Confusione. mancava solo questa: da mesi i vertici non ne azzeccano più una

Vorrei fare i complimenti all’Elevato Beppe e a Franklin Delano Crimi. Da giorni stanno sbagliando tutto. La trattativa con le braghe calate. La votazione ritardata su Rousseau, con quel quesito formulato in maniera imbarazzante. Il tentativo puerile di spacciare il renziano Cingolani per grillino. La figuraccia epocale di Crimi dieci giorni fa da Floris. La decisione di passare dal “leader unico” al “comitato collegiale” proprio quando avrebbero bisogno come nessuno di un leader (Conte) che li rivolti come un calzino. Il pavido traccheggiare sulla Raggi.

Ecco: a questo disastro totale mancava solo l’espulsione dei 15 senatori, rei di aver detto “no” a un governo con Renzi, Salvini e Berlusconi. Forse Crimi è convinto di essere il nuovo Highlander e ne resterà solo uno: Vito.

Espellendo Nicola Morra, i 5Stelle hanno però dimostrato buon senso. Infatti, non appena sono andati al governo con Forza Italia, hanno subito cacciato il presidente della Commissione Antimafia. Non li si può certo accusare di incoerenza.

Disobbedienza. Il quesito era al buio, ci vorrebbe l’obiezione di coscienza

L’obbedienza non è una virtù, di certo non nei momenti di grandi cambiamenti, non nelle svolte radicali, non in questo caso unico al mondo di Governissimo in nome della pandemia. Molti parlamentari del Movimento 5 Stelle hanno disobbedito alle regole interne, non votando la fiducia al governo Draghi decisa dal voto sulla piattaforma Rousseau, e secondo le regole dovrebbero essere espulsi. Ma il quesito su cui si è votato non era proprio un esempio di limpidezza. E soprattutto è stato posto prima di poter verificare i nomi dei ministri politici (e che nomi!) e l’inconsistenza della Grande Promessa, il superministero della Transizione ecologica, che poi superministero non è e che sarà gestito da un Recalcati della scienza che non riusciva neppure a spendere i soldi che il governo aveva assegnato al suo Istituto italiano di tecnologia. Come si fa, allora, a cacciare dal Movimento quelli che sono rimasti coerenti con la promessa “mai al governo con lo Psiconano” e che proprio non ce l’hanno fatta a dire sì alla Grande Ammucchiata? Hanno disobbedito alle regole, d’accordo, ma forse lo statuto del Movimento dovrebbe introdurre almeno la possibilità dell’obiezione di coscienza.

Errore mandar via chi dice di no è insulto agli iscritti e offesa all’intelligenza

I parlamentari del Movimento 5 Stelle che hanno votato No al governo Draghi sono gli unici che hanno denunciato la manovra che ha affossato Conte, e permesso a Renzi di vantarsene nei giornali europei. Che hanno difeso Conte, spodestato quando era più popolare; che hanno ricordato il disastro della Grecia devastata dalla Troika (Bce, Commissione Ue, Fmi). Disastro di cui solo Juncker – per la Commissione– oggi si vergogna.

Hanno fatto capire che all’opposizione non ci sarà solo l’estrema destra, che giudica catastrofica la politica del precedente governo, del ministro della Salute Roberto Speranza, del Commissario anti Covid Domenico Arcuri.

Ascoltandoli mi sono detta che il Movimento 5 Stelle avrebbe potuto far tesoro di questi dissidenti, nel momento in cui dicevano Sì a Draghi pur esplicitando la propria “sofferenza”. È un insulto all’intelligenza e a metà circa dei propri iscritti pensare di espellerli. Chi ha ascoltato ieri Maria Elena Boschi sa che questo governo è nato anche per polverizzare, spaccandolo, il Movimento.

Lfc: gara “finta”, buste aperte. Le chat dei contabili leghisti

Email e chat: l’inedita corrispondenza tra i contabili della Lega di Matteo Salvini racconta per la prima volta come è stata pianificata realmente la vendita del capannone di Cormano alla fondazione regionale Lombardia Film Commission (Lfc), svelando un decisivo particolare rispetto alle offerte pervenute nel 2016 a Lfc. Quasi come il gioco delle tre carte: tre buste preparate dal commercialista Michele Scillieri con tre offerte immobiliari, ma solo una, secondo l’accusa, è quella giusta ed è già stata decisa, le altre servono per rendere la gara lecita. Eppure qualcosa non funziona: le buste vengono consegnate aperte e l’affare rischia di naufragare.

È il 6 ottobre 2016 quando i commercialisti della Lega si mettono a lavorare sul capannone di Cormano che un anno dopo sarà poi acquistato da Lfc e finirà nell’inchiesta della Procura di Milano sui presunti fondi neri della nuova Lega di Salvini. Lo si scopre ora da una nota della Finanza agli atti della richiesta di processo immediato a carico dei due contabili leghisti Alberto Di Rubba, Andrea Manzoni e dell’imprenditore bergamasco Francesco Barachetti. Il documento analizza chat ed email che i magistrati milanesi hanno acquisito dai colleghi di Genova che indagano sul presunto riciclaggio dei 49 milioni. Lette oggi, queste chat sorprendono, e non poco, perché mostrano come tutto fosse già stato pianificato, rafforzando l’ipotesi della Procura e l’accusa di turbata libertà nella scelta del contraente. Tanto che nei piani dei contabili della Lega, Lfc avrebbe dovuto acquistare il capannone di via Bergamo a Cormano dalla società Paloschi, il cui curatore fallimentare era Scillieri e non, come poi avverrà, da Andromeda amministrata da Fabio Barbarossa, cognato di Scillieri. Piano andato in fumo e corretto in corsa a causa delle tre buste contenenti altrettante offerte immobiliari che Luca Sostegni porta nella vecchia sede di Lfc in via Pergolesi. Buste che però il presunto “prestanome” consegna non sigillate a un funzionario pubblico, il quale subito chiama allarmato il presidente di Lfc che in quel momento è Alberto Di Rubba. Nella chat del 6 ottobre i commercialisti si danno appuntamento a Cormano. È un sopralluogo iniziale. Il preliminare di vendita sarà firmato solo il 4 dicembre del 2017. In una seconda chat del 24 ottobre 2016 i commercialisti della Lega già pianificano la “spartizione del denaro”. Si legge: 400mila il capannone, 400mila la ristrutturazione. L’edificio sarà acquistato per 800mila euro da Lfc. Il denaro poi triangolato tornerà, secondo i pm, ai vari protagonisti e alle loro società.

Nello stesso mese di ottobre, Di Rubba scrive a Manzoni di aver detto a “Scillo” – nomignolo dato al commercialista Michele Scillieri –, di procurare le tre offerte immobiliari. E arriviamo così all’intoppo che rischia di far naufragare l’affare. Delle tre buste parla già Sostegni in uno dei suoi verbali. Spiega ai magistrati di essersi messo a tavolino con Scillieri per trovare altre due offerte da affiancare a quella dell’immobile di Cormano che in quella data è ancora in pancia alla società Paloschi avviata al fallimento. Vengono selezionati altri due immobili della stessa metratura di quello di Cormano. Uno viene scelto sulla piattaforma online Immobiliare.it, il secondo è riferibile a una società della famiglia Coraglia, molto nota a Milano. Sostegni va in via Pergolesi dove tra l’altro in quel 2016 oltre a Lfc hanno sede diverse società riconducibili ai contabili bergamaschi e dove in passato ha avuto un ruolo il tesoriere della Lega, Giulio Centemero (non imndagato). Consegnate la buste aperte, se ne va. Il resto del racconto lo fanno le chat. Saputo dell’intoppo, Di Rubba scrive a Manzoni. Il testo recita così: le buste sono aperte non le ha chiuse, grande problema! Subito dopo, Di Rubba scrive a Scillieri. Dal messaggio si comprende che il contabile leghista è infuriato con Scillieri. Della sua arrabbiatura Di Rubba parla con Manzoni che chiude il messaggio così: hai fatto bene. A questo punto il piano viene modificato. Non sarà più la società Paloschi a vendere a Lfc. L’immobile prima passerà alla società Andromeda che poi lo venderà alla fondazione regionale presieduta da Di Rubba. Nomina questa, spiegherà a verbale Manzoni, voluta direttamente da Centemero. Tutto avviene nell’autunno del 2016. Solo un anno dopo sarà firmato il preliminare di vendita tra Andromeda e la fondazione della Regione Lombardia.

“Quel cranio te lo spappoliamo” La mafia dei sinti domina Latina

Se tifi per la tua squadra e vuoi una maglietta autografata dai tuoi campioni, devi chiedere il permesso al clan. Se un pusher vuole spacciare in proprio, deve pagare il clan, o rischia botte e pallottole. Se hai un debito e non lo paghi, la tua vita è in mano al clan, fino allo sfinimento. E se il clan viene a sapere che qualcuno ti deve dei soldi, molti soldi, li incassa per te. E se ti va bene ti lascia le briciole.

Latina non è Reggio Calabria né Palermo, eppure vanta una nobiltà mafiosa: ha partorito una mafia tutta sua. Né Cosa Nostra, né ’ndrangheta, né camorra: la Corte d’appello – manca quindi soltanto il sigillo della Cassazione – ha attribuito al clan sinti dei Di Silvio il crisma di associazione mafiosa autoctona. Parliamo di 70 anni di storia, se consideriamo che la famiglia che genera la mafia di Latina giunge in città negli anni 50. L’altroieri è stato il turno di un altro clan sinti, quello dei Travali, che con una sfilza di arresti s’è trovata stampata, nero su bianco, in un’ordinanza di 358 pagine firmata dal gip Andrea Fanelli, l’accusa di aver violato il 416 bis. Quel che colpisce è la capacità d’intimidazione, il terrore che scaturisce e si diffonde dalla loro violenza, in un teatro dove le scene madri sono sempre quelle dello spaccio e dell’usura.

La droga, innanzitutto. Chi vuole spacciare, deve spacciare per loro. Oppure deve pagare. È il caso di un piccolo spacciatore, Luca Parlapiano, che però non ci sta. Un giorno incontra Salvatore Travali – lo racconta un testimone – che lo insulta pesantemente. A quel punto Parlapiano gli punta la pistola e per tutta risposta si sente dire: “Sparami in testa perché se mi pigli e non mi ammazzi sei un uomo morto”. Parlapiano ripone l’arma. Il boss Angelo Travali, quando viene a conoscenza dell’episodio, decide di punirlo: si presentano a casa della fidanzata e le crivellano di colpi prima l’auto e poi le vetrate di casa. Nel capo d’accusa si racconta che altri colpi vengono esplosi alla vetrata del Bar 111, riconducibile alla famiglia della ragazza, ma soprattutto viene intercettata una conversazione tra Salvatore Travali e Parlapiano, nella quale quest’ultimo spiega di essere armato: “Metti ’sta cosa in tasca” gli dice Travali “ah Luchetto ti sto parlando… fa’ l’uomo… vieni qua… mamma te lo giuro… appena ti piglio quel cranio te lo frantumo…” “tu pensi che scappo e tiri fuori la pistola… a deficiente…”. E ancora: “Quel cranio te lo spappoliamo…”. Se non spaccia per i Travali, non c’è altra strada: Parlapiano deve versargli 30mila euro. È la legge del clan. Ed è una legge ancora più spietata quando si tratta di usura.

Il signor Simone Gallinaro aveva pensato di aver baciato la fortuna quando nel 2010 grattò il biglietto giusto della lotteria “Turista per caso”. E questo racconta agli investigatori della Squadra mobile di Latina quando viene sentito durante le indagini. Però, nel racconto dell’accusa, si scopre che dal 2012 al 2015 per lui arriva l’inferno. La vincita consisteva in 200mila euro più una rendita di 6mila mensili per 20 anni. In totale: 1,64 milioni. Nel 2012 – probabilmente dopo l’acquisto di un appartamento – chiede però 3mila euro in prestito a un uomo del clan. L’accordo: il mese successivo ne restituirà 8mila. Gallinaro versa i 6mila della rendita. Quindi ne mancano 2mila. Ma non li ha. Viene costretto a cedere l’auto della moglie. E in più – a causa del ritardo – altri 8mila euro per il mese successivo. Con una postilla: se non ce la fa deve cedere l’appartamento. Ed è quello che accade. Gallinaro vende per 88mila euro, cede tutto, e poi va a vivere in affitto. Piccolo dettaglio: l’appartamento l’aveva acquistato l’anno prima a 180mila euro. Più 140mila euro di ristrutturazione. Ma non è finita qui. Si ritrova a dover acquistare, per conto del clan, un arredamento completo da un mobilificio (35mila euro), poi 43mila euro di abbigliamento, e uno scooter TMax per 7mila euro. Il tutto indebitandosi con le cambiali perché non aveva più un centesimo.

Il signor Daniele Parcesepe è il titolare di un’azienda agricola che un giorno fa l’errore della sua vita: confida a un amico di vantare un credito di 350mila euro nei confronti di un’altra azienda. E che non riesce a riscuoterlo. L’amico un bel giorno lo chiama e gli chiede di raggiungerlo nell’azienda in questione, quella del debitore, dove Parcesepe lo incontra in compagnia di quattro uomini che lo “accerchiano”, gli impediscono di andar via e lo costringono a salire nell’ufficio del suo debitore, dove incontrano il presidente del consiglio di amministrazione. L’uomo del clan conduce le trattative per la riscossione del credito: si accorda per 250mila euro, quindi 100mila in meno, che saranno consegnati nel pomeriggio con degli assegni. Condizioni che Parcesepe, però, di suo non avrebbe mai accettato. Fosse soltanto questo. Uscito dall’ufficio, giunto per strada, viene afferrato per la giacca con un messaggio chiaro: 150mila euro vanno al clan, e subito, per l’intervento effettuato. E ovviamente, questi soldi, non ce li ha. Finisce che consegna, di volta in volta, il 75 per cento degli assegni postdatati ricevuti dal suo debitore per un totale, secondo il suo racconto, di una cifra tra i 150mila e i 180mila euro.

Tra i teatri preferiti dal clan c’era anche lo stadio. E secondo l’accusa – l’inchiesta è stata condotta dai pm Luigia Spinelli, Corrado Fasanelli e Ilaria Calò – aveva “di fatto occupato militarmente anche la squadra di calcio del Latina, gestendo la curva, la tifoseria e imponendo con prepotenza e arroganza le proprie regole e le relative sanzioni ai trasgressori”. A trasgredire, un giorno, è Tullio Apicella, che alla Squadra mobile racconta: “Nella primavera del 2015 avevo fatto autografare una maglietta a un giocatore della squadra, e avevo pubblicato un post su Facebook con la foto della maglietta autografata”. E Francesco Viola non ci sta. Viene fissato un appuntamento e secondo l’accusa Viola, con queste parole, spiega al ragazzo come funziona: “Allo stadio comandiamo noi. Noi abbiamo fatto una scelta di vita di strada e sulla strada ’ste cose si pagano”. E così, per la maglietta autografata senza il permesso di chi comanda, chiedendo soldi in prestito salda un conto da ben 12mila euro.

Giochi, il miracolo del “costo zero” pagato un miliardo

Neve tanta, medaglie poche, soldi una valanga. Si potrebbero sintetizzare così i Mondiali di sci, che Cortina si era candidata ad ospitare quattro volte in passato, sempre picche, per poi vedersi assegnare l’edizione più sfigata della storia, con il Covid, senza pubblico e l’Italia che non ne vince una.

Il Paese quasi non si è accorto della sua esistenza, dopo la cerimonia di inaugurazione: un’accozzaglia di bandiere, acrobati e tenori, più Gianna Nannini ma senza notti magiche, sotto gli occhi attoniti del solito codazzo vip, un po’ privilegiati per la trasferta in piena pandemia, un po’ malcapitati per dover assistere allo spettacolo sotto la neve battente. Solo quello è costato mezzo milione. L’ha firmato, in seguito ad una gara a invito, Triumph Group, società specializzata in eventi, così tanto che anni fa era finita suo malgrado nelle intercettazioni sulla “Cricca”: Balducci diceva di aver segnalato all’amico Guido Bertolaso come fosse “un’esagerazione” affidare sempre alla stessa impresa. Direzione artistica di Roberto Malfatto, “l’architetto del Pd”, in curriculum un Giubileo con Rutelli e un dvd con Veltroni. Gli eventi sono grandi ma il mondo è piccolo.

La rassegna è costata 100 milioni ma sta scivolando via nell’indifferenza generale, complice la pandemia. Poco male, la sua fortuna è quella di essere seguita dai Giochi 2026. Il segreto è la “combo” Mondiali-Olimpiadi, che dà un senso alla manifestazione, moltiplica le risorse, giustifica ritardi e spese. A partire dai 40 milioni versati dal governo. Il resto viene da sponsor e contratti, ma qualche spicciolo pubblico l’hanno dovuto mettere anche gli enti locali, quando ci si è accorti che senza spettatori il bilancio avrebbe chiuso in perdita (così sono arrivati altri 3 milioni dalla Regione).

A che sono serviti tutti questi soldi è presto detto: preparare le piste, rifare gli impianti, tirare a lucido la “regina delle Dolomiti”, nobile che era ormai decaduta e così potrà recuperare qualche posizione (almeno sperano i gestori). Il commissario di governo Toniolo se l’è cavata con le opere: primo e secondo livello completati, in fase di conclusione il terzo che lascerà ciclabile e piscina alla città, impostato il quarto, che prevede anche una super cabinovia più parcheggio da tre piani da 50-60 milioni (questi almeno privati). È andata peggio con le infrastrutture, le strade per cui Anas aveva ricevuto 267 milioni nel 2016: tra ritardi e disguidi, i lavori sono ancora al 75% e verranno completati dopo la fine dei Mondiali.

Torneranno comodi per le Olimpiadi, vera manna dal cielo per Cortina, che ha avuto l’astuzia di infilarsi nel progetto di Milano e accaparrarsi una fetta della torta. Dovevano essere a costo zero ma non ci credeva nessuno: l’anno scorso il governo ha stanziato un miliardo per opere infrastrutturali, varie ed eventuali; 325 milioni spettano al Veneto. Poi ci sarebbe pure la parte sportiva, quasi un dettaglio: 30 milioni per il secondo villaggio olimpico (è il miracolo dell’olimpiade “diffusa”, che raddoppia tutto), altri 60 almeno per gli impianti di snowboard, curling, sci e soprattutto bob. Il rifacimento della pista “Eugenio Monti”, utilizzata per i Giochi ’56, chiusa per constatata inutilità nel 2008, è già annunciato come la cattedrale nel deserto della prossima edizione. Il Cio preoccupato ha proposto di appaltarla a Svizzera o Austria. Qualcuno ci pensa persino all’interno della Fondazione, ma Veneto e Cortina di perdere opera (e soldi) non ne vogliono sapere. È come una grande abbuffata: i Mondiali sono solo l’antipasto, il piatto forte arriva con le Olimpiadi.

Cortina d’oro per i mondiali, discesa libera del fatturato

 

 

 

“A chi ha sarà dato” (Matteo 25,29)

 

 

Quando il conte Nuvoletti sciava con Edda Ciano e Umberto di Savoia, già Cortina – erano gli anni Trenta – si mostrava fanciulla in carne. Le sue Tofane, schiena maestosa che fa vivere di magia la conca d’Ampezzo, sono state per il Novecento (con affaccio sul Duemila) il centro di gravità del munifico mistero: Hemingway e mister Idrolitina, Dino Buzzati ma anche i fratelli Vanzina, Frank Sinatra, Marta Marzotto, Alberto Sordi, i Suv, le brune con le mèches e le biondone, il generone romano e naturalmente i sòla.

Nella desolazione finanziaria della pandemia solo Cortina può infatti dirsi speciale. Abituata a far soldi con la montagna, e a mantenersi bella con la sua bellezza, si è vista recapitare un assegno di poco meno di 100 milioni di euro per organizzare i Mondiali di sci. “Tutte le opere relative alle piste, e quelle collegate, sono state completate. L’industria alberghiera ha ricevuto la spinta che serviva per rigenerare e ristrutturare. Stiamo lavorando per aggiungere comodità, infrastrutture e servizi, come i parcheggi. Qualche mese fa eravamo un po’ abbattuti per via del virus, adesso però siamo sollevati, è comunque un grande spettacolo e un orgoglio”, dice Luigi Alverà, il vicesindaco. Mascherinato, svuotato, recintato dai protocolli di sicurezza, il mondiale è finito sotto la neve al primo giorno di gare. Ci è ricascato al terzo giorno. Poi finalmente il sole e la gioia di incoronare Marta Bassino campionessa del mondo nello slalom parallelo.

Tanta neve è caduta, beffardo segno del destino, dopo anni in cui l’artificio, i fiocchi sparati con i cannoni, consegnavano la realtà di una natura suddita della tecnologia, la finzione del bianco candore ad occultare la spuma di roccia. Il virus ha però lasciato il pubblico in salotto, e l’abbondanza di neve ha bloccato gli atleti in albergo. “È tutto straordinario”, diceva eccitato Giovanni Malagò, il presidente del Coni, alla vigilia dell’apertura. E infatti!

Cortina è oggi vuota di turisti anche se piena di sportivi, ricca anche se con il fatturato in caduta libera. Resta in fila per ottemperare ai protocolli sanitari e non – com’era abituata – davanti alle gioiellerie di corso Italia, al cachemire super griffato, a quella tanta bella gente nei riti di dicembre della fashion week (le giornate a cavallo di Sant’Ambrogio), adorante dell’ultimo spolverino di Gucci, abituata alla tavola stellata e al carpaccio d’astice del Tivoli, alla camera con vista del Cristallo (da 3.500 euro in su la sosta natalizia pre Covid).

Invece niente. Invece le tribune realizzate per il pubblico, e lo sbancamento che ne è derivato, sono spiazzi sospesi. Così come i parcheggi, lo struscio, i bar. Luigi Casanova, il presidente di Mountain Wilderness Italia scrive che già ora le opere hanno violato cinque convenzioni e protocolli ambientali, “il piede della montagna è mangiato da un intreccio di nuove strade”, sono stati abbattuti gli alberi in zone già sconvolte dalla tempesta Vaia e incisi i boschi verso le 5 Torri. E Marina Menardi, attiva organizzatrice del comitato civico locale: “C’è odore di speculazione edilizia intorno alla vecchia stazione ferroviaria. Il project financing è il chiavistello per raggiungere il solito orizzonte: più case, più volumi, più affari in danno della montagna. Lo diciamo chiaro: di questo tipo di investimenti non si sente alcun bisogno”.

È questa la tassa minima per il successo? Per Ferruccio Maria Belli, narratore veterano (sua la Guida di Cortina) le Olimpiadi del 2026 non rappresentano il fantastico giro vita della bellezza delle Dolomiti, “ma quei centimetri in più che affaticano un corpo splendente. Cortina ha avuto il lancio sulla scena mondiale con le Olimpiadi del ’56. Allora certo si potè dire che furono l’occasione di un lancio sulla scena, ma oggi?”.

Fino a domenica si scia e la società affluente segue il corso degli eventi attestandosi nella “Fondazione Cortina” che governa il mondiale. Presiede Alessandro Benetton. I Benetton, come i Barilla, i Marzotto, Illy e tutta l’industria che conta hanno avuto o ancora hanno un conto speciale, un sentimento dichiarato per questo spicchio di Dolomiti. La forza attrattiva di Cortina risiede proprio nelle sue innumerevoli relazioni, tante e tali da farla apparire una Guida Monaci dell’industria extra large, dei super amministratori delegati, e poi, a scendere, dei facoltosi assemblatori di poltrone fino agli imbroglioni di razza che purtroppo non mancano mai dove c’è odore di soldi.

Cortina, all’inizio del nuovo secolo, è divenuta anche tribù pariolina, la Roma debordante nella valle trasformata, per merito dei Vanzina con il cinepattone Vacanze di Natale, nel centro di gravità permanente della cafoneria, e quel centro poi accusato di essere divenuto reticolo di evasori fiscali al punto che nel 2011 il presidente del Consiglio Mario Monti, per mostrare all’Italia la faccia inflessibile dello Stato, inviò per qualche giorno quassù un battaglione di finanzieri per scovare l’orda di infedeli.

Appassimento del sentimento, ingresso dei nuovi ricchi e nuovi sbruffoni dopo gli anni scintillanti in cui la casona di Marta Marzotto ogni sera luccicava di gente, che lei chiamava “avanzi di balera”, e dava feste intramontabili a cui il jet set internazionale era invitato permanente. È un fatto che sul tavolo della sua cucina Giuseppe Berto ed Enrico Maria Salerno abbiano scritto la sceneggiatura di Anonimo Veneziano. Oppure che la fantastica Marta si innamorasse, nel giorno di Natale, di un paio di splendidi orecchini. Così belli ma così costosi: 170 milioni di lire! Si narra che stesse per rinunciare a quella gioia milionaria quando alle sue spalle udì una voce: “Gli orecchini sono della contessa. È il mio regalo di Natale”. La premura fu di Pietro Barilla, da allora soprannominato “Pietro il grande”.

E grande, grandissimo era infatti in quegli anni il via vai, da Peter Sellers a Klaus Kinski, a Brigitte Bardot, Liz Taylor, Frank Sinatra e tutto il gotha della produzione cinematografica.

“Qui tra gli altri hanno lasciato il segno Hemingway e Buzzati, Montanelli e Fernanda Pivano. Poteva Cortina non avere una rassegna letteraria che onorasse la sua identità e desse valore alla sua memoria?”, chiede Francesco Chiamulera, facitore di quella “Montagna di libri” che dal 2009 propone e presenta novanta titoli all’anno, d’estate come d’inverno. L’estate, per l’economia ampezzana, conta più dell’inverno, il rapporto del numero dei soggiornanti (sei a quattro) stabilizzava prima del Covid il fatturato intorno al milione e duecentomila presenze con punte che hanno raggiunto anche il milione e mezzo.

Ma il mondo cambia in fretta e le prossime Olimpiadi, quelle attese per il 2026, apriranno le piste e gli affari ai cinesi. Il Ceo del comitato organizzatore dei giochi è Vincenzo Novari, già amministratore delegato di Tre, la compagnia telefonica dell’Oriente. Sull’uomo si investe per cogliere il plus, in carte di credito, dei sei milioni di sciatori cinesi. Due anni fa è sbarcato a Cortina il ministro dello Sport di Pechino, e il simbolo dello sci italiano, Kristian Ghedina, ha fatto un lungo giro promozionale nel lontano est asiatico.

Benché mascherinati, i Mondiali di sci come detto sono valsi un bel gruzzoletto: circa cento milioni di euro. Un assaggio, uno scivolamento dolce verso gli altri 325 milioni che Cortina si spartirà con le altre località del Cadore per ospitare, in coppia con Milano, fra cinque anni le Olimpiadi. “Saranno a costo zero per lo Stato”, avvertiva Luca Zaia, il governatore del Veneto, festeggiando la nomina. C’è però questo miliardo di euro iscritto nella legge di bilancio (oltre alla somma stanziata per il Veneto, 473 milioni andranno alla Lombardia, 82 a Bolzano, 120 alla provincia di Trento) e sono le spese necessarie, perché altri soldi mancano per completare le opere essenziali e quelle connesse (in tutto circa trecento milioni di euro).

I soldi chiamano soldi. Almeno quassù l’Italia non si dispera.

“Sui vaccini l’Europa ha fallito: bisognava agire come Trump”

Domenica, a Mezz’ora in più, la trasmissione di Lucia Annunziata su Rai3, Luigi Zingales – economista, professore alla Booth School of Business di Chicago – ha parlato di un “fallimento completo dell’Europa” nel procurarsi i vaccini contro il Coronavirus. E dunque partiamo da qui, dalla parola fallimento, che così raramente si sente pronunciare accostata all’Europa.

Professore, dov’è stato l’errore?

Sono un economista e guardo ai numeri. L’Inghilterra ha vaccinato il 20 per cento della popolazione, Israele il 70, gli Stati Uniti il 15, la Serbia l’8. Tra i Paesi dell’Unione europea il migliore è la Danimarca e poi c’è l’Italia, con il 5 per cento.

Perché in Inghilterra la campagna vaccinale procede così velocemente?

Non è una questione di distribuzione, è principalmente una questione di disponibilità. La Ue ha centralizzato l’acquisto delle dosi, ma poi non si è preoccupata di investire per averle in tempi brevi. Se il presidente Donald Trump ha fatto una cosa giusta è stata non risparmiare sui vaccini, pagando di più per fare più in fretta. All’inizio dell’estate, non c’era la certezza che l’antivirus avrebbe funzionato. Trump ha comprato a scatola chiusa una quantità enorme di vaccini, permettendo che questi fossero prodotti prima dell’autorizzazione all’uso. L’Europa non lo ha fatto. Ha comprato i vaccini tardi e senza preoccuparsi delle date di consegna. Anche ora non si dice che i nuovi vaccini comprati da Ursula von der Leyen arriveranno nel terzo e quarto trimestre. Nel compito più importante che le fosse mai stato affidato, l’Unione europea ha fallito.

Si potrebbe obiettare che gli Usa sono un Paese sovrano: noi non siamo gli Stati Uniti d’Europa, non abbiamo le stesse risorse finanziarie.

Stiamo parlando di cifre ridicole per un governo. La differenza tra pagare una dose 15 o 25 euro è 10 euro, 20 perché sono due dosi. Moltiplichiamo per 60 milioni di abitanti, fa un miliardo e duecento milioni: quello che quasi ogni anno si spende per l’Alitalia. Si tratta di salvare la vita di 40mila persone. Se riusciamo a vaccinare il 60-70 per cento della popolazione entro l’estate vuol dire che salviamo l’estate: considerando anche l’indotto del turismo, parliamo di 100 miliardi. Salvare vite umane deve essere una priorità anche quando questo è economicamente costoso, ma non farlo quando ha anche un enorme vantaggio economico è proprio stupido.

Alcune Regioni, come il Veneto, vogliono acquistare autonomamente.

I vaccini comprati adesso sono sottratti a qualche d’un altro. Quelli finanziati a luglio avrebbero aumentato l’offerta mondiale.

La presidente Von der Leyen ha detto che non ci sono garanzie sui vaccini che vengono offerti al di fuori del quadro di acquisto europeo.

A me risulta che gli accordi europei vietino agli Stati di negoziare autonomamente solo con i propri fornitori, eppure la Germania ha comprato 30 milioni di dosi extra piano in dicembre. Comunque: ci sono altri vaccini, come quello russo, che secondo Lancet ha un’efficacia del 91 per cento.

Dobbiamo andare in Russia?

Siamo in un’emergenza. Decine di migliaia di vite sono a rischio. Abbiamo bisogno di un vaccino e ne abbiamo bisogno subito. Se l’unico disponibile è quello russo e funziona, non mi farei problemi.

Perché la Ue non ha agito come Trump?

Non lo so con certezza, posso fare solo ipotesi. Una è che a luglio l’emergenza non era sentita in Germania, come in Italia. La seconda è che il budget europeo è così limitato che qualche miliardo in più crea problemi. Mario Draghi ha detto di credere nel bilancio europeo, ma senza la volontà della Germania, questo budget comune non si farà mai. Abbiamo partorito un fondo di Recovery che è davvero microscopico, anche se in Italia si parla di questi 209 miliardi come se fossero una montagna di quattrini: faccio presente che Biden approva manovre fiscali da due trilioni alla volta. In ogni caso, ora è necessaria una discussione condivisa su come s’investono questi miliardi. Mi preoccupa molto che a decidere le destinazioni dei fondi siano tre tecnici: è una questione assolutamente politica.

Chi è Giovanni Pavesi, dalla Dc al “doge” Galan

Un manager e un politico che ha attraversato tutte le Repubbliche, con qualche guaio giudiziario durante la Prima e solide amicizie negli ambienti azzurri del Veneto, quando ad imperare era Giancaro Galan. Giovanni Pavesi, classe 1961, figlio di Alberto, potentissimo imprenditore veronese arrestato nel 1993 quando era presidente della Cassa di Risparmio e del Credito Fondiario delle Tre Venezie. Quel giorno anche Giovanni, assessore ai servizi sociali del Comune, fece la fine del padre, a causa della cava di San Massimo, centomila mq acquistati per un miliardo di lire e rivenduti al gruppo Ferruzzi al quadruplo. Un ottimo affare, ma secondo la Procura favorito da conoscenze politiche e mazzette. Patteggiò un anno e 20 giorni e pagò, come il padre, una multa di due milioni. I due erano accusati di violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti, ricettazione e corruzione ed erano stati ammessi al patteggiamento dopo aver restituito parte delle tangenti pagate per la trasformazione della cava: 50 milioni ciascuno Alberto e Giovanni Pavesi, altri 50 milioni un terzo imputato. Secondo l’accusa per la trasformazione miliardaria della cava in discarica, la società Area, di cui erano titolari i Pavesi, aveva pagato una tangente di 150 milioni, finiti poi in parte alla Dc e in parte al Psi locali.

Dopo questa vicissitudine il giovane Pavesi si risollevò. Dal 2001 al 2005 è commissario straordinario l’Azienda regionale per il diritto allo studio universitario. In parallelo, la vicepresidenza di Autobrennero A22 spa, dove non si arriva senza solidi maniglioni. Poi la direzione generale dell’Ulss 17 Monselice-Este, grazie alla nomina di Galan, presidente del Veneto. Vi è rimasto fino alla fine del 2015, riconfermato nel 2012 dall’attuale presidente Luca Zaia.

Galli, il prof. del Sacco smentito dal Sacco

“Sei pazienti positivi alla variante inglese su un totale di 50 casi, sottoposti a sequenziamento” all’Ospedale Sacco di Milano. Numeri che sanno di smentita, quelli comunicati proprio da Asst Fatebenefratelli Sacco, intervenuto in merito “ad alcune notizie apparse sulla stampa riguardanti ‘reparti pieni di varianti’ riferite al reparto di degenza di Malattie infettive dell’Ospedale Sacco”. Peccato che le stesse notizie si riferissero alle parole rilasciate dal primario e infettivologo di punta della struttura, Massimo Galli. Il virologo martedì aveva espresso alcune affermazioni in vena allarmistica al Corriere della Sera. Sull’ipotesi di una prossima “terza ondata”, Galli ha risposto che chi auspica un altro lockdown potrebbe avere ragione. Subito dopo, la sentenza: “Mi ritrovo ad avere il reparto invaso da nuove varianti, e questo riguarda tutta quanta l’Italia e fa facilmente prevedere che a breve avremo problemi più seri”. E, al fine di certificare questo tipo di dichiarazioni, Galli ha pure affermato che “dei 20 letti che seguo direttamente, almeno uno su tre ormai è occupato da contagiati da una variante”. Numeri che fanno gelare il sangue al primo impatto; tuttavia, difficili da concepire per il “suo” Ospedale Sacco. Che, infatti, nella nota di smentita non solo ha precisato con i numeri reali, ma ha anche ribadito che “attualmente le percentuali di varianti identificate (verificate secondo le indicazioni del ministero della Salute e dall’Iss o su controlli a campione) sono in linea con la media nazionale”, e persino “inferiori alla media regionale”. Nello specifico, l’ospedale ha argomentato che nel periodo dal 23 dicembre 2020 al 4 febbraio 2021 sono stati ricoverati in tutto 314 pazienti positivi al Covid. “Vedremo chi ha ragione”, ha affermato un po’ stizzito Galli a L’Aria che tira.