Lombardia. Tanti annunci sui vaccini, ma irrealizzabili: è pura propaganda

Gentile redazione, sentivo ieri su Radio Popolare del nuovo piano messo in atto in Lombardia per vaccinare gli over 80. Oggi, come previsto, il sistema è andato in tilt. Non riesco a capire come mai il sistema sanitario lombardo non usi la digitalizzazione. Sanno che in Lombardia ci sono 720 mila over 80 e che sono tutti schedati con nomi, cognomi e codici fiscali, e che tutti risultano in lista dai singoli medici di base? E allora perché non spediscono una lettera a ognuno? Ma i funzionari del Ssl usano i pc solo per giocare e cazzeggiare, anziché lavorare?

Omero Terrin

 

Gentile signor Terrin, pone domande sensatissime. Se invece di bombardare i cittadini con l’annuncio della partenza delle prenotazioni (che poi prenotazioni non sono) per gli over 80 da lunedì, il Pirellone avesse previsto una procedura di prenotazione scaglionata per fascia d’età od ordine alfabetico, avvertendo gli utenti con una lettera e predisponendo un numero verde, sarebbe stato tutto più semplice. Ma meno d’impatto. I disagi di lunedì derivano dalla scelta di anticipare la data dell’apertura delle prenotazioni degli over 80: si doveva iniziare a fine marzo, poi il 24 febbraio e quindi il 15. E non importa se la piattaforma – arrivata all’ultimo – poi va in tilt, o se gli utenti non possono cambiare l’appuntamento. Né che i medici di base siano stati avvertiti solo due giorni prima. Fa niente se a gestire il sistema è Aria, la società informatica della Regione che non ne ha imbroccata una. Si doveva partire perché era impensabile arrivare dopo Lazio ed Emilia-Romagna. Il problema è che il Pirellone da qualche settimana è passato al contrattacco mediatico, dopo i tanti fallimenti (ospedale in fiera, campagna antinfluenzale, dati errati a Roma…), deve dimostrare che l’efficienza lombarda non è sepolta. Silurato Gallera, l’arrancante Fontana è stato commissariato dalla Moratti, a sua volta commissariata da Bertolaso. Da settimane è un tourbillon di annunci. Molti irrealizzabili (“10 milioni vaccinati entro giugno”, “produrremo i vaccini in Lombardia”), ma che scaldano i cuori. L’importante è spararla grossa, tanto poi qualcuno da incolpare per l’insuccesso c’è sempre: l’Iss, Arcuri, perfino la Tim. E nessuno verrà a chiederne conto, perché la propaganda avrà fatto il proprio mestiere.

Andrea Sparaciari

Imprese vs salari e diritti confronto Draghi-Conte

Diceva il Nerone di Petrolini: “Quando il popolo si abitua a dire che sei bravo, pure che non fai niente, sei sempre bravo”. Al posto del popolo mettete il 90 per cento del Parlamento, uno stuolo di giornalisti compiacenti e l’equazione regge lo stesso. Quello bravo è Mario Draghi, ma se si ha la pazienza di andarsi a rileggere il discorso con cui Giuseppe Conte inaugurò il suo secondo governo, si scoprirà che era bravo anche lui e che la distanza tra i due è invece misurabile in una diversa attitudine sociale: più legato al lavoro e ai diritti sociali Conte; più attento all’impresa Draghi. Se questo àncora il proprio governo a uno “spirito repubblicano”, l’ex avvocato del popolo si rifaceva a un “nuovo umanesimo” basato su principi “non negoziabili” saldamente allacciati alla prima parte della nostra Costituzione. A rigore istituzionale, insomma, sono almeno pari.

Sui temi Draghi deve concentrarsi sulla crisi pandemica, ancora inesistente nel settembre del 2019, ma egli stesso invita a guardare oltre. Sulla Scuola, ad esempio, sottolinea con forza “l’attenzione agli Istituti tecnici”, richiesta storica di Confindustria. Conte si dilungava invece sul diritto allo studio, sui costi per le fasce più deboli e sugli asili nidi, assenti nel discorso di ieri. Su università e ricerca invece dicono circa le stesse cose: “Investire adeguatamente, puntando all’eccellenza, ovvero a una ricerca riconosciuta a livello internazionale” (Draghi); “La qualità della nostra ricerca, già eccellente, può e deve essere ulteriormente accresciuta anche attraverso un più intenso coordinamento tra centri universitari ed enti di ricerca” (Conte).

Entrambi insistono sulla riforma della Pubblica amministrazione e la sua digitalizzazione. Anche sul terreno scabroso della Giustizia si legge che occorre “aumentare l’efficienza del sistema giudiziario civile” (Draghi) e che “il nostro Paese necessita di una riforma della giustizia civile, penale e tributaria, anche attraverso una drastica riduzione dei tempi” (Conte, il quale aggiunge la riforma del metodo di elezione del Csm – Palamara doveva ancora arrivare, ndr –, ma anche una preoccupazione per la lotta alla mafia, che Draghi non cita mai).

Di Draghi si dice che è il miglior governo sull’Ambiente, anche se si è limitato solo ad alcuni slogan, a parte il riferimento a Papa Francesco. Conte parlava già a fine 2019 di “transizione ecologica”, riferendosi al Green New Deal, “riconversione energetica, fonti rinnovabili, biodiversità dei mari, dissesto idrogeologico ed economia circolare”. E indicava subito lo stop alle trivellazioni come impegno immediato. Quasi simili sul Mezzogiorno: “Capacità di attrarre investimenti privati, creare lavoro, irrobustire le amministrazioni” (Draghi); “Banca pubblica, investimenti, capitale fisico umano e sociale, zone economiche speciali, Fondi europei di sviluppo e coesione” (Conte). Identici sul Fisco: “Ridurre gradualmente il carico fiscale preservando la progressività; rinnovato e rafforzato impegno nell’azione di contrasto all’evasione fiscale” (Draghi). “Graduale rimodulazione delle aliquote a sostegno dei redditi medio-bassi, in linea con il fondamentale principio costituzionale della progressività della tassazione” (Conte, che segna qui la sua differenza sociale: “Il nostro obiettivo è ridurre le tasse sul lavoro a totale vantaggio dei lavoratori e individuare una retribuzione giusta”). Quando parla di lavoro, Draghi si limita a citare le “politiche attive”, l’assegno “di riallocazione” e il personale per i centri per l’impiego.

Draghi vincola il governo all’Europa? Conte aveva detto che “l’Italia sarà protagonista di una fase di rilancio e di rinnovamento dell’Unione” e che “l’interesse nazionale sarà rafforzato se le istituzioni dell’Ue e la sua coesione interna ne usciranno rafforzate”. Pressoché analoghi gli impegni sulle migrazioni: rigore sui rimpatri, accoglienza ai richiedenti asilo, patto di Dublino. E poi si arriva alla tanto decantata svolta atlantica di Draghi come se l’Italia nell’ultimo anno e mezzo si fosse iscritta al Cominform. Eppure Conte aveva indicato chiaramente “tre assi fondamentali”: Unione europea, relazioni transatlantiche, con il corollario della nostra appartenenza alla Nato, “e l’imprescindibile legame con gli Stati Uniti e la stabilizzazione e lo sviluppo del Mediterraneo allargato”. Anche i rapporti con India, Russia e Cina, aveva aggiunto, devono essere “compatibili con la nostra vocazione euro-atlantica”.

Il binomio “bravo” e “incompetente”, come si nota, è solo propaganda. Basti pensare al Ricovery Fund che Draghi non intende riscrivere, ma solo “approfondire e completare” perché i progetti costruiti finora sono di “alto livello”. Appunto. Lo farà, però, da solo, con i ministri fidati che si è scelto lui. E alla fine, la sostanza è tutta qui.

 

Quando il fisco progressivo era un programma liberale

“Vogliamo lasciare un buon pianeta, non solo una buona moneta”. L’infelice battuta del discorso con cui il banchiere centrale prova a indossare i panni di capo di un governo verde conferma l’ovvio: tutto si misura sul metro economico-finanziario. Per capire se, alla prova dei fatti, questo governo andrà più a destra o più a sinistra, bisognerà seguire i soldi. In particolare, quella riforma fiscale che, sono ancora parole di Draghi, “segna in ogni Paese un passaggio decisivo. Indica priorità, dà certezze, offre opportunità, è l’architrave della politica di bilancio”. In realtà, indica molto di più: indica il tasso reale di democrazia e di giustizia di una società. E proprio mentre Draghi parlava, arrivava nelle librerie un metro lucidissimo su cui misurare la riforma fiscale che verrà: il libro che il costituzionalista Francesco Pallante ha dedicato all’Elogio delle tasse.

Sfidando un cumulo di luoghi comuni, e decostruendo il fumo dei programmi politici attraverso una nuda analisi della realtà, Pallante verifica la distanza che corre tra il progetto costituzionale di un fisco progressivo e il suo incessante smantellamento.

A volerlo progressivo, ricorda Pallante, non erano stati i comunisti, ma i liberali. In un appassionante esame delle Lezioni di politica sociale tenute da Luigi Einaudi agli studenti rifugiatisi in Svizzera nel 1944, Pallante mostra il futuro presidente della Repubblica che “invitava il suo uditorio a riflettere sul diverso valore che assumevano le medesime dieci lire se usate per acquistare un piatto di minestra o per assicurarsi un posto a teatro. Dunque, a chi non ha problemi a procurarsi il pane l’erario può richiedere un sacrificio maggiore e, al crescere del reddito o del patrimonio, domandare una più elevata percentuale di risorse da versare al fisco. È, questo, il nucleo essenziale della progressività fiscale, il principio a cui sono ispirati i sistemi tributari contemporanei”.

A dare forma concreta a queste idee, fu un altro liberale, Bruno Visentini: disegnando (nel decreto istitutivo dell’Irpef, 1973) un fisco a ben 32 scaglioni, aderente alla “volontà di calibrare con la massima attenzione l’intervento dello Stato sulle risorse dei cittadini, distinguendo le singole posizioni concrete di ciascuno sin quasi nelle sfumature. L’ideale di riferimento era senz’altro quello dell’uguaglianza in senso sostanziale”.

Il cammino inverso iniziò nemmeno dieci anni dopo: nel 1982 “l’aliquota più bassa, valevole per i redditi fino a undici milioni di lire, salì al 18 per cento, mentre quella più elevata, per i redditi superiori a cinquecento milioni, scese al 65 per cento. Nel 1989 quella superiore, per i redditi oltre i trecento milioni, crollò al 50 per cento. È in esito a questo percorso che Vincenzo Visco, ministro delle Finanze nel primo governo dell’Ulivo, assestò, nel 1997, il colpo (per ora) finale alla progressività fiscale, limitando gli scaglioni dell’Irpef ad appena cinque”.

Nel suo discorso, Draghi ha citato come ottimo esempio la riforma Visentini, ma subito dopo ha anche menzionato la riforma fiscale della Danimarca, in cui “l’aliquota marginale massima dell’imposta sul reddito veniva ridotta”. Come dire: saremo bravi come Visentini, ma non alzeremo le tasse dei ricchi. Un’esegesi confermata dal passaggio in cui Draghi annuncia che la riforma sarà fatta “preservando la progressività”: visto che oggi la progressività di fatto non c’è più, significa che in realtà non si vuol tornare a Visentini, Einaudi e alla Costituzione. A quell’idea di giustizia ed eguaglianza che spinge Francesco Pallante a un trascinante “elogio delle tasse”.

 

“Colpo di grazia” nella ricca Brianza: Lo scoop su Youtube

Chi è Banksy? O, per restare in Italia, chi si nasconde dietro la mascherina colorata di M¥ss Keta? In attesa di (non) rispondere a queste domande, possiamo (non) risolvere anche l’ultimo mistero cultural-politico che aleggia su Milano. Riguarda la paternità di una mini-serie dal titolo Colpo di grazia (sottotitolo “La città di Teodolinda ha le ore contate”), disponibile su Youtube. Ogni episodio dura 6-7 minuti e compone un film ambientato a Monza (la città di Teodolinda, appunto) che potremo vedere tutto soltanto quando sarà messo online l’ultimo episodio, il nono. Per ora ne sono disponibili tre, anticipati, annunciati e accompagnati sui social (Facebook, Instagram) da una campagna geniale che li ha resi un caso mediatico ancor prima dell’uscita. Pezzo forte, l’intervista alla regista, Skyler Grey, che con il volto in penombra e un inglese perfetto racconta di essere svedese, di provenire da Solna, una piccola città vicina a Stoccolma (come Monza lo è a Milano), di essersi formata alla Stockholm Filmskola, di considerare suo maestro il regista Lars von Trier, con cui ha lavorato al film Nymphomaniac, e di essere approdata a Monza per realizzare la sua opera prima, Colpo di grazia, che segue il “dogma” di Lars von Trier ma strizza l’occhio ai film polizieschi italiani degli anni Settanta. Destinato alle sale — spiega Skyler Grey — è stato invece distributo online causa pandemia.

Che cosa racconta, il film? E qui la storia diventa pesante. Perché ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale, ma i personaggi del film sono “il Sindaco”, il palazzinaro “Cavalier Michele Mattoni”, l’assessora all’urbanistica e amica del sindaco “Martina Fedeli”, l’architetto “Enzo Boschi”, la voce del comitato di quartiere “Angelo Fatibeni” e poi “Chicco”, “il Gangsta”, “l’Arciprete”.

E la storia è così inventata da sembrare vera, proprio come tante vicende accadute a Monza. Ci sono terreni verdi da trasformare in affari immobiliari, due torri da costruire come due piccoli “boschi verticali”, rifiuti tossici da nascondere, accordi segreti tra amministratori pubblici e imprenditori.

Ce n’è a sufficienza per far perdere la pazienza ai politici locali, tipo Andrea Mangano, presidente del circolo locale di Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni, che è stato il primo gallo a cantare: già dopo l’uscita del primo episodio ha dichiarato “Questa non è satira, è spazzatura”. Poi realtà e fiction s’accavallano, proprio come probabilmente volevano gli ideatori dell’operazione Colpo di grazia. Un articolo sul film, pubblicato sul sito del giornale locale, Il Cittadino, scompare dal web. Il sito di Colpo di grazia viene oscurato: dalla polizia postale su richiesta di chi si ritiene diffamato dal film, o dagli autori che sanno come si fa comunicazione? Si sa solo che chi lo apre trova una pagina che dice: “This Account has been suspended”.

La destra locale minaccia censure e querele e punta il dito sul centro sociale Foa-Boccaccio di Monza, mentre gli autori del film ripetono che la regista Skyler Grey, “dopo aver predisposto il soggetto cinematografico, ha raccolto in giro per il mondo le candidature per l’ambientazione (piccoli comuni, ma anche metropoli), scegliendo infine Monza come la location più adatta”.

Adattissima. Qui il Pgt, il Piano di governo del territorio predisposto dalla giunta precedente, è stato massacrato dall’attuale giunta di centrodestra guidata dal sindaco Dario Allevi, che ha aperto la porta alle revisioni, alle deroghe, agli incentivi. Ci sono tante aree dismesse da “recuperare”. Ma niente paura: il film è pura fiction, ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.

 

La letalità (forse) è anche genetica

Dopo un anno di sforzi scientifici ancora scopriamo nuove ipotesi e nuovi tratti del profilo patogenetico di SarsCoV2. Un recente lavoro di un gruppo di ricerca della Rockefeller University (New York) pubblicato su Science evidenzia l’estrema variabilità clinica nei diversi soggetti con sindrome respiratoria acuta grave che, come sappiamo, va dall’infezione silente alla morte rapida. Questi dati seguono di pochi giorni il lavoro pubblicato su Nature da un gruppo canadese.

Sono stati identificati tre fattori di rischio fatalità per la polmonite da SarSCoV2: essere maschi, anziani o presentare altre condizioni mediche gravi concomitanti. Purtuttavia, questi fattori di rischio non possono spiegare in maniera esaustiva perché la malattia, nella sua forma critica, rimanga relativamente rara in un dato gruppo epidemiologico. Il numero di infetti è ancora crescente ed è assolutamente cruciale la comprensione, in termini di morbilità e mortalità, delle cause e dei meccanismi che determinano la potenziale letalità del Covid-19. Nello stesso lavoro del gruppo americano, si riporta il risultato di uno studio che ha rilevato che oltre il 10% di 987 pazienti osservati che avevano contratto una grave polmonite da Covid presentava autoanticorpi prodotti molto più frequentemente nel sesso maschile, che hanno mostrato di agire nei confronti dell’interferon 1 (molecola naturale che svolge l’attività di potenziare la risposta immunitaria contro patogeni esterni). Ciò spiegherebbe perché, in alcuni soggetti, anche giovani, inspiegabilmente la malattia può mostrarsi nella forma più grave. Il gruppo di ricerca ha ora allargato l’indagine a 40.000 soggetti. Speriamo in tempi brevi di avere dati più solidi che potrebbero aprire la strada, non solo verso una migliore comprensione della malattia, ma anche verso soluzioni preventive e terapeutiche.

*direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

La bella idea di Grillo (e Draghi)

Ah, le idee!Che belle che sono le idee. Si vive, si muore e si fattura con le idee. Le idee, così ci pare di ricordare, sono alla base dell’azione politica: senza idee non si va da nessuna parte. E Mario Draghi ha avuto una bellissima idea quando ha dato ragione a Beppe Grillo sul ministero della Transizione ecologica: lui s’è preso la fiducia del 60% della base grillina – e poi dei gruppi parlamentari (salvo i renitenti alla leva) – e ora il Paese ha il suo ministero del futuro. D’altronde, chi direbbe no a “un governo tecnico-politico” che “preveda un super-ministero della transizione ecologica?”. Nessuno tra i grillini, specie dopo che Grillo in persona aveva spiegato sul suo blog che “un super-ministero per la transizione ecologica è la coordinazione per trasformare la società – non solo l’economia. È uno strumento fondamentale”. Ah le idee, che belle che sono: vanno, vengono, s’adeguano, s’aggiornano. Certi rivoluzionari d’antan dicevano che sì, bene le idee, ma senza il potere di farle camminare si fa solo conversazione: roba vecchia, superata, i bottoni non ci sono e la stanza nemmeno. E così al ministero della Transizione ecologica (il 37% dei fondi Ue) va un tecnico che però lavora a Leonardo/Finmeccanica, cioè Roberto Cingolani, già ospite della Leopolda e locupletato da Renzi, quand’era direttore scientifico dell’Iit di Genova, di una barcata di milioni mentre la ricerca nel resto d’Italia faceva la fame: va detto che il nostro ha prodotto molta ricerca, pure troppa, firmando per anni oltre un articolo scientifico a settimana… Dice: vabbè, ma dipende dalla squadra. E chi sarà il capo di gabinetto di Cingolani? Roberto Cerreto, consigliere parlamentare, già capo di gabinetto di Maria Elena Boschi al ministero delle Riforme (a proposito di ambiente, quanto lo fece penare all’epoca l’emendamento per Tempa Rossa…) e poi all’ufficio legislativo di Palazzo Chigi quando Boschi era sottosegretaria di Paolo Gentiloni. Vili questioni di nomi, vecchi tic giornalistici sugli sconti di potere, estremismo come malattia infantile eccetera: contano le idee, è l’idea che traccia il solco e dentro il grillino ci pianta un fiore. “Mettiamo dei fiori nei nostri bazooka”, ha scritto il Garante. L’acqua poi ce la mette Renzi, tranquillo.

Il Papa di strada non parla da prete

Ciò che preoccupava mons. Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, già nel 1999, parlando all’Associazione cristiana degli imprenditori, era quello che lui definiva “un processo di svuotamento delle parole (parole senza un proprio peso, parole che non si fanno carne). Si svuotano di contenuto, quindi Cristo non vi entra come persona, come idea. C’è un’inflazione di parole. Viviamo in una cultura nominalista. La parola ha perso peso, è cava. È priva di sostegno, priva della ‘scintilla’ che la rende viva e che precisamente consiste nel silenzio”. (…)

Bergoglio è un grande comunicatore. Lo è non perché adotti strategie specifiche, ma perché si sente libero di essere e di comunicarsi. Il suo messaggio è dunque capace di toccare le persone in modo immediato, diretto, intuitivo. In particolare, la sua capacità comunicativa è radicata in un vissuto pastorale e in una torsione di corpo e di parola. Torsione del corpo: la sua autorità non si esprime mai in maniera statuaria, ma perfino la sua propria corporeità si sbilancia sull’interlocutore. A volte sembra addirittura che perda l’equilibrio. Torsione del linguaggio: il Papa ama usare un vocabolario di verbi, ma anche di immagini indimenticabili e di neologismi. Anche il linguaggio perde l’equilibrio della formalità. A volte Francesco usa pronunce inconsuete di parole italiane ma torte in forme dialettali che lui tira fuori dalla memoria dei suoi avi, la nonna soprattutto. In una parola: realizza una comunicazione autentica, disinvolta ed efficace.

Il suo linguaggio è radicalmente “orale” perché radicalmente pastorale. Anche la riflessione scritta è la formalizzazione di un testo che è pensato dentro una interlocuzione. Ecco perché il Papa è sempre dentro l’evento comunicativo, lo crea e lo sviluppa dall’interno: non è l’attore di una parte scritta o di un discorso scritto. Dunque, più che “comunicare”, papa Francesco crea “eventi comunicativi”, ai quali si può partecipare attivamente. A questo proposito notiamo una cosa: papa Francesco e Giovanni Paolo II sono due grandi figure di comunicatori, ma per motivi opposti, in un certo senso. Giovanni Paolo II, cultore della densità della parola, e della parola poetica, modellava il gesto al ritmo della parola. Era la parola che faceva fiorire il gesto e il ritmo. Per Francesco è il contrario: è il gesto che sprigiona la parola e la plasma.

C’è dunque una oralità radicale della parola di Bergoglio: la lettera, la corrispondenza, la parola scritta per essere cercata deve portare con sé le radici dell’oralità. E questa oralità è spesso materna, misericordiosa. Per papa Francesco il predicatore, in modo particolare, è una madre, deve usare un linguaggio “materno”, cioè quello che abbia il sapore originario della “lingua madre”, semplice, dal latino sine plica. La semplicità riguarda il linguaggio che deve essere ben comprensibile per non correre il rischio di essere un parlare a vuoto. Come si fa ad adattarsi al linguaggio degli altri per poter arrivare ad essi con la Parola di Dio? Risponde il Papa nella Evangelii gaudium: “Si deve ascoltare molto, bisogna condividere la vita della gente e prestarvi volentieri attenzione” (n. 158). Il linguaggio del Papa è molto semplice, immediato, comprensibile da chiunque. Questa abilità viene a Francesco dalla sua vita a costante contatto con la gente.

Francesco parla il linguaggio della vita e della fede, che è ovviamente fraintendibile poiché non procede per rigide argomentazioni logico-formali. Non intende stilare comunicati stampa o dare lezioni; vuole aprire un dialogo. Chi lo accusa di ambiguità non ha capito il terreno esistenziale ed empirico da cui muove il suo discorso. È sulla relazione diretta, autentica e priva di asimmetrie che vive l’incisività e la novità della sua trasmissione del messaggio. In questo senso è un linguaggio radicalmente pastorale. Ma è proprio questa pastoralità che gli conferisce vibrazione poetica. Il linguaggio bergogliano è ricchissimo in metafore, proverbi, idiomi, di neologismi e figure retoriche che vengono non dal culto della parola elegante, ma al contrario dal gergo, dal porteño, dal parlato di strada assorbito dalla quotidianità o dal rapporto pastorale con i fedeli.

Francesco – così come lo è stato Roland Barthes, grande studioso del linguaggio ignaziano degli Esercizi spirituali – sa che dire l’amore, anche l’amore di Dio, significa affrontare il guazzabuglio del linguaggio: quella zona confusionale in cui il linguaggio è insieme troppo e troppo poco, eccessivo e povero. Anche quelli di Francesco, a loro modo, sono “frammenti di un discorso amoroso”. È il linguaggio, insieme poetico e popolare, dei Profeti dell’Antico Testamento.

Sarebbe un tragico errore credere che il linguaggio semplice di Francesco sia frutto di una certa ingenuità. In realtà dobbiamo qui ricordare che papa Francesco ha insegnato letteratura: e non solamente la sua storia, ma anche scrittura creativa. Bergoglio ha amato molti poeti e scrittori: da Borges a Hölderlin, da Marechal a Manzoni, da Bloy a Pemán… Sono autori dai quali trae citazioni nascoste che appaiono qua e là nei suoi discorsi: mai come citazioni dotte ma come parti spontanee del suo dire, metabolizzate per processo interiore. Ma è proprio il gusto della parola primigenia, colta ancora con le sue radici che affondano nel terreno del vissuto, che lo spinge a essere attento alla parola che emerge dal vissuto e a riproporla mimeticamente. In fondo qui c’è una sfida al linguaggio teologico: pure esso rischia di finire per essere influenzato dal “paradigma tecnocratico”. Il suo eccessivo tecnicismo confina pure col burocratico. Per cui a volte il Vangelo è predicato con linguaggio “da prete”. Niente di più lontano da quel che Bergoglio vuole realizzare. Il suo obiettivo è la liberazione dell’energia propria del logos evangelico. Non solo: il linguaggio teologico rischia di diventare un prodotto della debolezza del logos occidentale, per cui la ricerca di un linguaggio che dia ragione della razionalità della fede, alla fine rischia di condurre lontano rispetto alla questione del reale futuro della fede e del suo compito di annuncio kerygmatico. Per questo tradurre Bergoglio è difficilissimo, più di quanto ingenuamente si possa pensare. Più che della grammatica, la prosa di Bergoglio ha bisogno di un’analisi poetica e linguistica.

In fondo, dunque, la predicazione bergogliana, a ben vedere, si interroga sull’orizzonte stesso della possibilità della comunicazione del cristianesimo. Questo è il suo vero nodo critico. (…)

 

Francesco va in Iraq: accoglienza a suon di missili e di attentati

L’appuntamento più importante sarà l’incontro con il grande ayatollah Sayyid Ali Al-Husayni Al Sistani, la massima autorità sciita dell’Iraq, che si svolgerà a Najaf. Sarà il culmine della fitta agenda del viaggio di Papa Francesco in Iraq, dal 5 all’8 marzo prossimi, confermato nonostante il lockdown deciso dalle autorità del Paese arabo per contrastare la pandemia. “È mio desiderio – ha confidato Bergoglio ai membri del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede – riprendere a breve i viaggi apostolici, cominciando con quello in Iraq, previsto nel marzo prossimo”.

Aggiungendo che “essi sono spesso l’occasione propizia per approfondire, in spirito di condivisione e di dialogo, il rapporto tra religioni diverse. Nel nostro tempo, il dialogo interreligioso è una componente importante nell’incontro fra popoli e culture. Quando è inteso non come rinuncia alla propria identità, ma come occasione di maggiore conoscenza e arricchimento reciproco, esso costituisce un’opportunità per i leader religiosi e per i fedeli delle varie confessioni e può sostenere l’opera dei leader politici nella loro responsabilità di edificare il bene comune”.

Il faccia a faccia con il con il grande ayatollah sarà per il Papa l’occasione per ribadire la dichiarazione sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune firmata da Francesco ad Abu Dhabi, il 4 febbraio 2019, insieme al grande imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb, la massima autorità dell’islam sunnita. Documento molto apprezzato dall’assemblea generale delle Nazioni Unite che, nel dicembre scorso, ha dichiarato all’unanimità il 4 febbraio Giornata internazionale della fratellanza umana. In quella dichiarazione, infatti, i due leader religiosi condannano “il terrorismo esecrabile che minaccia la sicurezza delle persone, sia in Oriente che in Occidente, sia a Nord che a Sud, spargendo panico, terrore e pessimismo” e che “non è dovuto alla religione, anche se i terroristi la strumentalizzano”. E sottolineano che “il concetto di cittadinanza si basa sull’eguaglianza dei diritti e dei doveri sotto la cui ombra tutti godono della giustizia. Per questo è necessario impegnarsi per stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze, che porta con sé i semi del sentirsi isolati e dell’inferiorità; esso prepara il terreno alle ostilità e alla discordia e sottrae le conquiste e i diritti religiosi e civili di alcuni cittadini discriminandoli”. Affermazioni che il Papa ha ripreso nella sua ultima enciclica sociale, Fratelli tutti, e che saranno al centro dei sette discorsi che pronuncerà in Iraq. Un Paese non solo ancora profondamente segnato dall’estremismo islamico, come testimoniano i recenti attentati. Attentati che mirano a cancellare la visita di Papa Francesco, secondo l’alto religioso sciita iracheno e leader del Movimento Sadrista, Muqtada al-Sadr, che ritiene che le recenti violenze in tutto il Paese, compreso l’attacco missilistico di lunedì a Erbil o le operazioni militari turche ai confini iracheni, così come le tensioni a Sinjar e la violenza nelle province meridionali dell’Iraq siano tutti tentativi di rimandare, almeno, la visita papale. Per questo, ha detto Sadr, il governo iracheno è ora tenuto ad affrontare la situazione con “cautela e saggezza”. Ma Bergoglio si propone di attenuare anche le pressioni dell’Iran che sarà uno dei temi principali che affronterà con il grande ayatollah. Francesco lo ha ricordato nel suo messaggio Urbi et Orbi di Natale: “Volgiamo lo sguardo ai troppi bambini che in tutto il mondo, specialmente in Siria, in Iraq e nello Yemen, pagano ancora l’alto prezzo della guerra”. Bergoglio ne parlerà con il primo ministro iracheno, Mustafa Al Kadhimi, che lo accoglierà all’aeroporto di Baghdad e con il presidente Barham Salih.

Quest’ultimo è stato ricevuto due volte in Vaticano, nel 2018 e nel 2020, e il Papa gli aveva confermato la sua volontà di visitare il Paese. Viaggio poi rimandato a causa della pandemia e che già San Giovanni Paolo II avrebbe voluto compiere nel 1999 come prima tappa del suo pellegrinaggio giubilare nella terra di Abramo, cancellato per l’opposizione di Saddam Hussein. Il motto scelto per il viaggio sintetizza le aspirazioni e i sogni di un popolo vessato dalle guerre e dilaniato dagli attentati terroristici: “Siete tutti fratelli”. “Un pensiero insistente – ha confidato Bergoglio – mi accompagna pensando all’Iraq, dove ho la volontà di andare, perché possa guardare avanti attraverso la pacifica e condivisa partecipazione alla costruzione del bene comune di tutte le componenti anche religiose della società, e non ricada in tensioni che vengono dai mai sopiti conflitti delle potenze regionali”. Oltre Baghdad e Najaf, il Papa visiterà Ur, Erbil, Mosul e Qaraqosh. A Ur dei caldei, la terra di Abramo, si svolgerà un incontro di tutte le religioni presenti in Iraq. A Mosul, città della quale sono originari la maggioranza dei cristiani della nazione, il Papa pregherà per le vittime delle violenze dell’occupazione dello Stato Islamico. Da questa terra sono fuggiti più di 120 mila cristiani in una sola notte per non essere uccisi. A Qaraqosh, Francesco porterà la solidarietà della Chiesa a chi si china sulle sofferenze degli altri. Da questo piccolo villaggio cristiano della Piana di Ninive, infatti, arriva l’aiuto ai cristiani sfollati affinché possano tornare nelle loro terre.

Il Kosovo punta su Kurti, “sovranista” ma di sinistra

Il Kosovo ieri ha festeggiato insieme passato e futuro: fuochi d’artificio per l’anniversario dell’indipendenza ottenuta nel 2008 e anche per la vittoria dell’uomo che si è presentato come unico adatto alla missione impossibile di salvare lo Stato più povero d’Europa, il nuovo premier Albin Kurti. Forse ha davvero ragione il vincitore delle urne: le ultime non sono state elezioni parlamentari, ma “un referendum su giustizia e occupazione, per la fine della corruzione e razzia dello Stato. È qualcosa di mai visto dopo la guerra”. Uomo del presente tra leader del passato che hanno dominato la scena finora – molti ex comandanti dell’Uck, Esercito di liberazione del Kosovo, oggi sono all’Aja in attesa di giudizio per i crimini commessi durante la guerra –, Kurti viene chiamato da alcuni Che Guevara, da altri Robespierre ed è il leader di VV Vetvendosje, il movimento di “autodeterminazione”, un gruppo nel cui ventre si agitano anime moderate e più robuste ali di destra, frange violente, xenofobe e anti-serbe. L’ultranazionalista Kurti ha saputo stanare da rassegnazione e riserbo anche i più giovani. Con il sogno della “Grande Albania” mai rinnegato, ha ripetuto solo due parole in campagna elettorale: “Giustizia” e “lavoro”, promesse che ha rinnovato al suo popolo anche dopo la vittoria, giurando che “non sarà una priorità il dialogo con Belgrado”, che non ha mai riconosciuto l’indipendenza del Kosovo proprio come le sue nazioni alleate, tra le quali ci sono Russia e Cina.

Nessuno sforzo di coesistenza pacifica o miglioramento delle condizioni di vita della minoranza slava che vive ancora nel Paese: “Noi abbiamo liberato il Kosovo dalla Serbia, ora la Serbia deve liberarsi del Kosovo”, ha detto il radicale con un lungo curriculum di arresti alle spalle. Sanno tutti che il ragazzo nato nel 1975 in un villaggio albanese in Jugoslavia, per opporsi agli uomini di Milosevic, ha passato due anni nelle prigioni serbe. Per una riuscita operazione di memoria selettiva, si ricordano meno le condanne penali a suo carico quando ha assaltato nel 2016, insieme ad altre 80 persone, il Parlamento di Pristina per bloccare l’approvazione degli accordi con Belgrado, quando a mediare c’era l’Unione europea. Con un certo grado di realismo politico e uno molto più alto di emotività, Kurti ha giurato ai kosovari di risolvere definitivamente problemi che sono risultati insanabili a chi l’ha preceduto.

Cosa farà nelle prossime settimane è difficile da prevedere: con il 48% delle preferenze, ottenuta una vittoria che non ha margini di incertezza ma gli assicura solo una maggioranza relativa, dovrà accettare alleanze con la Lega democratica, Ldk, del premier uscente Avdullah Hoti, che ha ottenuto il 14% dei voti, o con l’Aak, Alleanza per il futuro del Kosovo, di un altro ex comandante dell’Uck, Ramush Haradinaj, che ha raggiunto l’8%, o con il Pdk, Partito democratico del Kosovo, che alle ultime tornate si è assicurato il 18% dei voti, ma il cui leader è l’ex presidente Hashim Thaci, dimissionario in attesa di giudizio all’Aja. Ha preso il posto di Thaci l’avvocata 38enne alleata di Kurti, Vjosa Osmani.

La quota di seggi destinata alle minoranze, obbligatoria in base alla Costituzione, è andata tutta alla Srpska Lista, votata dai serbi che a migliaia ancora oggi vivono trincerati, in condizioni disastrose, nelle enclavi filospinate nate dopo la fine della guerra e di cui nessuno parla davvero più, né a Pristina né a Belgrado. Nell’ultima polveriera balcanica dilaniata dalla corruzione, ferita più di altri dall’emergenza Covid-19 e con un’economia in piena recessione, Kurti ha promesso crescita, benessere e occupazione.

Lo attenderanno al varco quanti per lui si sono sgolati e spellati le mani ai comizi mentre ripeteva che avrebbe messo fine al potere di quell’élite, prima militare e poi politica, che ha razziato lo Stato fin dal primo giorno della sua indipendenza.

Navalny: l’Ue si sbraccia, Mosca ride

La Corte europea dei diritti del- l’uomo ha chiesto il rilascio immediato dell’attivista politico russo Alexej Navalny che sta scontando due anni e mezzo di reclusione per aver violato la libertà vigilata. Mosca torna a sfidare l’Europa e definisce “impossibile” il rilascio “immediato” dell’attivista Alexej Navalny come richiesto dalla Corte europea dei diritti umani. A nulla è servita quella che Olga Mikhailova – la legale dell’oppositore che sta scontando due anni e mezzo di carcere per aver violato la libertà vigilata volando a Berlino per curarsi dall’avvelenamento da gas nervino –, definisce una “decisione senza precedenti”. “La sentenza – ha tuonato il ministro della Giustizia russo Konstantin Chuychenko – è una palese interferenza nel potere giudiziario di uno Stato sovrano. In secondo luogo, questa richiesta è infondata e illegale, perché non contiene un solo fatto, una sola norma giuridica che permetta alla Corte di emettere tale sentenza”, ha spiegato il ministro. “In terzo luogo – ha aggiunto – è intrinsecamente impraticabile perché, secondo la legge russa, non ci sono motivi legali per il rilascio di questa persona dalla detenzione”. Dunque Mosca non intende ottemperare alla sentenza della Cedu, come previsto nell’articolo 39 del suo statuto – dato che la Russia fa parte del Consiglio d’Europa. A salvare Mosca potrebbe essere però proprio la recente riforma della Costituzione voluta dal presidente Vladimir Putin, che prevede che la Corte Suprema abbia il potere di respingere le disposizioni di diritto internazionale se giudicate incompatibili con la legislazione interna. Così, paradossalmente, proprio il caso del rivale di Putin potrebbe diventare la prima applicazione pratica del “firewall” giudiziario voluto dallo Zar. “La richiesta della Cedu poggia su questioni politiche, non su quelle legali”, ha commentato il capo della commissione Esteri della Duma, Leonid Slutsky. “Gli oppositori della Russia stanno usando sempre più la Corte di Strasburgo come strumento di pressione e di politicizzazione”, ha aggiunto. La soluzione potrebbe arrivare dal vertice Ue dei capi di governo che si terrà a marzo: qui si deciderà se varare le nuovi sanzioni contro Mosca annunciate da più paesi europei nelle ultime settimane, soprattutto dopo la recrudescenza degli attacchi del Cremlino seguiti alla visita dell’Alto Rappresentante dell’Ue, Josep Borrell. Il Cremlino, per l’ennesima volta, ha ribadito di sperare che la volontà di proseguire sulla strada del dialogo prevalga, pur dicendosi pronto a “qualsiasi” scenario. Putin intanto punta alle elezioni politiche di settembre, in vista delle quali ha già dato mandato ai gruppi politici della Duma di tenere la barra dritta: “Non possiamo permetterci – ha chiarito il presidente – che la scelta del popolo subisca interferenze dall’estero, non possiamo permetterci alcun colpo alla sovranità della Russia”.