“Il lockdown totale è troppo doloroso per i poveri. L’Italia a colori funziona”

“Le varianti vanno identificate e ne va monitorata la diffusione in modo dettagliato e tempestivo”. Il virologo Guido Silvestri dal suo studio di Atlanta avvisa: “Poi dobbiamo studiarle in laboratorio per capire se e come modificano la capacità del virus di trasmettersi, di indurre malattia e di dare resistenza a vaccini ed anticorpi. Infine è importante utilizzare queste informazioni per nuovi vaccini che proteggano meglio dalle varianti stesse”.

Dobbiamo aver paura delle varianti?

Quello che non serve è la paura fine a se stessa, il panico generalizzato, che alla fine fanno prendere decisioni emotive e non basate sui dati e si rivelano quasi sempre sbagliate.

Le varianti rischiano di render vana la vaccinazione?

Al momento non lo sappiamo e tutto è possibile. Però possiamo dire che le due varianti meglio studiate, “inglese” e “sudafricana”, sembrano suscettibili alla neutralizzazione causata dagli anticorpi indotti dai vaccini Pfizer e Moderna, come dimostrato in due studi recenti dei gruppi della Columbia University e del Vaccine Research Center del Nih. Dobbiamo vaccinare quante più persone possibili al più presto; qui negli Usa abbiamo passato i 40 milioni di persone che hanno ricevuto almeno una dose, e la media mobile settimanale dei casi è già scesa del 65% rispetto a sei settimane fa e senza nessun lockdown generalizzato.

Crede che le zone regionali a colori possano ancora funzionare o servirebbe un lockdown generalizzato?

I lockdown generalizzati sono molto dolorosi, soprattutto per le fasce più deboli e povere della popolazione; per questo le restrizioni dovrebbero essere quanto più flessibili e granulari possibili. L’idea è quella di monitorare la diffusione dei nuovi casi (e delle varianti) per capire dove occorrono restrizioni più rigide e dove, invece, si può riaprire, evitando così vessazioni inutili ai cittadini. Un lockdown generalizzato era giustificato nel marzo 2020, ma adesso, in una situazione di sostanziale stabilità come quella odierna, con la media mobile dei nuovi casi al giorno attorno a 11mila-12mila ormai da alcune settimane, il sistema a zone “colorate” è molto più adeguato.

La terza ondata secondo lei è scontata anche in Italia?

Non lo sappiamo, sbaglia sia chi esclude una terza ondata sia chi la dà per scontata. Una cosa è certa: ogni persona che si vaccina rappresenta un piccolo muro contro questa ondata, è su questo che dobbiamo accelerare.

È stato confermato il ministro della Salute Roberto Speranza. All’Italia serve più continuità o al contrario discontinuità? Da voi senza Donald Trump vede già un cambiamento nella gestione della pandemia o è presto?

La grande difficoltà della sfida della pandemia ha messo a dura prova tanto politici che esperti, in tutto il mondo e non solo in Italia. Detto questo, credo che serva un certo livello di continuità, per evitare di dover ripartire da capo, ma credo anche che laddove ci siano stati errori, come nel caso di Aifa e della iniziale mancata autorizzazione al trial degli anticorpi monoclonali, bisogna avere il coraggio politico di dare un segnale di cambiamento, evitando di confermare alcune cariche solo perché gli interessati sono molto protetti politicamente. Quanto all’America, credo che dal 20 gennaio la gestione della pandemia sia molto più pragmatica e data-driven, con grande enfasi sulla vaccinazione di massa, e questo mi fa ben sperare sulla possibilità di ritornare presto alla nostra amata normalità.

Varianti, la Germania si chiude. Europa: ok più veloci ai vaccini

La notizia che getta nello sconforto e nel terrore la comunità scientifica e i governi la rivela il Daily Mail: è stata identificata nel Regno Unito un’altra variante di SarsCov2 che potrebbe sfuggire ai vaccini anti-Covid. Si chiama B.1.525, è stata trovata in 32 persone, anche se il dato potrebbe essere sottostimato ed è già comparsa anche in Italia, virus individuato dal Pascale di Napoli e dalla Federico II in un professionista di ritorno dall’Africa.

Oltre alla mutazione E484K presente anche sulle varianti brasiliana e sudafricana, B.1.525 porta un’altra mutazione – detta Q677H – sempre sulla proteina Spike che il coronavirus usa per attaccare le cellule bersaglio. Queste due mutazioni preoccupano molto gli esperti per gli effetti sull’efficacia dei vaccini. La nuova variante condivide inoltre alcune somiglianze con il mutante Kent, quello ormai prevalente Oltremanica, ritenuto fino al 70% più contagioso e probabilmente anche più mortale. La B.1.525 è stata rilevata per la prima volta in Gran Bretagna a metà dicembre, e si sarebbe già diffusa in undici Paesi tra cui Stati Uniti, Canada e Danimarca. È stata collegata a un viaggio in Nigeria, dove 12 dei 51 campioni di virus analizzati (24%) presentavano il nuovo mutante. Per correre ai ripari, una procedura accelerata per l’approvazione di vaccini adattati alle nuove varianti e una spinta alla collaborazione tra i produttori per aumentare le forniture, sia dei vaccini già autorizzati sia di quelli per possibili nuovi ceppi virali, sono al centro della nuova strategia che la presidente della commissione europea Ursula von der Leyen presenterà oggi per far fronte all’attuale fase della pandemia caratterizzata dal rischio mutazioni. Ma intanto arriva una nuova frenata nella produzione dei vaccini che ci sono già: è Moderna ad annunciare problemi, in Italia a febbraio arriveranno 248mila dosi di vaccino invece delle 488mila previste. La buona notizia è che il quarto vaccino in approvazione, quello importante perché monodose di Janssen-Cilag International, del gruppo Johnson&Johnson, dovrebbe ricevere il via libera europeo a metà marzo.

E intanto la Germania ha deciso di prolungare da oggi al 3 marzo le restrizioni per chi entra da zone con maggiore diffusione riscontrata di varianti SarsCov2, tra cui Portogallo, Brasile, Sudafrica e Regno Unito; possono rientrare solo i cittadini tedeschi o i residenti, tranne rare eccezioni. A questi Paesi nel weekend si sono aggiunti Tirolo e Repubblica Ceca. La motivazione della misura è “la trasmissibilità significativamente più facile” dei virus mutati. E con la libera circolazione nell’area Schengen che ritorna a essere minacciata come durante la prima ondata di quasi un anno fa, l’Unione europea ha scritto agli Stati membri, concedendo la possibilità di “limitare la libertà di circolazione per ragioni sanitarie”, ma con misure che siano “proporzionate e non discriminatorie”. Soprattutto la commissione Ue chiede che i lavoratori dei trasporti possano circolare per evitare problemi di approvvigionamento di beni essenziali.

In Italia per ora le aree che preoccupano di più per il diffondersi delle varianti sono: la Puglia, analizzando un campione di tamponi positivi prelevati il 12 febbraio la percentuale della “inglese” risulta del 38,6%; la provincia autonoma di Bolzano con sei casi di “sudafricana” individuati in quattro diversi comuni; l’Umbria, dove ieri è arrivato il ministro Roberto Speranza: “Proveremo ad offrire medici, infermieri e personale per dare una mano al lavoro straordinario che si sta facendo sul territorio per approfondire una sfida che ora è qui in Umbria ma che potrebbe essere presto di tutto il Paese”.

E negli Stati Uniti sono state individuate sette nuove varianti, lo riporta uno studio preliminare, citato dal New York Times: le varianti sono state scoperte in diverse parti degli Usa e non è ancora chiaro se i ceppi siano più contagiosi.

Roma, Prestipino in bilico. Sì ai ricorsi di Viola e Lo Voi

Csm bocciato dal Tar del Lazio per la nomina delle nomine: il procuratore di Roma. Proprio quella che ha fatto precipitare il governo autonomo della magistratura sull’orlo dello scioglimento, con ben 5 consiglieri togati costretti alle dimissioni così come il procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio, nella primavera-estate dello scandalo nomine, lo scandalo Palamara, con tanto di dopo cena segreto, il 9 maggio 2019, all’hotel Champagne, fuori da qualsiasi circuito istituzionale. Ieri il Tar ha accolto i ricorsi del procuratore generale di Firenze Marcello Viola e del procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, sostenendo che la nomina di Michele Prestipino è “viziata” sotto vari profili. Respinto, invece, il ricorso del procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo poiché non ci sono “omissioni” nella comparazione tra i due profili.

Che succede adesso? Praticamente certo il ricorso del Csm e del procuratore Prestipino al Consiglio di Stato, la battaglia è lunga. Sono le motivazioni dell’accoglimento del ricorso Viola quelle più dirompenti, in cui ci sono alcuni passaggi che ricordano come il pg di Firenze, il grande escluso dalla corsa post scandalo Palamara a procuratore di Roma, sia stato estromesso senza una motivazione logica. Perché è vero che fu il prescelto da sponsorizzare per la nomina a Roma dai presenti all’hotel Champagne, Luca Palamara, Cosimo Ferri, Luca Lotti e gli allora togati Antonio Lepre, Luigi Spina, Gianluigi Morlini, Corrado Cartoni e Paolo Criscuoli, ma fu un prescelto a sua insaputa. Gli avvocati Girolamo Rubino e Giuseppe Impiduglia, che hanno rappresentato il pg di Firenze, sottolineano che “il Tar del Lazio ha rilevato come dalla documentazione relativa all’indagine di Perugia fosse emersa la qualità di parte offesa del dottor Viola rispetto alle macchinazioni o aspirazioni di altri”. In particolare, il Tar ricorda che “nel dibattito sorto nell’ambito del plenum stesso, vi siano stati alcuni interventi che lamentavano proprio il mancato inserimento” del pg Viola alla corsa per Roma. Si riferisce a Stefano Cavanna ed Emanuele Basile, laici della Lega, e al togato Nino Di Matteo.

Viola, pochi giorni prima che deflagrasse lo scandalo, il 23 maggio 2019, fu il candidato più votato dalla Quinta commissione che propone le nomine al plenum. Dopo la pubblicazione delle intercettazioni, però, il Csm è come una nave in mezzo a una forte tempesta, a settembre 2019 la Quinta azzera il voto di maggio e quando vota a gennaio 2020, in ordine sparso, esclude Viola dalla corsa. Il 4 marzo 2020 arrivano in plenum tre proposte: Prestipino, Lo Voi e Creazzo.

E il Tar a questo proposito osserva: “Non risulta alcuna specificazione sulle ragioni per le quali il ricorrente (Viola, ndr) è stato omesso nella valutazione a seguito dell’acquisizione degli atti sull’indagine in corso (a Perugia, a carico di Palamara, ndr) e non l’altro magistrato coinvolto (Creazzo, ndr), pure originario destinatario di una proposta” nel 2019. Inoltre, prosegue il Tar, Viola non ha né procedimenti disciplinari né penali. Il finale ora messo in discussione dal Tar si conosce: Prestipino viene nominato procuratore di Roma con soli 14 voti e dopo un ballottaggio con Lo Voi. Per lui votano i 5 togati di Area, Cascini, Chinaglia, Dal Moro, Suriano, Zaccaro; 3 dei 5 consiglieri di AeI: Davigo, relatore, ma che nel 2019 aveva votato per Viola, Marra, Pepe; i laici di M5S Benedetti e Gigliotti. Per Lo Voi i 3 togati di Mi, Bragion, D’Amato e Micciché, i laici di FI, Cerabona e Lanzi, il laico della Lega, Cavanna e il presidente della Cassazione Mammone. Il pg Salvi si astiene. Per Creazzo i 3 togati di Unicost, Mancinetti, Ciambellini e Grillo; i togati di AeI, Ardita e Di Matteo; il laico M5S, Donati. Non c’è maggioranza, si va al ballottaggio. Per Prestipino ai voti del primo turno si aggiungono quelli di Unicost e del pg Salvi mentre ai 7 voti per Lo Voi si aggiunge soltanto l’ottavo di Donati. Ora quella nomina delle nomine è stata annullata dal Tar e mentre il ricorso, come detto, è scontato, l’esito molto meno.

Ma, intanto, leggendo le motivazioni del Tar emerge che il Consiglio, in profonda crisi di etica per quello che certamente è lo scandalo più grave dai tempi della P2, nella scelta del procuratore di Roma disattende i parametri di valutazione e il percorso di chiarezza che deve tracciare per fare comprendere le sue scelte, pur nel rispetto della sua discrezionalità, istituzionalmente riconosciuta. E così si fa bocciare in due casi su tre mentre avrebbe dovuto fare una nomina a prova di ricorso.

L’Iit ha svuotato la ricerca senza produrre risultati

L’Istituto italiano di tecnologia (Iit) fu fondato nel 2005 sotto il governo Berlusconi con Tremonti ministro: pur essendo un ente con la missione di occuparsi di tecnologia e ricerca non ha alcuna relazione con il ministero dell’Università e della Ricerca, come tutti gli altri Enti di ricerca, ma solo con il ministero dell’Economia che gli ha dato in dote 100 milioni all’anno. L’ideatore dell’operazione fu Vittorio Grilli, dal 2002 al 2005 ragioniere generale dello Stato e poi alto dirigente del Tesoro. Grilli è stato commissario unico della fondazione Iit per poi diventarne presidente: è oggi presidente del consiglio della fondazione. Roberto Cingolani, attuale ministro della Transizione ecologica, è stato direttore scientifico dal 2005 al 2019.

Grilli, dopo la laurea in Bocconi ha passato vari anni tra gli Stati Uniti e l’Inghilterra e, forte di questa esperienza, tornato in Italia aveva le idee ben chiare su come riformare la ricerca nel nostro paese, che – come scrissero Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – era senza speranza tanto che “riversare più fondi in questo sistema è come buttarli al vento…”. L’unico modo per garantire “…rigore, controlli ed incentivi… è muoversi all’esterno dell’università italiana di oggi. Vittorio Grilli ci sta provando con l’Iit: è per questo che cerchiamo di aiutarlo mentre tutti i conservatori lo criticano”.

Questa è stata l’origine ideologica dell’Iit, il primo istituto del nuovo corso della ricerca italiana non più basato sulla struttura pubblica che, con tutti i suoi difetti, è innegabile che abbia prodotto risultati eccellenti. Invece di riformare il sistema, si è pensato di superarlo con una Fondazione privata libera dai “lacci e lacciuoli” della P.A.. Vista la grande disponibilità di fondi (ricordiamo la polemica sui 430 milioni di Iit depositati per anni in un conto infruttifero della Banca d’Italia mentre il resto della ricerca subiva tagli pesanti), l’agilità nel reclutamento e nella spesa sconosciuta al resto degli enti pubblici e la presenza nel consiglio dei grandi capitani d’industria e della finanza del Paese, si potrebbe supporre che i risultati siano stati eccezionali.

La missione principale di Iit era proprio quella di sviluppare il ponte tra ricerca e mondo produttivo, quel ruolo che in Germania svolge la rete di istituti Fraunhofer. Dunque, oltre alla pubblicazione di articoli scientifici che il super budget avrebbe dovuto facilitare, il risultato atteso era quello di dare anche un impulso all’industria ad alta tecnologia, sviluppando collaborazioni dirette e attirando capitali, proprio come la rete Fraunhofer che riceve il 70% dei suoi fondi da contratti con industrie o da progetti di ricerca applicata. Nulla di ciò è avvenuto con Iit, come documentato nella dettagliata indagine svolta dalla senatrice Elena Cattaneo qualche anno fa, che ha anche sollevato molte critiche sulla gestione non trasparente dell’istituto da parte della dirigenza e del direttore scientifico Cingolani, in carica per ben 15 anni (impossibile in un ente di ricerca pubblico).

Dal punto di vista tecnologico il progetto di punta di Iit è il robot iCub: a maggio del 2015 Cingolani dichiarava che “entro fine anno avremo il primo robot di plastica, che costerà come uno scooter” e dovrà “riconvertire gran parte degli impianti dell’industria automobilistica”. Secondo Cattaneo mancava però la “reale strategia di mercato per il robot”; anzi, “anche in riferimento ad altri robot a quattro gambe di Iit non è chiaro il loro vantaggio comparativo rispetto ai già esistenti”. Iit ha infatti adottato una strategia di mercato più simile al sistema sovietico che all’agognato libero mercato: nel primo lo Stato finanzia direttamente i prodotti scientifico-tecnologico (tipo iCub), mentre nel secondo finanzia le piattaforme tecnologiche e poi il mercato dovrebbe rischiare acquistando i brevetti e producendo su scala industriale. Ma forse questo è troppo complicato da capire per la classe imprenditoriale italiana che siede negli organi direttivi di Iit. Al momento l’industria automobilistica italiana non è stata riconvertita alla produzione di iCub e l’Iit è ben lungi dall’essere un modello per la ricerca italiana, che ancora langue in uno stato di abbandono.

Human Tech: potere, lobby e baronie

Se la parte “politica” del governo Draghi è stata plasmata con il manuale Cencelli che neanche nella Prima Repubblica, la parte “tecnica” sembra distillata con l’alambicco della restaurazione dei poteri e delle lobby, alta burocrazia dello Stato, magnifiche baronie universitarie, campioni e campioncini confindustriali. È curioso vedere come alcune entità (dall’Istituto italiano di tecnologia di Genova allo Human Technopole di Milano) abbiano nei loro organigrammi un’alta densità di nomi ora finiti nel mozartiano Catalogo del governo di Alto Profilo. Ben tre ministri e un capo di gabinetto del governo Draghi provengono da un unico centro di ricerca, quello più finanziato d’Italia, con 150 milioni l’anno, assegnati non con procedure competitive, ma per legge: Human Technopole (Ht). I tre ministri sono Roberto Cingolani (Transizione ecologica), Maria Cristina Messa (Università e ricerca), Daniele Franco (Economia), a cui si aggiunge Marcella Panucci (capo di gabinetto del ministro Renato Brunetta alla Funzione pubblica). Cingolani scrisse il masterplan di Human Technopole, quando era ancora direttore scientifico dell’Istituto italiano di tecnologia (Iit) di Genova. Franco, neoministro ed ex direttore della Banca d’Italia, e Messa, ex rettore dell’Università Milano-Bicocca, siedono nel comitato di sorveglianza di Ht, come Panucci, ex direttrice generale di Confindustria. Presidente del Tecnopolo è Marco Simoni, professore di Politica economica europea alla Luiss di Roma e dal 2014 al 2018 consigliere della presidenza del Consiglio – prima con Matteo Renzi e poi con Paolo Gentiloni. Curiosa, questa densità ministeriale di Ht. Non si può sostenere che Human Technopole sia la fucina della nuova Nomenklatura dei Migliori, ma la concentrazione di tanti Eccellenti del governo Draghi si può spiegare raccontando come nascono e che cosa sono Iit e Ht. Human Technopole è un po’ l’upgrade di Iit. Sono entrambi istituti di ricerca nati sull’onda delle idee di economisti bocconiani come Francesco Giavazzi e Alberto Alesina e nutriti dal mondo confindustriale: il pensiero che li sosteneva era che l’università e la ricerca pubbliche sono il regno delle baronie e della corruzione e per questo non meritano di essere finanziate con soldi pubblici, né sono capaci di attrarre i fondi privati dell’industria, non sapendo fare da traino all’innovazione industriale del Paese. Lo scriveva l’economista Luigi Spaventa: “Prendo nota del leit motiv di Alesina e Giavazzi: l’università italiana è irredimibile e deve essere abbandonata al suo destino di squallore; qualsiasi intervento all’interno di essa sarebbe un vano spreco”. Meglio dunque mettere i soldi in centri di ricerca gestiti direttamente dal ministero del Tesoro (come Iit e Ht) e non da quello dell’Università, superfinanziarli (100 milioni l’anno per Iit, 150 per Ht), elevandoli sopra la ressa dei poveri, ricercatori e accademici pubblici che competono per le briciole dei pochi fondi per la ricerca. I soldi per Iit erano pari ai finanziamenti per l’intera ricerca scientifica italiana con i progetti di rilevanza nazionale (Prin).

Questo metodo fu lanciato nel 2003 dal ministro Giulio Tremonti e da Vittorio Grilli, economista bocconiano che dal 2002 al 2005 è stato Ragioniere generale dello Stato, in seguito dirigente del Tesoro e poi presidente di Iit. Nel board di Iit siedono e si sono succeduti nel tempo capitani d’industria e della finanza. Iit doveva attrarre i fondi di aziende e multinazionali e guidare la ricerca industriale. Ne attrasse poche briciole, anche perché aveva già tanti soldi dallo Stato da non sapere come spenderli: aveva accumulato, come rivelò il Fatto, un tesoretto di 500 milioni depositati su conti bancari e su conti infruttiferi della Banca d’Italia. Segno di incapacità, secondo il mondo della ricerca e la senatrice a vita Elena Cattaneo. È chiaro che, con così tanti soldi, Iit nel tempo ha prodotto anche ricerca di qualità. Ma dell’aggancio dell’industria e del traino dell’innovazione nessuna traccia. Negli stessi anni in cui, specialmente dopo la riforma voluta da Mariastella Gelmini (altro neoministro di Draghi), l’università e la ricerca pubblica subirono i tagli più pesanti della storia della Repubblica, le aziende italiane, invece di investire in ricerca, aspettano gratis la ricerca pagata dallo Stato.

Human Technopole nasce come continuazione di Iit e del suo metodo a Milano. Matteo Renzi, allora presidente del Consiglio, nel 2016 aveva da risolvere un gran problema: che cosa fare delle aree periferiche, incastrate tra due autostrade, un carcere e un camposanto, dove era stato impiantato Expo Milano 2015. Erano (per la prima volta nella storia delle Esposizioni universali) aree private, comprate a caro prezzo con soldi pubblici. Alla fin della fiera, due aste erano andate deserte, nessuno le voleva ricomprare. Si profilava un buco milionario, da aggiungere a quello dell’esposizione (2 miliardi di uscite, 700 milioni di entrate). Renzi arriva allora a Milano con un’idea che definisce “petalosa”: costituire sull’area Expo un supercentro di ricerca su genoma e big data, con una dote di 1 miliardo e mezzo di finanziamenti pubblici in dieci anni, in grado di attirare attorno le aziende private e trasformare così una landa desolata in un meraviglioso distretto della ricerca. È Human Technopole. Funzionerà? Attirerà davvero le aziende promesse da Renzi (Novartis, Bayer, Glaxo, Bosch, Abb, Celgene, Ibm…)? Chi vivrà vedrà. Per ora si vede più che altro una grande operazione immobiliare da 2 miliardi di euro, che hanno chiamato “Mind”, con 510 mila metri quadrati di nuovi edifici, che ospiteranno 40 mila utenti, guidata dall’operatore australiano LendLease. Intanto il progetto della parte di ricerca, cioè Human Technopole, fu subito rifiutato dal mondo della ricerca e delle università milanesi, perché Renzi lo aveva affidato tutto all’Iit di Cingolani. Dovette cambiare la governance, resa più ecumenica, e tagliarne i fondi (la senatrice Cattaneo è riuscita a farne assegnare il 55 per cento alla ricerca di base). Ora Ht non ha ancora prodotto gran ricerca, ma si è consolidato come un incubatore di potere, da cui è normale pescare per il governo dei Migliori.

Talk show, opposizione cercasi

“Per noi sarà un disastro. Penso che il pubblico dei talk politici serali, tra il 10 e il 12 per cento, rischia di perdere almeno 2 punti”. Chi la vede più drammatica è Nicola Porro, conduttore di Quarta Repubblica. Parliamo del tema più discusso in questi giorni nelle redazioni tv: con una maggioranza così larga, chi invitiamo? Chi si chiama per mettere a confronto idee diverse? Perché, si sa, il pepe dei talk è il dibattito, il più possibile passionale, se non la rissa. E ora che stanno quasi tutti al governo?

È finita l’epoca di un populista di qua e un europeista di là, di un piddino e un leghista che se le danno (verbalmente) di santa ragione. Il rischio è che pure pentastellati e forzisti vadano d’amore e d’accordo. E addio share. “Vivremo questa prima fase in una grande bolla d’ipocrisia, con la retorica del mister Wolf di Draghi, al posto della retorica del loden di Monti. Sarà un periodo soporifero. Potremo scamparla solo parlando di cose concrete: vaccinazioni, riaperture, se posso andare al ristorante. Poi il narcisismo dei leader avrà la meglio e si tornerà come prima”, continua Porro.

Insomma, sarà il virus, con tutto il caravanserraglio di esperti e virologi, a salvarci dalla melassa? “Basta andare oltre il perimetro parlamentare e pescare nella società e nel giornalismo. Vorrà dire che inviteremo di più voi del Fatto…”, scherza Enrico Mentana, reduce da diverse “maratone”. “Poi basterà attendere, perché contraddizioni nasceranno anche all’interno della maggioranza. Quando c’è una coalizione così larga, il dissenso arriva”, aggiunge il direttore del Tg La7.

“Dovremo tutti fare uno sforzo d’immaginazione. Io, per esempio, questa sera (ieri, ndr) ho invitato Graziano Delrio (Pd) e Massimiliano Romeo (Lega) per capire come faranno due partiti che si sono attaccati fino a ieri a stare insieme. Poi prevedo che l’agenda della Meloni sarà molto fitta, le ci vorrà il dono dell’ubiquità…”, osserva invece Bruno Vespa.

Insomma, in televisione ci s’ingegna. Chi resta fuori dal “draghismo”? Meloni, Fratoianni, i dissidenti 5 Stelle, Gianluigi Paragone. E ci sarebbe pure Alessandro Di Battista. “Io ho la mia ricetta: ogni settimana invito un ospite per partito. Continuerò così, col mio personale bilancino. Poi ci sono intellettuali e opinionisti che non vedono l’ora di essere invitati in tv…”, sostiene Gennaro Sangiuliano, che si è inventato il Tg2 Post. “Nemmeno io cambio: vado su temi concreti e faccio parlare la gente. E abbiamo già visto, sullo sci, come si litiga pure in maggioranza”, risponde Paolo Del Debbio, conduttore di Dritto e rovescio. “Spero però – aggiunge – che non si passi dagli eccessi del Conte-Casalino alla comunicazione zero. Agli italiani, nel mezzo di pandemia e crisi economica, il governo deve parlare…”.

La grana Comunali: ancora niente intesa

Tra le conseguenze della crisi di governo c’è anche il nuovo destino delle elezioni amministrative. A maggio infatti si dovrebbe votare in alcune grandi città – Roma, Milano, Napoli, Torino e Bologna – che potrebbero essere ragionevole occasione per testare a livello locale l’asse M5S-Pd-Leu, che ieri si è formalizzata nel nuovo intergruppo parlamentare. La strada però è ancora decisamente in salita. Tanto più che a Milano, per dire, l’arrivo di Mariastella Gelmini al ministero degli Affari regionali ha complicato i piani di Beppe Sala, sindaco Pd in cerca di conferma: il ruolo chiave della forzista nel rapporto con le Regioni è visto come una sponda da cui il centrodestra potrà trarre profitto, risollevandosi dai disastri di Giulio Gallera e compagnia.

Ma i guai per i giallorosa riguardando anche Roma e Napoli. Nella Capitale, il Pd lavora da mesi alla candidatura di Roberto Gualtieri, ma senza il fuoco amico di Virginia Raggi. Dopo il cambio di governo, l’ex ministro ha le mani libere, è ben voluto dai dem romani e la sintonia mostrata con Giuseppe Conte lo fa apprezzare anche dai M5S governativi. Ma l’“ostacolo”, appunto è sempre lo stesso: la Raggi, che “è e resta la candidata M5S”, come ribadito dal Campidoglio.

La sindaca ha anche ricevuto l’endorsement di Barbara Lezzi, la senatrice grillina in prima linea contro la fiducia a Mario Draghi. Per convincerla al passo di lato, il Nazareno spera nella mediazione di Conte. Il Messaggero ieri scriveva che la telefonata dell’ex premier a Palazzo Senatorio c’è già stata, anche se dal Campidoglio smentiscono “categoricamente”. Di mezzo, c’è anche la volontà di Gualtieri. L’ex ministro viene descritto “in fase di riflessione” perché “fare il sindaco di Roma è un impegno molto gravoso”. L’alternativa sarebbe Marianna Madia, ex ministra renziana spinta dalla “onda rosa” crescente nel Pd. La convergenza su Carlo Calenda resterebbe allora solo l’ extrema ratio, il tutto mentre a destra Giancarlo Giorgetti e Giorgia Meloni sponsorizzano l’ex dirigente Figc Andrea Abodi.

A Napoli, invece, è Antonio Bassolino ad aver posato una mina sotto al tavolo Pd-M5S. Lo ha fatto sabato, annunciando la sua candidatura a sindaco, 28 anni dopo l’inizio del Rinascimento Napoletano. E costringendo i dem e il centrosinistra, spiazzati, a rincorrerlo. Il segretario Pd di Napoli Marco Sarracino ha convocato subito una riunione di segreteria, che si è svolta – a dimostrazione dell’urgenza – durante Napoli-Juventus. Si è conclusa con un documento interlocutorio: invito all’unità, sguardo a quel che succede fuori, paura che le divisioni favoriscano le destre.

Ed ora? Ci sono due Pd, quello romano e quello locale. Il primo, di fronte a una eventuale proposta grillina di candidare Roberto Fico, non avrebbe difficoltà a dire sì. Il secondo preferirebbe un nome proprio, uno tra gli ex ministri Enzo Amendola e Gaetano Manfredi, oppure lo zingarettiano Nicola Oddati. Ma sia i dem romani che quelli napoletani hanno deciso di ignorare, e provare a isolare, Bassolino, ritenuto ormai fuori dal partito che nel 2007 l’allora presidente della Campania contribuì a fondare e visto, nel M5S, alla stregua di un cattivo ricordo del passato. Ma poco importa. L’ex sindaco è determinato ad andare fino in fondo e affianca Alessandra Clemente, designata dall’uscente Luigi de Magistris, nella griglia di partenza delle elezioni, pronti a sfidare il più probabile dei candidati del centrodestra, il pm anticamorra Catello Maresca.

Confindustria: licenziare e poi eliminare il Reddito

Chissà se Andrea Orlando pensava che avrebbe fatto il ministro del Lavoro quando lo scorso settembre attaccava Confindustria: “Quando li prendono gli altri si chiamano sussidi. Quando li prendi tu, contributi alla competitività”. Era la risposta a Carlo Bonomi, presidente degli industriali, che sferrava attacchi contro il “Sussidistan”.

Orlando si era messo su una linea di opposizione tradizionale, da sinistra, agli industriali che invece ieri ha incontrato in qualità di ministro. E le ruggini sembra siano rimaste visto che Confindustria, con il suo vicepresidente, il romano Maurizio Stirpe, ha fatto sapere di non gradire il metodo degli incontri separati organizzati dal ministro. Che infatti domenica scorsa aveva visto le principali sigle sindacali – un breve giro di tavolo, nessuna novità di rilievo – e ieri, prima degli industriali, ha visto le altre sigle sindacali come Confapi, Cna, Confartigianato, il sindacato di sinistra Usb.

Ma è l’incontro con Confindustria a segnare la giornata perché da viale Astronomia arriva una scarsa disponibilità ad accettare, sic et simpliciter, una proroga del blocco dei licenziamenti. Stirpe specifica infatti che un conto sono le aziende bloccate da decisioni del governo, quindi direttamente coinvolte da disposizioni normative, per le quali il blocco dei licenziamenti va bene. Ma per le altre, legate “ad andamenti di mercato”, “dobbiamo consentire alle aziende di potersi riposizionare per far ripartire il mercato del lavoro”. Come distinguere una crisi produttiva dalla pandemia è un mistero, ma la posizione di Confindustria è chiara.

Così come è chiara la richiesta di procedere il più velomente possibile alla riforma degli ammortizzatori sociali che è legata al blocco dei licenziamenti, ma dietro cui si nasconde il vero obiettivo di questa trattativa: “Se affrontiamo il problema della riforma degli ammortizzatori potremo anche finalmente affrontare il tema del reddito di cittadinanza, che non dà nessuna risposta in termini di politiche attive” ha aggiunto il vicepresidente di Confindustria lanciando un affondo anche al decreto Dignità che “sarebbe utile rivedere”.

Le carte, quindi, sono sul tavolo anche se non sono quelle definitive. Orlando ha ereditato dalla ministra precedente, Nunzia Catalfo, un pacchetto consistente composto da una riforma degli ammortizzatori in fase avanzata, proposte sulle politiche attive, 12,5 miliardi di fondi inseriti nell’attuale Piano di ricostruzione e resilienza e 13 miliardi, su 32 complessivi, destinati al lavoro nel decreto Ristori.

Orlando in serata con un post su Facebook spiega che a fine mese presenterà “un documento con un impianto di riforma sul tema degli ammortizzatori sociali” e un provvedimento che affronti “la perdita di posti di lavoro”. E agli industriali chiede invece di avere “una prospettiva”: “Ci saranno settori che usciranno dalla crisi più modificati di altri, dobbiamo prevedere politiche specifiche e mirate”. Un approccio che si prepara a mediare.

Anti-prescrizione: pressing renziano su Marta Cartabia

La bomba prescrizione per ora è lì, sotto la scrivania del nuovo ministro della Giustizia Marta Cartabia. Pronta ad essere innescata spaccando subito la nuova maggioranza che sostiene il governo Draghi. Venerdì, dopo la fiducia, nelle commissioni Affari Costituzionali e Bilancio della Camera non si voteranno gli emendamenti di Enrico Costa (Azione) e Riccardo Magi (Più Europa) che avevano posto la cancellazione della norma Bonafede che blocca la prescrizione dopo la sentenza di primo grado come pregiudiziale all’articolo 1 del decreto Milleproroghe. Un segnale “distensivo”, hanno spiegato ieri Costa e Magi, in attesa di “un segnale di apertura e fiducia” del nuovo Guardasigilli.

Ma nel frattempo restano “segnalati” (cioè considerati prioritari) gli emendamenti di Forza Italia e di Italia Viva per spazzare via la “blocca-prescrizione” e tornare alla vecchia legge Orlando, che la sospendeva solo per 36 mesi tra primo grado e Appello. Non è detto che la prossima settimana questi emendamenti saranno votati perché, come hanno deciso ieri i capigruppo in una riunione informale, si vuole evitare che la maggioranza imploda ancor prima che il nuovo ministro si insedi.

Ma lasciare sul tavolo gli emendamenti è un modo per tenere sulle spine Cartabia e chiedere un segnale da parte sua su un tema così divisivo: “Noi non abbiamo ancora congelato niente – spiega la responsabile Giustizia di Iv Lucia Annibali – la prescrizione resta un punto importante come quello del processo penale”. Stessa idea del forzista Francesco Paolo Sisto che insieme al collega Pierantonio Zanettin ha confermato le sue richieste di modifica: “I nostri emendamenti li teniamo – dice al Fatto – aspettiamo di parlare con il ministro Cartabia, che ha un’autorevolezza indiscussa, e che venga a riferire il suo programma. Poi decideremo cosa fare”. Sisto, responsabile giustizia di FI, spiega però che la condizione per deporre l’ascia di guerra è che Cartabia “cambi radicalmente approccio rispetto a Bonafede sulla giustizia”. Ergo: “Riformare il processo penale e la prescrizione mettendo al centro il cittadino e non i pm in base al principio di non colpevolezza” conclude il berlusconiano.

Insomma, i due partiti della nuova maggioranza guidati da Matteo Renzi e Silvio Berlusconi chiedono che sia il Guardasigilli a dare segnali per superare le due norme volute da Bonafede su prescrizione e riforma del processo penale (approvata dal governo giallorosa e bloccata in commissione), in cambio di quella che Sisto chiama una “riappacificazione sul tema della giustizia”. Stessa minaccia ventilata da Costa, avvocato eletto con FI e poi passato con Carlo Calenda, che pur avendo ritirato il suo emendamento ci tiene a spiegare che il suo “è un atto di rispetto nei confronti del ministro, ma chiederemo modifiche immediate sullo stop alla prescrizione e sulla riduzione dei tempi del processo – spiega – ma una cosa è chiara: ora ci vuole un cambio radicale rispetto all’impianto di Bonafede”. Una posizione che già la prossima settimana potrebbe spaccare la maggioranza visto che il M5S continua a fare muro sul tema: “Se Cartabia tocca la prescrizione, ce ne andiamo dalla maggioranza” ha minacciato domenica Vito Crimi nell’assemblea con i senatori M5S.

La conferma arriva dalla deputata Vittoria Baldino: “Non siamo disposti a fare passi indietro sulla prescrizione” dice al Fatto. Intanto Bonafede ha annunciato che voterà la fiducia al governo per “tenere unito il M5S” ma “non sarà in bianco”. Ma, oltre a porre condizioni a Cartabia, Berlusconi e Renzi stanno provando a piazzare un sottosegretario a testa a via Arenula per “controllare” l’operato del Guardasigilli: i renziani spingono per Gennaro Migliore mentre FI vorrebbe Sisto. Che non smentisce: “Lo deciderà la provvidenza”.

Nasce il gruppo giallorosa e il federatore sarà Conte

Uniti, innanzitutto per non farsi uccidere dal Matteo Renzi che quello voleva, demolire i giallorosa. Ma anche per pesare nel governo Draghi, dove la Lega già sgomita e urla. Fino all’obiettivo più a medio termine, ridare una casa politica a Giuseppe Conte, che tornerà a fare il professore, certo, ma che vuole restare in gioco, come mastice della coalizione.

Varie ragioni per formare l’intergruppo di Pd, M5S e Leu, nato ieri proprio nel Senato dove oggi Mario Draghi chiederà e otterrà la fiducia. Una novità che ha ricevuto subito la benedizione dell’ormai presidente del Consiglio Conte: “Le forze che hanno già proficuamente lavorato insieme devono nutrire la loro visione con proposte concrete e traiettorie riformatrici, per affinare una condivisione di intenti e di obiettivi”. Bisogna cementare l’alleanza, teorizza il professore, anche perché “è il modo migliore per affrontare il voto di fiducia in Parlamento”. Necessario per marcare una differenza politica nel governo del tutti dentro, e utile anche a recuperare qualche grillino di rito contiano, tentato dal dire no.

Di certo però oggi, innanzitutto a palazzo Madama, si consumerà l’ennesima frana nei 5Stelle. Dieci, 12 senatori, stando alle ultime stime, diranno di no, e altri potrebbero non presentarsi o astenersi. E una decina di voti contrari sono attesi anche alla Camera. Alcuni grillini decideranno solo oggi cosa fare, ma pare che siano già pronti simbolo e sigla per un nuovo gruppo dei dissidenti a palazzo Madama. “Hanno anche contattato qualche ex della comunicazione del M5S” sussurra un senatore. Siamo già alle prove di scissione, almeno a livello parlamentare. Intanto però c’è l’intergruppo. E sempre a lui si torna, a Conte. “Partendo dall’esperienza positiva del governo Conte II – scrivono i capigruppo di Pd, 5Stelle e Leu – il gruppo vuole promuovere iniziative comuni sull’emergenza sanitaria, economica e sociale, fino alla transizione ecologica”. Sillabe scritte dopo una riunione dei capigruppo ieri pomeriggio, a palazzo Madama.

E nei corridoi c’era anche il segretario particolare dell’ex premier, a conferma che Conte era assolutamente favorevole all’operazione. “Il suo primo obiettivo resta preservare la coalizione” conferma un grillino di peso. Un tema di cui l’avvocato ha parlato ieri per un’ora anche con Goffredo Bettini, il dem che aveva tentato ogni via per tenerlo a palazzo Chigi. “La telefonata non ha correlazione con la nascita dell’intergruppo” assicurano. Ma di certo Bettini resta convinto che l’ex premier sia indispensabile per tenere assieme i giallorosa. Nonostante la ferita infertagli da Renzi, raccontata così dal segretario dem Nicola Zingaretti a Cartabianca: “Renzi ha scelto di abbattere il Conte bis per destrutturare quel modello politico”. Un modello che i 5Stelle e Leu vorrebbero a tutti i costi tenere in piedi. E può essere un’istanza anche per i dem, per i quali l’intergruppo servirà prima di tutto come argine a Salvini. Zingaretti ha anche incontrato il leader del Carroccio, pur di sminare il terreno. Ma Salvini è sempre se stesso, e già ieri a L’aria che tira lo ha ricordato così: “L’euro irreversibile? Solo la morte lo è”. Parole che non stupiranno gli ex alleati del M5S, dove però pensano ad altro. Magari a come non esplodere, visto che per chi dirà no a Draghi la sanzione è già chiara: espulsione.

Ma alcuni dissidenti sono pronti a impugnare anche in sede legale l’eventuale decisione, perché “il quesito su Rousseau era sbagliato e comunque la fiducia da Statuto è obbligatoria solo se il presidente incaricato è del M5S”. Potrebbe finire a carte bollate, mentre l’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede avverte: “La mia fiducia non sarà in bianco, e questo deve essere chiaro se vogliamo recuperare un peso politico che si è eccessivamente ridimensionato”. Frasi che sono il termometro, della febbre a 5Stelle.