Al governo. C’era una volta il tecnico che si elevava sopra le zuffe di partito

Il mantra distensivo e paraculo del “niente veti” che ha tenuto banco per un paio di settimane prima dell’annuncio della squadra del nuovo governo si sta pian piano sciogliendo come un ghiacciolo a ferragosto. Primo caso, lo sci e le botte da orbi sull’ordinanza che rimanda l’apertura di piste e impianti: il ministro del Turismo (Lega) contro quello della Sanità, i renzisti a fare il coro, Forza Italia scontenta dei suoi ministri, il Pd indeciso e attonito, as usual. Il tutto mentre va in scena l’ordalia dei sottosegretari: duecento famigli da piazzare, l’un contro l’altro armati, in un vorticare di correnti, mulinelli, risarcimenti (il Pd e le donne), riequilibri, colpi bassi. Tutto già visto, grazie.

Di già visto, però, c’è anche un altro elemento, se possibile più divertente per noi mangiatori di popcorn che osserviamo a bordo campo: s’avanza il fantasma dell’opposizione interna. Cominciò Salvini – questo grande europeista – ai tempi del Conte Uno: si accorse che stare al calduccio nel governo era comodo, ma che fare il diavolo a quattro come il più agguerrito oppositore pagava in termini di consenso (il finto consenso dei sondaggi), e si sa come finì. Stessa cosa nel Conte Due, con protagonista Renzi: sparare sull’ambulanza pur essendo a bordo garantiva una certa visibilità (che, in mancanza di voti, è quel che brama il leader filo-saudita). In sostanza, stare tutti dentro potrebbe garantire a ognuno l’ebbrezza di stare anche un po’ fuori, tipo che alla mattina lavi i vetri del Palazzo (da dentro) e al pomeriggio li rompi a sassate (da fuori). Divertente. Aggiungete alcune scelte bislacche che certo non calmeranno le acque. Uno per tutti: Renato Brunetta alla Pubblica Amministrazione, dove già sedette nel 2008 insultando chiunque avesse un posto pubblico (i tornelli, i fannulloni, i lavoratori precari definiti “L’Italia peggiore”, e altre amenità). La sua riforma della PA fu un tale glorioso fallimento che oggi si avverte di nuovo il bisogno di una riforma della PA: richiamare Brunetta è come richiamare l’idraulico che già una volta ti allagò la casa.

Insomma, gli applausi scroscianti per il governo Draghi (sindrome Monti) si sono un po’ attutiti dopo la presentazione della squadra: persino gli ultras del colpo di mano speravano meglio.

Interviene a questo punto la narrazione ipergovernista secondo cui “tanto farà tutto Draghi”, e il resto è confuso dettaglio. Un po’ come se nel peggiore bar di Caracas, dove tutti si sputano e si accoltellano, ci fosse una stanzetta riservata – un privé, direbbe Briatore – dove Draghi e i suoi “tecnici” si occupano seriamente delle cose serie. Bella immagine, ma strana concezione della democrazia: i “capaci” (sempre per autodefinizione, ovvio, mica per i risultati) lavorano, e gli altri si picchiano come fabbri, cazzi loro.

Spunta dunque – spunterà – la tentazione di maggioranze variabili: chi c’è c’è, una volta si accontenterà Salvini, un’altra Zingaretti, la terza toccherà ai 5S o a Silvio Buonanima, o a qualcun altro, magari qualche boccone verrà gettato ai cespuglietti, ai renziani, o ai calenderos, o cose così. Un tentativo, nemmeno troppo nascosto, di far passare l’idea che i tecnici sono bravi ed efficienti, mentre la politica dà il suo triste spettacolo di rissosità, che al governo litigano e si tirano sonori ceffoni, mentre il capo del governo – che l’ha messo in piedi – lui sì che è bravo, avercene! Bella favoletta, edificante e sontuosamente qualunquista. Che poi funzioni è tutto da vedere.

 

Piccola riflessione sui ministri “migliori” e l’italiano “imparato”

Sabato il governo Draghi ha giurato e all’uscita i ministri si sono tenuti ben lontani dalle telecamere. Con qualche eccezione, come il professor Patrizio Bianchi, neoministro dell’Istruzione (precedentemente a capo della task force della ministra Azzolina). Il professore (ex rettore a Ferrara, economista con master alla London School) si è brevemente intrattenuto con i giornalisti. Parlando ha raccontato che aveva “imparato” solo il giorno prima che sarebbe diventato ministro e interrogato sulle sue prime impressioni ha detto: “Ho visto tanta bella gente. Speriamo che faremo tutti bene”. Qualcosa non suona, vero? Sì, tanto che rientrando in studio, il maratoneta Enrico Mentana ha commentato: “Qualcuno avrà da ridire sull’italiano colloquiale del ministro Bianchi”. Lo “scivolone” è stato ripreso nel pomeriggio da pochi siti d’informazione (il Giornale, Libero, il Tempo) ed è stato chiamato gaffe. Cosa c’entri la gaffe con un supposto errore linguistico non è dato sapere, ma forse la ragione risiede nella scarsa dimestichezza con la madrelingua degli operatori dell’informazione.

Ma torniamo alla vita mediatica dello scivolone ministeriale, passato pressoché inosservato finché nella serata di sabato non è comparso un omaggio di Maurizio Crozza, che si è fatto troppo desiderare (ci è molto mancato in queste settimane di crisi di governo) e da venerdì torna in onda. Nel breve dialogo con Andrea Zalone, Crozza imita il ministro con l’inflessione emiliana, e gli fa dire alla fine “si è capito che siamo i migliori?”.

Dopo Crozza si sono scatenati i soliti social. Interrogato dall’Ansa il neoministro ha intelligentemente risposto: “Ho commentato la mia nomina a ministro utilizzando un’espressione tipica emiliana. L’emozione del momento mi ha già fatto guadagnare un’imitazione del bravissimo Crozza, peraltro splendida”. Quegli adorabili figuri di Un giorno da Pecora hanno interpellato Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca, che a proposito di “imparare” nel senso di “venire a sapere” ha detto: “Sarebbe stato meglio evitarlo. Il problema è sempre quello del ruolo: se si va in un bar di Ferrara o alla bocciofila è un conto, un ministro ha una posizione diversa”. E “Speriamo che faremo tutti bene” è accettabile? “È molto colloquiale, siamo di nuovo lì”, ha detto il professore. “Doveva dire ‘speriamo di far bene’. Però qui si tratta di una persona colta, un ex rettore, potrebbe trattarsi di una scelta retorica”, forse per sottolineare la collettività dell’agire dei ministri.

Bene, direte voi che avete avuto la pazienza di arrivare fin qui, e quindi? Quindi il punto non è usare il lapis per sottolineare eventuali errori del ministro (non abbiamo titoli per metterci in cattedra). Però: vi immaginate cosa sarebbe accaduto se fosse stato un ministro politico, meglio se grillino, a incappare in un – diciamo – “eccesso di colloquialità”? Sarebbe stato crocifisso, preso in giro, sbeffeggiato ad ogni angolo di strada e, soprattutto, di talk show. Gli scivoloni politici sono più impresentabili di quelli “tecnici”. Cosa preoccupante perché è la spia di un dilagante disprezzo della rappresentanza. Secondo i media mainstream il governo dei migliori sarebbe quello in cui non siedono eletti dal popolo (anche se abbiamo visto che in realtà di eletti ce ne sono parecchi). Non si capisce bene quale forma di fascinazione esercitino sui commentatori i cosiddetti tecnici, chiamati con sempre maggior frequenza a “resettare” il sistema politico: tra Ciampi e Monti passano 18 anni, tra Monti e Draghi dieci. Che l’avvento di tecnici (tutti economisti) salvatori della patria sia da salutare con giubilo è tutto da vedere: se il sistema della rappresentanza viene superato, i cittadini non contano più nulla. E i cittadini, a differenza degli italiani di Cossiga, non sono sempre gli altri: siamo proprio noi.

 

La “Transizione verde” riguarda ogni dicastero

Il nuovo ministero della Transizione ecologica può realmente costituire una svolta per il nostro Paese purché la novità non si limiti a un cambio di sigla dell’attuale ministero dell’Ambiente che, peraltro, già ha un Dipartimento per la transizione ecologica e gli investimenti verdi.

Al momento, sappiamo solo che esso, secondo quanto richiesto dal Movimento 5 Stelle, avrebbe dovuto accorpare Ambiente e Sviluppo economico (Mise) mentre, secondo le dichiarazioni di Draghi in sede di presentazione dei ministri, la nuova denominazione dovrebbe comportare solo un ampliamento delle competenze già attribuite all’attuale ministero dell’Ambiente con l’aggiunta di quelle energetiche oggi proprie di altri dicasteri. Insomma, un ministero per Ambiente ed energia: certo, un passo avanti, ma niente di veramente rilevante e tale da giustificare entusiastica adesione al nuovo governo.

Ci sono, tuttavia, altri indizi che vanno attentamente valutati e che inducono ad attendere di leggere il programma governativo e il decreto sul nuovo ministero prima di dare giudizi.

In primo luogo, le dichiarazioni di Draghi il quale, ricevendo le associazioni ambientaliste, ha anticipato che l’ambiente “innerverà” tutti gli ambiti degli investimenti, nell’ottica di una “riconversione ambientale” del sistema produttivo; aggiungendo, non appena presentato il nuovo governo, che esso sarà un “governo ambientalista”. Ma, soprattutto, la precisazione secondo cui il nuovo ministro sarà anche il “coordinatore dell’istituendo comitato interministeriale sulla Transizione ecologica”. Il che fa pensare a una transizione ecologica che vada ben oltre le competenze del nuovo ministero rendendo necessario un comitato interministeriale che dovrà agire sotto il suo coordinamento.

Scelta che potrebbe assumere un significato realmente dirompente se la colleghiamo ai primi adempimenti del governo relativi ai fondi del programma “Next generation Eu” (223 miliardi destinati al rilancio degli Stati membri dopo la pandemia), cui accedere attraverso un Piano nazionale di ripresa e resilienza in linea con gli obiettivi del Green Deal europeo; e cioè con la risposta europea all’emergenza dei cambiamenti climatici per “trasformare l’Unione Europea in una società giusta e prospera, con un’economia di mercato moderna e dove le emissioni di gas serra saranno azzerate, e la crescita sarà sganciata dall’utilizzo delle risorse naturali; di modo che nel 2050 non siano più generate emissioni di gas a effetto serra, la crescita economica sia dissociata dall’uso delle risorse e nessuna persona e nessun luogo sia trascurato”. Piano d’azione indirizzato, quindi, a “promuovere l’uso efficiente delle risorse tramite un’economia pulita e circolare, a ripristinare la biodiversità e a ridurre l’inquinamento”.

Per il nostro Paese, il governo Conte ha delineato, per questo piano, 6 “missioni” (Digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo; Rivoluzione verde e transizione ecologica; Infrastrutture per la mobilità; Istruzione, formazione, ricerca e cultura; Equità sociale, di genere e territoriale; Salute). Si tratta, tuttavia, solo di linee guida del tutto generiche e parziali, come giustamente rilevato dal Wwf il quale richiede con forza azioni immediate, con adeguate risorse, per la difesa della biodiversità e per la cura del territorio.

A questo punto, appare, comunque, di tutta evidenza che una “rivoluzione verde” quale quella voluta dal Green Deal europeo tocca, in un modo o nell’altro, le competenze di quasi tutti i ministeri esistenti, cui si richiedono drastiche azioni di modifica dell’esistente e di programmazione di nuove iniziative. Per cui ci vorrebbe un organo interistituzionale di altissimo livello, in grado, con adeguato corredo di strutture tecniche e amministrative, di stimolare, controllare e coordinare, nell’ottica del Green Deal europeo, tutti i programmi di “sviluppo” governativi. Resta solo da augurarsi che sia questo il senso dell’istituendo “Comitato interministeriale sulla Transizione ecologica”, il quale, comunque, per ottenere i risultati sperati sulla politica generale, dovrà agire con il massimo sostegno diretto del presidente del Consiglio. E soprattutto con la consapevolezza che, come si legge nell’Enciclica Laudato si’, “non basta conciliare, in una via di mezzo, la cura per la natura con la rendita finanziaria, o la conservazione dell’ambiente con il progresso. Su questo tema le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro. Semplicemente si tratta di ridefinire il progresso”. Utopia?

 

Come le ricette in cucina, anche i trucchi di magia sono di chi li ha inventati

Ancora sulle norme sociali degli illusionisti. Molti di loro sono convinti sia del tutto legittimo usare un trucco altrui che riescono a indovinare da soli (Jones, 2012): la legge, del resto, non considera reato la violazione del codice d’onore degli illusionisti (Harrison v. SFBroad., 1998). Storicamente, fra l’altro, la consuetudine era quella di divulgare i trucchi dei concorrenti, per dimostrare di essere più bravi e ottenere più ingaggi (Stone, 2012): questo costringeva a innovare (Loshin, 2010). Le sanzioni sono implementate dalla consorteria. Quando il mago Robert Blaney scoprì che una ditta inglese vendeva un trucco di magia da lui ideato, chiese al proprietario della ditta di smettere. Questi replicò che nessuna legge glielo impediva. Allora Blaney scrisse ai confratelli del Magic Circle di Londra spiegando l’accaduto; si sparse la voce, e in breve la ditta fallì (Loshin, 2010). Non sapremo mai se l’accusa di Blaney fosse fondata, e fino a che punto. Nel 1932, uno dei fondatori del Magic Circle di Londra, il mago David Devant, pubblicò un libro in cui svelava molti trucchi di illusionismo, alcuni dei quali inventati da lui; il circolo lo espulse (Loshin, 2010), ma oggi quel libro (Our Magic) è un classico del genere, e il premio più prestigioso per un illusionista inglese è il David Devant Award (Stone, 2012). Sfidando il codice d’onore, nel 1997 un celebre illusionista americano svelò molti trucchi in una serie tv di quattro puntate, trasmesse da Fox negli Usa, e da Sky e Itv in Inghilterra. Il mago era mascherato: quando fu resa nota la sua identità, venne cacciato dalla consorteria e ricevette minacce di morte; ma quello show rinnovò l’interesse per gli spettacoli di magia, e la comunità degli illusionisti ne trasse vantaggi economici (Stone, 2012), a dimostrazione che norme iper-protezionistiche rendono il mercato asfittico, in quanto meno competitivo (Bolles, 2011): l’arte non è solo per chi la pratica, ma anche per chi la fruisce (Nimmer & Nimmer, 2012).

I trucchi di magia possono essere brevettati: nel 1923, Horace Goldin brevettò la cassa del trucco in cui segava una donna a metà. Il problema è che il brevetto rende pubblico il segreto. Nel 1983, l’illusionista Raymond Teller ottenne il copyright per un suo trucco (Shadows, 1976) depositando lo storyboard della performance: registrò cioè il trucco come pantomima. Teller non lo considera un trucco di magia, ma performance art. Si ispirò a Houdini, che depositava i suoi numeri come atti unici teatrali: un trucco, infatti, si fonda sempre su tecniche precedenti, ma l’ordine in cui queste si succedono può essere tutelato (copyright di compilazione).

Sono numerose le comunità creative che si regolano con norme sociali e non con il copyright, per esempio quelle dei cuochi, della moda, dei profumi, dei caratteri tipografici.

Le norme degli chef francesi ricordano quelle dei comici e degli illusionisti: 1) uno chef non può copiare senza permesso ricette, né in cucina né in pubblicazioni; 2) uno chef non può divulgare senza permesso ricette comunicategli da altri chef; 3) uno chef deve attribuire ricette e innovazioni alla loro fonte. La sanzione consiste nella gogna e nell’ostracismo da parte della comunità (Fauchart & Von Hippel, 2008). Più una comunità si allarga e si diversifica, però, meno unanimità riscuotono norme e usanze (Lemley, 1998). A Torino, uno dei ristoranti di Piero Chiambretti si fece pubblicità in modo ingegnoso: il menù proponeva a prezzo modico portate costose copiate a ristoranti famosi.

(10. Continua)

 

Due sentenze che sanciscono il fallimento di questo Csm

E ora? Le sentenze del Tar che accolgono i ricorsi di Marcello Viola e Francesco Lo Voi per la procura di Roma dovrebbero spingere questo Csm a guardarsi allo specchio.

Mettiamo ordine: il 23 maggio 2019 Viola risulta il più votato, nella Quinta commissione, con 4 voti a favore, mentre Lo Voi e Giuseppe Creazzo ne incassano uno. Certo, c’è da aspettare la decisione del Plenum, ma la pole position di Viola è indubitabile.

Una settimana dopo arriva lo tsunami, ovvero l’inchiesta su Luca Palamara, intercettato mentre discute e promuove la candidatura di Viola con i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri. È il famoso dopo cena all’hotel Champagne di Roma. Un luogo che è una metafora: Viola salta come un tappo. Il Csm azzera l’iter, si vota di nuovo, i 13 candidati si ripresentano ai nastri di partenza. Ma che c’azzecca? Né Viola, né Creazzo, né Lo Voi avevano avuto un ruolo nelle condotte di Palamara, Lotti e Ferri.

Paradosso nel paradosso, a stabilire che tutto s’azzera, è un Csm che vanta come vice presidente David Ermini. Come e dove viene prescelto? Dagli stessi Palamara, Lotti e Ferri, durante una cena a casa del laico Pd Giuseppe Fanfani. La sua, a differenza di un procuratore della Repubblica, è una nomina da sempre condivisa con la politica. Ma il paradosso è che Viola salta senza aver consumato una cena, una colazione, un aperitivo e neanche un pic nic con i tre protagonisti.

Il Csm però – rinnegando Viola, quindi se stesso, poiché l’aveva votato – nomina Michele Prestipino e la sua decisione viene bocciata dal Tar. Il Consiglio di Stato stabilirà se le tesi del Tar siano valide o meno e riteniamo che Prestipino, magistrato eccellente, avrebbe fatto volentieri a meno di questo epilogo ma anche del prologo. Il punto è un altro: mai la Procura di Roma s’è trovata in un tale pasticcio.

Il Tar sottolinea: quando il Csm cambia indirizzo su Viola – che delle manovre palamaresche era ignaro – non motiva il suo cambio di rotta (Palamara ci salta subito su e, sul mutamento di scelta, ora chiede lumi a Piercamillo Davigo). Peraltro Viola, se i titoli ce li ha il 23 maggio 2019, non può averli persi dopo. E allora: come si è giunti fin qui? Quanto ha pesato l’esigenza di una “discontinuità” con le scelte di Palamara, trasfigurato da re a reietto delle correnti? E quanto la “continuità” con l’era romana di Giuseppe Pignatone? Sospettiamo che “continuità” e “discontinuità” non siano ancora assurti a titoli ufficiali (quindi validi) per affidare la guida di una procura. Ma una certezza c’è: trasformare la guida della procura di Roma in uno scontro di carte bollate è un fallimento senza appello.

L’antico morbo democratico e le lacrime delle donne

Piangono lacrime di coccodrillo le donne del Pd tagliate fuori dal governo Draghi.

Mi scuso della brutalità, ma alla loro coordinatrice Cecilia D’Elia, a Barbara Pollastrini, a Debora Serracchiani, a Marianna Madia, a Roberta Pinotti e alle altre che ora denunciano la “ferita” inferta loro da un gruppo dirigente compattamente maschile, viene da rispondere: dove eravate nel 2007 quando Rosy Bindi si candidò alla segreteria del partito in alternativa a Veltroni? O nel 2016 quando Francesca Balzani sfidò Beppe Sala alle primarie per candidarsi sindaca di Milano?

Cito tali esempi, fra innumerevoli altri, perché li ho vissuti personalmente. Impegnandomi al fianco di queste donne non solo per le loro qualità politiche e personali, ma nella convinzione che il loro affermarsi “numeri uno” avrebbe rappresentato un’innovazione di cui la sinistra italiana aveva bisogno. Invece è regolarmente scattato tra voi il richiamo di partito (o di corrente), tipico in special modo di quelle che provenivano dal Pci, per cui suonava imperativa l’indicazione proveniente dall’alto dell’uomo della Ditta. Quante volte vi ho sentite ripetere che era troppo presto, che la solidarietà femminile non doveva prevalere sulla scelta politica, che al momento era meglio accontentarsi di uno spazio di rappresentanza?

Ben prima della designazione dei tre ministri Pd nominati da Draghi, l’organigramma del vostro partito aveva preso una conformazione integralmente maschile. Nel 2019, quando Zingaretti venne eletto segretario, in un’intervista pubblicata nel suo libro “Piazza Grande”, gli feci notare che nelle posizioni apicali aveva accanto solo uomini: il presidente, i capigruppo nel Parlamento italiano, il capogruppo al Parlamento europeo. Questa fu la risposta di Zingaretti: “Il Pd deve assumere nel prossimo futuro un modello che i Verdi tedeschi praticano da tempo nei loro forum: per ciascun organismo, la doppia direzione uomo-donna. L’ho messo nel mio programma e lo faremo”. Non è andata così. C’è voluto un anno perché la sindaca di Marzabotto, Valentina Cuppi, venisse nominata presidente del partito (senza peraltro esercitarvi un effettivo ruolo di direzione). E solo nel giugno 2020 è stata ricostituita, dopo anni di assenza, una Conferenza delle donne democratiche. Contraddistinta, va pur detto, da sostanziale irrilevanza.

La spiacevole verità è che le donne del partito hanno assunto in pieno la stessa vocazione governista tipica dei maschi. Secondo cui la politica altro non sarebbe che comando, e dunque il culmine della carriera è fare il ministro. Si tratta di un limite culturale, diciamo pure di un morbo, che sgretola l’idea stessa di una formazione progressista fondata sulla militanza di popolo e sul perseguimento di modelli sociali alternativi. Non sarà qualche sottosegretaria a sanare questa che è una vera e propria mutilazione.

Fenomeno Funiciello, “Genio & regolatezza”

L’aura magica dell’ineffabile Draghi si allunga per osmosi sui nuovi collaboratori: la nomina di Antonio Funiciello a capo di gabinetto è stata accolta dalla stampa amica con un sentimento che oscilla tra la placida benevolenza e l’entusiasmo da stadio. Era troppo chiedere ai giornali di ricordare le allusioni da osteria di Funiciello su Chiara Appendino e Sara Tommasi, oppure il brillante servizio prestato a Matteo Renzi nella campagna suicida del referendum costituzionale. Niente di tutto questo. Invece è stato descritto a quotidiani quasi unificati come un professionista versatile, validissimo, solido giornalista e intellettuale di rango. Particolarmente spinti gli apprezzamenti della Stampa, che non riesce proprio a trattenere l’emozione: Funiciello – soprannominato “Genio & regolatezza” – è “una delle figure più originali nel rumorosissimo palcoscenico politico-mediatico: brillante ma silenzioso, colto e sconosciuto al grande pubblico, è invece conosciuto dalla classe dirigente per la preveggenza che esercita nella lettura dei fatti politici (‘non ne sbaglia una’, dice un leader che lo conosce bene)”. Ha anche dei difetti, forse, ma non vengono in mente.

L’umanizzazione di Supermario detto il messia

Spassoso come sempre, Gian Antonio Stella ci delizia sulla prima pagina del Corriere della Sera con un’antologia degli “elogi (di troppo) al potere”, da Garibaldi ai giorni nostri, e con l’appello “salvate il soldato Draghi” quasi soffocato dagli “osanna” e dai “salamelecchi”. Un grande benvenuto tra noi visto e considerato che sul tema “Santo subito” il Fatto è prodigo di citazioni, un paio tratte dal Corriere che, causa la natura bastarda di questa rubrica, il meschino gestore è andato subito a sbirciare.

Per carità, niente di paragonabile ai busti di De Nicola e De Gasperi che in un corridoio di Montecitorio “sorridono pensando a Draghi”, o al Draghi di Città della Pieve che “al bar in piazzetta si siede sempre vicino alle piante per non farsi riconoscere” (capolavori di cui non citeremo le fonti in quanto patrimonio dell’umanità). Invece, riguardo al Corriere, come non apprezzare l’eleganza del titolo: “Pasquino e le partite di calcio in America: Draghi era riflessivo anche in campo”, quando nell’articolo il politologo, con scarso tatto, lo definisce “poco scattante, troppo riflessivo, riluttante a ostacolare gli avversari” (non proprio un Maradona, insomma). Nell’improvviso bagno di realtà della stampa italiana, di cui non possiamo non compiacerci, spicca il titolo del Foglio: “Non fate di Draghi il nuovo messia”, che rappresenta un responsabile passo indietro rispetto al Draghi che cammina sulle acque sfogliando la miracolosa Agenda Draghi.

Lungi da noi il bieco pensiero che nella vulgata dei giornali adoranti l’umanizzazione di colui che si è reincarnato a palazzo Chigi avvenga soltanto dopo che quel figuro del predecessore si è finalmente tolto dalle scatole. No, “il premier non è qui per salvare l’Italia, ma per permettere all’Italia di salvarsi da se stessa”, leggiamo nell’editoriale fogliesco: magistrale doppio salto carpiato che ricorda il chiedete cosa potete fare voi per il vostro paese, ovvero per SuperMario, di kennediana memoria. Sottoscriviamo, a patto che dopo averci un po’ deluso con i ministri che non sembrano tutti “di alto profilo”, oggi in Parlamento il premier pronunci, come leggiamo, un discorso breve ma di “ampio respiro”. E che sia soprattutto provvisto di una “visione”. Quando c’era Conte ci avete sbomballato che era privo di visione e adesso alla visione no non ci rinuncio.

Umbria leghista: marcia indietro su Bertolaso, meglio Arcuri

“Guido Bertolaso è insostituibile. Me lo tengo stretto”. Attilio Fontana non molla l’ex capo della Protezione civile. Il governatore della Lombardia risponde ad Antonio Tajani, coordinatore di Forza Italia, che aveva proposto Bertolaso come capo della struttura commissariale governativa per l’emergenza Covid, al posto di Domenico Arcuri. Giudizio mutato, invece, per Donatella Tesei. La governatrice leghista dell’Umbria è alle prese, nella sua Regione, con una grave impennata dei contagi, che ha portato da giorni la provincia di Perugia in zona rossa. A fine ottobre, Tesei aveva chiesto l’aiuto di Bertolaso per redigere un “piano di salvaguardia”, varato il 12 novembre, che avrebbe dovuto blindare la sanità regionale. Ma il piano-Bertolaso ha fallito. I tecnici della Regione Umbria sono corsi ai ripari con un nuovo documento – cui manca solo il timbro dell’ufficio protocolli – che ora si affida al commissario Arcuri.

Una delle intenzioni di Bertolaso era di recuperare 14 posti letto di terapia intensiva trasferendo i malati gravi nella “astronave” di Civitanova Marche, a 150 km da Perugia. Nel piano ufficioso si spiega che “tali posti letto non vengono riproposti” in quanto “contenuti nei 44 posti letto dei moduli esterni inviati dalla struttura commissariale”, così da “avere ulteriori 16 posti letto aggiuntivi rispetto al piano iniziale”. I container di Arcuri ingloberanno anche i 14 posti letto mai realizzati al 3° piano dell’Ospedale di Terni. La saturazione delle terapie intensive in Umbria è del 60% sui 141 posti disponibili: Bertolaso ne aveva previsti 167.

E ieri il ministro della Salute Roberto Speranza ha risposto all’appello della governatrice leghista, recandosi a Perugia: “Dobbiamo monitorare con grande attenzione l’Umbria” alla luce delle “varianti” che “hanno condizionato la curva del contagio prima che altrove”.

“A Zaia han promesso dosi destinate a Paesi extra-Ue”

“Delle due l’una: o a Zaia hanno proposto vaccini contraffatti, oppure erano destinati a Paesi extraeuropei che stanno cercando di rivenderli, probabilmente dall’Africa”. Così la spiegano a Roma tre fonti qualificate. La verità è nei codici dei lotti offerti da imprecisati “intermediari”, che sono “nostri fornitori abituali” spiegano dalla Regione Veneto, al presidente Luca Zaia, capofila delle Regioni che vorrebbero fare da sé per accelerare le vaccinazioni. Rispettivamente 12 e 15 milioni di dosi di “vaccini Ema”, cioè 27 milioni di dosi Pfizer/Biontech, Moderna o AstraZeneca, che potrebbero arrivare “entro un mese” e risolverebbero non pochi problemi non solo in Veneto ma in tutta Italia. Insomma, dove non arriverebbe lo Stato arriverebbe lui.

Zaia ha raccontato diffusamente la vicenda: “Ieri ne ho parlato – ha detto – con il commissario Arcuri: ho spiegato che ci eravamo rivolti ad Aifa e a sua volta ci ha dirottato su di lui. Il dottor Arcuri, ha già sentito il direttore della sanità del Veneto Luciano Flor, che a sua volta ha richiesto il numero dei lotti dei vaccini”. Da Venezia assicurano: “Il commissario Arcuri ha tutti gli elementi per valutare le offerte”. Ma quei codici, che permettono di risalire a filiere produttive e destinatari dei vaccini, a Roma fino a ieri sera non erano arrivati.

Nei giorni scorsi, di fronte a notizie di stampa su misteriosi intermediari che offrono vaccini, almeno due delle aziende che producono sieri autorizzati dall’agenzia europea Ema hanno assicurato che stanno vendendo solo agli Stati: “Pfizer e BioNTech non stanno fornendo il loro vaccino al mercato privato in questo momento”, hanno scritto l’azienda Usa e il suo partner tedesco che producono Comirnaty. “Non vi è attualmente alcuna fornitura, vendita o distribuzione del vaccino al settore privato. Se qualcuno offre vaccini attraverso il settore privato, è probabile si tratti di vaccini contraffatti e come tali vanno segnalati alle autorità competenti”, ha avvertito l’anglo-svedese AstraZeneca.

Certamente Zaia ha ricevuto le offerte di cui parla, del resto se ne trovano perfino su internet tanto che i carabinieri del Nas hanno già oscurato diversi siti. Il presidente veneto non sa altro, né dipende da lui se qualche funzionario di Paese extraeuropeo ha pensato di rivendere i vaccini acquistati per i suoi concittadini. Giustamente lo stravotato presidente leghista pensa solo ai “cinque milioni di veneti da vaccinare” e afferma che “il vincolo Ue per gli acquisti di vaccini riguarda gli Stati membri, ma non le Regioni”. Quanto al prezzo, “è in linea con quelli di mercato, anzi in un caso sono lievemente inferiori e noi non strapagheremo mai i vaccini”. Sarebbe “immorale” spiegano i suoi. Sono notoriamente segreti i contratti firmati dall’Unione europea, i prezzi si conoscono solo grazie a indiscrezioni non confermate o al famoso tweet “sbagliato” della ministra belga Eva De Bleeker, che qualche settimana fa ha pubblicato una tabella secondo la quale AstraZeneca costa all’Ue 1,78 euro a dose, Pfizer/Biontech 12 e Moderna 18. Figuriamoci quelli praticati ad altri Paesi.

Altri presidenti di Regione, dal lombardo Attilio Fontana al dem Stefano Bonaccini che guida l’Emilia-Romagna, seguono con attenzione le mosse di Zaia. Protesta invece contro il “mercato opaco dei vaccini” il professor Andrea Crisanti, direttore della Microbiologia dell’università di Padova, già consulente di Zaia e poi inascoltato fautore di un piano di sorveglianza nazionale sul SarsCov2 per limitare le differenze di metodo e di approccio tra le varie Regioni che oggi complicano la caccia alle varianti più pericolose del virus. “Come lo chiamereste – chiede Crisanti – un mercato che non origina direttamente dalle aziende produttrici?”.

Arcuri attende i codici.