Movimento 5Sedie

Spunti per il nuovo spettacolo di Grillo. Belìn, c’era una volta un comico che capiva tutto prima degli altri. Tipo che la politica era marcia, la finanza anche peggio e la stampa teneva il sacco a entrambe. Così cominciò a informare la gente nei suoi show (chi ci andava scoprì che la Parmalat era fallita ben prima della Consob e dei pm). E fondò il Movimento 5 Stelle: tutti risero, poi piansero, poi passarono agli insulti, ai corteggiamenti e infine alle alleanze. E gli “scappati di casa”, in tre anni, trovarono un premier più che degno e portarono a casa quasi tutte le loro bandiere prima che il Matteo maior e il Matteo minor buttassero giù i loro due governi per liberarsi di loro. Nel momento del massimo trionfo, anziché rendersi prezioso e vendere cara la pelle, Grillo sbarellò. Scambiò per “grillino” Draghi, che a suo tempo chiamava “Dracula” e voleva “processare per Mps”. E spinse i grillini quelli veri ad arrenderglisi senza condizioni, in nome di un superministero-supercazzola alla Transizione Ecologica che doveva inglobare Ambiente e Sviluppo economico. Su quella promessa fece votare gli iscritti con un quesito che diceva mirabilie del Sì, nulla del No e non prevedeva l’astensione. Quelli si fidarono di lui, unico ammesso al cospetto di SuperMario, e dissero Sì al 60%. Poi scoprirono che era una battuta (quella di Draghi): il superministero era mini, per giunta diretto da un renziano per giunta indicato da Grillo; e il Mise, lungi dallo scomparire, passava semplicemente da Patuanelli a Giorgetti, noto ambientalista padano (vedi trivelle, Tav, Terzo Valico e altre colate di cemento).

Molti iscritti gabbati chiesero di rivotare, ma furono narcotizzati con altre supercazzole: “i ragazzi del 2099”, “la sonda Perseverance atterra su Marte e la Perseveranza atterra alla Camera”, “i Grillini non sono più marziani”. E i loro “portavoce” andarono al patibolo fornendo la corda al boia e dandogli pure la mancia. Donarono sangue e organi all’ex Dracula, che li liquidò con quattro perline colorate (Esteri, Agricoltura, Giovani, Rapporti col Parlamento), trattandoli peggio dei partiti con metà o un quarto dei seggi. I parlamentari coerenti col giuramento fatto agli elettori “mai con B.” votarono contro o si astennero, ma, anziché essere rispettati come minoranza interna, furono espulsi da chi era andato al governo con B. (già “testa d’asfalto”, “psiconano”, “psicopedonano”), col Matteo maior (già “pugnalatore dell’Italia da mandare a lavorare a calci”) e col Matteo minor (già “ebetino” e “minorato morale”). “Belìn”, ridacchiò il comico, “è il mondo alla rovescia! È come se Ario, Lutero e fra’ Dolcino avessero scomunicato il Papa! Lo dicevo io che ne resterà uno solo: io!”. Applausi. The end.

Dire e non dire

Ieri Draghi ha parlato 53 minuti, 13 in più di Conte per la fiducia giallorosa e 18 in meno di Conte per la fiducia gialloverde. Ma questi sono dettagli trascurabili, almeno per noi che badiamo al sodo, diversamente dai turiferari che annunciavano da giorni un discorso di mezz’ora al massimo per inaugurare la “rivoluzione del linguaggio” e la “svolta della brevità”. Anzi, gli avremmo concesso volentieri qualche minuto in più per uscire dalla vaghezza o dall’afasia su alcuni temi che meriterebbero una parola chiara. Il discorso è stato ottimo sull’ambiente (poi vedremo se si tradurrà in pratica) e sull’euro (vero, Salvini?). Doveroso nel grazie a Conte e al suo governo (9 ministri ora stanno con Draghi). Buono su pandemia e Recovery Plan (sostanziale continuità col governo uscente: altro che fallimento e disastro). Interessante sulla governance accentrata dal Tesoro per controllare e non sprecare i 209 miliardi (ma Conte, che ne proponeva una presso Tesoro, Mise e Affari Ue, non era un dittatore-accentratore?). Generico sulle eventuali modifiche al piano Ue e sulla riforma della Pa. Opportuno, ma un po’ “coda di paglia”, nello smentire il fallimento della politica. Vago sul Reddito e il blocco dei licenziamenti. Ragionevole sul fatto che, a lungo andare, i sussidi dovranno aiutare chi regge il mercato e abbandonare chi non sa riconvertirsi (ma quando la grillina Castelli disse cose analoghe fu lapidata). Saggio sulla progressività del fisco (altro che Flat tax). Propagandistico sulla scuola in presenza e non in Dad (con le varianti Covid, vedremo se Bianchi farà meglio dell’Azzolina, appena promossa dall’Unesco). Perdonabile per le gaffe “da emozione” sui numeri delle terapie intensive e della cassa integrazione (ma, se fosse stato il predecessore, l’avrebbero massacrato).

Ma più di quelle che ha detto contano le cose che Draghi non ha detto. Niente Mes (benissimo: avevano ragione Conte, M5S, Gualtieri, i sovranisti e torto il Pd, FI, Iv, Calenda, Bonino e tutti i giornaloni). Niente Costituzione e mafia solo in replica (malissimo). Zero conflitto d’interessi (male per noi, bene per certi ministri “tecnici”, FI e Iv). Un cenno di circostanza alla corruzione (male). Non una sillaba sulla blocca-prescrizione di Bonafede (chiesta dalla Ue), che finora tutti tranne i 5S volevano cancellare, provocando le dimissioni del Conte-2. Scelta comprensibile per chi vuol governare un mese e vincere facile. Ma chi vuol governare due anni (o uno?) deve sciogliere anche i nodi divisivi: prima o poi la politica, anche se è commissariata, presenta il conto.

Ps. Eccellente il richiamo a Russia e Cina sul rispetto dei diritti umani. Noi, parlando con pardòn, ci avremmo aggiunto pure l’Arabia Saudita.

Draghi spiega ai partiti che c’è il pilota automatico per 10 anni

Nell’aula del Senato, Mario Draghi prende la parola poco dopo le 10.15 e la tiene per una cinquantina di minuti in cui non lesina impegni generici, né citazioni della parola “resilienza”, ma non omette il punto politico di fondo: spiega ai partiti che lo sostengono – e pure a quello che non lo sostiene – che è in questi mesi che si decide dove andrà l’Italia nei prossimi dieci anni. Bilancio pubblico, collocazione internazionale, modello economico e ruolo dello Stato: si decide ora, così si resta dopo le prossime elezioni. Nel 2013 disse la stessa cosa senza perifrasi: “L’Italia prosegue sulla strada delle riforme, indipendentemente dall’esito elettorale: continuano come se fosse inserito il pilota automatico”.

Più Europa. “Questo governo nasce nel solco dell’appartenenza del nostro Paese all’Unione europea e come protagonista dell’Alleanza Atlantica. Sostenere questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro, significa condividere la prospettiva di una Ue sempre più integrata che approderà a un bilancio comune”. Capito, Salvini?

La durata. Draghi sa che la sua presenza a Palazzo Chigi sarà una parentesi, ma sa anche che cade in un momento decisivo: “La durata dei governi in Italia è stata mediamente breve ma ciò non ha impedito, in momenti anche drammatici, di compiere scelte decisive per il futuro. Conta la qualità delle decisioni, il coraggio delle visioni, non i giorni (…) Oggi abbiamo la responsabilità di avviare una Nuova Ricostruzione”.

Orizzonte. Nel contesto del Recovery Plan, “il ruolo dello Stato e il perimetro dei suoi interventi dovranno essere valutati con attenzione. Compito dello Stato è utilizzare le leve della spesa per ricerca e sviluppo, l’istruzione, la formazione, la regolamentazione, l’incentivazione e la tassazione”. Tradotto: scordatevi nuove Iri o lo “Stato innovatore”. E non per poco: “Il Programma indicherà obiettivi per il prossimo decennio e più a lungo termine, con una tappa intermedia per l’anno finale del Next generation Eu, il 2026”.

Recovery Plan. La regia sarà nelle mani del fidato Daniele Franco al Tesoro, il Parlamento sarà “informato” e tanti saluti. “Avremo a disposizione circa 210 miliardi lungo un periodo di sei anni” da spendere per “migliorare il potenziale di crescita: la quota di prestiti aggiuntivi che richiederemo dovrà essere modulata in base agli obiettivi di finanza pubblica”.

Obiettivi. La base di partenza è il Piano del governo Conte, ma “nelle prossime settimane rafforzeremo la dimensione strategica del programma” soprattutto quanto a “produzione di energia da fonti rinnovabili, l’inquinamento dell’aria e delle acque, la rete ferroviaria veloce, le reti di distribuzione dell’energia per i veicoli a propulsione elettrica, la produzione e distribuzione di idrogeno, digitalizzazione, banda larga e reti 5G”. Draghi ha battuto a lungo sull’ambiente: è un suo obiettivo come pure un obbligo Ue, ma ha pure il pregio di ammaliare le orecchie grilline.

Riforme. “Come sapete il Next Generation Eu prevede delle riforme”. Sono quelle indicate dalle Raccomandazioni della Commissione Ue datate 2019 e 2020: dentro c’è un po’ tutto, compresi l’austerità di bilancio. Draghi ha citato: 1) la riforma del fisco: pare voglia nominare una commissione di studio; 2) la riforma della P.A. via digitalizzazione e formazione; 3) la riforma della giustizia civile per velocizzare i processi. Non proprio obiettivi mai sentiti.

Pandemia. Il governo s’impegna a “combatterla con ogni mezzo”, il che non è una sorpresa, e “a informare i cittadini con sufficiente anticipo – per quanto compatibile con la rapida evoluzione della pandemia – di ogni cambiamento delle regole”. Vedremo.

Ristori e sussidi. “Dobbiamo occuparci di chi soffre adesso, di chi oggi perde il lavoro o è costretto a chiudere la propria attività”. È l’unico passaggio da cui sembra di capire che a breve verrà varato il decreto per cui il Parlamento ha già autorizzato 32 miliardi di maggior deficit.

Distruzione creatrice. Aiuti sì, ma selettivi: “Il governo dovrà proteggere i lavoratori, tutti i lavoratori, ma sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche: alcune dovranno cambiare, anche radicalmente, e la scelta di quali proteggere è il difficile compito che la politica dovrà affrontare”. Questo vale per il futuro, nell’immediato però non è chiaro se il blocco dei licenziamenti verrà prolungato oltre il 31 marzo e come.

Immigrazione. La revisione del Trattato di Dublino, il “rispetto dei diritti dei rifugiati”, ma anche “una politica Ue dei rimpatri”. A ciascuno il suo.

Il Mes. Non ne ha parlato, sarà stata una dimenticanza.

Il Recovery va al Tesoro (cioè a lui e ai tecnici)

Draghi ha annunciato che la governance del Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) sarà incardinata nel ministero dell’Economia in “strettissima” collaborazione con i ministeri competenti. È la logica conseguenza di affidare ai tecnici le figure chiave che avranno voce in capitolo sui fondi (210 miliardi, 80 di sovvenzioni e il resto prestiti): Transizione ecologica (Cingolani), Digitale (Colao), Scuola (Bianchi) etc. Ma sarà soprattutto il fidato Daniele Franco al Tesoro ad avere il comando.

Il governo Conte aveva scelto una formula diversa, usata da Matteo Renzi come pretesto per aprire la crisi: una cabina di regia a Palazzo Chigi, affidata al Comitato per gli affari Ue in una sorta di triumvirato tra Economia, Sviluppo e il ministero guidato da Vincenzo Amendola posto alla testa di una struttura parallela a quelle ministeriali con 6 manager e un esercito di esperti con poteri anche sostituivi. Circondandosi di tecnici e di un uomo fidato nel dicastero chiave, Draghi ha risolto il problema affidando a loro (cioè a se stesso in ultima istanza) la gestione dei fondi, anche se un qualche ruolo lo avranno pure le caselle politiche, dallo Sviluppo economico al Lavoro alla P.A. E il Parlamento? Verrà “costantemente informato”, si è limitato a dire il premier che ha promesso di tenere in qualche modo conto dell’orientamento che le Camere esprimeranno sul testo esistente prima di stendere il suo piano.

Cosa cambierà rispetto al documento studiato dal Conte II è difficile dirlo. Draghi ha fatto intendere che la base resta quella, così come le “missioni” su cui è costruito (innovazione, digitale, transizione ecologica etc.). Una differenza di fondo però c’è: ha avvisato che “la quota di prestiti aggiuntivi (cioè non destinati a sostituire finanziamenti già previsti) … dovrà essere anche modulata in base agli obiettivi di finanza pubblica”. Tradotto: per accontentare Renzi, si era deciso di alzare la spesa in deficit e quindi l’impatto del piano, che ora verrà ridotta. D’altronde, affidare le chiavi all’ex ragioniere generale dello Stato è già un segnale.

No alle chiusure e alla Dad. L’idea “nuova” è puntare sugli istituti tecnici

Bisogna recuperare le ore di scuola perse con la didattica a distanza. All’Istruzione, Mario Draghi ha riservato alcuni dei passaggi più precisi del suo discorso in Senato. “Tornare rapidamente a un orario scolastico normale”, distribuirlo “su diverse fasce orarie”, “fare il possibile per recuperare le ore di didattica in presenza perse lo scorso anno, soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno in cui la didattica a distanza ha incontrato maggiori difficoltà”. E ancora: “Rivedere il disegno del percorso scolastico annuale”, “allineare il calendario alle esigenze derivanti dall’esperienza vissuta dall’inizio della pandemia” significa stop alle chiusure e soprattutto orari extra per permettere agli studenti delle scuole superiori di recuperare. La stima è che almeno 600mila ragazzi siano stati svantaggiati con la didattica a distanza. Il problema è che finora è stata considerata “didattica” a tutti gli effetti. Draghi ha così messo sul tavolo due temi scottanti. Il primo è la necessità di tenere aperte le scuole, nonostante la linea di chiusura finora sentita come prioritaria sia da Franceschini sia da Speranza e che, salvo evidente incoerenza, potrebbe scontrarsi con un nuovo picco di contagi. Il secondo è una conseguenza del primo: i sindacati hanno ribadito anche ieri che, pur concordando sulle dichiarazioni di Draghi, per il recupero delle ore dovrà essere lasciata autonomia decisionale alle scuole. Si tratta di un’autonomia che però potrebbe far aumentare il divario e le discriminazioni non solo – già ben evidenziato – tra Nord e Sud, ma anche tra le varie regioni e tra istituti. In più, ci sarebbe il problema dei docenti, che considerano la didattica a distanza lavoro a tutti gli effetti: gli si dovrebbe chiedere di lavorare più ore o si dovrebbero trovare più docenti rapidamente (magari con la sanatoria dei precari già accennata dal ministro). È invece emersa chiaramente la visione in questo governo dell’istruzione come via d’accesso al mercato del lavoro e viceversa. Draghi introduce il tema con maestria: prima elogia la tradizione umanistica dell’Italia e poi sottolinea la necessità di creare da subito la manovalanza dell’economia digitale ed ecologica anche investendo “nella formazione del personale docente”. Qui il suo discorso si fa molto preciso. “In questa prospettiva particolare attenzione va riservata agli istituti tecnici”. In testa c’è il modello francese e tedesco, in cui per la metà del tempo (di solito 4 anni) gli studenti stanno in azienda. “È stato stimato in circa 3 milioni, nel quinquennio 2019-23, il fabbisogno di diplomati di istituti tecnici nell’area digitale e ambientale”. A questi istituti, la cui importanza è da anni segnalata da tutti i ministri, il recovery plan riserva 1,5 miliardi ma “senza innovare l’attuale organizzazione di queste scuole, rischiamo che quelle risorse vengano sprecate”. Il rischio è che questa innovazione passi – come suggerisce anche il pensiero del neoministro dell’Istruzione Bianchi nell’ultimo suo libro – per un ruolo attivo delle imprese nella scuola. Da alternanza scuola-lavoro a “integrazione scuola-lavoro”.

Addio “primule” e più vaccinazioni: ma ancora non s’è capito come farà

Le prime parole di Mario Draghi da premier sono state ovviamente dedicate all’emergenza sanitaria: “Il principale dovere cui siamo chiamati tutti, io per primo come presidente del Consiglio, è di combattere con ogni mezzo la pandemia e di salvaguardare le vite dei nostri concittadini. Una trincea dove combattiamo tutti insieme: il virus è nemico di tutti ed è nel commosso ricordo di chi non c’è più che cresce il nostro impegno”. Parole doverose e dunque scontate, ma cosa intende fare il nuovo esecutivo non è chiarissimo. Ad esempio, rimarrà la divisione dell’Italia in zone in base ai contagi? Il gruppo di esperti che consiglia il governo sarà modificato? Quali compiti avrà o non avrà il Commissario all’emergenza? Come sarà modificata la campagna vaccinale? Non si sa nulla, tranne che non si faranno i padiglioni con le primule firmati Stefano Boeri. Pazienza.

Insomma, ad oggi il Parlamento vota la fiducia a scatola chiusa, ma dal discorso di ieri in Senato par di capire che Draghi intenda puntare tutto sul miglioramento della campagna vaccinale, l’unica via affinché “tutti coloro che soffrono per la crisi economica che la pandemia ha scatenato” possano “tornare, nel più breve tempo possibile, alla normalità delle loro occupazioni”. E quindi sotto coi vaccini: “La nostra prima sfida è ottenerli nelle quantità sufficienti e distribuirli rapidamente ed efficientemente”. Finora il problema della campagna è proprio il numero di vaccini, il loro approvvigionamento: a ieri erano state inoculate circa l’80% delle dosi ricevute (3,2 milioni) e 1,3 milioni di italiani avevano ricevuto sia la prima che la seconda iniezione. Volere più vaccini e ottenerli, però, non sembra siano la stessa cosa: basti citare la pessima condotta della Commissione Ue ammessa dalla stessa Ursula von der Leyen.

Il resto del passaggio ci regala il no alle primule: “Abbiamo bisogno di mobilitare tutte le energie su cui possiamo contare, ricorrendo alla Protezione civile, alle Forze armate, ai tanti volontari. Non dobbiamo limitare le vaccinazioni all’interno di luoghi specifici, che spesso non sono ancora pronti. Abbiamo il dovere di renderle possibili in tutte le strutture disponibili, pubbliche e private, facendo tesoro dell’esperienza fatta coi tamponi, che, dopo un ritardo iniziale, sono stati permessi anche al di fuori della ristretta cerchia di ospedali autorizzati, e soprattutto imparando da Paesi che si sono mossi più rapidamente di noi, disponendo subito di quantità di vaccini adeguate. La velocità è essenziale, ora anche per ridurre le possibilità che sorgano altre varianti del virus” (a parte che è possibile fin d‘ora per le Regioni organizzarsi nei luoghi che credono, Protezione civile e Forze armate partecipano già alla campagna vaccinale…). Non fosse per il deliquio dei media e l’acquiescenza del Parlamento, la vaghezza di Draghi potrebbe anche essere scusata: di fatto non ha praticamente neanche parlato con chi ha gestito la pandemia finora. È la vera novità del governo dei migliori: lo sono a prescindere, prima ancora di aver fatto alcunché, fosse pure alzare il telefono.

Il Sì bulgaro e scontato al Senato Ma 15 contrari e 7 assenti tra i 5S

Stare con Mario Draghi nella prova della votazione di fiducia è un comandamento, si vota sì perché si deve, e così sia. E poco prima della mezzanotte il Senato lo conferma, dando la fiducia al suo governo con 262 sì e 40 no. Un plebiscito, anche se non come quello che ricevette un altro tecnico, Mario Monti, nel 2011 con 281 voti a favore. Però nel giorno in cui (quasi) tutti i partiti fanno i bravi bambini, il partito con la maggioranza relativa, il M5S, esplode. In 15 su 92 eletti grillini dicono no a Draghi, e il loro voto contrario dovrebbe essere anche l’addio al M5S, se Vito Crimi come minacciato avvierà le pratiche per la loro espulsione. In una notte drammatica per il Movimento dicono no veterani come Barbara Lezzi, Vilma Moronese e Matteo Mantero. E perfino il presidente della commissione Antimafia, Nicola Morra. “Sono tanti” riconoscono dal gruppo, atterriti. I vertici parlamentari e big vari avevano provato per tutto il giorno a convincere i dissidenti ad assentarsi dall’Aula, per limitare i danni. E alla fine gli assenti sono otto (però uno è in ospedale), dal romano Emanuele Dessì alla veneta Orietta Vanin. Ma a fare rumore è la slavina dei 15, che apre la porta alla scissione parlamentare, visto che per fare un gruppo bastano 10 senatori. Dentro potrebbe esserci la lunga fila di eletti, da Mattia Crucioli a Bianca Laura Granato fino a Virginia La Mura (vicina al presidente della Camera Roberto Fico), che a tarda sera motivano il loro no dal microfono. “Avete chiuso i bancomat in Grecia” scandisce Elio Lannutti, attaccando Draghi come ex presidente della Bce. L’epilogo di una giornata in cui molti altri 5Stelle hanno detto sì, per disciplina o semplice quieto vivere. “Ma questa non è una fiducia in bianco e il mio sì è sofferto e lacerante” dice in lacrime la grillina Cinzia Leone. Tradotto, per molti 5Stelle Draghi è una pillola. E l’ex ministro Danilo Toninelli ricorda quanto sia amara: “Ci aspettiamo che Draghi dia risposte al popolo italiano e non solo alle élite che quando stava in Banca d’Italia avrebbe dovuto sorvegliare di più”.

Frasi che saranno parse eretiche a Matteo Renzi, molto frizzante a palazzo Madama. “Draghi ha dato una visione” spiega ai cronisti. Ergo, “valeva la pena aprire la crisi, certo”. Anche se Draghi rende l’onore delle armi a Conte: “Ringrazio il mio predecessore che ha affrontato una situazione di emergenza sanitaria ed economica come mai era accaduto dall’Unità d’Italia”. Ma lo hanno ugualmente rovesciato, l’avvocato. E il prodotto è un governo dove si sono stipati più o meno tutti, perfino la Lega che era anti-Ue e invece no, ora giurano che scherzavano. Fratelli d’Italia, l’unico partito rimasto all’opposizione, vuole infierire. Così verso sera Ignazio La Russa punge: “Io non voglio difendere la Lega, presidente, ma lei è stato ingeneroso verso i temi a loro cari: nel suo discorso non c’era nulla sulla sicurezza o sulla lotta all’immigrazione clandestina…”. La frecciata funziona, e nelle repliche Draghi deve rispondere: “Sui migranti serve una piena assunzione di responsabilità da parte dell’Unione europea, e l’Italia propone la redistribuzione pro quota. E senza legalità e sicurezza non si può crescere”. Ma la maggioranza è quello che è, un papocchio. E lo ribadisce la mozione di sostegno dei partiti a Draghi, fatta di due righe: “Il Senato, udite le comunicazioni del presidente del Consiglio, esprime la fiducia al governo”.

Di più evidentemente non si poteva scrivere. Ma per Italia Viva non è un problema, come non lo è dover rinnegare in un amen mesi di propaganda. E infatti il renzianissimo Davide Faraone la mette così: “Ci chiedono perché non chiediamo più il Mes. Non lo facciamo perché il nostro Mes è lei, presidente Draghi”. E mancano solo i cuoricini. Infine, Salvini, che cita Benedetto Croce e Alcide De Gasperi e si esercita sulla “religione della libertà”, fino a citare la “dieta mediterranea”. Benvenuto, Draghi.

“È un fuoriclasse”, “È il nostro Mes”, “Il nostro vaccino”

Plebiscitato, adorato, sussunto, infine, come prova la senatrice Alessandra Gallone di Forza Italia, addirittura iniettato. Un’endovena di Mario Draghi, “lei è il vaccino per l’Italia”. Diciamolo subito: il presidente del Consiglio è incolpevole. Ha la stessa cravatta bordeaux del giorno del giuramento e – benché mascherinato – nessuna ostruzione vocale. Alla sua destra il verde padano Giancarlo Giorgetti, alla sinistra il grillino Stefano Patuanelli. I ministri politici nella fila superiore, pretoriani o solo corona insidiosa, controllori o piuttosto già controllati, Dio lo sa. I tecnici alla seduta inferiore, dove in genere alloggiano i sottosegretari. Cinquantatré minuti e nessuna interferenza sonora di rilievo. Digerita la sovranità come segno della solitudine, infatti per Salvini “la Lega c’è”, digerita la scomparsa del Mes (“è lei il nostro Mes”, dice l’ineffabile Faraone di Italia Viva). “Lei è un fuoriclasse”, gli spiega il capogruppo leghista Romeo.

I senatori draghizzati sono la moltitudine attesa. “Finalmente c’è”, dice Emma Bonino. C’è lui e non più Giuseppe Conte (“Buu” dalla destra, applausi sentiti e piuttosto nervosi dall’altro lato) al quale l’attuale premier riconosce “la gran mole di lavoro” sul Recovery, che per Renzi faceva totalmente “schifo”.

Le parole, come la verità, prendono sempre direzioni inaspettate quando il filo della logica sostituisce quello della polemica e l’astio di ieri si fa l’armonia di oggi. Draghi spiega che l’Italia non conta senza l’Europa. Ed era facile prevederlo. Che la moneta non è la Santità se con i soldi si insozza il pianeta. E per un banchiere è una novità. Dice anche che il virus ha una sua radice quadrata nell’inquinamento, che la bellezza va salvaguardata. Ambientalista, anche progressista, solidarista. Più di sinistra di tanti che siedono a sinistra in questo emiciclo.

I senatori ascoltano infatuati. Uno, Dal Mas (Forza Italia) gli chiede di far “atterrare” presto il Recovery. Una senatrice grillina, molto emozionata, gli chiede di non fare scherzi: “La stiamo votando per responsabilità, confidiamo che lei aiuti i poveri”. In effetti di povertà parla, di quella vecchia e di quella nuova. Ed è una novità Draghi sbaglia il numero dei ricoverati in terapia intensiva, e pare non capire che i due milioni che annuncia sarebbero una disgrazia mondiale (“duemila”, corregge Giorgetti).

Duemila e poco più, ma sono due milioni le cose da fare, e il capo di Brunetta, ministro della Pubblica amministrazione, fa avanti e indietro, in un assenso perpetuo e inesausto. Il ministro deve tenere a bada i dipendenti pubblici, e intanto distribuisce ai senatori del suo partito il suo biglietto da visita. Un atto di pace, perché gli accoltellamenti tra berlusconiani, in seguito alle nomine ministeriali, si sono fatti notevoli. In groppa a Draghi solo deputati, zero carbonella per i senatori.

“Oggi di tanti anni fa nacque Mani pulite. Io comunque non lo voto”, dice il grillino Nicola Morra. “Io forse sì”, invece il collega Airola. “Io sì, ma al primo passo falso voto contro”, spiega Toninelli. I 5S paiono vistosamente esausti, il conflitto interiore, prendere un cucchiaio di Draghi come medicina e ingoiare, oppure sputarlo in faccia a Grillo, li rende afasici. Singolare per esempio che Vito Crimi, reggente ancora per pochissimo della disordinata ciurma, rifiuti di commentare il discorso del premier. Vorrebbero essere altrove. E invece tutti gli altri vorrebbero essere dove sono oggi. Ininfluenti ma contenti, come persino l’anti-euro Bagnai mostra. Parlanti ma irrilevanti, come Gasparri. Con la mascherina governativa (La Russa), la gioia soffocata dal dolore (Pier Ferdinando Casini ricoverato allo Spallanzani per Covid), l’entusiasmo malgrado l’età (il messaggio scritto di Giorgio Napolitano).

Draghi, suo malgrado, raccoglie la santificazione sempre con il bon ton dell’intruso elegante (“mi dite voi quando posso sedermi?”), del super consulente che la Repubblica chiama al capezzale. “La classe politica oggi non fa un passo indietro, ma ne fa uno avanti”, dice fingendo. E loro, i politici, applaudono fingendo che sia proprio così.

Il Pd boccia il gruppo giallorosa (e Zingaretti)

Matteo Renzi si agita in lungo e in largo per il Senato, raccontando a tutti che si apre un “laboratorio” interessante al centro. Tradotto: il progetto di mettere insieme Iv, Forza Italia e pure Carlo Calenda con Azione. Luigi Zanda (Pd), con aria noncurante dissemina indicazioni molto precise: L’intergruppo? “Non ne sapevo nulla. Nell’assemblea del gruppo, Marcucci non ne ha parlato”. Perché poi “il coordinamento deve essere molto stretto, tra tutti i gruppi di maggioranza”. Anche perché, “se ne nascesse uno tra FI e Lega avremmo fatto proprio un buon lavoro”. In un momento, finisce su un binario semi-morto l’idea di una maggioranza nella maggioranza con alle spalle Giuseppe Conte, come leader quasi ombra. Alla destra di Mario Draghi, sui banchi del governo, c’è Giancarlo Giorgetti. Il senatore Matteo Salvini non applaude. Fallisce in un attimo, come una provocazione, l’idea di Giorgia Meloni di fare un intergruppo di centrodestra. A qualche salviniano piacerebbe, ma non si può fare, con mezza ex coalizione all’opposizione e mezza al governo.

Mentre il premier parla, tra i partiti corre il timore di non riuscire a contare nulla, di non incidere sulle decisioni, a partire dalla gestione del Next Generation Eu. Per ora, non sembra ci sia all’orizzonte l’idea di una cabina di regia governativa: al Pd, prima di tutto, sarebbe piaciuto. Draghi non ha dato segnali in questo senso.

Il giorno dopo, i dem spiegano l’intergruppo come una mano tesa ai Cinque Stelle, un modo per convincerli a votare la fiducia. Dal Nazareno derubricano l’iniziativa a un’idea di Marcucci. Ma Nicola Zingaretti non solo era stato avvertito, aveva pure approvato l’iniziativa con un certo entusiasmo. D’altra parte, era un modo per portare avanti l’idea della coalizione col M5S: la linea Bettini. Che però a questo punto trova avversari da tutte le parti. Si scaglia contro Matteo Orfini, ma la cosa non convince mezzo partito.

Bisogna seguire Zanda per capire: è stato lui a contraddire in maniera esplicita la linea “O Conte o voto” portata avanti dai dem, per dire. Come era stato sempre lui, in Senato, tra Natale e Capodanno, a fare da sponda agli attacchi di Renzi al governo. Zanda è uno che non parla a caso. Ed è, peraltro, molto vicino a Paolo Gentiloni, che per mesi ha dato in maniera elegantemente dissimulata colpi alla gestione del Recovery Plan del governo Conte.

Fatto sta che l’intergruppo da partito nascente viene derubricato a una sorta di coordinamento. Lo stesso che parallelamente si dovrebbe realizzare tra FI e Lega. Marcucci nel suo intervento annuncia un “luogo di equilibrio” che faciliti il confronto parlamentare della nuova maggioranza. Ricorda Zanda che l’intergruppo non risponde allo spirito di Sergio Mattarella e neanche al monito di Draghi all’unità. Nel frattempo c’è chi ricorda che tra un anno si sceglie il presidente della Repubblica e si dovrebbe discutere di quale maggioranza lo elegge. Il programma del premier basta per un decennio, ma lui stesso ha affermato che i governi incidono anche se durano poco. Oltre a Draghi, uno dei principali candidati per il Colle è proprio Gentiloni. A proposito di questioni aperte per i partiti.

“Finalmente uno statista”: coro dei giornalisti ultrà per Mario

Come allo stadio, una curva entusiasta e una meravigliosa, ipnotica, inesauribile ola digitale. Mario Draghi parla e i commentatori ticchettano su smartphone e tablet i loro omaggi in tempo reale. Il draghismo è un sentimento collettivo: è difficile, a memoria, ricordare un leader politico a cui sia stato tributato un apprezzamento tanto unanime. Da giornalisti, politici, associazioni, interpreti a vario titolo dell’opinione pubblica. A ogni parola di Draghi corrisponde un cinguettio amoroso. Questa è una breve cronaca del discorso di Draghi nelle parole degli altri.

Gianni Riotta, La Stampa: “Discorso politico da leader politico, vaccini, Europa, Usa, riforme fisco, amministrazione giustizia, patriottismo. Chi si aspettava la gestione burocratica di un tecnocrate sbagliava. Non giudicate il premier dai suoi nemici e propagandisti, è ben diverso e migliore”.

Maurizio Molinari, direttore di Repubblica: “Una ricetta che somma pensiero e azione. Sommare ambiente e impresa è la parte più innovativa del discorso”.

Massimo Giannini, direttore de La Stampa: “Il governo del Paese. Semplicemente. #Draghi”.

Mario Sechi, direttore dell’Agi: “Uno statista, finalmente #Draghi”.

Claudio Cerasa, direttore del Foglio: “Discorso atlantista, europeista, anti sovranista. Attenzione all’efficienza, ai giovani, al coraggio, ai salari delle donne. Compatibilità tra difesa ambiente e difesa progresso. Obiettivi di lungo periodo, ma piedi piantati per terra. Pochi applausi, buon segno e gran discorso”.

Lorenzo Pregliasco, analista politico: “Un discorso di alto livello, finalmente”.

Stefano Cappellini, Repubblica: “Ambientalismo, keynesismo, laburismo, solidarismo. Draghi punto di riferimento dei progressisti italiani, direi”.

Andrea Salerno, direttore di La7: “Un discorso serio e senza scampo. L’aula ascolta… e probabilmente si chiede di fronte a un programma così serio e impegnativo: ma noi ne saremo capaci? Come una classe il primo giorno di scuola”.

Filippo Sensi, deputato del Pd, ex portavoce di Renzi e Gentiloni: “Il nuovo whatever it takes: ‘L’unità non è un’opzione, è un dovere’ #Draghi”.

Ernesto Carbone, Italia Viva: “Sento il discorso del PdC, penso a quanto fango, a quanta violenza in quei 10 giorni. Ma ne è valsa la pena. Grazie sempre a Matteo Renzi, Teresa Bellanova, Elena Bonetti, Ivan Scalfarotto, senza il loro coraggio tutto questo non sarebbe stato possibile”.

Christian Rocca, Linkiesta: “Che meraviglia sentire uno che parla in buon italiano come una persona normale e non come un pomposo azzeccagarbugli”.

Pietro Raffa, esperto di comunicazione politica: “#Draghi è il primo che parla di come sarà il mondo dopo la pandemia, citando riscaldamento globale e danni ambientali. Visione”.

Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, Pd: “Visione, concretezza, sobrietà. Stamattina abbiamo ascoltato il discorso di un vero leader riformista. #Draghi”.

Carlo Bonomi, presidente di Confindustria: “Ci auguriamo che i partiti condividano e sostengano il forte appello all’unità che ha lanciato Draghi, ribadendo il dovere di cittadinanza”.

Maurizio Landini, segretario della Cgil: “Un discorso programmatico di alto profilo quello del presidente Mario Draghi, con una netta collocazione europea dell’Italia per costruire un’Europa nuova e socialmente sostenibile”.

Massimo Miani, presidente del Consiglio nazionale dei commercialisti: “La parte dell’intervento dedicata alla riforma del fisco è giusta e condivisibile”.

Stefano Bonaccini e Giovanni Toti, governatori: “Pieno sostegno della Conferenza delle Regioni alla reciproca e leale collaborazione. Siamo certi che la competenza e l’autorevolezza del presidente del Consiglio permetteranno di superare la fase difficile dovuta alla pandemia e di cogliere fino in fondo tutte le opportunità collegate al Recovery Fund”.

Unione Buddhista Italiana: “Presidente, conosciamo e apprezziamo le sue capacità e il suo impegno appassionato per il bene del Paese. Ci ritroviamo nella sua analisi e apprezziamo molto la sua visione rispetto alla questione ambientale”.

Accademia della Crusca: “Un discorso da uomo colto, perfetto, che ha dimostrato ancora la sua elevata statura. Inutile andare a caccia di imperfezioni linguistiche, non troveremmo niente di più di un lapsus dettato dall’emozione”.