Per coprire il flop, Moratti silura il capo della Sanità e s’affida all’ex tangentista

Se le cose non vanno bene, fai saltare qualche testa. Una regola d’oro che in Lombardia conoscono bene. E ieri è saltata quelle eccellente del direttore generale del Welfare, Marco Trivelli, il tecnico che solo otto mesi fa era stato chiamato per affiancare il disastroso ex assessore Giulio Gallera. Con Trivelli all’assessorato al Welfare, nel giro di un anno sono cambiati tre Dg e un assessore. Non certo una dimostrazione di efficienza. Al suo posto, Moratti ha chiamato un altro “tecnico”, proveniente dal Veneto, Giovanni Pavesi, ex direttore dell’Azienda U.L.S.S. 6 Vicenza, un passato da consigliere comunale Dc a Verona (carriera interrotta dall’arresto nel 1993) e una carriera imprenditoriale in società con l’ex presidente Giancarlo Galan (prima che finisse in carcere). È a lui che Moratti e Bertolaso hanno dato il bastone del comando della sanità lombarda.

A Trivelli non hanno perdonato il primo piano vaccinale che prevedeva tempi più lunghi per l’avvio delle operazioni, scritto con il consulente Giacomo Lucchini (50 mila ero di compenso). Le somministrazioni per gli over 80, per esempio, secondo il “vecchio piano”, sarebbero dovute iniziare a marzo. Troppo tardi per Moratti&C., chiamati a cancellare la patina opaca scesa nei mesi sulla giunta Fontana. Così hanno deciso di anticipare tutto, prima al 25 febbraio, poi al 18. Ma senza essere preparati.

E sì, che Trivelli aveva dato grande prova di attaccamento alla causa, presentandosi sempre lui al posto dell’assessore Moratti nelle commissioni sanità, dove si è spesso ritrovato a spiegare e difendere decisioni, tempi e piani che non aveva scritto, ma subito. Un sacrificio inutile. È stato sacrificato.

Tuttavia, quella patina è difficile da togliere. Incrostata da una sequela di errori, inefficienze e mancanze che la politica degli annunci non riesce comunque a nascondere.

Il Pirellone ha aperto il sistema di adesione per i 720 mila over 80 senza avere le dosi necessarie per vaccinarli. Così, oggi, dei 18 mila vaccini annunciati, ne saranno somministrati 15 mila. E la settimana prossima, dei 54 mila dichiarati, ne saranno inoculate 50 mila. Per la prima settimana di marzo si punta a 100 mila, vedremo…

A testimoniare la scarsità di dosi, ieri, era stato lo stesso Bertolaso: “In questo momento possiamo pianificare la vaccinazione per il 30% di quelli che la aspettano, ma il vaccino non lo possiamo fabbricare”.

In realtà, Fontana aveva annunciato di voler affiancare al Veneto nell’acquisto di dosi extra mercato. Ipotesi però lasciata cadere. Così come l’annuncio di Moratti di attivare le industrie lombarde nella produzione dei vaccini, salvo poi sentirsi dire dagli imprenditori: “impossibile”.

Quando il 15 la regione ha lanciato la sua piattaforma online non ha pensato a scaglionare gli accessi, determinando il crash informatico. Una fretta inspiegabile, i circa 380 mila utenti che hanno avuto accesso, non hanno prenotato il vaccino, ma solo manifestato la volontà di vaccinarsi. Tutti dovranno essere ricontattati per conoscere giorno, data e luogo dell’appuntamento.

La Regione ha messo a disposizione anche un numero verde ma solo per le informazioni (800 894545), perennemente intasato. “Gestiamo migliaia di chiamate con centinaia di operatori”, risponde la voce registrata. Quando l’operatore risponde, dice di non poter procedere con la prenotazione e dirotta l’utente sulla Ats di appartenenza: “Stiamo ricevendo migliaia di chiamate, ma noi di Ats con la prenotazione del vaccino non c’entriamo nulla, rimbalziamo tutti a Regione”, si sfoga un operatore.

Altro punto dolente sono i centri vaccinali. Da ieri gli anziani “convocati” si recano negli ospedali e alle Ats – dove si sono registrate numerose file, come denunciato dal sindaco di Varese Davide Galimberti – ma si tratta di strutture dalla capienza limitata. Per quelle destinate alla vaccinazione di massa, ne servono tra 35 e 50, siamo in alto mare. Manca la delibera di giunta che dovrebbe autorizzare la società regionale Aria a scrivere i bandi di gara per l’affitto degli stand vaccinali. Ci vorrà almeno un mese.

Il capo di Iit attacca il Fatto. La colpa? “Sono gli unici a parlare male di noi…”

State zitti. Bocche cucite. Non rispondete a chi vi chiama per porvi domande: “Non perdiamo neanche del tempo dietro a persone di questo genere”. È l’ordine che il capo di Iit, l’Istituto italiano di tecnologia di Genova, successore di Roberto Cingolani, ha inoltrato a tutti i suoi dipendenti e ricercatori. Mettendoli in guardia contro l’unico giornale – il Fatto – che non si è unito al coro di elogi per Cingolani, il fondatore di Iit appena diventato ministro della Transizione ecologica. “Solo una testata giornalistica si è scagliata con argomenti pretestuosi, e già più volte pubblicati, contro Roberto e contro l’Iit”, scrive Giorgio Metta, da sempre braccio destro di Cingolani, da cui, dopo una “call” internazionale a cui avevano risposto quaranta scienziati, ha ereditato nel 2020 la carica di direttore scientifico. Il Fatto nei giorni scorsi ha ricordato la storia di Iit, le polemiche sollevate dentro il mondo scientifico per la corsia preferenziale dei suoi finanziamenti, 100 milioni l’anno, assegnati per legge e non (come per il resto della ricerca italiana) con procedure competitive, ha ricordato l’accumulo di fondi (quasi 500 milioni) non spesi e tenuti in banca, mentre la ricerca e l’università hanno in Italia una cronica fame di finanziamenti. Ha ricordato gli aiutini, in soldi e carriera, offerti alla prima e alla seconda moglie di Cingolani. Il Fatto ha poi ricordato anche la nascita di Human Technopole, che nel 2016 l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi voleva affidare a Cingolani, attirandosi le ire delle università e delle istituzioni milanesi, che riuscirono infine a rendere più democratica la governance e più competitiva l’assegnazione di fondi (1,5 miliardi in dieci anni). Tutto ciò, secondo Metta, non è normale lavoro giornalistico, ma “polemica di origine politica della quale non siamo né saremo mai attori”. E invece di dare risposte alle questioni sollevate, intima il silenzio: tutti zitti, non rispondete. Lo fa con due comunicati, uno in inglese, in cui ordina “a low profile strategy”, una strategia di basso profilo “per evitare di ampliare i loro messaggi sui media”. Detta “la linea di condotta”: “Nel caso in cui riceviate richieste di informazioni/interviste da parte di rappresentanti dei media sui temi caldi come finanziamento, organizzazione, risultati di Iit, vi consigliamo vivamente di non rilasciare alcuna informazione e contattatemi immediatamente”.

Nell’ordine di scuderia in italiano è ancora più netto: “Abbiamo letto una quasi totale positiva citazione della nostra Fondazione e della storia di Roberto. Solo una testata giornalistica si è scagliata con argomenti pretestuosi, e già più volte pubblicati, contro Roberto e contro l’Iit”, scrive Metta, senza citare il Fatto, che da solo ha ricordato nei giorni scorsi le critiche al metodo non competitivo Iit che furono avanzate da tanti scienziati, tra cui la senatrice a vita Elena Cattaneo, ma anche da una collega di governo di Cingolani, la neo ministra Maria Cristina Messa, che da rettore dell’Università Milano-Bicocca nel 2016 si oppose, insieme a tutti gli altri rettori, all’affidamento a Cingolani del progetto Human Technopole. “Nulla di quanto adombrato negli articoli negativi”, conclude Metta, “è mai emerso nella valutazione del nostro operato. Credo quindi che non sia opportuno rispondere a questo giornale e scendere in una polemica di origine politica. Per quanto vedere certi articoli pretestuosi faccia male, dobbiamo renderci conto che non abbiamo nulla di cui vergognarci”. Dunque, “non perdiamo neanche del tempo dietro a persone di questo genere”.

“Né grillino né renziano, resto un anno e poi vado”

L’uomo su cui Beppe Grillo ha puntato quasi tutto non porta la cravatta e se lo chiami superministro fa una smorfia: “Ma no, che senso ha?”. Eppure Roberto Cingolani, milanese di 59 anni, fisico, farà proprio il ministro alla Transizione ecologica. Cioè dovrà muovere quel dicastero posto come condizione da Grillo a Mario Draghi per dire sì al suo governo. Anche se i dissidenti a 5Stelle, quelli che hanno votato no sulla piattaforma Rousseau, ne contestano l’esistenza: “Il superministero non c’è, rivotiamo”. Cingolani però c’è di sicuro, in una stanza dentro la Camera. E parte dall’urgenza: “Io sono qui innanzitutto per scrivere il Programma nazionale di riforme per il Recovery Plan, ho otto settimane. Ci lavorerò di base con cinque persone, ma ovviamente sentirò tutti gli enti che devo sentire. Dobbiamo lavorare come se dovessimo vincere un premio”. D’accordo, ma il testo che ha trovato è da rifare? “C’è un’ottima base da cui partire. Ma dobbiamo lavorare, la scadenza del 30 aprile è a un passo”.

Deve avere fretta l’ex direttore scientifico dell’Istituto italiano di tecnologia di Genova, già ospite della Leopolda di Matteo Renzi, ora il primo nome nella lista di Beppe Grillo. Lei è così bravo a mutare bandiera, ministro? Cingolani si sistema sulla poltrona: “Io sono un non politico. Semplicemente, andavo dove mi chiamavano per spiegare cosa facesse l’Iit. Sono stato anche alla scuola di politica del centrodestra. Prima di accusarmi di essere un grillino e un renziano mi hanno dato del bossiano e mi hanno tacciato di essere un uomo di Giulio Tremonti, perché è lui ad aver voluto l’Istituto”. Però la Leopolda, lei capisce… “So che alcuni 5Stelle me lo stanno rinfacciando, ma quando tre anni fa ero andato a Ivrea al Sum di Davide Casaleggio, su sua richiesta, quello andava bene?”.

Cingolani, lei avrebbe fatto tutto senza sponsor, senza aiutini? “Sì, esattamente. Su di me e l’Iit hanno fatto 22 interrogazioni parlamentari, la prima nel 2009. Tutte finite nel nulla. Io l’ho diretto per tre mandati: la rivista Nature l’ha inserito tra i 25 migliori enti di ricerca del mondo, avevamo costi bassi e stipendi alti, e i risultati sono stati riconosciuti da tutti i board internazionali”. Va bene, ma Grillo? “Si è presentato qualche anno fa in istituto e ha esordito così: “Ti abbiamo scansionato, sei pulito”. I grillini erano convinti che fossi il Diavolo. Vennero in dieci a vedere cosa facevamo. Dovevano restare un’ora e mezza, se ne sono andati all’ora di cena. Si guardavano attorno e vedevano ragazzi di ogni parte del mondo”. Quindi lei è passato in quota M5S… “Io non sono di nessuno, ma trovo che i 5Stelle abbiano avuto il coraggio di cambiare idea su di me. Grillo l’ho rivisto solo qualche giorno fa”. Ma il suo nome a Draghi l’ha fatto lui…”. Mi hanno avvertito il giorno prima, di venerdì sera. Avevo un ottimo posto da dirigente in Leonardo, ma mi hanno spiegato che ‘l’Italia viene prima di tutto’. Ho accettato, tanto resto un anno, un anno e mezzo, poi me ne vado”. Ma prima cosa vorrebbe fare? Lo sa che all’estero questo ministero alla Transizione non ha funzionato granché, vero?”. Cingolani annuisce: “È vero. Ma il problema del clima non è verticale, non si affronta con un singolo ministero. Serve un disegno poliedrico, come ha detto Draghi. Quindi c’entrano il Mise, l’Innovazione, la Pubblica amministrazione”. Però il gioco dovrebbe condurlo lei. Che deleghe avrà il suo dicastero? Il ministro si risistema sulla poltrona: “Ne stanno ancora discutendo”. Che ha trovato nel ministero dell’Ambiente? Pausa, sorso d’acqua, risposta: “Finora si è esternalizzato troppo. Io voglio lasciare a chi verrà dopo di me una macchina che sappia gestire i soldi e i progetti”.

Ecco: ma lei, i soldi come li gestiva? Quando era presidente dell’Iit ha assegnato fondi per 3,5 milioni al Laboratorio di nanotecnologie di Lecce , diretto dalla sua prima moglie. Cingolani si sistema gli occhiali, ma non s’infuria: “Io non rispondo mai, ma a passare da disonesto non ci sto. La storia è un’altra: agli inizi dell’Iit, quando era nel triennio in cui lo stavamo costruendo, dovevamo partire con dei progetti. Li elaborai io, ma a valutarli è stato un Comitato scientifico internazionale, che poi ha girato i suoi giudizi al Cda dell’istituto. E a firmare tutto è stato il direttore generale. Poi quei soldi non sono andati a quella che era già la mia ex moglie, perché al tempo eravamo già divorziati. Erano risorse destinate al laboratorio, punto”. Ma lei era il direttore scientifico dell’Iit… “Il progetto era sulle nanotecnologie, e i centri attrezzati erano a Lecce e alla Normale di Pisa. Si figuri se dovevo favorire qualcuno”. Cingolani si alza. “Devo fare la seconda riunione sul Pnr, ho un sacco di lavoro. Ma come facevo a dire di no?”. Fuori la Camera, il voto di fiducia. “Ma tanto io resterò per quanto serve” sorride.

Trivelle, nucleare e bollette: ora riparte la guerra in aula

I partiti avevano deciso di ridurre al minimo gli emendamenti del Milleproroghe, da convertire entro il 1º marzo, per non creare subito spaccature nella nuova maggioranza. È il caso del “blocca prescrizione” di Alfonso Bonafede, che è stata solo per ora congelata. Ma su sfratti, trivellazioni, scorie nucleari, bollette e cashback l’accordo politico ancora non c’è. Ogni partito della maggioranza che sostiene il governo Draghi va per conto suo, con il rischio di divisioni interne già oggi, quando gli oltre 200 emendamenti saranno votati nelle commissioni Affari costituzionali e Bilancio della Camera prima di arrivare in Aula lunedì.

Sfratti. La prima spaccatura è quella sul blocco degli sfratti degli inquilini non in regola con il pagamento del canone. La proroga fino al 30 giugno era stata inserita last minute alla vigilia di Natale, provocando l’ira delle associazioni dei proprietari, a partire da Confedilizia. Ora, ognuno prova a tirare l’acqua al suo mulino: si va dall’emendamento di Maurizio Lupi di “Noi con l’Italia” per cancellare la misura, a quelli di Forza Italia e Italia Viva che stoppa gli sfratti per gli atti rilasciati dopo il 18 marzo 2020. La Lega chiede di escludere dalla sospensione tutti gli sfratti precedenti al 31 gennaio 2020. Per M5S la moratoria non dovrà superare il 31 marzo per gli atti precedenti al 31 gennaio, a meno che l’inquilino non abbia serie difficoltà economiche: soluzione che potrebbe mettere d’accordo tutti.

Scorie nucleari. È bipartisan, invece, l’accordo per prorogare l’individuazione del deposito nazionale delle scorie nucleari, sollecitato a ottobre dalla Commissione Ue. Il 5 gennaio Sogin, la società dello Stato incaricata dello smantellamento nucleare, aveva pubblicato la mappa delle aree che avevano le carte in regola per il deposito di stoccaggio: 67, dal Piemonte alla Sicilia dalla Toscana alla Puglia. Dopo le polemiche degli amministratori locali sulla mancata condivisione delle informazioni, nel Milleproroghe sono piovuti diversi emendamenti per rinviare l’individuazione del sito allungando di 6 mesi i tempi delle osservazioni degli amministratori.

Trivelle. Questione molto critica. Il 13 febbraio è scaduto il tempo per la redazione del Pitesai, il piano delle aree che dovrebbe indicare dove si può trivellare, mentre ad agosto scade la moratoria che ha sospeso, in attesa del piano, gli iter dei nuovi permessi. Sono stati segnalati come prioritari quattro emendamenti: uno della Lega che dà altri 12 mesi per l’adozione del piano ma chiede di far ripartire nel frattempo i “procedimenti amministrativi” per gli idrocarburi. La stessa proroga – ma non la ripartenza degli iter – viene chiesta con l’emendamento che porta la firma di Lorenzo Fioramonti (Misto) mentre quello firmato da Rossella Muroni (Leu, ex presidente di Legambiente) e di nuovo Fioramonti, fissa la scadenza del Pitesai al 13 agosto 2021. È probabile che si converga su questa soluzione, visto che il quarto emendamento, quello del M5s, non solo prolunga la scadenza per il Piano ma anche la moratoria sui permessi. Prospettiva su cui, già nelle riunioni di ieri, sarebbe stato posto un veto trasversale.

Cashback. Va ancora trovato l’accordo che consentirà alla Lega di affossare la creatura dell’ex premier Conte, distribuendo a Regioni e Province autonome i tre miliardi di euro stanziati per il 2022. Il meccanismo di rimborso di Stato del 10% sulle spese con carte, bancomat e app non è mai piaciuta al Carroccio. “Ci deve essere la libertà di pagare come si vuole”, ha ripetuto più volte Matteo Salvini. E così otto deputati della Lega stanno cercando di trovare un’intesa in extremis con i neo alleati di Italia Viva (sarebbe l’ennesimo scontro con Conte) per far sopravvivere l’emendamento che è tra i prioritari. Sarebbe la Lombardia, con oltre 672 milioni di euro, ad accaparrarsi la fetta più grande del malloppo che nelle intenzioni dei leghisti dovrebbe ristorare le attività economiche nei settori del commercio e della ristorazione più danneggiate dall’emergenza Covid.

Bollette. Ancora battaglia tra M5S e Lega sulla fine del mercato tutelato che riguarda le bollette di luce e gas di 16 milioni di famiglie. Al centro l’emendamento del capogruppo 5S alla Camera, Davide Crippa, per rinviare nuovamente dal 2022 al 2024 la scadenza per l’uscita dal regime di maggior tutela per scongiurare l’aumento dei prezzi per gli utenti più vulnerabili che difficilmente riuscirebbero a districarsi in un mercato completamente liberalizzato dove non ci sono ancora regole chiare per la partecipazione al mercato dell’energia, con oltre 700 operatori coinvolti. “In 18 mesi nulla è stato fatto dal governo Conte per evitarlo”, sostengono i leghisti. A fare da sponda, Italia Viva. La liberalizzazione forzata nasce, infatti, nel 2017 con il governo Renzi “in favore del monopolista Enel”, come spiegò l’allora presidente della commissione Industria del Senato, Massimo Mucchetti.

Biden si sposta a sinistra e sfida i dogmi liberisti: piacerà a Mr. Bce?

Oggi Mario Draghi fa il suo debutto al G7 convocato in videoconferenza. Si discuterà di vaccini, ma il premier italiano potrebbe approfittarne per sbirciare l’agenda economica di Joe Biden. Il neo-presidente americano, infatti, da sempre emblema del centrismo democratico, sembra collocarsi a sinistra nello scacchiere internazionale sostenendo un gigantesco piano di aiuti all’economia, e in particolare alle famiglie, dell’ordine di 1.900 miliardi di dollari. Una specie di “Sussidistan” che tanto fa orrore a Carlo Bonomi con trasferimenti alle famiglie nell’ordine di 1.400 dollari al mese e il salario minimo a 15 dollari l’ora. E anche Biden deve fronteggiare attacchi interni in uno scontro che ha ormai portata internazionale. Il Financial Times ha definito il pacchetto di Biden “il più radicale allontanamento” dai tempi di Ronald Reagan. Una svolta epocale, dunque con un indebitamento mai visto dalla Seconda guerra mondiale.

Tra i capofila della contestazione c’è l’immancabile Olivier Blanchard, già capo economista del Fmi che agita lo spettro dell’inflazione e si aggrappa al vetusto e complicato sistema dell’output-gap (che ha fatto una strage dei bilanci pubblici in Europa) ma anche l’ex clintoniano, e poi capo del Consiglio economico di Barack Obama, Larry Summers.

A fronteggiarli, al momento, la responsabile del Tesoro americano, ed ex Fed, Janet Yellen il cui motto è “agisci in grande” e che ha messo da parte, al momento, il problema dell’inflazione. Un linguaggio nuovo che se confermato potrebbe indurre anche la Ue a modificare le proprie priorità, oltre la pandemia. Chissà se Mario Draghi vorrà essere bideniano o legarsi ai vecchi schemi.

Mario “salva l’Italia”, è pieno di “visione” e beve persino acqua

Stupore e meraviglia: parla Mario Draghi. La stampa italiana si inchina. I giornalisti raccolgono ogni suggestione: la cronaca del discorso del premier è bagnata dall’emozione, il battito dei cronisti accelera, la salivazione è incontenibile. Draghi è grande: il responso che gronda da ogni colonna.

Repubblica, pag. 2 “Sale in cattedra ‘il professor Draghi’, come lo chiama la presidente Casellati, e almeno per un giorno è come se il Senato si ricordasse di essere un’istituzione e non il solito circo (…). Le parole chiave del discorso sono del resto alte e dense e ci vuole poco a fare la figura dei fessi di fronte a un uomo che si presenta invocando una Nuova Ricostruzione”.

Repubblica, pag. 2 “Da anni lo insegue la nomea infondata dell’uomo di ghiaccio, che non perde mai la calma (…). Per anni, Draghi è stato capace di incantare i mercati con poche parole. Per salvare l’euro gliene sono bastate tre (…). Non ha tralasciato nulla. Neanche i sentimenti, pericolosi per un banchiere centrale, essenziali per un politico che deve mantenere l’unità in un Paese che sta riemergendo dalla peste del secolo. (…) Di emozioni intense, Draghi ne ha regalate parecchie”.

Corriere della Sera, pag. 6-7 “Un discorso di ampio respiro, lungimiranza e forte ricucitura, che propone una visione, prova a riaccendere fiducia e speranza e disegna un orizzonte di crescita economica, sviluppo, progresso”.

Corriere della Sera, pag. 7 (“La Crusca: Lingua perfetta”) “Mario Draghi ha fatto un discorso da uomo colto, perfetto, che ancora una volta ha dimostrato la sua elevata statura (…). Inutile andare a caccia di imperfezioni”.

Corriere della Sera, pag. 8 “E la guerra alla burocrazia? Macché (…). Forse perché lui stesso, Mario Draghi, ha un’idea nobile della buona democrazia (…). Forse perché sa quanto le parole, da sole, possano essere vuote. Effimere. Coriandoli. I temi, quelli contano. E la credibilità di chi li prenderà finalmente di petto”.

La Stampa, pag. 1 “Per salvare l’Europa gli sono servite tre parole: “whatever it takes”. Per ricostruire l’Italia gliene basta una sola: ‘Semplicemente’”.

La Stampa, pag. 2 “Sono le 11.09 e dopo 52 minuti ‘sospesi’ si rompe l’incantesimo. Un doppio incantesimo: quello dell’uomo di ghiaccio, che (…) ha finito per commuoversi. Un’emozione vera e non esibita, o programmata a tavolino da qualche spin doctor”.

La Stampa, pag. 10 (“Addio pochette”) “Lo ‘stile Draghi’ è asciutto e senza fronzoli, gold-oriented (…). Una ‘misura’ che si misura anche nell’outfit understatement: (…) una sobrietà comunicativa che mira a fare parlare i fatti, archiviando (almeno temporaneamente…) propaganda, annuncite e barocchismi vari”,

Il Sole 24 ore, pag. 4 “Il senso dell’esecutivo Draghi è iscritto nel suo vocabolario. Un vocabolario che genera un doppio effetto: consapevolezza e visione. Due obiettivi conseguibili solo con la condivisione, il coraggio, il merito (…). Benvenuti nell’era del ‘noi’ e del ‘tutti’”.

Il Messaggero, pag. 1 “Il linguaggio della concretezza e dell’autorevolezza la politica se l’era dimenticato da tempo. Ora irrompe di colpo in Parlamento con il discorso di Draghi. E il metodo del neo-premier (…) ha un effetto straniante per i presenti nel Palazzo, ma risulta in sintonia con quanto i cittadini si aspettano dalla classe dirigente”.

il Foglio, pag. 1 “La formidabile lezione di realismo politico tenuta ieri mattina al Senato dal professor Mario Draghi offre agli osservatori diverse chiavi di lettura (…). Alla luce del discorso di ieri non è un errore dire che la trasversalità di Draghi va ricercata in un elemento cruciale: (…) nella sua capacità di diventare il migliore alleato di una generazione che alla politica chiede più che sussidi per galleggiare opportunità per tornare a sperare” .

L’intergruppo pro-Mes si ferma: “Ora non serve”

“L’intergruppo non si scioglie, ma ora il Mes non è una questione all’ordine del giorno”. Se le esperienze politiche si esaurissero con un epitaffio, le parole di Camillo D’Alessandro sarebbero perfette per spedire in freezer l’intergruppo “Mes subito”, la comunità parlamentare istituita lo scorso ottobre che ha riunito circa 150 tra deputati e senatori, prima che d’improvviso del Salva-Stati non gliene importasse più nulla a nessuno.

Che fine farà, allora, l’intergruppo? Di certo dovranno fare buon viso a cattivo gioco Andrea Orlando, Renato Brunetta e Mara Carfagna, passati dal “Mes subito” a un governo nel cui programma non esiste il prestito sanitario. Luigi Marattin (Iv) ieri ha invece dovuto giustificare la giravolta a Rai News24:“Ritengo sia ancora conveniente, ma i tassi dei Btp scenderanno. E poi non abbiamo mai detto ‘O Mes o morte’ e non lo diciamo neanche ora”. Eppure a fine anno, quando Iv presentò a Giuseppe Conte l’avviso di sfratto in 62 punti, sul Mes non c’erano sfumature: “Dire no ai 36 miliardi è semplicemente inspiegabile, indifendibile, ingiusto”. Ma D’Alessandro, che dell’intergruppo è stato il promotore, è chiaro: “In questo momento non mi sogno di creare neanche un grammo di problema al governo”. E quindi il “Mes subito”? “Per ora è congelato”. Peccato, perché le adesioni erano parecchie – da tutti i partiti tranne Lega, FdI e LeU – e l’agenda si iniziava a riempire. Dopo alcuni incontri sul finire del 2020, l’intergruppo aveva in programma colloqui con il ministro Roberto Speranza e con gli enti locali, prima che la crisi di governo mandasse tutto all’aria. Fatto sta che adesso anche Giorgio Trizzino, medico 5 Stelle, ha cambiato idea: “Da medico ho guardato al Mes come un mezzo utile per avere soldi, ma poi mi sono reso conto che, anche grazie al Recovery Fund, può essere superato. Ora lo accantonerei volentieri”. Fa scuola, insomma, il parere del senatore renziano Davide Faraone, che ha esaltato la taumaturgia di Draghi: “Non chiediamo più il Mes perché il nostro Mes è lei, presidente”.

I tempi cambiano, anche secondo il forzista Marco Siclari: “Sono stato tra i primi sostenitori del Mes, ma quando non avevamo alternative. Draghi rasserena tutti e abbiamo fiducia nelle sue decisioni, purché siano scelte condivise con la maggioranza”. Meno arrendevole è Raffaella Paita: “La mia opinione non è cambiata, servono investimenti soprattutto per chi non si può permettere la sanità privata. Tutti ci auguriamo il miglioramento dei conti, ma oggi non me la sentirei di dire che il Mes non serve”. Sempre che, come sostiene Maurizio Lupi, la svolta non arrivi proprio dal premier: “Sono sicuro che, se il Mes servirà come credo, Draghi non avrà problemi a utilizzarlo”. Dell’integruppo fa parte pure una folta pattuglia dem, tra cui il capogruppo in Senato Andrea Marcucci e l’onorevole Piero De Luca: “Basta strumentalizzazioni – ci dice il figlio del governatore campano –, il Salva Stati non prevede condizionalità capestro, va solo valutato in relazione alla sua convenienza economica. Se l’abbassamento dello spread renderà non più necessario il ricorso al Mes, apriremo una riflessione”.

Carceri e prescrizione: la linea Draghi già spacca la maggioranza

La fiducia c’è, bulgara, anche alla Camera: 535 sì, 56 no e 5 astenuti. Il governo Draghi non riesce a superare il record di Mario Monti del 2011 (556 favorevoli) ma da oggi può iniziare a lavorare. Con una prima grana tutta politica: la scissione nel M5S. Dopo i 21 dissidenti al Senato, alla Camera i grillini ribelli sono 20 tra voti contrari (16) e astensioni (4). Saranno espulsi. E nelle repliche al dibattito, poco dopo le 18, dopo 63 interventi e due ore di sospensione per sanificare l’aula, il presidente Mario Draghi capisce cosa significa toccare i temi politici che dividono la sua variegata maggioranza. Come da prassi Draghi non ripete il discorso del giorno prima al Senato.

Dopo aver ascoltato ogni intervento, il premier parla per 13 minuti soffermandosi su ciò che non aveva toccato nel suo discorso programmatico: imprese, corruzione, appalti e sport. Ma è sulla giustizia che si concentra di più, incassando applausi scroscianti da tutto l’emiciclo.

Se al Senato aveva accennato solo alla riforma della giustizia civile, il premier a Montecitorio affronta anche lo spinoso tema di quella penale, che divide la maggioranza: “Bisognerà intraprendere azioni innovative per migliorare l’efficienza della giustizia penale che rispetti tutte le garanzie e i principi costituzionali che richiedono un processo giusto e un processo di durata ragionevole, in linea con la media degli altri Paesi europei” dice. Lungo applauso, solo i deputati di Fratelli d’Italia non si muovono.

PoiDraghi, sollecitato durante gli interventi da molti deputati come il renziano Roberto Giachetti, si sofferma anche sullo stato delle carceri: “In tempi di pandemia non dovrà essere trascurata la condizione di tutti coloro che lavorano e vivono nelle carceri spesso sovraffollate – conclude il presidente del Consiglio – esposti al rischio della paura del contagio e particolarmente colpiti dalle misure necessarie per contrastare la diffusione del virus”. Standing ovation. Come fare una riforma del processo penale mettendo mano a temi divisivi come la prescrizione con una maggioranza che va dal M5S a Forza Italia, Draghi non lo dice. E in pochi ci credono davvero. Ma per ora va bene così. La fiducia c’è, per le divisioni di una maggioranza così variegata ci sarà tempo. Anche se le dichiarazioni di voto fanno capire che la distanza tra i partiti sulla giustizia è tanta, quasi incolmabile, e Lega, Forza Italia e Italia Viva non possono farsi scappare l’occasione di provare a spazzare via le bandiere del M5S. Così la capogruppo renziana Maria Elena Boschi applaude alla svolta “garantista” del governo per superare la “patologia giustizialista di Conte”, il berlusconiano Roberto Occhiuto chiede una riforma “che non sia figlia dell’ispirazione giustizialista” mentre il capogruppo della Lega Riccardo Molinari tira fuori la spada di Damocle che in questi giorni incombe sulla maggioranza, ovvero la prescrizione: “Noi rinunciamo ai nostri totem ideologici e chiediamo anche agli altri di farlo – alza i toni – ma di prescrizione si può e si deve parlare”. I 5 Stelle però fanno muro: “Il reddito di cittadinanza non si tocca e per snellire i tempi del processo si parta dalle nostre riforme già depositate: non faremo passi indietro”.

Nella sua replica Draghi parla anche di lotta alla corruzione che “deprime l’economia” e “la concorrenza” da combattere con legalità e semplificazione delle norme sugli appalti e dedica qualche passaggio alle imprese rilanciando l’industria 4.0 e allo sport citando le Olimpiadi di Milano-Cortina 2026.

Il resto del dibattito scorre liscio tra paragoni con Alcide De Gasperi di Bruno Tabacci (“Il politico diventa un uomo di stato quando pensa alle prossime generazioni più che alle prossime elezioni”) e l’intervento di Giorgia Meloni che, omettendo la fonte, cita il comunista Bertolt Brecht: “Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati – dice – non avere un’opposizione avvicinerebbe l’Italia alla Corea del Nord”. Anche Nicola Fratoianni vota “no” (ma da sinistra), il deputato leghista Gianluca Vinci passa con l’opposizione a FdI e sono ben 10 gli interventi in dissenso del M5S. Alla fine i ribelli saranno 16. Tutti espulsi.

Adesso l’ex sta con i ribelli: “Fanno benissimo a lottare”

E poi lì fuori ci sarebbe sempre lui, Alessandro Di Battista. Quello che non parla più a nome del Movimento, è vero, e che dopo il sì di Grillo e dei 5Stelle a Mario Draghi lo avrebbe proprio salutato, il M5S: “È finita una bellissima storia d’amore”. Però mica ha detto addio, Di Battista.

E ieri mentre infuriava l’insurrezione dei senatori che hanno votato no e dei deputati che si apprestavano a farlo, l’ex deputato ha diffuso su Facebook un annuncio che è parso una mano tesa ai rivoltosi: “Ci sono cose da dire. Scelte politiche da difendere. Domande a cui rispondere e una sana e robusta opposizione da costruire. Ci vediamo domani alle 18.00 con #DiBattistaLive su Instagram”. Lecito chiedersi: ma l’ex deputato si prepara a guidare una scissione? Per nulla, assicura chi gli ha parlato nelle scorse ore. Piuttosto, Di Battista intende fare opposizione al governo Draghi con iniziative periodiche, ossia anche con dirette sui social. “Bisogna opporsi, non c’è nessuno che lo faccia” sta ripetendo. Così ecco l’annuncio: proprio ora che il Movimento sta esplodendo di insoddisfazione, e non è certo casuale. Tra i 15 che hanno votato contro in Senato ci sono anche veterani molto vicini all’ex deputato, come il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra e Barbara Lezzi, che ieri ha rilanciato proponendosi per la segreteria del M5S. Non vogliono accettare l’espulsione, Morra e Lezzi, e sono pronti a combattere a suon di ricorsi. E Di Battista sta assolutamente con loro. “Fanno benissimo a lottare per rimanere dentro, hanno ragione loro”, ha detto a un paio di parlamentari che lo hanno sentito. D’altronde portano avanti la sua stessa linea di opposizione totale all’ex presidente della Bce. Molti grillini lo hanno deglutito per disciplina o semplice rassegnazione. Ma per l’ex deputato, il M5S sta sbagliando di grosso. “Basta guardare la reazione della base, come stanno venendo sommersi quelli che hanno detto sì…” sostiene Di Battista.

Cercato, certo, dai ribelli. Ma tanto lui si è messo di lato. Aspetterà l’evolversi della battaglia dentro il Movimento. E intanto porterà avanti il dialogo con la base, con gli iscritti, anche attraverso le dirette. “Risponderò a tutte le domande” ha promesso. Ma sa che il corpaccione del M5S sta pendendo da quella parte. Sente e vede tanti eletti e attivisti che predicano il no anche per difendere un’identità che temono svanire, quasi evaporata dopo tanti accordi di governo. Così Di Battista sta lì, un passo fuori della porta. Ma c’è, eccome. Lo ha ricordato anche mercoledì, con una frase di sostegno a Virginia Raggi, che pure aveva subito aperto a Draghi, e l’ex deputato non aveva per nulla gradito, tanto da farlo sapere alla sindaca di Roma. Ma quando Raggi ha invocato il voto degli iscritti su Rousseau per la sua ricandidatura, ha battuto subito un colpo. Perché lei c’è ancora, nel suo pantheon a 5Stelle.

Tanto che voleva e vorrebbe che si candidasse anche alla segreteria del M5S, la sindaca, che come capo staff ha Max Bugani. Un altro veterano vicino all’ex deputato, che ieri ha pubblicato una vecchia foto assieme a Lezzi e Morra. Per dire che lui sta da quella parte, come Di Battista.

Dibba, Lezzi, Morra e Casaleggio: guerra per prendersi il M5S

Ad andare via, a fare la scissione, non ci pensano neanche. Perché il Movimento, l’originale, sono loro. Lo ripetono allo sfinimento, i “big” finiti nel calderone dei 15 espulsi ieri, dopo aver votato no alla fiducia al governo Draghi. Barbara Lezzi e Nicola Morra soprattutto, ma anche Vilma Moronese, Matteo Mantero: colonne dei 5 Stelle, i primi a entrare in Parlamento nel 2013, gli “amici di Beppe Grillo”, come si chiamavano una volta: solo che loro lo erano davvero. E pure Elio Lannutti, uno dei pochi che poteva ancora vantare il filo diretto con Genova. Ma adesso lui, il Garante che ha scelto di fidarsi dell’ex capo della Bce, li chiama “marziani” e dice che il M5S non è più quella roba lì. Così, mentre il suo blog seguiva in diretta l’arrivo su Marte del “rover” della Nasa chiamato Perseverance, a 470 milioni di chilometri di distanza, nell’aula di Montecitorio un’altra pattuglia di 16 eletti Cinque Stelle voltava le spalle alla “sfida” in cui il grosso del partito ha deciso di imbarcarsi.

Anche loro votano “no”, incuranti dell’“avvertimento” che è arrivato ieri mattina con l’espulsione di chi – secondo lo Statuto M5S e il regolamento del gruppo – non ha rispettato l’esito della votazione su Rousseau, finita 60 a 40 per chi sceglieva di turarsi il naso. Ma Morra, Lezzi e gli altri non vogliono accettare il verdetto: lo considerano illegittimo, perché è firmato da quel Vito Crimi che non sarebbe più in carica come reggente; contestano il quesito su cui era basata la consultazione (si parlava di un super-ministero che non è nato); ritengono che il vincolo riguardi il voto di fiducia a un presidente del Consiglio incaricato dal Movimento. Credono, insomma, che dire no a Draghi e all’ingresso in una maggioranza dove siede anche Silvio Berlusconi, sia assolutamente in linea con i principi che dovrebbero muovere l’azione dei portavoce 5Stelle in Parlamento. E dalla loro hanno Davide Casaleggio, il primo a dire – subito contraddetto dal Garante – che la reggenza di Crimi sia bella che finita. E pure Alessandro Di Battista, che da qualche giorno “non parla più a nome del Movimento”, ma parla, eccome, e si mette alla guida dell’opposizione.

Per la loro battaglia in tribunale, si sono rivolti a Lorenzo Borrè, lo storico avvocato dei dissidenti grillini, che da anni segue le cause di quelli che – anche Lezzi, Morra &C. – hanno ripetutamente cacciato via per le ragioni più varie, tra cui i voti in dissenso rispetto alle indicazioni del gruppo. Lo ricordano, quelli che ieri hanno detto sì, pur controvoglia: “Molti di noi si sono adeguati, c’è gente che ha pianto in aula! Sapevamo che questa roba non sarebbe stata indolore, ma le regole sono sempre valse per tutti e abbiamo sempre ripetuto quel che diceva Gianroberto: ‘Ogni volta che deroghi a una regola praticamente la cancelli’”. Il proverbio grillino, va detto, ormai suona parecchio datato: è il paradosso del Movimento che ora si ritrova a cacciare chi fa quello che tutti si aspettavano facesse. Ma è evidente che in questa partita, oltre al fortissimo richiamo di Grillo, ha giocato anche quella forma di “assuefazione” al potere, costruita nei 30 mesi passati al governo e riassumibile così: “Si stanno scannando per chi deve fare il sottosegretario, figurati se pensano ai ricorsi contro le espulsioni”.

La verità è che sperano che se ne vadano e sognano l’irrilevanza a cui verrebbero condannati una volta persa la vetrina Cinque Stelle. Ma solo qualcuno – vedi Mattia Crucioli – crede che la strada del nuovo gruppo sia quella da percorrere. Certo, si è studiata anche quella (c’è il simbolo “in sonno” dell’Italia dei Valori) ma nessuno sta lavorando in quella direzione: restare dentro, questo è l’obiettivo. Per potersi godere da vicino l’effetto che farà vedere gli altri costretti ad ammettere di aver sbagliato. Lezzi addirittura annuncia di volersi candidare a uno dei posti previsti dal nuovo organo collegiale che guiderà il Movimento. Sempre che a quel punto sia rimasto qualcosa da guidare.