Tokyo, le Olimpiadi dello scontento

Se gli otto milioni di Dei del pantheon shintoista (Kami) dessero una mano, l’impresa di svolgere davvero le Olimpiadi di Tokyo 2020 potrebbe essere portata a termine. Perché nonostante le fonti ufficiali dell’I.O.C., dalle certezze espresse dal presidente Thomas Bach in giù, dicano e ripetano strenuamente che tutto andrà secondo copione, quindi con inizio il 23 luglio e chiusura l’8 agosto, i dubbi e le contestazioni sullo svolgimento dei Giochi Olimpici non si fermano.

A cominciare dall’uscita di scena per commenti sessisti del massimo dirigente del Comitato Organizzatore di Tokyo, il potente per connessioni e amicizie Mori Yoshir, 83 anniō – rientrato a casa a testa bassa accolto dai rimproveri di moglie e figlia – per giungere alle indubbie gigantesche difficoltà che comporterà organizzare a puntino le Olimpiadi più strane della Storia. Tutti gli esponenti dei due partiti al governo, il Liberal Democratico e Komeito (Soka Gakkai), insistono nell’affermare che le Olimpiadi si faranno, tranne il più amato fra tutti i politici del momento, membro del Gabinetto e neo-ministro per la gestione vaccini Covid-19 Kono Taro, il quale interrogato al proposito ha affermato: “Posso dire che potrebbe andare in entrambi i modi” lasciando quindi intendere di non essere totalmente sicuro circa lo svolgimento dei Giochi. Marzo si avvicina e se il giorno 25 la torcia olimpica si accenderà iniziando il viaggio dal nord del Giappone, toccando un po’ tutto il Paese e coinvolgendo in quattro mesi 10.000 atleti per arrivare finalmente a Tokyo, ebbene a quel punto lo shock di una cancellazione sarebbe irricevibile. Si ricorda ancora l’anno scorso quando proprio a marzo venne annunciata la sospensione delle Olimpiadi a causa della diffusione nel mondo dell’epidemia da coronavirus, in quel periodo sotto controllo in Giappone.

Questo è il grande problema delle Olimpiadi, la trasmissione del virus che per quanto a Tokyo sia meno grave rispetto ad altri luoghi del pianeta, è peggiorata anche nel Paese dei Kami. Il dannato virus e il terrore di ammalarsi, infettare, riunirsi, fare festa in strada e negli stadi.

Una questione enorme che solo la perseveranza dell’organizzazione nipponica e dei Comitati olimpici nazionali sta tentando di risolvere a tutti i costi: i risultati sono incerti. A questo proposito sono uscite le 33 pagine del PlayBook edito dal Comitato olimpico in cui si riassumono tutte le regole da osservare dalle persone coinvolte nei Giochi – più di 11.000 atleti da 200 paesi e 4.000 per le Paralimpiadi, migliaia di funzionari, staff di sostegno, allenatori e personale dei media – norme che considerano comportamenti, consigli a farsi vaccinare, app da scaricare, spostamenti, permanenza, pubblico ammesso agli eventi, relazioni interpersonali fra gli atleti e tutto quanto necessario per mantenere alto il livello di sicurezza. Tuttavia, dei 3.500 medici richiesti come volontari assolutamente necessari per i test giornalieri da fare e processare ed in caso di positività e malori intervenire, pochi hanno firmato.

“So di medici che inizialmente avevano dato la propria disponibilità, ma che non hanno più la possibilità di prendersi del tempo libero e aiutare, dovendo occuparsi in continuazione dei propri pazienti ricoverati in ospedale” confida alla Reuters uno sconsolato Arai Satoru, direttore della Tokyo Medical Association, aggiungendo “Comunque la si guardi, è impossibile”.

E che dire dell’80% dei giapponesi contrario a far diventare queste Olimpiadi una realtà? “Dalla cancellazione dell’anno scorso ad oggi, si percepisce una sorta di disillusione sia dal punto di vista economico, sia per lo spettacolo che mancherà visto che comunque vada non sarà il sogno che tutti ci aspettavamo” sostiene Zenjiro Miyakawa di Compact Spa, società di Sport Management fra Italia e Giappone.

“Non è che i giapponesi siano contrari ai Giochi ma certamente c’è un calo d’interesse per i problemi legati alla pandemia. In più si avverte una specie di pudore e tristezza perché è venuto meno lo spirito delle Olimpiadi, ovvero vivere un momento d’incontro con gli occhi del mondo puntati su Tokyo che non potrà fare festa. Un po’ come succede guardando le partite di questi tempi, non ci sarà gioia e intrattenimento, non si gusterà il cibo ma il divieto di stare ai lati della strada per seguire la maratona” prosegue Miyakawa. Si faranno le Olimpiadi?

“La realtà insegna che nulla è garantito, per ora è legittimo pensare di sì”.

Paradisi fiscali, la Turchia è fuori dalla black list Ue

I ministri delle Finanze dell’Ue hanno aggiornato la lista dei Paesi che ritengono non cooperino nella lotta contro l’evasione fiscale. E la Turchia non sarà inclusa nell’elenco dei paradisi fiscali. Lo ha annunciato il ministro portoghese delle finanze, João Leão, presidente di turno, al termine della riunione Ecofin di ieri che ha discusso di come aggiornare la lista, che sarà però approvata oggi. Per l’Italia era presente il neo ministro dell’Economia Daniele Franco. La lista è stata molto contestata non solo perché restano esclusi Lussemburgo e Olanda (indicati come “buchi neri” dalle associazioni che si battono contro l’elusione e l’evasione fiscale), ma soprattutto a causa dell’intenso dibattito sull’inclusione o meno della Turchia. Dibattito che ha fatto slittare a oggi la pubblicazione. Il governo di Ankara ha negoziato con i Paesi Ue accordi bilaterali che prevedono lo scambio di informazioni in campo finanziario e fiscale. Accordi che per ora non sono stati applicati con Germania, Francia, Olanda, Belgio e Austria, Paesi nei quali vi è una nutrita comunità turca.

“Non ho più amici tra i giornalisti, Conte è nella storia”

“L’uscita del libro mi distrae, almeno non penso a cosa è successo”. Esordisce così Rocco Casalino, per tre anni uomo ombra dell’ex premier, ora corteggiatissimo da giornali e tv che con la scusa della sua autobiografia Il portavoce gli chiedono pure cosa mangiasse a colazione Giuseppe Conte.

Molti giornalisti, appena caduto Conte, ti hanno attaccato duramente.

Essere attaccato da colleghi mi è dispiaciuto. Al Corriere per dire ho concesso il doppio delle interviste che ad altri, fa male vedere che in un momento in cui non sono più il portavoce del premier, venga trattato così.

Non servi più.

Non credo che Conte sia finito e neppure io e i 5Stelle, per cui mi verrà da sorridere quando mi ricercheranno. Dirò: “Bentornati! Vi ricordate quando vi davo le interviste in esclusiva? Ecco, ora dovete aspettare un attimo”.

Nel libro dipingi Conte come una macchina perfetta. Forse troppo.

Lui è uno che non lascia niente al caso. Anche quando serviva un comunicato stampa pulito, in cui dovevo comunicare che so, che aveva incontrato la Merkel, io dicevo “Presidente, mando?” e lui: “Fammi leggere”.

Mai una smagliatura?

Anche in pandemia tutti avevano delle crisi di nervi, lui rimaneva lucido. Noi della comunicazione facevamo i turni per seguirlo, io non riuscivo a reggere i suoi ritmi, che erano dalle 8 a mezzanotte, sempre. A una certa ora mi scusavo: “Presidente, io vado a casa”.

Siete diventati amici?

Sì, ci davamo del tu, gli parlavo anche di cose personali, quando mia mamma ha avuto problemi di salute lui si preoccupava.

In cosa hai sbagliato in questi anni?

Nel pensare di poter costruire un rapporto di amicizia coi giornalisti.

Ci fu la famosa storia delle note audio diffuse dalla stampa, un’ingenuità la tua.

Mi è dispiaciuto perché lavoravo con questi giornalisti da anni, mi fidavo, rispondevo a tutti sempre, fino a notte fonda.

Quella del ponte di Genova fu una brutta storia.

Era uno sfogo personale, un periodo in cui ero in difficoltà e stavo soffrendo, non mi aspettavo l’accoltellamento del giornalista o che il tg della Rai aprisse con questa notizia.

Il giorno più bello da portavoce.

Quando Conte è riuscito a portarsi a casa i 209 miliardi. Tutti gli esperti del Consiglio europeo gli dicevano che era una guerra persa. Quando poi si rivolse in modo così duro alla Merkel che gli proponeva il Mes, dicendo “Guardi il mondo con gli occhiali di ieri”, pensarono “è pazzo”.

Tu?

Perfino io ero perplesso, chiedevo: “Presidente ma pensi davvero di poter vincere?”. Ritenevo che avrebbe perso e che ne potesse uscire danneggiato.

Regali te ne ha fatti?

Tanti. Molte cravatte importanti. E libri.

Tu a lui?

L’ultimo è stato un panettone artigianale di “Da Vittorio”.

Un panettone?

Sì, ma da 300 euro.

Una pochette mai?

No, se le sceglie lui.

Non lo consigliavi sul look?

Il primo giorno mi sono permesso di dargli un consiglio sul look, non avevo capito ancora la sua personalità, mi guardò male.

“Conte non è un politico e si vede” ha detto Renzi.

Se per politico si intende uno statista, Conte è un politico, se si intende un politicante, lo è qualcun altro. Nei libri di storia ci saranno dei capitoli su Conte, su altri presidenti del Consiglio al massimo qualche paragrafo.

Nel libro dici che Renzi “quando va in tv si fa male”, Filippo Sensi avrebbe dovuto capirlo.

Un comunicatore deve capire cosa valorizzare e cosa nascondere. Se uno è simpatico lo esponi senza consumarlo, se uno per natura è antipatico non lo mandi, la tv amplifica i difetti.

Salvini funziona?

Sì, ma si sovraespone.

Zingaretti?

Lì ci lavorerei un po’. Si percepisce che è una persona perbene, è già molto.

E che potevi funzionare tu chi l’ha capito?

Casaleggio. Mi chiamava la mattina presto, mi alzavo dal letto, mi sembrava mancanza di rispetto anche parlargli da sdraiato.

Nella tua parentesi televisiva ti eri costruito un personaggio politicamente scorretto, nel libro dici che era una finzione ideata da te.

Sì, ma con me ho sbagliato. Bisogna costruire sulla verità, se costruisci lo storytelling sulla falsità qualcosa va storto.

Forse, visto come va la politica, un buon responsabile della comunicazione dovrebbe suggerire di non essere così categorici.

Verissimo. Mi sono ripromesso che non farò mai più comunicati stampa così definitivi. Se tu metti la parola “mai” in un comunicato, il rischio che in futuro debba contraddirti è troppo alto.

Ti è pesato dover stare attento a tutto?

Molto, sono invecchiato 10 anni almeno. Prima ero più spensierato e più buono.

Ti sono venute fobie?

Ho la fobia della parola, di essere registrato, frainteso, filmato.

Il post da 1 milione di like di Conte lo hai scritto tu?

No, lo ha voluto scrivere Conte personalmente.

Ti è dispiaciuto che ti sfottessero per le lacrime mentre Conte lasciava il palazzo?

Nel palazzo erano tutti in lacrime.

L’avevi messo in guardia da chi l’ha fatto cadere?

Eravamo consapevoli dal primo giorno di chi fosse Renzi. Il suo obiettivo era far fuori Conte, le richieste erano un pretesto. Si ritrova con una forza politica al 2% e 50 parlamentari. Se ci sono 50 persone sulla barca e ci sono due salvagenti, vuol dire che 48 dovranno affogare. Ha fatto un terremoto per crearsi uno spazio al centro.

A proposito di richieste, Draghi non vuole il Mes e si terrà la delega ai Servizi…

Sì, ora a Renzi piace anche il reddito di cittadinanza, mi viene da ridere.

Hai condiviso la scelta di Conte di tornare a insegnare?

Tutti gli hanno consigliato di prendersi un ministero, lui non ha voluto. Ha fatto bene.

La prima grande libertà che ti sei concesso?

Parlo. Sento di esistere. Prima avevo paura, la mia opinione non era la mia, ma quella del presidente.

Dormi meglio la notte?

No, quello no. Il dispiacere è ancora fortissimo. Non per me, ma per Conte. Non se lo meritava.

Torino, è indagato per aver coperto torture: promosso l’ex direttore del carcere Vallette

Era stato trasferito, dopo essere stato indagato per favoreggiamento e omessa denuncia, per avere – secondo la Procura – coperto gli agenti che avrebbero picchiato e insultato alcuni detenuti. A novembre (ma la notizia trapela solo in questi giorni negli ambienti carcerari) l’ex direttore della casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, Domenico Minervini, è stato “promosso” a “reggente del posto di funzione vacante di direttore dell’Ufficio Affari generali, personale e formazione” presso il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per il Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta. La sua area di competenza comprende quindi anche Torino, dove si trova il carcere delle Vallette in cui, secondo il pm Francesco Saverio Pelosi, sarebbe stato commesso il reato di tortura da parte di 21 agenti nei confronti di oltre dieci carcerati. L’indagine è stata chiusa la scorsa estate. In questi giorni il pm sta ultimando gli ultimi interrogatori, prima di valutare la richiesta di rinvio a giudizio.

Con l’ordine di servizio numero 17, il Dap del Ministero della Giustizia ha assegnato a Minervini l’incarico (provvisorio) che lo vede ai vertici dell’ufficio che comprende anche la gestione del personale. La motivazione dell’assegnazione dell’incarico all’ex direttore del carcere di Torino è motivata dalla “comprovata e proficua esperienza professionale”. Tra gli obiettivi che Minervini dovrà perseguire, ci sono la “valorizzazione delle professionalità presenti”, l’attuazione di “politiche di gestione del personale”, la verifica e l’analisi “delle condizioni di disagio che interessano gli operatori”. La nuova nomina di Minervini, nella stessa Regione dove si trova il carcere oggetto dell’indagine, inquieta alcuni agenti. L’inchiesta che ha fatto emergere i presunti reati è stata svolta da agenti dello stesso corpo. Non solo. Il processo è vicino per i poliziotti indagati. Si avvicina il momento in cui davanti a un giudice dovranno riferire della condotta dei loro colleghi, e anche dei loro superiori, Minervini compreso. Altri agenti verranno citati come testimoni. “La sua nomina è assolutamente legittima – racconta un poliziotto – ma forse inopportuna. C’è il timore che alcuni agenti possano avere paura di parlare male di una persona che occupa un ruolo di vertice proprio in Piemonte”. “La vicenda non è ancora conclusa e il pm non ha ancora formulato le richieste – dice Minervini al Fatto -. Per rispetto alla magistratura preferisco non rilasciare dichiarazioni”.

Sla, malato chiede eutanasia: “Tutore Michele Emiliano”

Chiede da tempo per sé e per altri ammalati un’assistenza infiermieristica a domicilio “stabile e duratura”. Ora Pasquale Tuccino Centrone, ristoratore di Polignano a mare malato di Sla da 13 anni e da 9 in ventilazione assistita, ha chiesto l’eutanasia nominando l’assessore pugliese alla Sanità Pier Luigi Lopalco e il governatore Michele Emiliano esecutori delle sue volontà. “Ci associamo – ha detto il presidente dell’Ordine dei Medici di Bari, Filippo Anelli, che è anche a capo della Federazione nazionale degli Ordini dei Medici – ai reiterati appelli di Centrone, che chiede un’assistenza domiciliare stabile e continuativa, al posto di prestazioni occasionali con professionisti sempre diversi. Chiediamo all’assessore alla sanità e al Presidente della Regione di intervenire per fornire a lui, e agli altri pazienti cronici, un supporto adeguato. Un Paese civile si misura, anche e soprattutto, sui servizi che riesce ad assicurare ai più fragili”. “Mi auguro che si intervenga al più presto”, il commento di Mina Welby, copresidente dell’Associazione Luca Coscioni.

Napoli, in fumo il processo a Finmeccanica. Tutto prescritto: a marzo si estinguono i reati

La data dell’epitaffio è già segnata, anche se in teoria il processo è ancora vivo. E’ la data del 23 marzo. Quel giorno, salvo imprevisti di carattere puramente procedurale, il Tribunale di Napoli sancirà la prescrizione in primo grado del processo sui presunti comitati d’affari intorno a cinque vecchi appalti del Pon Sicurezza, tra i quali la trasformazione dell’ex manifattura tabacchi in centro di coordinamento della polizia. Fu il primo grande atto accusa di una procura contro Finmeccanica e alcuni manager del suo gruppo. Imputati eccellenti, uomini di Stato, sono finiti alla sbarra, tra cui l’ex questore di Napoli Oscar Fiorolli e l’ex sovrintendente alle Opere Pubbliche Mario Mautone. Per i quali i giudici non potranno far altro che sancire il non doversi procedere per estinzione del reato, prescritto.

Che poteva andare a finire così si intuiva già nell’ordinanza cautelare eseguita a gennaio del 2013. Faceva riferimento a fatti non freschissimi, commessi tra il 2006 e il 2009. Riguardava dodici persone – otto arresti e quattro obblighi di presentazione alla polizia giudiziaria – e i capi di imputazione contestati a vario titolo erano un trattato dei reati di pubblica amministrazione: associazione per delinquere, turbativa d’asta, abuso di ufficio, falso, rivelazione del segreto d’ufficio, corruzione. Tra gli arrestati c’era anche Fiorolli, era già in pensione. Le 396 pagine a firma del Giudice per le indagini preliminari Claudia Picciotti erano molto dure: tratteggiavano “l’unitarietà del progetto criminoso del gruppo Finmeccanica”, perché secondo il giudice gli uomini del gruppo attraverso “sistematici interventi” avrebbero “pilotato gli appalti in favore di imprese riconducibili alla holding”.

L’inchiesta era iniziata nel 2007, partita da alcune intercettazioni della Direzione distrettuale antimafia in indagini sul clan dei Casalesi. Ci sono voluti sette anni per chiedere e ottenere un rinvio a giudizio. Altri sette sono stati dispersi tra cambi del collegio, trascrizioni di intercettazioni, esami di testimoni. Un avvocato ha confidato al Fatto quotidiano: “Ad un certo punto abbiamo rinunciato a seguire il dibattimento, era solo un costo inutile, ormai eravamo certi che si andava in prescrizione”. Un funzionario di polizia ha rinunciato alla prescrizione, l’unico tra i numerosi imputati. Un eroe. È l’unico forse a cui interessa la sentenza di un processo dimenticato.

Mail Box

 

Cari amici del “Fatto”, continuate così

Gentilissimo Direttore, le esprimo il mio apprezzamento per la sua antipatia. Viviamo un momento particolare, tutti si inchinano al nuovo Messia senza che abbia ancora compiuto miracoli. Per favore rimanga così, mantenga il giornale su una rotta di osservazione distaccata e critica. Abbiamo solo una possibilità: che gli antipatici non vengano sopraffatti!

Sebastiano Oriti

 

L’esecutivo Draghi è il Conte 2 in peggio

Se questo è il governo, lo sento a pelle come una bruttissima copia del precedente. Del resto è l’effetto delle grandi sensazioni politiche rappresentate da chi ne ha causato la caduta. Ingrati tutti inoltre per non aver minimamente accennato al grande lavoro svolto da Conte e Gualtieri, i quali con estrema signorilità non lo hanno mai sottolineato.

Fabio De Bartoli

 

I miei complimenti ai cronisti “militanti”

Il Fatto è la mia seria soddisfazione politica e sociale quotidiana. È anche la lettura che fa nascere spontaneo il sorriso, grazie a tutti i collaboratori e alla creatività ironica e tagliente di Travaglio. Un applauso e un abbraccio anche per i “militanti politici di base” e agli intellettuali come Gad Lerner che ricordano la nascita e i 100 anni del Pci.

Giuseppe Menta

 

Il centrosinistra emiliano sta aprendo a Iv e Azione

Intervistato da Repubblica, Bonaccini auspica di “costruire un campo più largo, un centrosinistra forte ed espansivo”. Infatti è quanto sta già avvenendo con sua soddisfazione con Iv e Azione nel buon governo della Regione. Però tutto rimandato a dopo l’emergenza. E poi ecco perché si spera in Draghi e nell’Europa, a torto o a ragione: per salvarci da noi stessi!

Alessandra Savini

 

Il nostro problema è il paternalismo

Provo disagio di fronte alla tragedia della nostra classe politica, sulla quale sta calando il sipario di un inverecondo lecchinaggio al novello unto dal Salvatore della Patria. Prostrazione incondizionata che vede umiliata in un evidente commissariamento tutta la politica. Ma non avevo ancora letto l’illuminante articolo di Montanari, che chiarisce l’aspetto meno evidente e più subdolo di questa vicenda, che è la nostra invincibile propensione al paternalismo e a quella forma di sottomissione al potere.

Giorgio Di Mola

 

È grave che l’unica voce dissidente rimanga FdI

La cosa più umiliante per gli italiani è quella di una presidenza della Repubblica che affida il potere frutto della volontà elettorale a banchieri che non sono stati eletti da nessuno. Eppure la cosa più incredibile della vicenda è che proprio il partito che fra tutti ispira meno la democrazia è stato quello che non ha aderito all’ammucchiata che annullerà le distinzioni, le responsabilità e le idee. Potrebbe rivelarsi un investimento colossale per il futuro.

Gianfranco

 

DIRITTO DI REPLICA

Con riferimento all’articolo “Operazione Drago verde: il bluff del governo ecologico”, pubblicato il 15 febbraio, è opportuno precisare che la posizione di Enel in merito alla transizione energetica e alla strada per rendere più sostenibile la produzione di energia è ben diversa da quella riportata. Le energie rinnovabili sono al centro della strategia del Gruppo, con una crescita che ogni anno raggiunge un nuovo record a livello globale. In linea con gli obiettivi del PNIEC (Piano Nazionale Integrato Energia e Clima), come sottolineato dal Direttore Enel Italia Carlo Tamburi nel corso dell’evento “L’economia di Francesco”, Enel è impegnata a chiudere i propri impianti a carbone operativi in Italia entro il 2025, che andranno sostituiti “principalmente con energie rinnovabili e con sistemi di accumulo di queste energie”, e, in via transitoria, con nuova capacità a gas, con impianti più efficienti e meno inquinanti di quelli a carbone e che lavoreranno molte meno ore nel tempo. In questo momento lo sviluppo di capacità flessibile a gas per quanto strettamente necessario per la stabilità e sicurezza del sistema elettrico nazionale è indicato dal PNIEC come strumento di medio periodo indispensabile e necessario per una adeguata e progressiva transizione verso la generazione completamente da fonti rinnovabili. Sarà l’effettiva evoluzione del sistema elettrico dei prossimi anni a determinare per quanto tempo saranno necessari questi impianti per la sicurezza e la stabilità della rete, ma questo non modifica gli obiettivi di Enel che intende raggiungere la completa decarbonizzazione del mix produttivo entro il 2050, con una serie di traguardi intermedi come il completamento del phase out dal carbone in Italia entro il 2025 e a livello globale entro il 2027. Già oggi in Italia la capacità installata di Enel da fonti rinnovabili rappresenta il 55% del totale, con l’obiettivo di aumentare costantemente questa quota e raggiungere il 65% entro il 2023.

Ufficio Stampa Enel

 

Insomma, a quei metalmeccanici che scioperano chiedendo che non si passi dal carbone al gas, si risponde che non sappiamo quando lasceremo il gas. La domanda è: sarà più veloce la transizione, o il collasso del pianeta?

Tomaso Montanari

Elenchi telefonici. Non si ricevono più da anni ma si continua a pagarli

 

Ho un problema che non riesco a risolvere. Non ho mai fatto la disdetta dell’elenco telefonico, ma da circa sei anni non lo ricevo più. Due anni fa ho scritto una lettera alla Telecom senza ricevere né risposta né elenco. Però in bolletta ogni anno mi viene addebitato l’importo per l’elenco che non ricevo. Per sapere: sono l’unico fessacchiotto? In fondo sono solo 3 euro e 90 centesimi. Ma se invece i truffati sono migliaia di persone, allora secondo me la cosa va smascherata, perché non è possibile che i soliti “furbi” vincano sempre.

Alberto De Infanti

 

Gentile De Infanti, il costo degli elenchi telefonici è quello che da anni “il Fatto” denuncia tra i balzelli nascosti che vengono messi in bolletta come le attivazioni, la chat erotica, il servizio “richiamami” o la segreteria telefonica. Per cui ci si ritrova addebiti fino a quando non se ne richiede la cancellazione. Si tratta della consegna delle Pagine Bianche, stampate e distribuite da Italiaonline, ex Seat Pagine Gialle. Non solo è uno strumento che, tra web e smartphone, non si usa più. Ma quasi nessuno riceve più elenchi. Gli ultimi avvistamenti risalgono ad anni fa, quando pile di tomi venivano lasciati nell’androne dei palazzi. Fino al 2012 la spedizione degli elenchi rientrava nei servizi universali di “pubblica utilità” come le comunicazioni postali o la fornitura di energia elettrica. Poi, però, è stata esclusa dagli obblighi. Ma questo non è bastato e gli addebiti degli elenchi continuano ad arrivare ai clienti di Tim e WindTre che ogni anno, a gennaio, addebitano rispettivamente 3,90 euro e 2,54 euro (Iva inclusa) per “consegna elenchi telefonici”. Gli altri gestori hanno smesso di farlo nel 2016 dopo che il caso è arrivato sul tavolo dell’Antitrust che ha sanzionato Wind. Come “il Fatto” ha avuto modo di denunciare, Tim in questa storia fa la parte del leone con oltre 10 milioni di linee fisse. I gestori coinvolti, dal canto loro, spiegano e riportano correttamente sui loro siti Internet che è possibile rinunciare gratuitamente in qualsiasi momento al servizio di consegna degli elenchi telefonici chiamando il servizio clienti. Purtroppo la vita del consumatore è lastricata di queste situazioni e per evitare di sentirsi “fessacchiotti” bisogna sempre leggere bene le fatture di tutte le utenze.

Patrizia De Rubertis

Conte – Di Maio – Dibba per il nuovo M5S

In un momento in cui i 5Stelle sono schiacciati tra il declassamento governativo e la diaspora di Di Battista, forse l’unica via di scampo sarebbe la rapida costituzione al vertice di un triumvirato composto da Di Maio e lo stesso Di Battista, con la presenza equilibratrice di Conte.

L’operazione, se condotta rapidamente, prima che i consensi dell’ex presidente del Consiglio evaporino, potrebbe rinsanguare il Movimento con i voti di Conte, riportandolo intorno al 20%, e potrebbe avviare una seria riorganizzazione del partito. Solo Grillo potrebbe compiere questo miracolo.

Finora il collante dei grillini è stato soprattutto l’odio persecutorio di cui essi sono stati oggetto e che li ha aggregati accomunandoli nel martirio. Per ripercorrere questo processo, basta qualche esempio tra i tanti. Nel marzo del 2013, l’anno della loro prima scalata elettorale, Tommaso Gazzolo pubblicò sulla rivista Mondoperaio un articolo con cui cercava di dimostrare che “una natura intrinsecamente fascista segna alla radice il carattere del M5S” e che, pure essendo capeggiato da un comico, esso “fa leva sulle passioni tristi, segue il culto della morte”. Queste accuse, che rievocano quelle celebri di Miguel de Unamuno contro il franchismo, e tante altre critiche analoghe, agli occhi dei grillini sono state come le frecce per San Sebastiano, ne hanno fatto dei perseguitati e hanno trasformato il Movimento in Rivoluzione.

Sei anni dopo, nel 2019, in pieno governo giallo-verde, Giuseppe De Rita disse che “il vero pericolo per la democrazia non è Salvini ma sono i 5 Stelle” e Luciano Canfora aggiunse che i 5 Stelle “fanno sciocchezze anche penose perché peccano di incompetenza”. Nei giorni scorsi un’agenzia prestigiosa ha definito il grillino medio come un “povero buon selvaggio” e il ricorso alla piattaforma Rousseau ha scatenato un fuoco concentrico di contumelie contro il Movimento cui è stato rinfacciato di avere accettato alleanze e compromessi. E questo cambiamento è stato considerato non come maturazione politica ma come dabbenaggine o tornaconto.

“Il MoVimento 5 Stelle – dice Wikipedia – è un partito politico italiano fondato a Milano il 4 ottobre 2009 dal comico e attivista politico Beppe Grillo e dall’imprenditore del web Gianroberto Casaleggio sulla scia dell’esperienza del movimento Amici di Beppe Grillo, attivo dal 2005, e delle Liste civiche a Cinque Stelle, presentate per la prima volta alle elezioni amministrative del 2009”. Ma in questi anni come è cambiata la cultura politica del Movimento?

Come ho ricordato più volte, citando Robert Michels, tutti i partiti nascono come movimenti e ogni movimento politico prima o poi cerca di assumere la forma istituzionale di un partito; ma non è detto che ci riesca. In dodici anni gli Amici di Beppe Grillo hanno affrontato prima le elezioni amministrative, poi quelle politiche, quindi l’ingresso nel governo. Ma è possibile precisare quanta strada ha fatto la loro cultura politica in questo tragitto dal movimento all’istituzione? Non c’è stato giornalista che, andando a naso, non abbia detto la sua circa lo stato di avanzamento di questa lunga marcia che dura da 12 anni. Quasi tutti hanno rimproverato al Movimento o un eccesso di cautela o un eccesso di spregiudicatezza. Comunque, ne hanno certificato l’imminente estinzione. Eppure, il consenso più basso cui sono scesi finora i 5 Stelle coincide con il consenso più alto cui giunse a suo tempo Bettino Craxi.

Sociologicamente incuriosito anch’io dal problema, nei tre mesi che hanno preceduto gli stati generali del Movimento ho avuto la possibilità – facilitata dall’intermediazione della senatrice Barbara Floridia – di approfondirlo scientificamente conducendo una ricerca previsionale con metodo Delphi. Il quesito di fondo è stato: “Con quale cultura politica il M5S affronterà il dopo-pandemia? Questa cultura in che cosa sarà diversa da quella delle origini?”. E per cultura ho inteso qualcosa che non attiene solo alla politica in senso stretto ma anche alla demografia, all’ambiente, alla salute, alla società, alla burocrazia, all’economia, alla tecnologia, al lavoro, al tempo libero, al mondo intellettuale, all’etica e all’estetica.

Per appurarlo, ho avuto la possibilità di somministrare due corposi questionari a 17 esponenti del Movimento – da Grillo a Di Maio, dall’Azzolina a Di Battista – comprendendo ministri, sottosegretari e facilitatori. Quindici intervistati hanno fatto pervenire in tempo utile le loro risposte che, per ogni intervistato, hanno superato le venti cartelle dattiloscritte.

In estrema sintesi, quali sono i risultati della ricerca? Sulla quasi totalità delle questioni la grande maggioranza degli intervistati ha espresso il proprio accordo, diventato pieno su questioni come salute, economia, finanza, ambiente, emigrazione, equilibrio geopolitico, business ethics, intelligenza artificiale, bioetica, sostenibilità, parità di genere e frontiere della scienza.

Rispetto alle origini, persiste ancora la fedeltà a parole d’ordine come onestà, trasparenza, empatia, ambiente, interclassismo, terza via, piena fiducia nel progresso scientifico e tecnologico, welfare, democrazia diretta e partecipata.

Invece, anche per effetto dell’esperienza governativa, la cultura politica del vertice è mutata radicalmente su una fitta serie di temi: l’europeismo ormai indiscusso; la necessità di un dialogo costruttivo con Cina e India; l’accoglienza degli immigrati; un atteggiamento post-ideologico ma lontano dall’agnosticismo; un esplicito rifiuto del populismo e dell’uno vale uno in favore della competenza e della meritocrazia; l’avversione al neo-liberismo in favore di un socialismo liberale e neo-keynesiano che sconfina in un’economia sociale di mercato; una “crescita sana, necessaria e utile” al posto della “decrescita felice”; l’esigenza di un contatto più stretto con gli intellettuali e con i sindacati; la consapevolezza del jobless growth per cui le nuove tecnologie distruggono più posti di lavoro di quanti ne creino; la conseguente necessità del reddito universale e della riduzione dell’orario di lavoro. Infine, la necessità di una leadership corale del Movimento, ispirata alle idee di Adriano Olivetti e, quindi, al massimo coordinamento, in ogni comunità, tra sistema scolastico, imprese, parti sociali e istituzioni.

Ovviamente, questo è il cammino compiuto verso la forma-partito da parte dei vertici dei 5 Stelle dopo un’esposizione pluriennale e full time all’influenza dei palazzi di governo. Senza una ricerca parallela è difficile dire quanto di questa metamorfosi sia sgocciolata fino alla base, forse più sensibile alla forma-movimento di Di Battista. Resta però che questa forza politica, rispetto agli altri partiti, è più recente per formazione, più giovane per età e con una percentuale maggiore di laureati. L’unica che, sotto un triumvirato composto da Conte, Di Maio e Di Battista, potrebbe coniugare, in modo equilibrato, la solidità razionale del partito con l’effervescenza emotiva del movimento.

 

Vera&Giuliano riscoperta d’arte

Matrimoni a prima vista in tv se ne vedono tanti per non dire troppi, di solito durano giusto il tempo di fare gli auguri agli sposi e di sentire dagli psicologi perché è andato tutto a rotoli. Ormai ci si fidanza su Facebook, ci si sposa in tv e ci si lascia via sms; ecco perché Vera&Giuliano, il documentario di Fabrizio Corallo andato in onda domenica (Speciale Tg1, ora su RaiPlay) sembrava il reportage di un’altra era, un Techetecheté dei sentimenti. Invece anche quello tra Vera Pescarolo e Giuliano Montaldo è stato un amore a prima vista che però ci ha visto lungo, come si ricava dall’intervista a due voci fatta di ricordi, tenerezze e rimbrotti, cronaca di un colpo di fulmine durato sessant’anni. Giusto sessant’anni fa Giuliano, uno dei più giovani ex partigiani d’Italia, s’innamora di Vera, una delle prime future divorziate d’Italia. È fatta: quando due cuori ribelli, artisti e solitari s’incontrano, non lasciarsi più diventa prima un desiderio, poi un bisogno.

La & commerciale nel titolo non è una licenza poetica del regista Corallo; un’altra idea corrente sul matrimonio perfetto vuole che si debbano tenere separati professioni e vita sentimentale; invece, per sessant’anni il regista Montaldo e la produttrice esecutiva Pescarolo hanno fatto l’esatto contrario, inseparabili sul set più ancora che nel tinello (e così il tinello diventa set). Con il suo garbo senza tempo, Vera&Giuliano è un documentario in offerta speciale, due racconti al prezzo di uno dove scorrono in filigrana l’età dell’oro del cinema italiano e il filo conduttore del cinema di Montaldo, la denuncia di ogni intolleranza. Nell’album dei ricordi la foto più commovente è quella di un’altra coppia, Sacco e Vanzetti, il film uscito nel 1971 che costrinse gli Usa a riabilitare due innocenti condannati a morte solo perché anarchici. Un esempio di come il cinema possa cambiare il mondo, e di quanto ci manchi un mondo senza cinema.