeva benissimo che esiste una Fifth Avenue degli intellettuali, un luogo di elegante neutralità in cui ti scansi dalle polemiche dannose, affermando rispetto per tutte le opinioni, anche se alcune si sono espresse attraverso i camini di Birkenau.

Quando Eco è arrivato alla fine della corsa eravamo ancora i responsabili (lui, io e Jacques Le Goff che ci aveva appena lasciati) di un Manuale interattivo per le scuole elementari del mondo (sempre progetti modesti) sul tema “Accettare la diversità. Contro ogni razzismo”. Ci era stato affidato dalla Académie Universelle des Cultures di cui eravamo membri (fondatore, Elie Wiesel). Descrizione di Eco: “Un impegno di lotta permanente contro l’intolleranza, la xenofobia e per la difesa dei diritti umani”. Tutto ciò spiega il fatto (lo abbiamo scoperto dopo, io dal suo libro Il pendolo di Foucault) che durante una parte della nostra vita (da piccoli, da scolari, quando non ci conoscevamo), Umberto Eco e io eravamo lo stesso bambino: Resistenza, partigiani, antifascismo, uomini che salgono in montagna, retate, uomini impiccati, l’antifascismo non come parte che poi si rammenda, ma come la patria (parola altrimenti era diventata fascista e inusabile) cui appartenere. Ma anche abbandonando nei corridoi della scuola tutta la stampa fascista per bambini che ci veniva distribuita e mantenendo una memoria tenace dei “nostri” fumetti americani che tanti anni dopo ci saremmo scambiati (solo Eco ricordava i disegnatori e le date, e a uno di quei fumetti avrebbe poi dedicato un suo best-seller, La misteriosa fiamma della regina Loana).

Umberto sapeva benissimo che un grande autore, già al di là della celebrità (vedi i premi letterari mondiali e la lista delle sue lauree ad honorem in centinaia di università del mondo), non deve irritare la sua sterminata massa di lettori con posizioni fastidiose e impopolari sul razzismo. Umberto non ne ha mai tenuto conto. Quando nel viaggio a Timbuktu (1995) ha fondato l’“Antropologia al rovescio” (lo studio del comportamento dell’uomo bianco, analizzato da esperti africani), persino per lui il cerchio di amicizie si è ristretto. Sono fatti come questi che hanno meritato a Eco l’amicizia fraterna di scrittori africani come Toni Morrison e Wole Soyinka, due premi Nobel, membri anch’essi della Académie des Cultures…

Poi c’era Luciano Berio: devo l’amicizia con lui a Umberto. In anni lontani (1954), entrambi avevamo lasciato l’Università di Torino per fare un corso di giornalisti e programmisti alla Rai. Negli intervalli fra una lezione e l’altra, Eco ha scoperto, appartato in un ultimo piano, il “laboratorio di fonologia musicale”. Il mago, in quel laboratorio, era il giovane Berio, ma vi capitavano continuamente i grandi della musica di allora, Maderna, Boulez, John Cage… In quel gruppo è nato Omaggio a Joyce, prima opera nel catalogo di Berio, primo volume di Eco (se non ci fosse già stata la pubblicazione della sua tesi di laurea su San Tommaso). Per l’attivismo operoso e carico di invenzione di Eco, è cominciato un espandersi quasi istantaneo di rapporti con coloro che stavano costruendo gli anni 50, e un presentimento della rivoluzione imminente dei ’60. Umberto ha portato due miei racconti a Calvino che li ha pubblicati su Il Menabò e intanto ha cominciato su Il Verri la sua celebre rubrica “Diario Minimo”. Il Verri era anche un piccolo caffè dietro San Fedele, dove l’amicizia di Eco con Luciano Anceschi ci ha portato a conoscere Benedetto Marzullo e a fondare con lui il Dams.

La stanza di Eco è grande, bene illuminata e non si lascia invecchiare dalla routine: è il luogo dove compaiono ancora le cose nuove. Perché il prodigioso meccano di Eco ti dà tutti i pezzi per costruire: qui abita il Dumas dell’avventura filosofica; il Cagliostro che non si può imprigionare; il Dreyfus a cui non puoi strappare gradi e spalline; il monaco che sa e non rivela; il partigiano che suona per l’ultima volta la tromba… Leggete l’autoritratto sul retro di copertina de La filosofia di Umberto Eco (La Nave di Teseo): “Dal carattere dei miei concittadini ho imparato la virtù dello scetticismo. Lo scetticismo implica un costante senso dell’umorismo, per mettere in forse anche le cose in cui si crede sinceramente”.

“Renzi dovrebbe sotterrarsi per quegli elogi all’Arabia”

“Penso che Matteo Renzi dovrebbe andare a nascondersi per quel che ha detto sul neorinascimento saudita. Gli chiedo con rispetto di vedere il mio film The dissident. Probabilmente, dopo averlo visto, Renzi ripenserà alle sue parole e ai suoi nuovi amici”. Parola di Bryan Fogel, autore e regista del documentario The Dissident. Fogel vive a Los Angeles ed è diventato un regista affermato nel 2018, quando ha vinto l’Oscar per il miglior documentario con Icarus, un docu-film sul doping in Russia. Sette mesi dopo la premiazione, è volato a Istanbul e ha bussato alla porta della fidanzata di Jamal Khashoggi, il giornalista saudita ucciso alla vigilia delle nozze con Hatice Cengiz nel consolato saudita di Istanbul da una squadra appositamente venuta da Riyad. Il documentario di Fogel è in Italia ed è distribuito sulla piattaforma miocinema.com di Lucky Red. Non si trova su Netflix né su Amazon o su altre grandi piattaforme. Abbiamo chiesto a Fogel il perché.

“Sono molto grato a Lucky Red e spero davvero che il pubblico italiano lo guardi. Quel che le maggiori compagnie di streaming globali decidono è fuori dal mio controllo. In realtà la dice lunga sulla paura di queste compagnie di mettersi contro l’Arabia Saudita che sta facendo grandi investimenti nel mercato globale. Per queste compagnie c’è un conflitto di interessi tra la tutela dei diritti umani in un Paese che è, a tutti gli effetti, un regime autoritario, e le opportunità di investire nel Regno Saudita e di ricevere investimenti dal regime.

Nel suo docu-film hanno un ruolo importante sia la fidanzata di Khashoggi, Hatice Cengiz, che Omar Abdul Aziz, un dissidente che vive in Canada in esilio e i cui fratelli e amici sono stati imprigionati. Entrambi rischiano. Come li ha convinti a partecipare al film e ora anche alla sua promozione?

Costruire un rapporto di fiducia con Hatice è stato un processo lungo. Sono andato a Istanbul un mese dopo la morte di Jamal e ci ho passato cinque settimane non certo per filmare o fare interviste. Ho semplicemente costruito con lei un rapporto di fiducia. Volevo fosse certa che io ero lì per aiutarla a raccontare la sua storia e che avrei fatto tutto quel che potevo per aiutarla a ottenere giustizia per Jamal. Abbiamo cominciato a lavorare insieme nel febbraio 2019: la prima volta che lei parlò al Parlamento europeo. Sia Hatice che Omar vanno fieri di questo film, lo hanno sostenuto con forza e si stanno impegnando per la promozione. Speriamo tutti che il film possa davvero portare a un cambiamento reale in Arabia Saudita per tutti gli altri attivisti che combattono per i diritti umani, per chi combatte contro il potere in nome della verità. In fondo il film l’ho fatto per Hatice, per Jamal, per Omar e per tutti quelli che stanno combattendo per lui. I fratelli di Omar e i suoi 23 amici sono ancora oggi in carcere: non sono attivisti, sono stati tirati in mezzo a causa di quello che lui fa.

Il Regime non avrà preso bene il suo film. Anche lei rischia? Andrebbe in Arabia Saudita?

Non sarebbero certo felici di accogliermi. Un viaggio in Arabia Saudita in futuro non è assolutamente nei miei piani e preferisco rimanere in Paesi più civili dove non ti tagliano la testa per aver twittato una cosa ritenuta illecita.

Matteo Renzi, ex premier e leader politico che ha svolto il ruolo di regista nella crisi che ha portato all’attuale governo italiano, è andato a Riyad per la cosiddetta Davos nel deserto. Un forum di imprenditori, politici e pensatori sul futuro del mondo. Fa anche parte del board del FII, l’Istituto creato dal Re saudita che la organizza ogni anno. Il FII Institute lo paga 80.000 dollari all’anno. Sul palco dell’evento del 2021 ha omaggiato il principe Mohamed bin Salman e ha parlato dell’Arabia come un luogo del nuovo rinascimento. Cosa ne pensa?

La mia opinione è che l’idea stessa di Rinascimento italiano si riferisce alla grande produzione di arte e all’espansione della creatività umana nella storia, da Leonardo da Vinci a Machiavelli a Michelangelo, ed è assurdo paragonare quel periodo a un Rinascimento in un Paese barbaro. Renzi dovrebbe andare a nascondersi sotto la sabbia e non uscirne mai più. Ma dico, stai scherzando? Paragoni al Rinascimento, il periodo più elevato delle arti, dell’umanità e della cultura occidentale, a un regime barbaro che fa decapitare ancora tante persone ogni anno e ne detiene migliaia in prigione in violazione dei diritti umani? È chiaro che è stato comprato e pagato ed è altrettanto chiaro che lui debba davvero rivalutare le sue dichiarazioni e rivederle davanti al popolo italiano, perché rappresentano un imbarazzo per se stesso e per l’Italia. Io lo invito, molto educatamente, a guardare The Dissident e poi a ripetere le stesse cose che ha detto sull’Arabia Saudita. Spero che a quel punto comprenderà quello che davvero succede in quel Paese, perché si è fatto chiaramente influenzare dal denaro e da interessi economici e jet privati, invece di guardare a qual è la cosa migliore da fare nell’interesse dell’umanità e dei diritti umani. Se guardasse The Dissident, forse, potrebbe farsi un’opinione completamente diversa dei suoi nuovi amici.

Il film riesce a intrecciare una storia d’amore alla storia della controffensiva su Twitter, realizzata da Omar in accordo con Khashoggi e altri attivisti, alla fabbrica dei troll messa in piedi dal Regime. Quali sono state le difficoltà incontrate nel realizzare una trama così avvincente ma complicata?

Il cinema è un processo creativo e un regista è bravo quanto lo sono i suoi collaboratori creativi. Mi sono servito di un team incredibile di montaggio, artisti visivi e grafici, cineoperatori e grandissimi partner di produzione. Credo fermamente che i documentari debbano avere un grande valore informativo, ma anche una straordinaria qualità cinematografica. Ho cercato di realizzare un thriller di spionaggio, come The Bourne Identity, solo che tutto quel che si vede è successo davvero ed è reale. Mi sono ispirato alla grande cinematografia, a David Fincher, Paul Greengrass, per creare un film che tenga il pubblico inchiodato alla sedia. Per me fare un documentario è fare cinema, non soltanto fare qualcosa che faccia notizia.

Perché un italiano dovrebbe spendere 8 euro per un film documentario sulla storia di Khashoggi?

Se bisogna pagare questa cifra, se non è incluso nell’abbonamento di Amazon o Netflix, è dovuto al fatto che le grandi compagnie hanno avuto paura di questo film. Se gli italiani guardassero il trailer, si farebbero un’idea del tema e anche della qualità cinematografica. The Dissident porta alla luce valori che sono importanti per una società come quella italiana. Ho trascorso molto tempo in Italia e credo che il Paese risponderà bene a questo film. Inoltre l’importo di 8 euro andrà interamente alla Human Right Foundation e aiuterà migliaia di persone nel mondo che soffrono a causa di regimi autoritari. Credo che questo film possa accendere una luce, e quindi spero che il pubblico italiano lo apprezzi almeno quanto quello degli Stati Uniti.

Facebook contro le notizie a pagamento: spegne tutto

“In risposta alla Media Bargaining law, Facebook limiterà la condivisione di notizie nazionali e internazionali in Australia. La legge fraintende il rapporto fra la nostra piattaforma e gli editori, che la usano per condividere i loro contenuti”.

Così il social di Mark Zuckerberg (nella foto) ha annunciato la sospensione dalla sua piattaforma di tutti gli account di news geolocalizzati in Australia. È la risposta preventiva a una norma in discussione al Parlamento australiano, che intende imporre a Facebook e Google di compensare gli editori per i contenuti ospitati sulle proprie pagine: per Fb sono le testate a sfruttare gratuitamente il social per attirare lettori sui propri siti. Ergo: le pubblicazioni australiane non sono più visibili da nessun utente Fb al mondo e gli utenti in Australia non hanno accesso a nessuna fonte considerata giornalistica dall’algoritmo. Nella rete sono finiti anche bollettini medici del governo, allerte antincendio, servizi di supporto a vittime di abusi, il bollettino meteorologico, informazioni di candidati alle vicine elezioni e perfino, paradosso, la pagina Facebook. Prima ripercussione: aumento delle fake news, diffuse senza mediazione giornalistica. Seconda: indignazione globale e boom dell’hashtag #deleteFacebook, cancella Facebook. Le motivazioni principali le sintetizza Emily Bell, giornalista e docente alla Columbia University: “Fb non è guidato dal senso civico, ma dal profitto. Non dà importanza alle conseguenze dannose delle proprie azioni, solo alle ripercussioni commerciali. E non gli importa niente del giornalismo o della disinformazione, ma solo della percezione”.

Perdere le news non fa grande differenza economica, visto che, grazie a successivi aggiustamenti della news feed, oggi rappresentano solo il 4% del totale dei post. C’è anche chi sposa la linea di Menlo Park, ricordando come la norma sia stata spinta dal gruppo mediatico di Rupert Murdoch, che guadagnerebbe dal pagamento alle testate. Ma visto che il social si è spesso adeguato a leggi repressive di regimi liberticidi, come nelle Filippine e in Vietnam, questa sfida a una norma in discussione in un Parlamento democratico significa altro: Facebook scommette sull’essere indispensabile. Vedremo. Il premier australiano Scott Morrison ha reagito dichiarando che “non si lascerà intimidire” e che ne discuterà con altri leader mondiali alle prese con analoghe pressioni per regolamentare Big Tech.

“Zelensky ha tradito Maidan e gli assassini sono liberi”

Maidan, la rivoluzione che ha dato inizio alla guerra nel Donbass, per molti sarà un anniversario da celebrare, per altri rimane una ferita che non si rimargina. I parenti delle vittime della piazza, da quando i fuochi delle barricate sono stati spenti sette anni fa, non riescono a ottenere giustizia. Volodymyr Bondarchuk ha 36 anni, è un figlio che cerca di onorare la memoria di suo padre Serghey, colpito a morte durante gli scontri del 2014; ha guidato l’associazione Rodyna Geroyiv Nebesnoj Sotnj, “Le famiglie degli eroi della Centuria Celeste”, istituita per ottenere la verità su quelli che il Paese celebra come i “martiri della rivoluzione”.

Suo padre Serghey perse la vita durante gli scontri assieme a oltre cento civili ucraini. Cosa ricorda di lui e dell’Ucraina che nacque in quei giorni?

Mio padre era sceso in piazza per un futuro diverso, io passavo del tempo con lui a Maidan quando andavo a trovarlo dopo aver finito di lavorare, lo aiutavo se c’era da svolgere qualche compito collettivo, ma non posso dire di aver trascorso lo stesso tempo in piazza. Mi rimane la speranza che tutti ricordino cosa è successo allora. Maidan rimane un momento storico, fondamentale per la nazione, che ci ha dato la possibilità di cambiare e divenire uno Stato che sa scegliere per se stesso. Rimaniamo però in guerra con la Russia nel Donbass, continuano ad ammazzare i nostri soldati. Questo conflitto non terminerà a breve.

La chiamavano “rivoluzione della dignità”: le persone che sono rimaste in piazza come suo padre pensavano che l’Ucraina potesse cambiare. Cosa è rimasto delle loro speranze?

Molte cose sono cambiate, da Maidan non si torna indietro. Le stesse elezioni che hanno visto trionfare Volodymyr Zelensky hanno mostrato la fine della corruzione e del potere della vecchia élite, se uno come lui è riuscito a diventare presidente è solo grazie a quello che è successo in piazza, ma, per sfortuna, o per altri motivi, molti traguardi che dovevano essere raggiunti, le promesse fatte, le riforme attese, non ci sono ancora o non hanno mostrato ancora i loro frutti. Ma lei sta parlando con una persona il cui padre è stato ferito a morte, sono molto critico nei confronti del presidente, che un anno fa ha creato un precedente molto negativo: ha lasciato liberi alcuni responsabili di quelle morti, i membri della Berkut.

Lei parla degli agenti anti-sommossa dispiegati quei giorni a Maidan, un corpo che è stato sciolto dopo le proteste. E si riferisce a uno scambio prigionieri avvenuto tra l’Ucraina e la Russia nel 2019: cinque poliziotti Berkut sono stati rilasciati e, in seguito a questa scelta, Zelensky si è giustificato pubblicamente con la nazione. Un dipartimento per le indagini speciali è stato istituito proprio grazie agli sforzi della sua associazione.

Quegli uomini sono rimasti ingiudicati da Corti e tribunali, non c’è stata sentenza a loro carico, alcuni sono tornati a vivere in Ucraina, altri si trovano ora nella Federazione russa. Ma se ci fosse stato un processo per tutti gli omicidi da loro commessi, oggi nessuno di loro sarebbe a piede libero. Abbiamo sempre dalla nostra la speranza. Alla Verchovna Rada, Parlamento ucraino, c’è un disegno di legge per punirli, la giustizia li raggiungerà, presto o tardi.

Dopo la presidenza Poroshenko, come crede che cambierà il futuro del Paese e della guerra con la nuova amministrazione di Zelensky?

Gli uomini che sono in carica ora per risolvere la questione non si stanno dimostrando adeguati al loro ruolo, “la pace a ogni costo” è una strategia sbagliata, a dialogare con i terroristi non si va, si perde soprattutto la propria indipendenza. La pace può essere raggiunta in un solo modo: fine della guerra vuol dire far tornare la sovranità territoriale e i territori ora in conflitto, intendo il Donbass, al Paese.

Lei cosa farà il giorno dell’anniversario?

Per la prima volta non sarò a Kiev e non parteciperò all’evento di commemorazione. Andrò con la mia famiglia al cimitero a mettere fiori sulla tomba di mio padre.

Nuraghe “Patrimonio Unesco” per farne tesoro mediterraneo

Un intreccio di mistero e di radici, di valori antichi e di bellezza essenziale: forse è questo il vero fascino dei nuraghi. La Civiltà nuragica nel suo complesso si svolge nell’arco di circa mille anni a partire dal 1600 a.C., ma la sua architettura è figlia di un processo evolutivo straordinario molto più antico.

Il responso arriverà a fine marzo: il Mibac deciderà se candidare i siti nuragici della Sardegna tra i siti riconosciuti dall’Unesco come “patrimonio dell’umanità”. Tutti e non solamente, com’è adesso, il complesso archeologico di Su Nuraxi a Barumini. E sarà una decisione importante, ciò di cui i sardi hanno piena percezione, se è vero che attorno a questa iniziativa si sono coagulati un consenso e una partecipazione mai visti prima.

Queste torri megalitiche di forma tronco-conica, diffuse ampiamente in tutto il territorio della Sardegna – un nuraghe ogni 3 chilometri quadrati circa – non sono semplicemente un’opera d’arte, ma costituiscono una vera e propria rete di siti che connette circa 7.000 costruzioni. Questa rete dà corpo a una realtà organica fatta di architettura, storia e paesaggio all’interno di una regione. Chiaro, dunque, che parliamo di un patrimonio peculiare che ha richiesto una mappatura dettagliata, già peraltro realizzata dal comitato promotore “Sardegna verso l’Unesco”, insieme al Centro di ricerca, sviluppo e studi superiori e il Distretto aerospaziale della Sardegna.

Il rapporto Istat basato sui dati del 2017 relativo ai siti museali e al più complessivo patrimonio culturale presente nel territorio dello Stato italiano, rileva che delle 206 aree e degli 81 parchi archeologici, ben 54 sono dislocati nel territorio della Sardegna (45 aree archeologiche e 9 parchi archeologici) pari a quasi il 20%. E si tratta tuttavia di un dato che tiene conto esclusivamente dei siti valorizzati o tutelati, e non di quelli effettivamente esistenti, che a citare solo quelli censiti e risalenti al periodo nuragico, come detto, sono migliaia. La definizione di “museo aperto”, per la totalità dell’intero territorio regionale, risulta ampiamente giustificata.

L’occasione della candidatura Unesco è dunque importante per illuminare i riflettori sui siti nuragici ancora non valorizzati e comprendere il valore di un patrimonio da tutelare, valorizzare e rendere fruibile con un turismo intelligente, sostenibile e attento ai valori culturali. Perché è chiaro che se l’Unesco si pronuncerà positivamente, allora il turismo avrà una spinta propulsiva. Serviranno strutture e mezzi, ma anche la necessaria intelligenza di limitarsi alla mitologia dello splendido isolamento che l’isola spesso evoca.

Sarà dunque necessaria un’attenta gestione dello straordinario patrimonio culturale, con il concorso di tanti Comuni dell’isola, ma anche con il fondamentale supporto dello Stato.

E non dimentichiamo che l’antichità nuragica si fonde con l’intreccio delle relazioni umane fra popoli nell’ambito del Mediterraneo: una rete che permette di riconoscere siti archeologici che sembrano far parte della stessa matrice culturale dei nuraghi, quali i sesi di Pantelleria, i talaiot delle Baleari e le Torri della Corsica.

Se il responso dovesse essere positivo, il riconoscimento farebbe pure pendant con quello – ottenuto nel 2008 – del “canto a tenore”, proprio della cultura pastorale sarda, quale “patrimonio immateriale dell’umanità”. Quindi, qui emerge non un’opera, ma una cultura insieme alta e popolare, archeologica e contemporanea.

Tamponi in Campania: indagato Coscioni, presidente Agenas e consigliere di De Luca

L’Agenas è l’agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali e ha un ruolo chiave nel monitorare e coordinare i dati dei posti letto disponibili, e in generale le politiche di contrasto al Covid-19. Il suo presidente, Enrico Coscioni, da sei anni consigliere per la sanità del governatore della Campania, Vincenzo De Luca, è indagato a Napoli per vicende relative alla gestione dell’emergenza coronavirus in Campania. E in particolare, per il bando Soresa – la centrale acquisti della Regione Campania – che apriva ai laboratori privati la processazione dei tamponi molecolari. È indagato, ma in un altro filone relativo ad altre forniture, anche il capo dell’Unità di crisi campana Italo Giulivo, responsabile protezione civile della Campania. Coscioni e Giulivo sono accusati di turbativa d’asta, il secondo anche di frode in pubbliche forniture.

Coscioni e Giulivo, due dei più stretti collaboratori di De Luca, sono i nomi nuovi più importanti finiti al centro di un’inchiesta complessiva aperta da mesi dal pool sanità della Procura di Napoli guidata da Giovanni Melillo. Il fascicolo affronta tutti i nodi e le spine emerse da fatti avvenuti e decisioni prese durante la primissima fase dell’emergenza, in pieno lockdown. A cominciare dalla scelta di realizzare in fretta e furia, con procedure d’urgenza e con appalti da 18 milioni di euro sui quali gli inquirenti vogliono vederci chiaro, tre Covid Center con gli ospedali modulari fatti arrivare dalla Med di Padova fino a Napoli, Salerno e Caserta. Risultano indagati, tra gli altri, l’ingegnere Roberta Santaniello, tecnico di riferimento dell’unità di crisi per la realizzazione degli ospedali modulari, il consigliere regionale deluchiano Luca Cascone, il presidente della Soresa Corrado Cuccurullo, i vertici di Med Alberto ed Enrico Venturato, anch’essi destinatari di una proroga di indagine. Compaiono per alcuni nomi – non questi – ipotesi di associazione a delinquere e corruzione.

Coscioni e Coccurullo sono indagati invece sul versante tamponi, insieme ad Antonio Limone e Antonio Fico, direttore dell’Istituto Zooprofilattico di Portici e del laboratorio Ames di Casalnuovo, un grosso centro privato con appalti anche in Regione Lombardia, chiamato ad aprile 2020 a collaborare con lo Zooprofilattico per aumentare il numero dei tamponi processati. Giulivo è indagato con Santaniello, l’imprenditore Antonio Goedlin e Francesco Guariglia, big del settore funerario a Salerno. Alla festa dei 43 anni di Guariglia, il 3 febbraio 2018 al Sea Garden di Salerno, c’erano diversi pezzi grossi del Pd deluchiano. Tra cui il figlio del governatore, Piero De Luca, che poche settimane dopo sarebbe stato eletto in Parlamento.

Bose, Bianchi resta “Nessuna garanzia sul trasferimento”

Enzo Bianchi, il fondatore della comunità di Bose, ha deciso: lascerà la fraternità ma se non cambieranno le condizioni attuali, non andrà a Cellole, come indicato dal Decreto del Delegato Pontificio padre Amedeo Cencini. L’anziano monaco, non ha accettato l’esilio (previsto per ieri) studiato a tavolino per lui dallo psicoterapeuta canossiano e dall’attuale priore Luciano Manicardi, perché non ha avuto le garanzie necessarie.

L’ipotesi di Cellole (dove Bose ha una delle sue fraternità) era stata messa in campo dal Segretario di Stato Pietro Parolin non come punizione ma come atto di umanità nei confronti di un uomo 77enne, ormai non autosufficiente. Una soluzione che poteva essere accolta da Bianchi se non fosse che la proposta arrivata da Cencini ha reso tutto più difficile tant’è che in una lettera del 2 febbraio scorso, Enzo Bianchi, manifestava al Delegato Pontificio e all’attuale priore, il suo dissenso.

Due i problemi messi nero su bianco dall’ex priore. Il primo: nonostante la sua richiesta, nessuno ha definito la data del termine del comodato degli edifici di Cellole. A quel punto Bianchi, i fratelli e le sorelle che sarebbero partiti con lui, avrebbero potuto essere cacciati senza motivazione, in qualsiasi momento. Ancor più inaccettabile l’imposizione, avanzata da Cencini, di non poter più condurre una vita monastica. Con questa lettera, Bianchi, ha tentato ancora una volta di trovare una riconciliazione decidendo insieme le modalità del suo trasferimento. Ma nulla da fare. Sul sito di Bose è apparso senza firma un comunicato contro Bianchi: “Con profonda amarezza la comunità ha dovuto prendere atto che fratel Enzo non si è recato a Cellole nei tempi indicatigli dal Decreto del Delegato Pontificio dello scorso 4 gennaio. Lo spostamento di Enzo a Cellole avrebbe contribuito ad allentare la tensione e la sofferenza di tutti e avrebbe facilitato il lento cammino di riconciliazione e comprensione reciproca”.

Doping, Schwazer archiviato: “Fu complotto. Provette alterate per farle risultare positive”

Quello ai danni di Alex Schwazer è stato “un complotto”. Le provette che ne dimostravano la positività furono “manipolate”, come dimostrano “l’eccessiva quantità di urina” e “l’abnorme presenza di Dna”. A scriverlo è il gup di Bolzano Walter Pelino, che ha assolto il campione olimpico di marcia e inviato gli atti alla Procura perché valuti una lunga serie di reati nei confronti dei vertici di Iiaf (la Federazione internazionale di atletica) e Wada (l’agenzia internazionale antidoping): per il tribunale hanno intralciato le indagini italiane, fatto pressione sul laboratorio di Colonia affinché non consegnasse all’Italia le prove per scagionare Schwazer, falsificato dati legati alla rogatoria internazionale e consulenze. “I complotti sono rari – si legge nella decisione – ma a volte esistono”. Il movente della “macchina del fango” contro l’atleta è da individuare, per il giudice, nel fatto che Schwazer aveva testimoniato contro due medici della Federazione che spingevano gli sportivi a doparsi: “Colpire lui significava colpire anche l’allenatore (antidoping) Sandro Donati”.