Ciò che preoccupava mons. Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, già nel 1999, parlando all’Associazione cristiana degli imprenditori, era quello che lui definiva “un processo di svuotamento delle parole (parole senza un proprio peso, parole che non si fanno carne). Si svuotano di contenuto, quindi Cristo non vi entra come persona, come idea. C’è un’inflazione di parole. Viviamo in una cultura nominalista. La parola ha perso peso, è cava. È priva di sostegno, priva della ‘scintilla’ che la rende viva e che precisamente consiste nel silenzio”. (…)
Bergoglio è un grande comunicatore. Lo è non perché adotti strategie specifiche, ma perché si sente libero di essere e di comunicarsi. Il suo messaggio è dunque capace di toccare le persone in modo immediato, diretto, intuitivo. In particolare, la sua capacità comunicativa è radicata in un vissuto pastorale e in una torsione di corpo e di parola. Torsione del corpo: la sua autorità non si esprime mai in maniera statuaria, ma perfino la sua propria corporeità si sbilancia sull’interlocutore. A volte sembra addirittura che perda l’equilibrio. Torsione del linguaggio: il Papa ama usare un vocabolario di verbi, ma anche di immagini indimenticabili e di neologismi. Anche il linguaggio perde l’equilibrio della formalità. A volte Francesco usa pronunce inconsuete di parole italiane ma torte in forme dialettali che lui tira fuori dalla memoria dei suoi avi, la nonna soprattutto. In una parola: realizza una comunicazione autentica, disinvolta ed efficace.
Il suo linguaggio è radicalmente “orale” perché radicalmente pastorale. Anche la riflessione scritta è la formalizzazione di un testo che è pensato dentro una interlocuzione. Ecco perché il Papa è sempre dentro l’evento comunicativo, lo crea e lo sviluppa dall’interno: non è l’attore di una parte scritta o di un discorso scritto. Dunque, più che “comunicare”, papa Francesco crea “eventi comunicativi”, ai quali si può partecipare attivamente. A questo proposito notiamo una cosa: papa Francesco e Giovanni Paolo II sono due grandi figure di comunicatori, ma per motivi opposti, in un certo senso. Giovanni Paolo II, cultore della densità della parola, e della parola poetica, modellava il gesto al ritmo della parola. Era la parola che faceva fiorire il gesto e il ritmo. Per Francesco è il contrario: è il gesto che sprigiona la parola e la plasma.
C’è dunque una oralità radicale della parola di Bergoglio: la lettera, la corrispondenza, la parola scritta per essere cercata deve portare con sé le radici dell’oralità. E questa oralità è spesso materna, misericordiosa. Per papa Francesco il predicatore, in modo particolare, è una madre, deve usare un linguaggio “materno”, cioè quello che abbia il sapore originario della “lingua madre”, semplice, dal latino sine plica. La semplicità riguarda il linguaggio che deve essere ben comprensibile per non correre il rischio di essere un parlare a vuoto. Come si fa ad adattarsi al linguaggio degli altri per poter arrivare ad essi con la Parola di Dio? Risponde il Papa nella Evangelii gaudium: “Si deve ascoltare molto, bisogna condividere la vita della gente e prestarvi volentieri attenzione” (n. 158). Il linguaggio del Papa è molto semplice, immediato, comprensibile da chiunque. Questa abilità viene a Francesco dalla sua vita a costante contatto con la gente.
Francesco parla il linguaggio della vita e della fede, che è ovviamente fraintendibile poiché non procede per rigide argomentazioni logico-formali. Non intende stilare comunicati stampa o dare lezioni; vuole aprire un dialogo. Chi lo accusa di ambiguità non ha capito il terreno esistenziale ed empirico da cui muove il suo discorso. È sulla relazione diretta, autentica e priva di asimmetrie che vive l’incisività e la novità della sua trasmissione del messaggio. In questo senso è un linguaggio radicalmente pastorale. Ma è proprio questa pastoralità che gli conferisce vibrazione poetica. Il linguaggio bergogliano è ricchissimo in metafore, proverbi, idiomi, di neologismi e figure retoriche che vengono non dal culto della parola elegante, ma al contrario dal gergo, dal porteño, dal parlato di strada assorbito dalla quotidianità o dal rapporto pastorale con i fedeli.
Francesco – così come lo è stato Roland Barthes, grande studioso del linguaggio ignaziano degli Esercizi spirituali – sa che dire l’amore, anche l’amore di Dio, significa affrontare il guazzabuglio del linguaggio: quella zona confusionale in cui il linguaggio è insieme troppo e troppo poco, eccessivo e povero. Anche quelli di Francesco, a loro modo, sono “frammenti di un discorso amoroso”. È il linguaggio, insieme poetico e popolare, dei Profeti dell’Antico Testamento.
Sarebbe un tragico errore credere che il linguaggio semplice di Francesco sia frutto di una certa ingenuità. In realtà dobbiamo qui ricordare che papa Francesco ha insegnato letteratura: e non solamente la sua storia, ma anche scrittura creativa. Bergoglio ha amato molti poeti e scrittori: da Borges a Hölderlin, da Marechal a Manzoni, da Bloy a Pemán… Sono autori dai quali trae citazioni nascoste che appaiono qua e là nei suoi discorsi: mai come citazioni dotte ma come parti spontanee del suo dire, metabolizzate per processo interiore. Ma è proprio il gusto della parola primigenia, colta ancora con le sue radici che affondano nel terreno del vissuto, che lo spinge a essere attento alla parola che emerge dal vissuto e a riproporla mimeticamente. In fondo qui c’è una sfida al linguaggio teologico: pure esso rischia di finire per essere influenzato dal “paradigma tecnocratico”. Il suo eccessivo tecnicismo confina pure col burocratico. Per cui a volte il Vangelo è predicato con linguaggio “da prete”. Niente di più lontano da quel che Bergoglio vuole realizzare. Il suo obiettivo è la liberazione dell’energia propria del logos evangelico. Non solo: il linguaggio teologico rischia di diventare un prodotto della debolezza del logos occidentale, per cui la ricerca di un linguaggio che dia ragione della razionalità della fede, alla fine rischia di condurre lontano rispetto alla questione del reale futuro della fede e del suo compito di annuncio kerygmatico. Per questo tradurre Bergoglio è difficilissimo, più di quanto ingenuamente si possa pensare. Più che della grammatica, la prosa di Bergoglio ha bisogno di un’analisi poetica e linguistica.
In fondo, dunque, la predicazione bergogliana, a ben vedere, si interroga sull’orizzonte stesso della possibilità della comunicazione del cristianesimo. Questo è il suo vero nodo critico. (…)