Film Commission, i pm di Milano: “Processo immediato per i 2 commercialisti della Lega”

Poco meno di otto mesi dopo l’arresto di Luca Sostegni (che ha già patteggiato 4 anni e 10 mesi), l’inchiesta sui presunti fondi neri della Lega e sulla vicenda della fondazione regionale Lombardia Film Commission (Lfc) chiude un primo capitolo. Ieri, infatti, il procuratore aggiunto Eugenio Fusco e il sostituto procuratore Stefano Civardi hanno inviato al gip Giulio Fanales la richiesta di processo immediato cautelare a carico dei tre professionisti più vicini al nuovo partito di Matteo Salvini. La richiesta di processo riguarda i due commercialisti Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, entrambi revisori contabili del Carroccio e l’imprenditore bergamasco Francesco Barachetti. Ora il giudice avrà cinque giorni per valutare la richiesta della Procura. Di Rubba e Manzoni sono accusati di peculato e reati fiscali. Per Barachetti, originario di Casnigo e vicino di casa di Alberto Di Rubba, l’accusa è quella di concorso in peculato rispetto all’acquisto da parte di Lfc di un capannone nel comune di Cormano venduto per 800mila euro dalla società Andromeda che a sua volta lo aveva preso dal fallimento della società Paloschi. Il processo dunque si concentra sui tre leghisti che al momento restano ai domiciliari. Esce di scena invece il commercialista milanese Michele Scillieri nel cui studio il 10 ottobre 2017 è stata domiciliata la nuova Lega di Salvini. Scillieri che ha da tempo iniziato a collaborare con i magistrati, ha concordato con la Procura un patteggiamento a 3 anni e 8 mesi e 85mila euro di risarcimento. Come lui ha scelto il patteggiamento anche il cognato Fabio Barbarossa con un accordo per due anni e due mesi e 30mila euro da pagare. La richiesta è da una settimana sul tavolo del giudice Lidia Castellucci che ora dovrà sciogliere la riserva sul via libera al patteggiamento. Nei giorni scorsi Di Rubba e Manzoni hanno presentato un secondo ricorso al Tribunale del Riesame, questa volta contro la decisione con cui il gip, a fine gennaio, ha respinto una loro istanza di revoca della misura cautelare. Il Riesame aveva già bocciato una loro richiesta di “annullare” i domiciliari a ottobre. Negli atti depositati con la richiesta di immediato vi sono i verbali di Scillieri nei quali il commercialista ha svelato il metodo di retrocessione al partito nella percentuale del 15%. L’indagine però non si ferma. Chiuso il capitolo Lfc, ora la Procura si concentra sui flussi di denaro riferibili, secondo l’accusa, ai contabili della Lega e ad alcuni politici del partito. Sul tavolo dei magistrati sono arrivate nuove segnalazioni per operazioni sospette e una nota della Guardia di finanza sui passaggi di denaro che riguardano l’imprenditore Barachetti e i suoi legami economici con enti religiosi e diversi comuni della Bergamasca.

“Il commissario si è affidato a chi specula sull’epidemia”

La struttura commissariale guidata da Domenico Arcuri subiva “un certo ascendente” da parte di “freelance improvvisati, desiderosi di speculare sull’epidemia”. Un “comparto privato” cui l’ufficio governativo ha “preferito affidarsi”, invece di essere “interessato a costituire un proprio rapporto con i fornitori cinesi” e a “validare un autonomo percorso organizzativo per certificazioni e trasporti”. Lo sostengono i magistrati nel decreto urgente con cui la Procura di Roma ieri ha ottenuto il sequestro, operato dal Nucleo Valutario della Guardia di Finanza, di 69,5 milioni di euro (anche barche, gioielli e beni immobili), ai danni di 8 persone indagate a vario titolo per traffico illecito d’influenze, ricettazione, riciclaggio e auto-riciclaggio. Fra loro il giornalista Rai, Mario Benotti, la sua compagna Daniela Guarnieri, l’imprenditore Andrea Tommasi, il banchiere sammarinese Daniele Guidi e il trader ecuadoriano Jorge Solis. Sono loro, per gli inquirenti, ad aver mediato con le società cinesi Wenzhou Light, Wenzhou Moon-Ray e Loukai Trade l’acquisto da parte del governo italiano, a marzo 2020, di 801 milioni di mascherine, al costo di 1 miliardo e 251 milioni di euro. La commessa ha fruttato provvigioni ritenute “indebite”, pagate dai cinesi, per 77,4 milioni.

Le indagini hanno fatto emergere che il “comitato d’affari” attendeva altri 13 milioni dalla Cina, di cui 2,5 destinati a Benotti. Verso l’archiviazione la posizione di Francesca Chaouqui, indagata per riciclaggio. Il fascicolo, aperto il 24 settembre dopo una segnalazione di Bankitalia, era stato iscritto per corruzione e il 9 novembre vedeva indagati Arcuri e due suoi collaboratori, Antonio Fabbrocini e Mauro Bonaretti. A fine novembre per i pubblici ufficiali è arrivata la richiesta di archiviazione, ora all’esame del gip, in quanto “allo stato non vi è prova che gli atti della struttura commissariale siano stati compiuti dietro elargizione di corrispettivo”. L’ipotesi corruttiva derivava dal fatto che nelle intercettazioni “appaiono riferimenti ad accordi spartitori con soggetti estranei al suddetto comitato di affari” e “a qualcuno che attende di ricevere denaro in una ‘valigetta’”. Per i pm, “la conclusione di quei contratti trova unico fondamento nella moral suasion operata da Benotti, sulla sola base del rapporto personale tra lo stesso ed il commissario Arcuri”: fra gennaio e maggio sono stati 1.280 i contatti telefonici fra i due. I pm evidenziano “l’informalità con la quale si è proceduto rispetto ad accordi che devono essere intercorsi tra le parti in gioco, prima del 10 marzo e dunque ben prima del lockdown nazionale, dichiarato il 9 marzo”. In quel momento “nessuna norma consentiva ancora deroghe al codice dei contratti”. Non solo. “Il primo contratto di fornitura è stato stipulato il 25 marzo – si legge – quando la struttura commissariale ancora non esisteva, almeno ufficialmente”. In quel momento, però, “i facilitatori stavano tessendo le relazioni che avrebbero loro consentito i lauti guadagni”. Dalle indagini, “risulta” che il governo italiano “abbia acquistato mascherine anche a prezzi inferiori”.

I contatti telefonici fra Arcuri e Benotti si interrompono di colpo il 7 maggio. Il 2o ottobre, notano i pm, Benotti confida a Guarnieri “la sua frustrazione per essersi Arcuri sottratto all’interlocuzione” e parla di “qualcosa che ci sta per arrivare addosso”. Il giorno dopo Benotti incontra Bonaretti, che lo tranquillizza: “Mi ha detto (Arcuri, ndr) voglio evitare che Mario si sporca… mi ha detto di non farti vivo in questa fase, di lasciarlo un attimo… per evitare casini”. Ma l’incontro “ha certamente riaperto un canale verso la struttura commissariale”, con una “nuova corrispondenza via email in corso con Antonio Fabbrocini, per una fornitura di guanti, con il previo consenso di Domenico”. Così da Solis era arrivata una “aspettativa singolare quanto raccapricciante”: che a novembre “vi sia il lockdown nazionale” perché “da questo si attende lucrosi affari”.

Il primo decreto di sequestro era del 23 dicembre, ma il Gip non si era pronunciato. I pm lo hanno riproposto d’urgenza il 15 febbraio, alla luce dei movimenti finanziari operati da Benotti. L’operazione arriva nei giorni in cui va indebolendosi, con l’arrivo al governo di Mario Draghi, la figura di di Domenico Arcuri, riconfermato fino ad aprile. Arcuri e la struttura si dicono “oggetto di illecite strumentalizzazioni” e “parte offesa” e valutano “la costituzione di parte civile”.

Cutolo: nuovo camorrista tra celle, appalti e politica

È morto ieri sera, poco dopo le 20, Raffaele Cutolo, il capo storico della Nuova Camorra Organizzata, il custode dei segreti della trattativa Dc-Brigate Rosse-Nco per la liberazione dell’assessore Ciro Cirillo e, forse, anche di qualche mistero del sequestro Moro: “Lo potevo salvare, fui fermato dai politici”, disse in un verbale del 2016, quando la Dda di Napoli andò a trovarlo dopo la cattura di uno dei suoi luogotenenti, Pasquale Scotti, stanato dopo 31 anni di latitanza.

Cutolo si trovava nel reparto di medicina protetta dell’ospedale di Parma, il reparto dell’ospedale per detenuti. Cutolo, 79 anni, era da tempo malato, aveva seri problemi al cuore e ai polmoni. Per due volte, l’anno scorso è stata respinta la richiesta di scarcerazione per motivi di salute, prima, a maggio, dal magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia e poi subito dopo dal tribunale di Sorveglianza di Bologna che aveva confermato la compatibilità del regime carcerario con le condizioni di salute del boss appena morto. I giudici avevano anche scritto, per motivare la decisione di farlo curare nell’ambito del circuito carcerario, che Cutolo nonostante fosse al 41-bis, il carcere duro, da decenni, era ancora pericoloso. “Si può ritenere, aveva scritto il tribunale di Sorveglianza, che la presenza di Raffaele Cutolo potrebbe rafforzare i gruppi criminali che si rifanno tuttora alla Nco, gruppi rispetto ai quali Cutolo ha mantenuto pienamente il carisma”. E ancora: “Nonostante l’età e la perdurante detenzione rappresenta un ‘simbolo’ per tutti quei gruppi criminali che continuano a richiamarsi al suo nome”. Cutolo, in tanti anni di detenzione, aveva scritto sempre il Tribunale di Sorveglianza, “non ha mai mostrato alcun segno di distacco dalle sue scelte criminali” e, a questo proposito, aveva ricordato un colloquio del boss, il 22 luglio 2019, nel carcere di Parma dove si trovava, con Il Mattino, durante il quale ha detto che aveva “fatto anche del bene” e che alcune sue scelte erano state “giuste”. Considerazioni che per i giudici avevano fatto “trasparire il proprio ruolo carismatico che aveva favorito l’unione di più gruppi”.

Sul carisma di Cutolo si potrebbe scrivere un trattato di psicologia criminale. A cominciare dal soprannome attribuitogli in qualità di capo della Nco: “Il Vangelo”. Un clan piramidale, basato sul culto della personalità. La sua.

La data che segna una svolta nella sua vita è il 24 settembre 1963. Quel giorno Cutolo smette di essere un guappo napoletano e diventa un assassino. Ammazza a colpi di pistola durante una rissa un giovane che voleva vendicare uno schiaffo dato a una ragazza. Si costituisce al pretore di Ottaviano dopo tre giorni. Ed entra nel carcere di Poggioreale. Il carcere dove smette di essere un semplice assassino e diventa un boss. Non uscirà più dalla galera – salvo qualche breve periodo di libertà per decorrenza termini e la spettacolare fuga dall’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa del 5 febbraio 1978, verrà catturato ad Albanella un anno e mezzo dopo – e in galera fonderà la Nco. È lì dentro che arruola i soldati del suo esercito. È tra quelle mura penitenziarie che tesse trame, disegna strategie, decide alleanze e faide. “A Poggioreale sono cresciuto, e quel luogo lo sento un po’ come casa mia”. Era detenuto al Padiglione 13. “Divenni un boss – disse nell’ultima intervista non autorizzata – perché non sopportavo l’arroganza dei mammasantissima dell’epoca che volevano imporre la loro legge all’interno di quelle mura. La mia fu una ribellione”.

Manie di grandezza, eccessi, sguardo luciferino durante i maxiprocessi e durante le interviste rilasciate in una stagione in cui cronisti potevano avvicinarsi fino ai boss e raccoglierne le parole da dietro le sbarre. Così nasce il mito. Rafforzato con l’acquisto del Castello Mediceo di Ottaviano, la lussuosa dimora della vedova del principe Lancellotti di Lauro, dove i suoi genitori avevano lavorato come guardiani. Con il terremoto del 23 novembre 1980, Cutolo e la Nco si fiondano nel business degli appalti della ricostruzione. L’11 dicembre successivo ordina l’omicidio del sindaco di Pagani, Marcello Torre, che aveva osato fermare un appalto a una ditta collegata alla camorra. Servirà come esempio.

Delitto Manca, si riapre la pista di mafia

Dopo 17 anni di omissioni, superficialità e depistaggi utilizzati per “sporcare”, processandola, la memoria di Attilio Manca, adesso la sentenza della Corte di appello di Roma che ha assolto Monica Mileti dall’accusa di spaccio di eroina “perché il fatto non sussiste” riapre il caso collocandolo dentro il “buco nero” che ha segnato nella stagione del dopo stragi la mancata cattura del capo dei capi, Bernardo Provenzano: non fu una dose di eroina a causare la morte del giovane e brillante urologo barcellonese, trovato senza vita nella sua casa di Viterbo il 12 febbraio 2004 con due buchi nel braccio sinistro, ma un omicidio le cui ragioni dopo 16 anni sono ancora tutte da esplorare, a partire dalle dichiarazioni di sei collaboratori di giustizia vicini a Provenzano, operato o assistito da Manca, hanno detto, durante la latitanza marsigliese per un tumore alla prostata. A riaprire le indagini è un nuovo esposto annunciato dall’avvocato Fabio Repici, legale di parte civile della famiglia Manca che da anni punta i riflettori su Barcellona Pozzo di Gotto, “luogo decisivo delle deviazioni e dei delitti della Prima Repubblica, ma anche della Seconda”. “La sentenza – spiega Repici – fa carta straccia di 17 anni persi dietro alle inerzie e alle conclusioni imperdonabili della Procura di Viterbo, della commissione antimafia di Rosy Bindi, Claudio Fava e Luigi Gaetti, e della Dda e del gip di Roma. L’auspicio è che per effetto della nuova denuncia che presenteremo finalmente si passi dalle indagini e dal processo abusivo alla memoria di Attilio alle indagini e al processo nei confronti dei suoi assassini, annidati in quell’impasto di mafia e Stato che è Cosa Nostra a Barcellona Pozzo di Gotto, terminale fidatissimo della latitanza superprotetta di Bernardo Provenzano’’.

A soli 35 anni Manca era un nome della chirurgia laparoscopica. La mattina del 12 febbraio 2004 venne trovato seminudo sul letto, con il volto tumefatto e il setto nasale deviato: poco lontano due siringhe e nessuna impronta digitale. In casa se ne trovò una sola, in bagno, del cugino di Attilio, Ugo Manca, legato ad ambienti criminali barcellonesi e ospite pochi mesi prima. Alla famiglia venne detto che il medico era morto per un aneurisma e l’autopsia ravvisò tracce di alcol e cannabis. Le indagini imboccarono immediatamente la pista del suicidio per overdose perseguita in tre richieste di archiviazione nonostante tutti i colleghi del medico avessero smentito la tossicodipendenza e spiegato che Manca era mancino: come avrebbe potuto iniettarsi la dose fatale nel braccio sinistro? I magistrati non si allontanarono da quell’ipotesi neanche dopo le dichiarazioni di sei pentiti di mafia che rivelarono il viaggio a Marsiglia di Provenzano, alla ricerca di un’eccellenza sanitaria per essere operato alla prostata. E proprio in quel periodo, ottobre/novembre 2003, Attilio Manca era in Costa Azzurra, come disse al padre, per “assistere a un intervento chirurgico”. Su quel viaggio la Procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone (pm Michele Prestipino) archiviò le indagini aperte dopo un esposto dell’altro avvocato della famiglia Manca, Antonio Ingroia, scrivendo che le indagini conducevano “a piste, presunti autori e modalità del fatto del tutto contrastanti e incompatibili, sostanzialmente prive di riscontri, non consentendo allo stato di risalire agli autori del presunto omicidio”.

L’interlocutore del premier sarà l’Avvocato

Ho fatto il cronista politico per molto tempo, mai però avevo ascoltato un applauso così largo e intenso come quello che ha salutato il premier Mario Draghi al termine del suo discorso in Senato. È pur vero che mai un presidente del Consiglio aveva potuto contare su una maggioranza così bulgara, e che mai nella storia repubblicana era sceso in campo direttamente il Quirinale per sollecitare il sostegno unitario delle forze politiche, e “per il bene supremo del Paese”. Detto ciò, gli applausi non sono tutti uguali e una volta esaurita la luna di miele del governo con il Parlamento (da certi segnali, il miele già scarseggia) Draghi potrà e dovrà misurare la differenza tra chi oggi lo appoggia per convenienza (e dunque domani chissà) da chi invece si spella le mani per convinzione (e dunque per necessità). Due, infatti, sono le parole chiave del programma esposto, che ci aiutano a distinguere applauso da applauso. La prima parola è “irreversibile”. Matteo Salvini, a proposito dell’irreversibilità dell’euro ha detto che “solo la morte lo è”? Draghi replica: “Sostenermi significa accettare l’irreversibilità dell’euro”. Come dire che sull’argomento non sono ammessi ripensamenti: prendere o lasciare, ben sapendo che la Lega oggi quella minestra deve mandarla giù.

La seconda parola chiave è in realtà un elogio: “Voglio ringraziare il mio predecessore Giuseppe Conte, che ha affrontato una situazione di emergenza sanitaria ed economica come mai era accaduto dall’Unità d’Italia”. Non ricordiamo nessuno degli alleati del suo predecessore essersi mai spesi con la stessa convinta gratitudine (quanto a Matteo Renzi si starà mangiando il fegato). Ma la standing ovation

partita dai banchi Pd, M5S e LeU può significare molto di più che non l’omaggio dovuto a chi c’era prima. Al di là dei suoi personali sentimenti, il premier mastica abbastanza politica per comprendere che il garbato rifiuto di Conte, da lui sollecitato a far parte del nuovo governo, non è il segnale di un ritiro bensì un modo per tenersi le mani libere. Punto d’equilibrio dell’intesa della vecchia maggioranza (esclusa ovviamente Italia Viva), l’avvocato del popolo si propone come interlocutore privilegiato di Mario Draghi. Infatti, Salvini non è irreversibile.

Perché i talk show non cambieranno: tv malata di politica

Parlerà o non parlerà? ci si chiede di Draghi, che ha predicato sobrietà così come sobrio e algido era apparso Monti-loden per poi finire davanti alla Bignardi col cagnolino. E soprattutto chi avrà l’ultima parola nei telegiornali, ora che Salvini è al governo, lui o la Meloni? E Gasparri dove lo mettiamo? Questi alcuni degli interrogativi che scuotono una tv ammalata di politica, come dicono i numeri dell’Agcom che hanno monitorato a gennaio oltre 400 ore tra tg e programmi. Un bel record europeo. C’è la crisi, ma tranquilli: è così da decenni. E soprattutto, finirà il talk show permanente, la rissa quotidiana dei politici ora che sono (quasi) tutti dentro? C’è chi ne è sicuro e chi lo spera. Ma non accadrà, occorrerebbe un altro giornalismo e una riforma impossibile.

Intanto facendo i conti con Agcom il primo risultato dell’assalto di Renzi è avere regalato a sé e al suo partito una visibilità mai raggiunta; il secondo, aver rimesso in cima ai tg più popolari il leader della Lega; il terzo, resuscitato Mastella (3 ore e 55 minuti tra tg e talk). Renzi primeggia nei tg grazie ai 24 minuti che gli regala il Tg4, ma nel computo delle 7 reti generaliste (85 minuti) supera di poco Salvini (78’) che è di gran lunga in testa nel tempo di parola nei tg Rai e al Tg5 (quelli con più ascolti); Renzi però distanzia Mattarella (64’), surclassa Conte (dai 178 minuti di dicembre l’ex premier scende ai 58’ di gennaio), doppia Zingaretti (47’) e Tajani (43’), seppellisce la Meloni (19’) e pure Di Maio (16’) ultimo nella top ten dei politici che più parlano ai tg. Con la scusa di Conte, il M5S da tempo è sottorappresentato nei tg e nei talk, mentre Meloni è l’ennesimo case study della comunicazione in video: presenze minime, a gennaio nei tg è nona, idem a dicembre, ancor peggio a novembre, un po’ meglio tra agosto e ottobre, ma consensi massimi. Il contrario di Renzi, contento però di piazzare in classifica anche Bellanova e Boschi, la prima con performance trasversale, la seconda grazie al cadeau del solito Tg4 che tende a regalare presenze al centrosinistra per temperare gli squilibri di Mediaset sui canali più visti: al Tg5, per dire, il centrodestra da solo a gennaio parla quasi quanto Pd, M5S, Iv (di fatto all’opposizione), governo e premier. Altro che regola del 30%! Pare che le frazioni a scuola non fossero il forte di Mimun.

Dunque nei tg della Rai Salvini la fa da padrone con 40 minuti di parola, circa il doppio di Conte, il triplo di Zinga e di Tajani, il quadruplo di Meloni. Il più munifico è il Tg2 che gli apre i microfoni per 17 minuti: due volte Mattarella, il triplo di Tajani, quattro volte Renzi, Zinga e Meloni. Sempre al Tg2 il Pd e la Lega si equivalgono, 25 minuti circa, ma Zinga parla per 5, Salvini per 17, uno schema che non muta negli altri tg: da una parte un soliloquio e dall’altra un carosello. Nell’era dei leader-partito sarebbe questo il pluralismo?

Ma dove tutto salta è nei talk, qui Renzi vince a mani basse, 11 ore e 30 di parlato. Non succedeva dal 2016. Durante il Conte-2 a fare meglio era stato solo Salvini, a ottobre 2019 con 13 ore. Incorona l’ex scout anche Rete4 dove il trio d’attacco Salvini-Meloni-Sgarbi cede posto al tridente Renzi-Salvini-Sgarbi. Nei talk primeggia ancora Bellanova, 2h e 40’ di parlato, Rosato più di Di Maio. Per Iv è un en plein. La crisi è davvero brutta, ma il racconto della crisi ancora peggio. E SuperMario, tecnico senza social, farà fatica a evitarne il richiamo. Più che Draghi ci vorrebbe Mandrake.

Una volta qui era tutto Mes, poi il sole…

C’era una volta il Mes. O, per meglio dire, una volta qui – e con qui intendiamo la grande stampa italiana – era tutto Mes. L’ex fondo “salva Stati” e i suoi prestiti sanitari hanno monopolizzato il dibattito pubblico per quasi un anno: “Il punto decisivo per la rottura? Tanti. Ma su tutti il Mes” (Renzi, 15.1); “Non voterò mai un governo che con 80mila morti non prende il Mes” (Renzi, 17.1), solo per citare due esempi. Ma è soprattutto sui giornali che quei 37 miliardi di prestiti “a tasso zero” sono diventati il Santo Graal della crisi Covid. Poi arriva Mario Draghi e nel suo discorso programmatico non lo cita mai. E il tema svanisce. Ieri, per dire, il Sole 24 Ore apriva così: “Nel 2021 il Tesoro si finanzia a tasso zero”. Incredibile! O magari no, se si considera che la discesa dei tassi sui titoli di debito pubblico va avanti da quasi un anno ed è stata interrotta solo dalla crisi politica innescata da Renzi. E parlare dei presunti risparmi sul Mes non ha senso ora come non lo aveva prima. Eppure il 24 luglio il quotidiano di Confindustria aprì con una notizia choc: “Gualtieri: tensioni sui conti senza il Mes”. Il Mercato non se lo filò di striscio… Forse non credeva a Gualtieri o forse non credeva al Sole. O magari a tutti e due, chi lo sa…

Dieci anni persi: lo Stato resta solo nel disastro

Nel 2012, quando i magistrati di Taranto guidati da Franco Sebastio sequestrarono gli impianti dell’Ilva per il ventennale inquinamento perpetrato dai Riva, politici e industriali gridarono al golpe giudiziario, accusando i pm di fare un favore ai concorrenti. Da Monti a Renzi, tutti i governi hanno lavorato a suon di decreti per disinnescare i pm e permettere al siderurgico di produrre inquinando, senza mai arginarne la crisi drammatica. Nessuno può prevedere se le pesanti richieste della Procura agli imputati del processo “Ambiente Svenduto” verranno accolte dai giudici. È però possibile tracciare un bilancio di un decennio perso.

L’Ilva ha sempre inquinato. Sebastio se ne occupava già alla fine degli anni 70 ai tempi dell’Italsider. Nel ’95 Berlusconi l’ha svenduta all’amico Emilio Riva, ma l’impianto ha continuato a uccidere i tarantini: la prima condanna per inquinamento è arrivata già nel 2002. Nei giorni scorsi il Tar di Lecce ha dato ragione al sindaco Rinaldo Melucci che nel febbraio 2020 aveva dato 60 giorni di tempo all’Ilva per mettere a posto il camino E312 perché emetteva troppi veleni, altrimenti andrebbe fermata tutta l’area “a caldo”, il cuore dell’impianto. L’ordinanza andrebbe studiata: avverte le autorità pubbliche, i commissari dell’Ilva e i padroni di Arcelor Mittal che l’impianto inquina e che rispettare le norme non vuol dire non produrre un “danno sanitario”. La palla va al Consiglio di Stato: potrebbero volerci anni, eppure dall’ordinanza si capisce che l’Ilva inquina anche solo perché è un impianto vecchio di oltre mezzo secolo. Oggi i pm chiedono di sequestrarlo e di confiscare ai Riva 2,1 miliardi frutto della mancata manutenzione.

È il fallimento di una classe dirigente che non ha saputo decidere davvero tra salute e lavoro. L’Ilva era dello Stato, è stata svenduta ai privati, poi lo Stato l’ha commissariata e venduta come fosse un appartamento a Mittal, che ha fatto la guerra allo Stato per chiuderla. Oggi, lo Stato torna per evitare il disastro. Il ministro uscente Gualtieri ha firmato il decreto che dà 470 milioni a Invitalia per prendersi il 50% e poi salire (con altri 680 milioni) al 60% nel 2022. Mittal mette 70 milioni. Serviranno miliardi e decenni per produrre senza inquinare. Draghi eredita un disastro, ma nella sua “distruzione creatrice” (soldi solo a chi può sopravvivere) nessuno sa dove si inquadra il futuro dell’Ilva.

Cosa hanno in comune i moon boot di Zanatta e l’uroboro di Kekulé

Comunità creative e copyright. Per estendere oltre misura la durata e gli ambiti d’applicazione della proprietà intellettuale, le multinazionali dell’intrattenimento sostengono che il monopolio del copyright è indispensabile come incentivo alla creatività, ma ogni settore creativo dimostra che la creatività è fatta in gran parte di appropriazioni. Si prenda l’industria della moda: i Moon Boot si ispirano alle calzature degli astronauti dell’Apollo 11, i lunar boots creati da Richard Ellis della ILC (la Playtex). Il fondatore della Tecnica, Giancarlo Zanatta, che nel 1969 disegnò i Moon Boot, dice che, vedendo una foto dello sbarco sulla luna, fu colpito dall’impronta ovale lasciata dagli astronauti: “Una cosa del genere non l’avevo mai vista”. E pensò al nylon come materiale: “Proprio come per gli astronauti”. Copiare i Moon Boot, però, non si può, perché in Italia il design industriale di prodotti celebri è protetto dal diritto d’autore: la settimana scorsa, Chiara Ferragni, che ne faceva produrre di simili per il suo brand, è stata condannata dal Tribunale di Milano. Se adesso ILC facesse causa a Tecnica per aver copiato i lunar boot di Ellis, come andrebbe a finire? Negli Usa vale la giurisprudenza, con la sua miriade di fattori da considerare in materia di copyright e di brevetti: l’esito non sarebbe scontato. Quanto ai tarocchi delle griffe fatti in Oriente, sono illegali, ma, paradossalmente, utili all’industria della moda, poiché favoriscono l’obsolescenza dei prodotti, incrementando la domanda di prodotti nuovi. (Raustiala & Sprigman, 2006).

Come l’uroboro che ispirò Kekulé, questo lungo discorso serpentino su giochi linguistici, comicità, giochi di prestigio e comunità creative termina tornando al punto di partenza: le frasi bisenso. Il gioco separa esposto e soluzione. Se li appaiamo, otteniamo un joke di definizione tutto da meditare, che potremmo chiamare crittojoke:

Strip-tease: movimento di liberazione della donna (Il Saltimbanco)

Zucchero: sale d’aspetto (Flavia)

Evaso: filato ricercato (M. Bella)

Esattore: mobile da incasso (Snoopy)

Martire Isis: brillante solitario (Cunctator)

Apprendisti: incerti del mestiere (Zio Tatù).

Trovata la chiave, si sorride. La risata non è esplosiva: la reazione a un joke cambia se il joke è troppo cerebrale e non fa risolvere rapidamente la sua incognita. L’effetto è debole anche quando il joke è troppo facile, e risulta “telefonato” (Suls, 1983). La frase bisenso che ho sognato su Naomi Campbell non mi ha fatto ridere durante il sogno, ma al risveglio: nel dormiveglia disponevo ancora della chiave crittografica, e la soluzione cosciente è stata immediata, come all’ascolto di una buona barzelletta.

I joke di definizione tradizionali non sono frasi bisenso, ma spiegazioni ironiche o satiriche. “Amore coniugale: erotismo che viene perversamente deviato verso la propria moglie” (Ambrose Bierce, 1911).

“Pesca: due imbecilli, uno da una parte e l’altro dall’altra del filo” (Voltaire).

L’account umoristico tr;dl wikipedia gioca ancora in questo modo antico: “Apple Watch: orologio che sostituisce l’iPhone che ha sostituito il tuo orologio”.

La parodia della formula (meta-joke) ne segnala l’obsolescenza: “Forbici: dai, le forbici. Non hai mai visto le forbici?”.

(11. Fine)

 

Mail box

 

Rispondere ai dubbi sull’Arabia è un dovere

Mi permetto di evidenziare l’esigenza di rammentare al senatore Matteo Renzi l’impegno ad argomentare in conferenza stampa, possibilmente rispondendo alle domande del Fatto Quotidiano la portata del Rinascimento in atto nella democratica Arabia Saudita e le attinenze tra il fermento culturale della Firenze di Lorenzo de’ Medici e quello della Riyad di Mohammad bin Salman.

Italo Longo

Il mio stato d’animo triste per l’ex presidente

È trascorso poco tempo dalle dimissioni di Conte e già mi manca, stop. Attendo nuovo governo, stop. Voglio andare a votare.

Marcello Troppa

 

Quanta commozione per l’ex premier

Mi sono commosso nel vedere tributare a Conte tanti applausi dai suoi collaboratori di Palazzo Chigi. Mi ha reso orgoglioso per una volta di essere italiano.

Roberto Censi

 

Sosterrei “Il Fatto” alle prossime elezioni

Caro Travaglio, sarei felicissimo di dedicare le mie ultime risorse fisiche alla mobilitazione per sostenere la lista “Il Fatto Quotidiano” alle prossime elezioni politiche con capolista in tutte le circoscrizioni Marco Travaglio.

Vittorio Colavitto

 

Caro Vittorio, Dio ce (e ve) ne scampi!

M. Trav.

 

Che incubo un’Italia sotto il giogo dell’ex Bce

Anch’io questa notte ho fatto un sogno, anzi, era un incubo: Draghi ci porterà alla scadenza naturale della legislatura per poi candidarsi per il Colle ed ecco quindi che fino al 2030 gli italiani saranno felicemente guidati da un supertecnico della finanza, delle grandi banche e delle grandi lobby e se Mattarella oggi ha forzato un pochino la Costituzione imponendoci un premier banchiere, in futuro Draghi al Colle non sarà da meno e ci imporrà premier e ministri da lui graditi.

Bruno Balduzzi

 

Caro Bruno, se Draghi va al Colle la legislatura finisce con un anno di anticipo.

M. Trav.

 

DIRITTO DI REPLICA

Nell’articolo “L’audio che incastra la Lega sui 10 mln spariti” su Il Fatto Quotidiano del 2 gennaio vengono riportati frammenti di una nostra conversazione privata del settembre 2018 estrapolati dalla trascrizione di “una registrazione ambientale dei Carabinieri del Ros di Bolzano” nell’ambito di un inchiesta “sulle presunte malversazioni nella gestione della cassa di risparmio altoatesina” Sparkasse, poi trasmessa alla Procura di Genova titolare dell’inchiesta sui fondi della Lega. Tali stralci sono estrapolati e collegati nell’articolo per accreditare la tesi che Sparkasse abbia illegittimamente trasferito fondi per conto della Lega in Lussemburgo e che i sottoscritti Dario Bogni e Sergio Lovecchio (all’epoca rispettivamente consulente finanziario della Sparkasse e direttore generale di una società finanziaria, uscito dalla Sparkasse già a maggio 2016) abbiano avuto un “ruolo operativo” nella vicenda, come sottolineato anche dal testo suggestivo dell’occhiello “L’inchiesta – La novità da Bolzano Due dirigenti della Cassa di risparmio altoatesina parlano, nel 2018, dei fondi del Lussemburgo, mentre Genova indaga sui 49mln del Carroccio”, e dal virgolettato che inframmezza il testo con la frase “Hai capito che se si scopre che i soldi non sono nostri, è falso in bilancio?” attribuita a “Dario Bogni ex Sparkasse”.

Rilevato che Sparkasse ha già chiesto la rettifica della notizia smentendo l’ipotesi di un coinvolgimento nel presunto trasferimento di fondi della Lega precisando di avere sin dal 2018 fornito alla Procura di Genova la documentazione ed i chiarimenti del caso, nella nostra conversazione (di pochi giorni successiva a una perquisizione della Guardia di Finanza alla sede di Sparkasse e alle abitazioni private di alcuni esponenti della Banca, che non ha interessato i sottoscritti) cercavamo di ricostruire da quali presupposti fosse scaturita l’ipotesi che i fondi trasferiti da Sparkasse in Lussemburgo fossero di proprietà della Lega, evidenziando le incongruenze alla base di tale ipotesi. Come emerge dalla trascrizione, la frase riportata in virgolettato è pronunciata da Bogni a mò di paradosso per sottolinearne l’illogicità alla luce del fatto che i fondi trasferiti da Sparkasse erano di proprietà della stessa e come tali erano postati a bilancio. Bogni evidenziava che la supposta proprietà dei fondi in capo alla Lega avrebbe a rigore dato luogo ad un falso nel bilancio che non era invece mai stato contestato proprio perché non ne sussistevano i presupposti. Si precisa che né Lovecchio né Bogni sono indagati nell’inchiesta sui fondi della Lega per cui il solo Bogni è stato semplicemente sentito come persona informata dei fatti, e che Lovecchio ha contatti con il governatore della provincia autonoma di Bolzano Kompatscher e altri esponenti della politica locale per ragioni professionali, nel pieno rispetto dei rispettivi ruoli istituzionali.

Dario Bogni, Sergio Lovecchio

 

Grazie. Prendiamo atto della precisazione che non smentisce quanto riportato nell’articolo.

Ste. Ve. e Mar. Gra.