“Rap, ansia e solite ‘Bugie’. E ora ho pure una lavatrice”

“Da quando da bambino ho capito che potevo decidere cosa fare ma non cosa volere, non riesco nemmeno a contare le volte che ho pensato di farla finita, pur di non vivere in un mondo come questo”. Alessandro Vanetti aka Massimo Pericolo, rapper ventottenne che è passato dal carcere a un album tra i primi posti in classifica nel giro di 5 anni, ha scritto così, nel suo ultimo post su Instagram.

E lo ha scritto per raccontare che sta uscendo il suo nuovo singolo, “Bugie”, con la cifra che gli riesce meglio: quella della verità, nuda.

In che senso hai pensato spesso di farla finita?

Nel senso di “letteralmente finita”.

Fin da piccolo?

Fin da adolescente, da quando ho iniziato a confrontarmi con le mie insicurezze. C’entrano i problemi con i miei genitori, ma anche la predisposizione in famiglia. Mia nonna soffre di depressione, ne soffro anche io ed è normale quando stai così male pensare di mettere fine a questa sofferenza.

A proposito di “Bugie”, la prima bugia che ti sei raccontato?

Quella di credere in Dio, che mi ha inculcato la mia famiglia, soprattutto i nonni. È una bugia che ho portato avanti fino ai 16 anni circa, poi sono diventato ateo.

Quindi hai fatto comunione e cresima.

No, solo il battesimo. Nessuno mi ha regalato l’oro, ma me lo sono comprato io adesso.

Nel 2104 sei stato arrestato, “Scialla semper” è il nome dell’operazione antidroga che ti ha portato in carcere per spaccio (300 grammi di erba, ndr) con altre 28 persone. Ed è il nome che hai dato al tuo album, “Scialla semper” appunto, che nel 2019 ha scalato le classifiche. Va detto che il nome dell’operazione era molto bello, poteva andarti peggio.

Visti i gusti che di solito hanno nel dare i nomi a quelle operazioni in effetti sì, è andata bene.

Cosa hai fatto in quei 4 mesi in carcere?

Ho imparato a cucinare, mi sono allenato, ho imparato a giocare a scopa e ho letto 50/60 libri tra carcere e domiciliari.

Hai detto che “Cosa volevano insegnarmi? Baby, dopo il gabbio, quello che c’ho in più è soltanto un paio d’anni”. Cosa fa più orrore del carcere?

Le strutture, tanto per cominciare. Le condizioni igieniche, la convivenza in spazi piccoli. Allo stato interessa solo che tu stia rinchiuso, non importa se in una specie di zoo.

Ho visto la tua foto segnaletica, tra quelle di altri arrestati quel giorno. Qualcuno guarda in basso, altri sembrano spaventati. Mi ha colpito il modo in cui tu guardi dritto davanti a te. Cosa pensavi?

Che l’unica cosa che potevo tenermi in quel momento era la dignità.

La riguardi quella foto?

Sì. Ho ancora la cartelletta con gli atti del processo, i ritagli di giornale, ogni tanto mi rileggo le carte.

Perché?

Per rileggere le parole di chi mi ha descritto come un criminale, di chi ha parlato di mia pericolosità sociale, senza sapere neppure chi fossi. Ero uno scarto, una pratica da chiudere il più in fretta possibile.

In una tua intervista ho letto che hai tre telefoni. Perché?

Li cambio perché li rompo.

Ora che ci penso è una cosa un po’ da spacciatore.

Vabbè, lo spacciatore è sempre un lavoro da pubbliche relazioni, anche essere famosi lo è. (ride)

Tornando seri: vai ancora dalla psicologa?

Non più.

È una buona notizia.

No, perché ne ho bisogno.

In cosa ti ha aiutato?

Quando sono depresso lei mi dà dei compiti pratici, tipo andare in lavanderia a ritirare i vestiti puliti, perché quando stai male non riesci ad alzarti per fare anche le cose più semplici.

Quindi ora come va?

Va che mi sono comprato una lavatrice.

Seriamente, la depressione come va?

Ci sono ricadute brevi, ma è un buon periodo. Ora sono più ansioso che depresso, perché sento che ci sono molte aspettative su di me col nuovo disco.

L’ansia è più gestibile?

Sì, l’ansia la gestisci, la depressione ti governa.

I soldi che guadagni hanno messo a posto tante cose, immagino.

No, la verità è che li ho idealizzati per anni. Certo, aiutano, ma alla fine complicano anche i rapporti con le persone. Oggi ho i soldi per mettere la benzina per andare a trovare un amico, ma per guadagnarli devo lavorare di più e non posso andare a trovarlo, per dire.

Ti imbarazza rivedere gli amici di sempre da una posizione “privilegiata”?

Sì, magari mi vesto male per andare a trovare uno che conosco da sempre, mi preoccupo per lui, perché sono stato dall’altra parte e a me questa condizione ha fatto soffrire.

Ti sei fatto un regalo grosso?

La casa, la macchina con l’aria calda, un piumino per non prendere il raffreddore. E poi è cambiata la mia alimentazione, ho delle pentole, prima non avevo nemmeno i fornelli. Ho mangiato pasta al sugo e kebab per anni.

I tuoi testi sono duri, talvolta discutibili. Senti la responsabilità di quello che dici ai ragazzi giovani per cui sei un modello?

Io sento solo la responsabilità di essere onesto. L’onestà è il modello.

Nelle tue canzoni c’è poco amore.

No, c’è poco dell’innamoramento, perché è una fase in cui ci siamo io e lei, e basta. È la fine che si può condividere, che ho voglia di raccontare.

Insomma, ti serve sempre un problema per dare il meglio.

Può essere. Però l’intensità con cui vivo il disagio è anche quella con cui ho vissuto le cose belle, anche se sono state poche. E sono grato alla vita, per questo.

C’era una volta il tour: sci con la Marchesa e alle terme con Freud

Lo scrittore britannico Evelyn Waugh rievocava così suoi anni Venti del Novecento: “Si viaggiava perché ci veniva naturale. Sono contento di averlo fatto quando era un piacere”. Un passatempo ancora per pochi eletti. Ma almeno era un orizzonte plausibile, non chiuso a chiave come gli impianti sciistici la cui riapertura è stata di nuovo procrastinata. Il paradosso, il supplizio della mente è questo: oggi che potremmo farlo tutti a buon mercato, che il viaggiare è diventato democratico e popolare, il mondo è fermo e brama che i vaccini ci rispediscano in giro per le ferie o un weekend lungo. Solo l’estate scorsa ci ha concesso scampoli di new normalità, tra rimpianti e autodafé.

Non ci resta così che struggerci di reminiscenze, sfogliando album fotografici in jpg con selfie, ripensando ai nostri viaggi recenti che paiono lontanissimi. I capodanni, le fughe romantiche, i voli low cost, le crociere, i tropici, i resort di charme, gli chalet, i campeggi, i pullman organizzati, le pensioncine, i villaggi e i pacchetti turistici, le settimane bianche, gli assalti agli ombrelloni e alle città d’arte. Vacanze bloccate, l’unica costante in un tourbillon di varianti.

Quando si dice il progresso non rettilineo: un secolo fa, per una fetta della popolazione era normalissimo spostarsi per diletto. Un libro appena uscito, La moda della vacanza (Einaudi), scritto da Alessandro Martini e Maurizio Francesconi, ci ricatapulta in quell’epoca, raccontando la genesi e l’esplosione del viaggio moderno. Un’età dell’oro databile dal 1860 al 1939, in cui le élite europee, le sole a poterselo permettere, hanno lanciato canoni di gusto e tendenze vorticando da Parigi a New York, dal ristorante à la page all’imperdibile mostra o prima teatrale. Aristocratici e borghesi, cocottes e giocatori d’azzardo, teste coronate e spie, diplomatici e dandy. Un demi-monde smanioso e cosmopolita, in movimento geo-edonistico perpetuo.

Le nuove località turistiche divennero entità sovrannaturali e svelenite, ben diverse dallo scenario dickensiano della città industriale. Ecco le promenade e i giardini, i kursaal e le sale da ballo, i mega-casinò. I battesimi dei Grand Hotel internazionali, forniti di ogni comfort, tecnologia e lusso. I dépliant pubblicitari e le cartoline illustrate. Stilisti e architetti a briglia sciolta. Il trionfo delle stazioni termali, che cambiarono pelle, assumendo le sembianze di scintillanti città d’acque proto-globali. Dall’inglese Bath alla belga Spa, dove nel 1888 si tenne il Concours de beauté, la prima gara di bellezza della modernità. Dalla tedesca Baden-Baden, dove soggiornarono Victor Hugo e Fedor Dostoevskij, alla boema Marienbad, buen retiro di Goethe, Freud e Kafka. Senza dimenticare la francese Vichy, quartier generale alternativo di Napoleone III, o le 108 località termali censite nel 1894 dalla Guide des thermes et bains d’Italie.

In parallelo scoppiava la febbre delle stazioni balneari, nel Nord Europa (Brighton nel Regno Unito, Ostenda in Belgio) e poi sui lidi mediterranei. Il boom della Costa Azzurra. I costumi e i bagni in mare, che da eccentricità si trasformarono in usanza collettiva. La consacrazione della montagna, d’inverno oltre che d’estate, con l’avvento dello sci e dell’alpinismo. Il contatore svizzero schizzò dai 40 mila turisti del 1848 ai 4 milioni della vigilia della Grande Guerra. Le alte quote sfrondate di un côté spiritico millenario, gli alberghi, le seggiovie e le funivie sold-out. Il mito di St. Moritz, bazzicata da un’icona iconoclastica come la Marchesa Casati. La scoperta dell’esotismo: il Sol levante, la Terrasanta, le piramidi ora raggiungibili tranquillamente. Il culto dell’Orient Express: dalla Ville Lumière a Costantinopoli in meno di due settimane, il soffitto in cuoio di Cordova, le tende in velluto genovese. Ci salirono, tra i tanti, a parte re, regine e Agatha Christie, Josephine Baker, Coco Chanel ed Ernest Hemingway. Le “ottave meraviglie del mondo moderno”, i transatlantici come il Normandie.

Il viaggio nel viaggio moderno non poteva che concludersi alle porte della Seconda guerra mondiale. Dopo sarebbe arrivato il turismo a noi tuttora contemporaneo, quello di massa. E adesso tutti in smart travelling da casa. Ma questa è ancora un’altra storia, che speriamo finisca presto.

“Totò che vive due volte”: torna l’ultimo dei censurati

“Sì, è Totò che vive due volte. È un film che ritorna, ma confido nel- l’immaginario non sia mai morto”. È il 1988 quando Daniele Ciprì con il sodale Franco Maresco porta al Festival di Berlino l’opera seconda Totò che visse due volte: al ritorno, la censura si accanisce, per l’ultima volta, su un titolo nazionale. L’uno-due è micidiale: prima il divieto di uscire in sala, con l’accusa di “degradare la dignità del popolo siciliano, del nucleo italiano e dell’umanità”, poi la visione inibita ai minori di 18 anni, sicché pochissimi spettatori poterono fruire quella post-apocalisse stracciona e cristologica, scandalosa e moralissima, solo maschile e tutta angosciosa, che elevava a potenza autoriale l’esperienza di Cinico Tv e l’esordio al lungometraggio Lo zio di Brooklyn del duo siciliano.

Targato Cineteca di Bologna, il restauro in 4k di Totò che visse due volte conosce oggi il battesimo online, sulla piattaforma Il Cinema Ritrovato fuori sala: “Speriamo non succeda quel che è successo 33 anni fa, ne serbo un ricordo molto combattente, ma il film non lo potemmo vivere come avremmo voluto”.

Ciprì ne rievoca la genesi, l’ancoraggio “ossessivo ed evocativo al cinema che vedevamo, io e Franco, da ragazzi: la fantascienza anni Cinquanta, Pasolini, che risuona nella scelta di Bach”, e insieme “il mondo di Palermo: né barboni né macerie, piuttosto un futuro che non c’è”. Ne vennero le stimmate del cult e, passando per L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel e altro fantasy, “un racconto di verità” capace di figliare un genere inedito, “la fantacoscienza”.

Stracciandosi le vesti, gridando “orrore, orrore!”, i catoni tacciarono Totò di blasfemia: “Una cosa assurda, peraltro, molti preti, soprattutto in Toscana, ci difendevano, riconoscendo un’opera d’arte, e una riflessione sul male”. Il furore iconoclasta puntò quell’eterodossa Via Crucis, stigmatizzò quel Dio che non può salvarsi, e se ne uscì con un “tagliate qui, tagliate lì” irricevibile: “Peggio della censura, fu interdetto ai minori e dunque massacrato. Non incassò nulla, e ci perdemmo tutti, io, Franco, Andrea Occhipinti che distribuiva con la Key: vincemmo la causa, ma non fummo risarciti. E nemmeno riavemmo il finanziamento del ministero”. Le porte della storia del cinema, però, si spalancarono, e Ciprì rivendica orgoglioso la residenza: “Non l’avremo mai più un Totò, oggi i film sembrano calchi fatti a tavolino. In Asia non è così, in Italia invece siamo prigionieri dei clichè: prima le nouvelle vague, ora l’action, domani chissà. Certo è che il cinema d’autore non esiste più”.

In procinto di restaurare, per la cineteca felsinea, i primi due Fantozzi di Luciano Salce, Ciprì indica i colpevoli dell’estinzione: “I produttori, io li condanno tutti. Non hanno più coraggio di investire, oggi accomodano le serie sulle piattaforme: non cercano di farsi seguire dal pubblico, lo seguono supinamente. Franco se ne sta a casa, io sto dentro il sistema, e lo rimprovero: che ne è del cinema che avevamo, di Fellini, Antonioni, dell’autorialità estrema? A proporre un Totò che visse due volte oggi ti riderebbero in faccia”.

Ma l’originale vive, e complice la pellicola nemmeno per l’ultima volta: “Vedetelo, al massimo ci risentiremo dire ‘ma questi mascalzoni che catechismo hanno fatto?’”.

 

Il “Settimo Senso” di Moana: diva seducente tra porno, politica e palcoscenico

Una donna esuberante, molto fuori dagli schemi dell’Italia bacchettona e pentapartitica: erotica, decisa, Moana Pozzi era una diva controcorrente, non solo per essere stata una nota star del cinema porno, ma anche per il suo stile di vita e il suo impegno pubblico e politico.

Di lei Ruggero Cappuccio ha sbozzato un ritratto impressionista per palcoscenico, più simile alla Maja desnuda di Francisco Goya che a una pin-up scosciata: a (s)vestirne i panni è invece Euridice Axen, prim’attrice protagonista di Settimo Senso, terzo spettacolo della rassegna Tutta Scena – Il teatro in camera da oggi disponibile in streaming su tvloft.it.

Nel monologo, Axen finge invero un dialogo immaginario tra uno scrittore e una donna misteriosa: Moana Pozzi, spregiudicata tanto a livello morale quanto intellettuale, capace di smascherare la pornografia per quello che è: finzione, recita, una commedia come un’altra. Seducente, flessuosa, a tratti alienante, Moana-Euridice inebria l’uomo, del tutto insicuro e spaesato, con discorsi sin politici e critiche alla politica, alla corruzione, all’arrivismo. Al cuore della pièce, un dilemma amletico attanaglia lo scrittore: corteggiare l’ammiccante diva o tradirla con uno scoop giornalistico che svela la sua morte fittizia? Di contro, la donna è decisa e maliziosa: ama flirtare col potere, dalle tresche con Craxi & C. a quelle con gli intellettuali; ama esporsi in pubblico, col corpo e pure con la sua Filosofia e il suo Partito dell’Amore. Oltre ai film hard, infatti, Pozzi è stata protagonista di Tribune elettorali e talk show televisivi quale portavoce di punta del partito: una vita, quindi, all’insegna dell’impegno sociale e del rapporto con la liberalizzazione sessuale, di cui Axen si fa portavoce sul palco.

Ma TvLoft non si ferma qui: la rassegna di teatro online ha acquisito nuovi spettacoli, oltre agli otto già presenti, a partire dal 1° aprile. Le new entry sono Pagine Rossi di e con Riccardo Rossi; Hanno tutti ragione di Paolo Sorrentino con Iaia Forte (disponibile dall’8 aprile); Fuggi la terra e l’onde. Storie di mare, di porti, di speranza, scritto e interpretato da Lino Guanciale (dal 15 aprile). Il prossimo giovedì, invece, debutterà sulla piattaforma l’ironico Ifigenia in Cardiff di Gary Owen con Roberta Caronia.

Li chiamavano “matti”… Ma erano solo poveracci

Bastava una semplice illusione o delusione, o essere di intralcio a qualche affare di poco conto, o a un rimescolamento familiare. Sembrare troppo vivaci o introspettivi; avere un appetito da lupi o non averne affatto. E se eri povero in canna, cresciuto in un brefotrofio oppure figlio di genitori per cui costituivi solo un peso, il tuo destino era segnato in partenza. Che ti ci recassi con le tue gambe, o con un ricovero coatto, finivi in manicomio e non ne uscivi più.

Una volta dentro, si spalancava l’inferno. Camicie di forza, corpetti, gabbie, cocktail di psicofarmaci. E se dicevi una parola fuori posto, subivi “la maschera”: una tela intorno alla testa, bagnata con l’acqua, che diventava impermeabile all’aria generando un soffocamento transitorio. Una “cura” adottata anche in Vietnam. E poi gli elettroshock. Racconta Francesco B, ricoverato la prima volta nel 1948 senza una ragione precisa: “Non era bello, faceva paura, gridavo come un orso. Si faceva da svegli, si perdevano i sensi e ci si addormentava. Ci si svegliava con un panno in bocca”.

Ma arrivò Franco Basaglia a picconare quest’orribile istituzione totale, rimasta ferma all’800. I manicomi si aprirono al mondo esterno: i degenti uscivano, lavoravano retribuiti, partecipavano ad assemblee. Nella primavera del 1968 Anna Maria Bruzzone, insegnante e ricercatrice scomparsa nel 2015, visse due mesi nello psichiatrico di Gorizia, dove da qualche anno Basaglia e la sua équipe di medici e infermieri portavano avanti la loro sperimentazione e battaglia. Trascorse decine di ore con gli ospiti: ne trascrisse ricordi, dolori, cicatrici e aneliti. Senza montaggi o filtri. E nove anni più tardi replicò con l’analoga struttura di Arezzo, anch’essa diretta da un basagliano.

Di questo duplice rendez-vous con la grande storia, in uno dei suoi incroci epocali, ci dà mirabilmente conto Ci chiamavano matti. Voci dal manicomio, riedito dal Saggiatore in versione moltiplicata rispetto all’originaria del 1979.

Un’opera ribollente di un’umanità irriducibile, che dà libertà e dignità d’espressione postuma agli ex dannati del sottosuolo della coscienza collettiva nazionale. Li fa rinascere dopo oltre un secolo di morte sociale e civile. C’è Albino B., classe 1907: “Se fossi stato ricco, certo non sarei venuto all’ospedale psichiatrico”. C’è Maria Pia Z., rinchiusa con la gemella (per “nevrastenia”) dai 14 anni: “Le suore del collegio ci portarono qui, non eravamo malate. I medici mi lascerebbero andare a casa, se sapessi dove andare”. Perché se ci fosse una casa in cui tornare “sparirebbe tutto il dolore”, assicura Valburga C., detenuta in attesa di nessun giudizio dal 1943. Perché “l’uomo in un caos diventa un caos, e fatto vivere come una bestia diventa bestia”.

“Qui fa un freddo bojazzo, salutami i taliàn: tutti porci”

Degli anni della guerra del sottotenente del 5° Reggimento Alpini Carlo Emilio Gadda conoscevamo finora il giornale che egli tenne dal 1915 fino al 1917, quando venne fatto prigioniero a Caporetto e portato in un campo in Germania, e alcune lettere alla madre e alla sorella Clara.

Adelphi pubblica oggi le lettere inedite tra Gadda e i familiari, con cartoline, disegni e fotografie dello scrittore, allora solo studente d’ingegneria: La guerra di Gadda. Lettere e immagini (1915-1919), una raccolta che testimonia di una parabola biografica da cui scaturirà la scrittura più fulgida del Novecento.

È in questo periodo che si saldano e si sfaldano i suoi legami più cari e si cristallizzano le sue più feroci ossessioni. Le lettere sono un fiume che passando sugli eccidi della Prima Guerra Mondiale raccoglie i sedimenti della sua esistenza sofferta e feconda: l’insofferenza per il prossimo, il rapporto ambivalente con la madre, l’incapacità di legare coi compagni (a parte Bonaventura Tecchi, con lui durante la prigionia), la ricerca di un ordine nei rovesci di un caso falcidiante, il sentimento di esser stati traditi, la perdita irreversibile di una “inesistita giovinezza”.

Nella privazione dei ricoveri di fortuna, Gadda è ironico: “Qui comincia a fare un freddo bojazzo – Tuttavia io non vacillo: abbiamo fatto una baracca ufficiali veramente chic. Salutami tutti i taliàn che ti capitano a tiro di piede in cul, e digli che sono una massa di elefanti zoppi”, scrive al fratello Enrico, anch’egli soldato. Si perita di non creare “terribili ansietà” alla madre: “Sto sempre benissimo e di ottimo umore”; “Se tu sapessi, cara mamma, come sono allegro, pacifico, attivo”. Prega Enrico, suo alter ego esuberante e vitale, di salvaguardarsi e di non fare spese inutili. Sprazzi di tenerezza in una vita che sta volgendo al dolore: “Carissimo Enricotto, mi congratulo della tua prova di brevetto”; “Carissima mamma, ricorre oggi il mio ventitreesimo compleanno”. Con la madre impreca contro l’incuria e il pressapochismo degli italiani, questa “razza di maiali, di porci”: “Quand’è che i miei luridi compatrioti di tutte le classi, di tutti i ceti, impareranno a tenere ordinato il proprio tavolino da lavoro?”.

Il signorino in divisa è un figlio della borghesia. Si è arruolato perché la guerra, “necessaria e santa”, gli pare un’occasione di riscatto esistenziale e un’esperienza estetica; essa è l’alveo della gloria che lo tirerà fuori da una vita di shocks, al plurale, fame e sacrifici (il padre li aveva fatti fallire con l’acquisto di una villa in Brianza). Crede nella Patria, “la mia terra divina”.

La buona borghesia lombarda, nelle forme di famiglie-alveari (poi satireggiate in San Giorgio in casa Brocchi e nell’Adalgisa), provvede alla sopravvivenza dei due fratelli, inviando scarpe, calze, una rivoltella, guanti, dolci.

Progressivamente monta in lui la delusione: la guerra è miseria, improvvisazione. A Caporetto, insieme all’onore patrio crolla l’Ottocento, con le sue illusioni di progresso. Si palesa “la deficienza del mondo” che sarà uno dei fulcri della filosofia gaddiana, massimamente espressa ne La cognizione del dolore.

Infine, lo shock definitivo: la morte del fratello Enrico, precipitato col suo aereo sopra ad Asiago; Carlo Emilio la apprende dalla madre che gli apre la porta, tornando in congedo nel 1919. Scrive nel diario: “La tragica orribile vita. Non voglio più scrivere; ricordo troppo. Automatismo esteriore e senso della mia stessa morte: speriamo passi presto tutta la vita”.

Insieme ai ricordi del male patito fermenta in lui la varietà della lingua italiana con le sue tipicità dialettali, verso cui, come scrisse Tecchi, Gadda “era tutt’orecchi”: “Era attento alle parole, a quelle che volavano nell’aria della baracca”.

Scrive da Firenze alla madre: “Mamma adorata, dividendo il mio pensiero tra te, Clara e il mio povero morto che amavo più di me stesso, devo far tutto come un automa”. Si edifica così, attraverso la cognizione fisica e mentale del dolore, quella geometria tirannica, angosciosa, luminosa, proveniente da un teatro delle esattezze e degli incastri, che si ritroverà nella materia inaudita dei capolavori di Gadda.

Casanova e altri libertini. Venezia, Illuministi ed eros

Mentre a Parigi Denis Diderot alla scrivania del suo studio, abbigliato con una robe de chambre blu in raso e sulla poltrona di legno traforato – così come ci appare in una delle immagini feticcio, il ritratto di Louis-Michel van Loo (1767) – compila e rivede la stesura della lunga Encyclopédie senza però mai trascurare di presenziare al salotto di Mme Geoffrin insieme con Voltaire o di frequentare le sue amanti Sophie Vollant o Madeleine de Pulsieux, anche a Venezia, oltre al teatro rivoluzionario di Goldoni e i poemetti satirici di Parini, oltre alla pittura di Tiepolo e la musica di Antonio Vivaldi, succede dell’altro.

Un poeta misconosciuto ci aiuta a capire cosa accade dentro agli orpellosi palazzi che svettano dal Canal Grande. “Fottemo pur, fottemo allegramente,/ Che del fotter no ghè cosa più bona,/ Troveme un liogo meggio della Mona,/ Nol ghè per Dio, che diga pur la zente”. È l’ode Gnente meggio del fottere di Giorgio Baffo (1694-1768), della famiglia patrizia dei Querini, che per primo raccontò che dietro “la Serenissima” eternata da Canaletto, dietro il luogo che in Italia era tra i maggiori sodali di Parigi in fatto di Illuminismo, si celava una città che conosceva bene il piacere di vivere. Non a caso è proprio Le plaisir de vivre il titolo dell’esposizione dedicata alla vita e alla moda del Settecento veneziano (a cura di Mark Gregory D’Apuzzo, Massimo Medica e Chiara Squarcina) al Museo civico d’Arte industriale di Bologna. Un percorso espositivo in cui dipinti di ricevimenti e feste dialogano con i temi ritratti: consoles, servizi da tavola ma soprattutto abiti, calzature, cappelli che cavalieri e dame indossavano nei rituali della mondanità e del piacere a testimonianza dello spirito anche libertino della Venezia del XVIII secolo.

Tutto questo mondo, il poeta Baffo (che si firma come “patrizio veneto”) lo vede sfilare ai balli della famiglia Querini. Si racconta, per esempio, che durante una serata a Palazzo Foscarini a Donna Caterina Querini, mentre ballava con il re di Danimarca, le si spezzò un filo della collana e le perle rovinarono sul pavimento del salone. Nessuno si scompose, tutti continuarono a ballare, calpestandole e facendole scoppiettare. Ebbene, quella spensieratezza era la medesima che si respirava nella Repubblica di Venezia nel Settecento se nella stanza accanto o da dietro l’albero di un prato si sentiva un orgasmo. A quel ballo, possiamo immaginare che Caterina e le sue invitate indossassero una robe à la française (andrienne) verde e rosa o una in pékin beige a tinta unita ancora più luminosa come quelle in mostra, e che dopo se la tolsero per fare all’amore con un bel cavaliere che non fosse il marito.

Incurante degli stravolgimenti politici che imperversavano in Europa, nell’ultimo secolo che la vide Stato libero, Venezia continuava gaia a dare feste come vediamo nel dipinto Passatempi in villa: il minuetto (1763-64) di Gaetano Grezler, e sfoggiare il lusso delle sue donne. Diverse dalle floride e solenni figure di Tiziano e Paolo Cagliari, sono donne sulfuree e fascinose, che amavano con sfrontatezza la poesia, il corpo, il sesso – oggi diremmo “occasionale” – e la moda. Nel quadro La toilette della dama (1758) di Alessandro Longhi, vediamo una donzella aiutata dai suoi paggi maliziosi nell’intento di applicarsi un neo sul volto. Certo, tutte ammirano l’intelligenza di Mme de Staël, ma vogliono il neo come la scandalosa marchesa di Pompadour, favorita di Luigi XV. Anche gli uomini sono vanesi e amano i colori: frac di seta lucida ciclamino, redingote gialle, marsina di taffetà blu e, come accessori, il cappello rotondo (detto alla jochey) o un frustino (fouet). Casanova, per esempio, aveva una collezione sconfinata di redingote per tutte le occasioni. Nei salotti veneziani, dunque, si discute delle idee illuministe, soprattutto però, per dirla come Baffo, “si fotte”.

Questa esposizione bolognese conferma quanto il poeta erotico salvato dall’oblio un secolo dopo da Apollinaire scriveva nelle sue liriche, che cioè Venezia è “la città de’ piaceri”. E non solo per Casanova, che tra le sue amanti annovera anche una monaca, la ricca Marina Morosini del convento di Murano (la quale non rifiutò un ménage à trois con pure l’amante fisso, l’ambasciatore di Francia De Bernis). Anche il sepolcrale Ugo Foscolo scoprì il sesso giovanissimo grazie a Isabella Teotochi Albrizzi, regina dei salotti veneziani, che tra un amante e l’altro, ebbe il tempo di svezzare il poeta che la rievocherà ne Le ultime lettere di Jacopo Ortis. Persino il fascinoso e claudicante Lord Byron lascia l’Inghilterra, indignato dal perbenismo britannico che condanna la sua condotta libertina, e appaga le sue voglie tra le popolane di Venezia. E tra le amanti de “l’inglese pazzo” ve ne fu addirittura una, la panettiera Margherita Cogni (detta la Fornaretta), che si gettò in mare perché non sopportava di vederlo con tutte le altre conquiste.

Il rapper che si crede Che Guevara

“Nessuno mi toglierà questo, nemmeno Felipe VI, mostro la verità nei rimandi dei miei testi. Figli di Franco che condannano per essere franco, crescerà il seme della libertà che pianto”. Nell’ultimo video postato poco prima dell’arresto, avvenuto ieri, per apologia di terrorismo e ingiuria alla Corona, Pau Rivadulla Duró, al secolo Pablo Hasel, rapper, 33 anni, di Lleida, Catalogna, si prende l’ultima parola sui giudici che l’hanno condannato a nove mesi e un giorno di prigione. Ma soprattutto sulla politica corrotta, repressiva, serva di una Corona “che ha ridotto alla fame la Spagna” che per soddisfare i capricci di Juan Carlos ora non ha soldi per aiutare i poveri cristi. Da “Juan Carlos de Bobòn” a “Nì Felipe Sexto” a “A morte i Borboni”, l’invettiva di Hasel da dieci anni non ha mai risparmiato nessuno: reali, eredi di Franco, “il finto governo progressista di Pedro Sánchez e Pablo Iglesias”, passando per Rajoy, “braccio idiota della legge”, la destra ladrona e “la polizia nazionale che tortura persino davanti alle telecamere” e “Ada Colau che non chiamerà criminale Juan Carlos perché vende armi all’Arabia Saudita, o perché vive nel lusso sulle spalle della miseria, ma criminalizza lo sciopero”. Pablo immagina “una repubblica spagnola”, esaltando le gesta dei gruppi terroristici come Grapo, o l’Esercito rosso, Raf. Sessantasei tweet in tutto, postati dal 2014 al 2016, che Pablo riepiloga sul suo account e rivendica, come i testi delle sue canzoni, per i quali i giudici hanno applicato la sentenza, sospesa nel 2018, dopo la condanna a due anni e mezzo per aver aggredito un giornalista. Una decisione che ha suscitato molte polemiche nelle ultime settimane e non solo in Spagna e in Catalogna, regione impegnata nelle elezioni e alle prese con un’altra amnistia, quella dei leader separatisti, che Hasel appoggia. A schierarsi con Pablo – che per rendere più spettacolare il suo arresto si è trincerato con i suoi fan nell’Ateneo di Lleida – sono stati 200 artisti, tra cui il regista pluripremiato Pedro Almodóvar, l’attore e attivista Javier Bardem e il cantautore anarchico, Manuel Serrat. In un documento le firme più famose di Spagna hanno chiesto libertà per Hasel, perché il Paese “non scenda al livello della Turchia o del Marocco, che arrestano artisti per aver denunciato gli abusi dello Stato”. All’appello si è unito il partito catalano di Pablo Iglesias, quello della sindaca di Barcellona, Ada Colau, En Comù Podem che chiede l’amnistia per Pablo. D’altra parte, Iglesias stesso aveva avvisato una settimana fa che “la Spagna non è ancora un democrazia compiuta”. Tant’è che il governo rosso-viola ha promesso di rivedere i reati legati alla libertà d’espressione, in modo che quelli commessi in contesti artistici, culturali o intellettuali non siano puniti penalmente. Sempre che non sia “fumo negli occhi”, come canta Pablo.

Un documento inchioda Parigi: lasciò liberi i boia del Ruanda

È dal governo francese che arrivò l’ordine di lasciar fuggire alcuni responsabili del genocidio in Ruanda, in cui morirono 800 mila Tutsi. A riportarci al 1994 è Mediapart: il giornale online ha consultato un documento, “il tassello mancante di uno degli episodi più scuri della responsabilità francese nella tragedia ruandese”. Un telegramma “confidenziale” del ministero degli Esteri del 15 luglio ‘94, indirizzato all’allora ambasciatore francese in Ruanda, Yannick Gérard. Quel giorno, alcuni membri del governo Hutu, tra cui il presidente Théodore Sindikubwabo, si trovavano nella zona umanitaria controllata dall’esercito francese, alla frontiera con lo Zaire. Gérard aveva scritto al governo chiedendo “istruzioni chiare” per procedere al loro arresto: “Non abbiamo altra scelta che arrestarli o metterli ai domiciliari, in attesa che le istanze giudiziarie internazionali competenti si pronuncino sul loro caso”. Dal ministero, il cui responsabile era Alain Juppé, gli ordini furono altri: “Potete trasmettere alle autorità ruandesi il nostro desiderio che lascino la zona umanitaria. Potete utilizzare tutti i canali indiretti e in particolare i contatti africani senza esporvi direttamente”, c’è scritto sul telegramma firmato Bernard Emié, all’epoca consigliere di Juppé, oggi direttore generale dei servizi segreti esteri. Sindikubwabo, considerato uno dei mandanti del genocidio, è morto nel ‘98 senza rendere conto dei suoi crimini. È invece atteso oggi in tribunale Paul Rusesabagina (nella foto), l’eroe dell’“Hotel Rwanda” che, pur essendo di etnia Hutu, salvò la vita a più di mille Tutsi, nascondendoli nel suo albergo di Kigali. Rusesabagina, 66 anni, oppositore del regime di Paul Kagame, è stato arrestato il 31 agosto scorso in Ruanda in circostanze sospette. Il governo di Kigali lo accusa di cospirare contro Kagame. Deve rispondere di nove capi di accusa, tra cui finanziamento del terrorismo e omicidio. Ong internazionali chiedono la sua liberazione e lui nega il coinvolgimento in una serie di attentati di cui è accusato.

Museruola agli accademici: “È propaganda anti-russa”

Non solo oppositori politici e studenti ribelli: adesso in Russia sulle barricate contro il Cremlino ci sono anche storici, economisti, chimici e astrofisici. Si apre una nuova trincea a Mosca: gli uomini dietro gli scranni del governo Putin si schierano questa volta contro quelli che sono dietro cattedre e banchi. Insegnanti, professori e ricercatori protestano per la modifica alla legge federale sull’educazione che verrà emendata per arginare “la propaganda anti-russa” nel sistema scolastico e scientifico. Il progetto di legge presentato a novembre scorso verrà votato la settimana prossima alla Camera bassa della Duma, accompagnato da note che spiegano la necessità di una “contro-reazione alla diffusione di informazione illegale e propaganda anti-russa nell’ambiente scolastico”.

La modifica, se approvata dalle due Camere e in seguito firmata dal presidente, obbligherebbe insegnanti, professori, ricercatori a ottenere permessi preventivi e licenze su programmi, attività, dibattiti, pubblicazioni. Si danneggia così la libertà: quella di parola, quella accademica, di ricerca e di espressione. Alla rivista britannica Nature, testata scientifica che per prima ha lanciato l’allarme, l’economista russo Sergei Guriev, da anni a Parigi, ha spiegato che “politologi, sociologi e storici sono pericolosi per il regime, che escogita metodi per censurare selettivamente le critiche”. Secondo Sergei Popov, astronomo dell’Università di Mosca, la nuova legge garantirà il controllo su attività pubbliche di insegnamento e divulgazione condotte dagli scienziati al di fuori dei programmi educativi formali comprese conferenze, podcast e corsi on line su piattaforme digitali. Oltre 220 mila persone hanno firmato una petizione su Change.org per bloccare il regolamento restrittivo, mentre quasi duemila accademici hanno posto il loro nome in calce a una deklaracija collettiva di denuncia: “C’è un tentativo dello Stato di controllare la libertà di diffondere conoscenza, l’adozione della legge avrà un impatto estremamente negativo sullo sviluppo della cultura e della tecnologia nel nostro Paese, la divulgazione della scienza è nostro dovere professionale e civile, non abbiamo bisogno del permesso di nessuno, la stessa formulazione della questione è profondamente offensiva per noi”. Il Cremlino, tornato ripetutamente a criticare “l’interferenza straniera” nei suoi affari domestici per il caso dell’oppositore Navalny, subisce la stessa accusa di ingerenza dalla sua stessa comunità accademica.

“Non forniremo alcun testo preliminare di discorsi o presentazioni per il coordinamento con le autorità governative”, hanno chiosato gli scienziati chiedendo “il ritiro immediato di questo vergognoso disegno di legge”.

È una scelta “intollerabilmente repressiva” per astronomi e biologi, preoccupati dall’eventuale fine delle collaborazioni con istituti internazionali, partner necessari per ottenere pubblicazioni rilevanti per la comunità accademica mondiale. Che la collaborazione sia il motore del progresso scientifico lo sa anche Kirill Dmitriev, a capo del fondo di investimenti coinvolto nello sviluppo del vaccino Sputnik. Perfino la potente Accademia delle Scienze di Mosca, allarmata dall’eventuale limitazione di condivisione di informazioni, dati e scoperte con i colleghi stranieri, ha chiesto allo Stato russo di respingere l’emendamento. Molti sono già pronti alla disobbedienza. Se il Cremlino non dovesse dar ascolto nemmeno ai suoi luminari più illustri, nella dichiarazione degli accademici c’è già scritto ciò che succederà in futuro: “Continueremo a svolgere le attività educative, non richiederemo licenze anche se imposte dalla legge”.