“Basta giochetti politici. Su di me voti Rousseau”

Virginia Raggi rilancia, per blindarsi. Chiama al voto su Rousseau, per proteggere la sua ricandidatura al Campidoglio. E ormai valuta seriamente anche un ulteriore passo, candidarsi per uno dei cinque posti della segreteria del Movimento. La mossa con cui sparigliare. Questo ha detto e questo medita la sindaca di Roma, che negli ultimi giorni ha fiutato strani movimenti attorno alla sua ricandidatura già annunciata la scorsa estate con l’appoggio di tutti i big del M5S. Segnali fatti anche di indiscrezioni sul Movimento pronto a chiederle un passo indietro, per fare spazio al probabilissimo candidato del Pd, l’ex ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri. Così per coprirsi la sindaca chiede che siano gli attivisti a decidere sulla sua corsa per il Campidoglio votando sulla piattaforma Rousseau. “È il momento che la base si esprima sulla mia candidatura a Roma – scrive su Facebook –. Basta ambiguità e giochi di palazzo. Credo sia un atto dovuto: siamo stanchi dei giochetti da vecchia politica”.

Parole che raccontano i sospetti maturati in Campidoglio, da quando nel Pd è cresciuta la candidatura di Gualtieri. E proprio i dem avrebbero voluto trovare una sponda nell’ex premier Giuseppe Conte, in ottimi rapporti con l’ex ministro, per convincere la Raggi a farsi di lato. Tanto che due giorni fa, il Messaggero aveva scritto di una telefonata – smentita dal Campidoglio, non dall’avvocato – tra lo stesso Conte e la sindaca.

Forte della popolarità tra gli attivisti – secondo un sondaggio pubblicato da Domani, sarebbe in vantaggio sia su Gualtieri sia su Carlo Calenda e la destra – Raggi ha quindi chiamato allo scoperto gli avversari interni, evocando la consultazione: “Vorrei chiarezza da parte di tutti e non leggere retroscena o assistere a trame di potere volte a isolare chi è scomodo – insiste la sindaca – e il mio pensiero va anche a Giuseppe Conte, che stimo”. Un chiaro segnale all’avvocato. “No a formule arzigogolate, ma un voto netto sulla mia candidatura”, chiosa Raggi. E a darle sostegno accorre subito Alessandro Di Battista: “Ti ho sempre sostenuta e lo farò ancora”. L’ennesimo puntello dall’ex deputato, che pure non aveva gradito l’apertura della sindaca a Mario Draghi. Dalla sua parte c’era e c’è sicuramente anche Davide Casaleggio, avvertito preventivamente del post di ieri, così come Massimo Bugani, ex socio di Rousseau e già capo staff della Raggi: “Dopo aver fatto fuori Conte, respinto Di Battista, aver presentato quesiti offensivi per gli iscritti, aver proposto super ministeri inesistenti, ci manca solo ammainare l’ultima bandiera, rappresentata da Virginia, poi possiamo scioglierci nell’Udeur”. In serata, poi, batte un colpo pure Luigi Di Maio: “Io sostengo Virginia, tutto il M5S la sostiene e deve farlo con forza”.

Ma non è proprio così, se è vero che la via per la riconferma è lastricata di parecchie trappole interne, rese evidenti dalla costola romana del M5S. Anche ieri alcuni consiglieri “ribelli” hanno chiesto “di smetterla coi voti ad personam”, rilanciando l’asse col Pd: “Uniamo le forze progressiste – dice la 5S Donatella Iorio – il M5S decida se portare avanti anche a livello locale il percorso avviato con il governo Conte II”.

Scenario opposto a quello auspicato dalla Raggi. Pronta a correre anche per la segreteria. Anche perché la nuova struttura assicurerà parità di genere e di cariche, includendo tra i 5 portavoce sia consiglieri locali che esponenti nazionali, oltre a non meno di due donne.

Tutte regole che da ieri hanno l’imprimatur della base 5 Stelle, che le ha approvate in seconda votazione su Rousseau dopo che la scorsa settimana era mancato il quorum. Questa volta sono bastati poco più di 11 mila voti per sancire a stragrande maggioranza (i quesiti hanno quasi tutti superato l’80 per cento di Sì) l’ok alle modifiche allo Statuto. Il risultato è ciò che l’Associazione Rousseau scandisce in una nota: “La modifica approvata dagli iscritti elimina dallo Statuto la figura del Capo Politico che ha visto negli anni in questo ruolo Luigi Di Maio e Vito Crimi”. Una precipitosa messa alla porta di Crimi, che infatti replica stizzito: “ La mia funzione, al contrario di quanto erroneamente affermato, non è conclusa e, interpellato il Garante Beppe Grillo, proseguirà fino a quando non saranno eletti i membri del Comitato. Fino ad allora, in qualità di membro più anziano del Comitato di garanzia, assumerò le veci del Comitato direttivo”. Segno che il clima con Milano quello è, pessimo. E la Raggi non c’entra nulla.

La sindaca vede il pm: nuove carte sui buchi dei bilanci horror dell’Ama

Errori procedurali, difformità contabili, cifre sbagliate e compensazioni dimenticate. Quattordici anni, dal 2003 al 2016, di gestione “horror” della società capitolina dei rifiuti, raccolte in una due diligence di cui ieri mattina la sindaca di Roma, Virginia Raggi, ha informato il procuratore della Repubblica di Roma, Michele Prestipino.

Un colloquio di circa un’ora, che ha lambito anche le tre questioni cardine relative ai conti di Ama Spa finite sotto i fari dei magistrati di piazzale Clodio: la (presunta) errata iscrizione in bilancio del Centro Carni di viale Palmiro Togliatti; le trattenute “indebite” sugli incassi della tariffa rifiuti e le partite debitorie e creditorie legate ai servizi cimiteriali. La prossima settimana, ha assicurato la prima cittadina al capo dei magistrati romani, arriverà in giunta l’approvazione dei bilanci – l’ultimo approvato è quello del 2016 – insieme al nuovo piano industriale per il rilancio dell’azienda e il documento che racconta l’opera di “pulizia” dei bilanci. Le perdite che ne deriveranno saranno bilanciate da fondi a garanzia già previsti nel documento finanziario capitolino. Al procuratore Prestipino è stata consegnata una relazione-esposto su tutte le “stranezze” trovate nel corso della due diligence, senza ipotesi di reato o indicazioni di responsabilità personali.

I dossier aperti in Procura, come detto, riguardano tre fattispecie ben distinte. Il primo filone è quello del Centro carni, l’affare immobiliare che rischia di costare quasi 100 milioni di euro alla società capitolina. Nel 2010 la giunta Alemanno conferì nel patrimonio di Ama un terreno in zona Tor Sapienza, valutato 31,5 milioni, su cui insiste il mattatoio romano. L’area è stata poi spostata su un fondo immobiliare, con scadenza 2021, gestito dalla Bnp Paribas, per il valore dell’eventuale “rivalutazione” – edificazione immobiliare – pari a 137 milioni di euro, soldi iscritti in bilancio. Ma in questi 10 anni nessun progetto è mai arrivato in Campidoglio e, dunque, nessuna variante urbanistica poteva essere approvata. Oggi il terreno è stato svalutato fino a quota 31,5 milioni.

Poi c’è il tema delle compensazioni Tari. La Procura indaga per un falso in bilancio di circa 445 milioni, fra il 2013 e il 2016, e la “distrazione”, nel 2019, di altri 250 milioni di competenza del Comune di Roma serviti per pagare le banche che minacciavano la chiusura delle linee di credito. In questi anni, Ama avrebbe protetto i propri conti versando i soldi della tassa rifiuti alle banche con cui era indebitata invece di girarli, come da normativa, al Campidoglio (per poi farseli riversare di nuovo).

Infine, la partita sui crediti e debiti tra Comune e Ama legata ai servizi cimiteriali, che fra il 2018 e il 2019 portò a un durissimo scontro con il Consiglio di amministrazione guidato dall’allora presidente Lorenzo Bagnacani, con esposti reciproci e un’inchiesta in gran parte finita archiviata.

Su tutti questi temi, la sindaca ha inteso rassicurare il procuratore Prestipino, anche in relazione agli atti che verranno approvati da qui fino alla fine del mandato della Raggi, in scadenza il prossimo giugno.

“Veleni Ilva, carcere i per i Riva e vendola”

L’abbraccio mortale che i Riva hanno offerto a Taranto va punito con quasi 400 anni di carcere. Richieste di condanna alte, altissime quelle avanzate ieri dalla Procura ionica nei confronti dei principali imputati nel maxiprocesso “Ambiente svenduto” sul disastro ambientale e sanitario generato, secondo l’accusa, dalle emissioni nocive dell’ex Ilva.

Le pene maggiori sono state avanzate per Fabio e Nicola Riva, rispettivamente 28 e 25 anni di reclusione per i proprietari dello stabilimento e ritenuti i capi dell’associazione a delinquere che “solo per i soldi – come ha detto il pm Mariano Buccoliero – ha stritolato il territorio diffondendo malattia e morte”. I due esponenti della famiglia lombarda, dal 1995, avrebbero portato avanti, per l’accusa, una condotta che ha scatenato “una potenza inaudita” contro “una città già martoriata”. Ma non sono loro gli unici responsabili. Al nono giorno di requisitoria dinanzi alla Corte d’assise, i sostituti procuratori Buccoliero, Giovanna Cannarile, Remo Epifani e Raffaele Graziano con il procuratore facente funzione Maurizio Carbone, hanno chiesto complessivamente 35 condanne. Altri 28 anni di carcere sono stati invocati per l’ex direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso e per Girolamo Archinà, ex responsabile delle relazioni istituzionali dell’Ilva e ritenuto dalla Procura la longa manus dei Riva: il potentissimo Archinà manteneva i rapporti con la stampa “che doveva essere pagata per non scrivere” e con le autorità locali. L’obiettivo era uno solo: tenere l’Ilva al riparo dalle accuse degli ambientalisti o, più in generale, da azioni politiche che compromettessero produzione e fatturato. E di milioni, l’azienda siderurgica in quegli anni ne fatturava tanti: oltre alla confisca degli impianti dell’area a caldo, gli inquirenti hanno chiesto anche il sequestro di 2 miliardi e 100 milioni come somma equivalente “del profitto illecito conseguito dalle società Ilva Spa, Riva Fire Spa e Riva Forni Elettrici Spa”.

Carcere per 7 anni chiesto anche per l’avvocato Francesco Perli, il legale amministrativista che per conto dell’Ilva avrebbe “pilotato”, secondo la Procura, le ispezioni del gruppo istruttore ministeriale che nel 2011 concesse alla fabbrica l’autorizzazione integrata ambientale. Richiesta di carcere tra i 2 e i 20 anni per il cosiddetto “governo ombra”, la rete di consulenti e fiduciari dei Riva che restando al di fuori delle strutture ufficiali impartiva le disposizioni per mandare avanti la produzione. Pene tra i 17 e i 20 anni di carcere anche per i dirigenti e i capi area della fabbrica. E 17 anni sono stati sollecitati anche per Bruno Ferrante, ex prefetto di Milano che fu alla guida dell’Ilva per pochi mesi nel 2012.

Mano pesante anche per gli esponenti politici finiti a giudizio: 5 anni di carcere chiesti per Nichi Vendola, ex governatore di Puglia accusato di concussione ai danni di Giorgio Assennato, l’ex direttore generale di Arpa Puglia ritenuto troppo severo nei confronti della fabbrica, 4 anni per Gianni Florido e Michele Conserva, rispettivamente ex presidente della Provincia di Taranto ed ex assessore provinciale all’Ambiente, accusati di aver fatto pressioni, su richiesta di Archinà, nei confronti dei dirigenti della Provincia per concedere alla società l’autorizzazione all’utilizzo delle discariche interne alla fabbrica che fu poi concessa dal governo con uno dei decreti salva-Ilva. Ancora 8 mesi di carcere Donato Pentassuglia, attuale assessore all’agricoltura della Regione Puglia accusato di favoreggiamento, per il parlamentare Nicola Fratoianni, accusato di favoreggiamento nei confronti di Vendola e di altri dirigenti ed ex dirigenti regionali. Ben 17 anni di reclusione sono stati proposti per Lorenzo Liberti, l’ex consulente della Procura è accusato di aver intascato una mazzetta da 10 mila euro per ammorbidire una perizia affidata dai pm e scagionare l’Ilva dall’accusa di aver diffuso diossina nei terreni e nei pascoli intorno alla fabbrica. E ancora un anno di carcere per Giorgio Assennato, ex dg dell’Arpa e nemico giurato dell’Ilva per le campagne di monitoraggio che inchiodavano la fabbrica, accusato di favoreggiamento nei confronti di Vendola.

E anche in questo processo durato 4 anni con circa 800 parti civili, centinaia di testimoni, migliaia di documenti, perizie, consulenze e relazioni, la prescrizione ha salvato diverse posizioni: sono state 9 infatti le richieste di non luogo a procedere per l’eccessivo tempo trascorso dai fatti contestati. Tra gli imputati spicca il nome di Ippazio Stefano, ex sindaco di Taranto accusato di omissione in atti d’ufficio per non aver avviato alcuna iniziativa a difesa della salute nonostante la piena consapevolezza dei rischi corsi dalla popolazione tarantina. Prescritte anche le accuse nei confronti dei tecnici ministeriali come Dario Ticali, presidente della commissione che rilasciò l’autorizzazione integrata ambientale all’Ilva nel 2011, e Luigi Pelaggi ex capo della segreteria tecnica dell’ex ministero Stefania Prestigiacomo: erano accusati di aver intrattenuto contatti “non istituzionali” con i vertici della società Ilva e di aver passato informazioni riservate. Infine, prescritta anche la posizione dell’ex ispettore della Digos, Aldo De Michele, accusato di aver rivelato ad Archinà le iniziative giudiziarie dell’ex procuratore Franco Sebastio. Nei prossimi giorni il processo continuerà con gli avvocati delle parti civili e i legali della difesa. La sentenza potrebbe arrivare nei primi giorni di maggio.

“Il Parlamento sapeva, ma chi doveva agire non è mai intervenuto”

“Ma davvero serve una sentenza per dire cosa è accaduto a questo territorio? I danni all’ambiente e alla salute sono ormai indiscutibili e confermati dallo stesso Stato, che ha varato oltre una decina di leggi per consentire all’Ilva di produrre pur sapendo che inquinava”. Parola di Franco Sebastio, ex procuratore di Taranto, che ha guidato il pool di magistrati che ieri ha chiesto pene severissime per gli imputati nel processo “Ambiente svenduto”.

Crede che la Corte d’assise le accoglierà?

La sentenza sarà quella che sarà, perché risponde a questioni tecniche: l’elemento soggettivo, il dolo, la colpa, la situazione di necessità, la prescrizione. Ma ciò che questo processo, fin dalle origini, ha evidenziato è che qui si è consumato dal punto di vista storico e fenomenologico, un’escalation di danni alla salute e al- l’ambiente. Da quel- l’impianto, per decenni, si sono diffusi inquinanti fino a dover ipotizzare il reato di disastro ambientale. E se quel disastro è un reato lo dirà la sentenza, ma è innegabile che sia avvenuto.

Sono passati quasi nove anni dal sequestro del luglio 2012: è cambiato qualcosa?

Nei giorni scorsi il Tar ha detto che gli impianti dell’area a caldo continuano a produrre danni alla salute e devono essere spenti. Le pare che qualcosa sia cambiato? Del resto i dodici decreti salva-Ilva in tutto questo tempo non hanno mai negato la drammaticità della situazione, anzi. Tra le righe di quei provvedimenti è scritto che poiché la situazione è drammatica bisogna intervenire. Quella fabbrica ha inquinato e sta ancora inquinando. È riconosciuto per legge. La decisione del Tar è solo l’ennesima dimostrazione. Ma, attenzione, anche la Corte costituzionale disse che dovevano esserci limiti temporali: sono passati quasi nove anni e qua stiamo ancora a discutere sui documenti? Le ripeto, l’importanza di questo processo è che segna un punto epocale dal punto di vista storico e sociale.

Quando l’inchiesta è esplosa siete stati definiti “giudici talebani”.

La cosa non mi ha impensierito allora, figuriamoci se può farlo oggi. Noi abbiamo sempre fatto la nostra parte senza piegare la schiena. E sarebbe stato comodo farlo. Mi creda, è triste constatare che il problema sia ancora in piedi. La soddisfazione personale, se la sentenza dovesse dare ragione all’accusa, non colma questa tristezza. In una terra in cui tanti volevano bloccarci o favorire l’Ilva, noi non abbiamo fatto solo il nostro dovere. Le sofferenze e le preoccupazioni di quei giorni ancora me le ricordo. In una città… distratta? Vogliamo definirla distratta? Ecco in una città distratta, noi abbiamo tenuto la schiena dritta. A tutti i pubblici ministeri, non a me che ormai sono in pensione, a quei magistrati la città dovrebbe fare un monumento. Sono donne e uomini che possono guardarsi allo specchio senza vergognarsi.

Lei è la memoria storica: ha condannato la fabbrica per la prima volta nel 1982. Perché si è arrivati a tutto questo?

Per quasi ogni indagine aperta la Procura di Taranto ha sempre informato, al di là della rilevanza penale della vicenda, gli organi istituzionali. Sempre. I reati negli anni sono cresciuti nel numero e nella gravità, ma nessuno è intervenuto. Lo sapevano. Le mie relazioni alle commissioni parlamentari stanno là agli atti. Il sequestro delle cokerie, i parchi minerali, il mobbing alla palazzina Laf. È stata un’evoluzione grave, ma chi doveva intervenire ha sempre glissato. Lei ricorderà i protocolli di intesa tra la politica e i Riva: la più colossale presa in giro ai danni della comunità di Taranto”.

Che futuro vede ora per Taranto?

Non lo so, ma sinceramente dopo tanti anni posso ostentare dell’onesto pessimismo? Non so come si risolverà la vicenda, ma non sono fiducioso”.

Le varianti spingono cinque regioni verso la zona arancione

Rischia la zona rossa l’Abruzzo dove le varianti si diffondono, i contagi sono aumentati del 20% nell’ultima settimana, c’è il record di ricoveri in particolare a Pescara e a Chieti e le stime del tasso di riproduzione del virus Rt si avvicinano a 1.25. Migliora un po’ la situazione in Umbria, ma la Regione resta al centro dell’attenzione per la forte presenza della variante brasiliana, in particolare a Perugia, oltre a quella inglese. Anche la Lombardia ha fatto quattro zone rosse anti-varianti a Bollate (Milano), Mede (Pavia), Castrezzato (Brescia) e Vieggiù (Varese): Rt è attorno a 1 e la Regione potrebbe passare in arancione in base ai dati che saranno analizzati tra oggi e domani dalla cabina di regia del ministero della Salute e dell’Istituto superiore di sanità. Anche la media nazionale potrebbe raggiungere 1, nonostante la stabilizzazione apparente dei contagi rilevati (incidenza di 138 nuovi casi negli ultimi 7 giorni, meno 1,3% rispetto ai 7 precedenti). I malati in terapia intensiva aumentano in sette Regioni. Diminuiscono, sia pure di poco, anche le vaccinazioni giornaliere, proprio mentre Mario Draghi annuncia i grandi hub che dovrebbero consentirne l’intensificazione quando ci saranno dosi a sufficienza.
Il passaggio da giallo ad arancione potrebbe toccare anche al Lazio dove però l’assessore Alessio D’Amato ritiene che Rt sia ancora sotto 1 (basterebbe comunque un’eventuale valutazione di rischio alto), alle Marche dove i contagi aumentano in particolare in provincia di Ancona e infatti sono scattate misure restrittive già da ieri, al Piemonte che finalmente intensifica la ricerca delle varianti dopo essere rimasto fuori dalla prima indagine specifica dell’Iss, all’Emilia-Romagna che conta il 29,9% di contagi dovuti alla variante inglese contro il 17,8% nazionale e al Friuli-Venezia Giulia che tuttavia ieri ha escluso la presenza della mutazione brasiliana e di quella sudafricana. Ma ci sono zone rosse anti-varianti anche nel piccolo Molise. L’indagine lampo dell’Iss sulla variante inglese sarà ripetuta domani e dopodomani per vedere se la diffusione è aumentata, come tutti si aspettano, dal dato già elevato (17,8%) rilevato sui tamponi positivi del 4 e del 5 febbraio.
I tecnici del ministero della Salute sono preoccupati. Il ministro Roberto Speranza ha sottolineato con soddisfazione che Mario Draghi ieri abbia indicato “la casa come principale luogo di cura” e la priorità della “sanità territoriale” che sono al centro del suo progetto per il Recovery Plan e confida di trovare il suo sostegno sulla linea del rigore, come l’ha trovato domenica scorsa sulla questione dello sci.
Entro la prossima settimana si ridiscuteranno le misure. Diversi esperti premono per ulteriori restrizioni generalizzate, come ad esempio disponendo misure da zona arancione (bar e ristoranti chiusi salvo asporto tutto il giorno, divieto di uscire dai Comuni salvo esigenze di lavoro, salute, altre necessità e rientro a casa) nei weekend, ma il sistema dei “colori” potrebbe rimanere. Forse però si procederà per decreti legge e non più con Dpcm, lo vedremo prima della scadenza (giovedì 25 febbraio) del divieto di spostamento tra le Regioni, prorogato dal governo di Giuseppe Conte proprio con decreto legge e quasi certamente destinato a ulteriore proroga. Ma il confronto nel governo è appena iniziato.
Cambierà qualcosa nel Comitato tecnico scientifico, c’è chi vorrebbe ridurre gli attuali 26 membri e rafforzare il ruolo degli specialisti di Igiene e Sanità pubblica. La stessa posizione del coordinatore Agostino Miozzo, secondo alcune fonti, non sarebbe saldissima. Si parla anche di una nuova “cabina di regia” con tutti i ministri competenti che dovrebbe valutare le misure anche sotto il profilo economico sociale disponendo tempestivamente i ristori destinati alle attività maggiormente colpite.

Astrazeneca senza omissis. Nessun obbligo verso l’Ue

Ieri nuova giornata calda a Bruxelles sul tema vaccini Covid, con la “sfuriata” di Ursula von der Leyen contro il vaccino russo Sputnik. La presidente della Commissione europea ha lamentato come Mosca non abbia ancora condiviso i dati clinici con l’Agenzia europea dei medicinali (Ema). Un passo necessario perché l’azienda moscovita R-Pharm ottenga l’eventuale autorizzazione a vendere il suo farmaco anche nell’Unione europea. Ha inoltre richiesto un’ispezione ai siti di produzione in Russia per garantire che rispettino gli standard comunitari.

Von der Leyen ha però annunciato un secondo accordo con Moderna per ulteriori 150 milioni di dosi per il 2021 e 150 milioni opzionali per il 2022, quantitativo che va ad aggiungersi alle 160 milioni di dosi già ordinate nel 2020 che l’azienda americana si è impegnata a consegnare nel terzo e quarto trimestre di quest’anno. Altre 200 milioni di dosi sono state concordate con il tandem Pfizer-BionTech, con cui la Commissione ne aveva previamente pattuite 300, con un’opzione per 100 aggiuntive.

Se le dosi promesse sono in aumento, non altrettanto lo sono le certezze di ottenerle nei tempi previsti per garantire una rapida campagna di immunizzazione. Il Fatto quotidiano ha avuto accesso alla versione integrale dell’accordo con Astrazeneca (il cui vaccino è stato ieri autorizzato dall’Agenzia italiana per il farmaco anche per gli over 65), fin qui pubblicato pieno di omissis. E il testo non lascia più dubbi sull’assenza sia di scadenze di consegna vincolanti, sia di un’ipotesi di inadempienza nel caso in cui l’azienda venda a clienti extra-Ue.

Non si legge da nessuna parte che la società anglo-svedese debba dare priorità agli Stati dell’Unione. Conferma questa interpretazione Colin McCall, partner dello studio legale internazionale Taylor Wessing. Per impedire un esodo di dosi verso Paesi terzi, il 29 gennaio l’esecutivo di Bruxelles aveva introdotto una procedura di autorizzazione in basa alla quale ciascuno Stato membro decide se approvare o meno l’export, salvaguardando comunque quello verso nazioni a basso reddito. La trasparenza sulle esportazioni dei vaccini non è però contemplata dai contratti finora resi noti (compresi quelli con Curevac e Sanofi). “Il fatto che si sia verificato un problema negli impianti dell’azienda successivamente alla firma dell’accordo con la Commissione non significa automaticamente che contratti che Astrazeneca ha firmato con terzi rappresentino un ostacolo alla produzione delle dosi riservate all’Ue”, chiarisce Clive Douglas, avvocato e mediatore commerciale presso Nexa Law.

L’eurocommissario all’Industria, Thierry Breton, ha gettato acqua sul fuoco affermando che Astrazeneca sta migliorando del 50 per cento la capacità di produzione nel suo sito belga di Seneffe. Resta la flessibilità contrattuale a vantaggio della multinazionale, anticipata dal Fatto e ora esplicitata dai termini desecretati: Astrazeneca decide autonomamente le date di consegna in corso d’opera (senza necessariamente consegnare tutto il quantitativo corrispondente a ciascun mese, da gennaio a giugno), mentre gli Stati membri devono pagare per le loro dosi entro 30 giorni dalla fattura (presumibilmente già trasmessa), pena la sospensione delle consegne.

Nonostante i ritardi nella distribuzione accumulati da Astrazeneca e Pfizer, Von der Leyen ha diffidato i governi dal negoziare autonomamente con le società farmaceutiche, presentando poi ufficialmente Hera, il nuovo incubatore europeo per la ricerca clinica, con una dotazione immediata di 150 milioni di euro per adeguare i vaccini contro le nuove varianti del coronavirus.

*European Data Journalism Network (col supporto di IJ4EU)

Contagi, lo scenario è cambiato. Ora vanno adeguate le misure

Lo spettro di un nuovo lockdown si aggira per l’Italia e da giorni imperversa un’aspra polemica tra scienziati pro e contro. Eppure, guardando ai dati, in Italia da un mese si registra una stabilizzazione dei contagi, con circa 85 mila nuovi casi settimanali a fronte di 1 milione e 800 mila tamponi tra molecolari e antigenici. Stabili anche gli ingressi in terapia intensiva, circa 1.000 a settimana. Buone notizie anche dagli ospedalizzati Covid, con quasi 6.000 posti letto liberati nell’ultimo mese, e dal numero dei morti, 2.304 nell’ultima settimana, ancora tantissimi, ma comunque il 37% in meno rispetto a un mese fa.

Ma allora perché tanto allarmismo? Il motivo sono le nuove varianti del Sars-CoV-2, a partire da quella inglese, la B.1.1.7. “Un’onda invisibile” è stata definita in Germania dalla Süddeutsche Zeitung che commentava una ricerca del Robert Koch Institute (RKI). “La calma prima della tempesta” è invece il commento su Science di Camilla Holten, ricercatrice del Statens Serum Institute (SSI) in Danimarca.

Da Germania e Danimarca provengono due importanti studi sulla variante B.1.1.7 , sulla cui maggiore contagiosità ormai non ci sono più dubbi. I ricercatori del RKI hanno ipotizzato tre diversi scenari nei quali la variante inglese è più contagiosa rispettivamente del 30%, 40% o 50% o più rispetto alle precedenti. Nello scenario intermedio, con l’attuale lockdown che in Germania si protrae da gennaio, si ipotizza un nuovo aumento dei contagi a partire dalla seconda settimana di marzo e un’incidenza di 300 casi ogni 100 mila abitanti a fine aprile. Un dato che ha spinto Angela Merkel a prolungare il lockdown fino al 7 marzo e a porre la soglia critica di incidenza a soli 35 casi ogni 100 mila abitanti (attualmente l’incidenza in Germania è intorno a 80 ogni 100 mila persone, in Italia siamo a 133 e abbiamo 14 Regioni gialle).

Un altro campanello di allarme era arrivato pochi giorni prima dal SSI in Danimarca che descriveva due epidemie: la prima, in forte decrescita, causata delle vecchie varianti; la seconda, che invece sta crescendo esponenzialmente con un Rt di 1,07 dovuta alla variante B.1.1.7 del virus, che in sole due settimane è passata da una prevalenza del 13,5% a una del 20%.

In Italia purtroppo le cose non sembrano andare meglio. L’indagine rapida promossa dal ministero della Salute e dall’ISS mostra una prevalenza della variante inglese a livello nazionale pari al 17,8%, con punte del 65% a Pescara e del 59% a livello regionale. La B.1.1.7 sarà nel giro di qualche settimana dominante in tutto il Paese e a preoccupare è proprio la sua velocità di diffusione, che potrebbe diventare devastante soprattutto nelle zone gialle e arancioni. È necessario quindi far fronte a un nuovo scenario, diverso rispetto al passato, dove abbiamo di fronte un virus più contagioso e capace di rendere insufficienti le contromisure fin qui intraprese.

Che fare, dunque? Discussioni da ultras sull’ipotesi di un nuovo lockdown servono più a polarizzare l’opinione pubblica piuttosto che a concentrarsi sul da farsi. Abbiamo 21 parametri che finora, tra alti e bassi e rispetto agli altri Paesi europei, hanno gestito egregiamente questa seconda ondata: lavoriamo per adattarli, in un’ottica più restrittiva, al nuovo scenario. Abbassiamo le soglie con cui una zona passa da gialla ad arancione, e poi a rossa. Puntiamo sulla raccolta di dati accurati e provenienti da attività locale di screening, per agire tempestivamente con zone rosse mirate e circoscritte. Se necessario, chiudiamo attività e situazioni a maggiore rischio, come i bar, i ristoranti e, ahinoi, anche le scuole.

Zone rosse: ma allora Fontana può farlo!

Ma allora si poteva fare. Il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana ha deciso due giorni fa di chiudere in zona rossa quattro Comuni lombardi: Bollate, Castrezzato, Mede e Viggiù. Eppure esattamente un anno fa aveva sostenuto, insieme all’assessore Giulio Gallera, che doveva essere il governo a chiudere il cluster infettivo di Alzano Lombardo e Nembro, da cui l’infezione da Covid-19 si è diffusa in tutta la Val Seriana e poi a Bergamo e Brescia. “Sulle responsabilità di Regione Lombardia, Fontana ha più volte sostenuto che il tempo fosse galantuomo. Aveva ragione”, dice oggi l’avvocato Consuelo Locati, responsabile del team legale dell’azione civile dei famigliari delle vittime Covid. “Oggi ha istituito ben quattro zone rosse senza dover aspettare alcun provvedimento centrale del ministero della Salute. A nome dei familiari delle vittime lo ringrazio per averci dimostrato che si poteva fare”. Anche un anno fa.

Sentenza Cavallo, il procuratore di Potenza: “Rotti equilibri tra forma e senso di giustizia”

Le intercettazioni, la loro utilizzazione sia processuale che mediatica, i presupposti che le giustificano sono state oggetto, negli ultimi anni, di ampi dibattiti”. Si apre così l’intervento di Francesco Curcio, procuratore capo di Potenza, sulla newsletter Giustizia di Fatto disponibile dalle 16 di oggi per i nostri abbonati. L’argomento in questione è la cosiddetta sentenza Cavallo: la Cassazione ha infatti disposto l’inutilizzabilità delle intercettazioni che riguardano reati diversi da quelli per cui si indaga. In omaggio al “senso comune della giustizia”, spiega Curcio nel suo ampio intervento, “non posso fingere che lo spacciatore non ha confessato di avere rubato nell’appartamento del vicino, anche se l’interrogatorio era stato disposto per procedere in ordine a un altro fatto”. E quindi: “La sentenza Cavallo ha rotto, nella materia delle intercettazioni, questo equilibrio fra rispetto delle forme e senso di giustizia, che non solo, come visto, governa il nostro ordinamento in casi analoghi ma che, nell’applicazione della legge, va sempre perseguito: la giustizia si rende per rispondere alle esigenze degli uomini e non per rispettare teoremi giuridici”.

Aggredì Mazzola, oggi a Bari l’ultima udienza

Oggi al Tribunale di Bari, davanti al giudice Giovanni Anglana, si terrà la requisitoria della pm Lidia Giorgio nel processo con rito abbreviato a carico di Monica Laera, che tre anni fa aggredì per strada la giornalista del Tg1 Maria Grazia Mazzola.

L’imputata, moglie del boss del clan Strisciuglio, Lorenzo Caldarola, condannata nel 2004 in via definitiva per mafia, è stata rinviata a giudizio per aggressione fisica con l’aggravante mafiosa, lesioni e minacce di morte. Il 9 febbraio 2018, mentre realizzava l’inchiesta Ragazzi dentro, l’inviata della Rai venne colpita da Monica Laera che le sferrò un pugno sul volto, costatole 45 giorni di prognosi.

Stava indagando sul figlio Ivan Caldarola, all’epoca minorenne e rinviato a giudizio per violenza sessuale su una minore d’età. “Un’aggressione a freddo e dimostrativa nell’esercizio del controllo mafioso del territorio per colpire una giornalista ed educarne cento”, l’ha definita l’avvocata della cronista e della Rai, Caterina Malavenda. La Laera il giorno successivo si scusò davanti ai microfoni del servizio pubblico, scatenando dissapori negli uffici di Viale Mazzini, salvo poi denunciare ripetutamente l’inviata del Tg1.

Il medico legale, Lea Cinzia Caprioli, nella relazione depositata in Tribunale, ha accertato lesioni permanenti e fratture multiple della mandibola.

Nel processo si sono costituite parti civili la Rai, l’Associazione Stampa romana, la Federazione nazionale della Stampa italiana (Fnsi), il Comune di Bari, l’Ordine nazionale dei Giornalisti e Libera contro le mafie. L’attenzione riposta dalla giornalista sul rampollo del clan Strisciuglio, Ivan Caldarola, è stata poi confermata dalla stessa magistratura che l’ha condannato a 8 anni di reclusione per tentata estorsione e danneggiamento con l’aggravante mafiosa. Il suo nome figurava tra gli evasi dal carcere di Foggia, dopo la rivolta dei detenuti. Poi si costituì.