Atterraggio brusco

Siamo vicini con le preghiere ai tanti “colleghi” che, all’annuncio di Draghi, si erano inumiditi le lingue e gli slip vaticinando la Palingenesi dei Competenti, la Rivoluzione di Quelli Bravi, il Regno di Saturno e ora si ritrovano un po’ a secco, un tantino più asciutti, a ritrarre di un palmo le lingue e a dire che sarà dura, non bisogna aspettarsi granché, SuperMario mica ha la bacchetta magica e cara grazia se farà “due o tre riforme” per poi ascendere al Colle fra un anno. La lista dei ministri, le prime risse fra i medesimi, le nomine dei “nuovi” burocrati e prossimamente i sottosegretari promettono bene. Chi oracolava di Mes, fine della dittatura sanitaria, dei Dpcm e del Sussidistan, licenziamenti liberi, rivincita del privato sul pubblico e più vaccini per tutti in totale discontinuità dai dilettanti-incompetenti-scappati di casa-mediocri di prima si sta rassegnando alla continuità e presto, in cuor suo, ammetterà alla luce del dopo che prima era difficile fare meglio. Due settimane di ubriacatura e siamo già tornati sulla terraferma.

Vuol dire che Draghi non è bravo, competente, prestigioso? No, anzi. Significa che i superman, i tecnici super partes, gli uomini soli al comando, i salvatori della patria e i migliori esistono solo nella fantapolitica. Basta vedere di chi si sta circondando Draghi, complice la sua scarsa conoscenza della politica e dell’amministrazione: tre o quattro pezzi pregiati di Bankitalia, di Confindustria, delle accademie e delle burocrazie, e poi i peggiori cascami delle vecchie lobby che han fatto solo disastri, dal pescoso laghetto Cassese a Cl alle terrazze romane e milanesi. Queste cose nessuno dovrebbe saperle meglio di noi italiani, che di governi tecnici ne abbiamo già avuti tre – Ciampi, Dini e Monti –, regolarmente passati dagli altari alla polvere nel giro di pochi mesi. Ma siamo un popolo che dimentica tutto e non impara mai nulla: nessuna meraviglia, specie nella confusione del mondo ai tempi del Covid. Ciò che stupisce è che non ricordino e non capiscano nulla coloro che la storia, o almeno la cronaca, dovrebbero conoscerla: i giornalisti e gli intellettuali. Prigionieri della loro cupidigia di servilismo e ingannati dalle bugie che raccontano agli altri, hanno perso un’altra occasione, l’ennesima, per azzeccarne una. Infatti continuano a ripetere il mantra della “crisi di sistema” e del “fallimento della politica”. E fingono di dimenticare che Conte è caduto per mano di un irresponsabile sfasciacarrozze che non tollerava i successi della politica e del sistema incarnati da un governo che aveva ben guidato l’Italia nell’anno più terribile del Dopoguerra e, a lasciarlo fare, avrebbe consolidato un nuovo centrosinistra competitivo.

È per i suoi successi, non per i suoi errori, che è caduto il governo Conte, che stava ricostruendo la politica e il sistema già falliti anni addietro. Ma questo i trombettieri dei giornaloni non potevano né possono riconoscerlo, perché i loro padroni quella nuova politica imperniata su legalità, trasparenza, allergia alle lobby, politiche sociali e ambientali non l’accettavano. Tantomeno con 250 miliardi di Recovery e fondi di Coesione Ue all’orizzonte. Terrorizzati nel 2018 dalla vittoria di M5S e Lega e dalla scomparsa dei propri manutengoli e burattini, han preso a demonizzare i nuovi venuti e poi a tentare di comprarli e cooptarli. Nel 2019 ci sono riusciti con la Lega. Ma, quando già pregustavano le elezioni e il ritorno a tavola, han dovuto fare i conti con Conte, che è riuscito nell’ardua impresa di mettere insieme M5S e un Pd parzialmente derenzizzato e di formare una squadra di governo che univa i pezzi meno sputtanati dell’establishment ai marziani grillini e anche alla gente nuova della sinistra (i Provenzano, Amendola, Speranza). Anziché impazzire, la maionese è piaciuta: il premier e il suo governo avevano indici di gradimento molto superiori alla somma dei giallorosa. Perché i risultati, al netto degli errori, si vedevano: una gestione della pandemia più efficace che nel resto dell’Ue, i 209 miliardi del Recovery, la campagna vaccinale, altre misure come il cashback, l’ecobonus 110%, il blocco della prescrizione, le manette agli evasori ecc. Altro che fallimento degl’incompetenti, altro che crisi di sistema.

In barba a chi confonde le cause con gli effetti, il fallimento del sistema c’era già stato: nel 2011, quando morì miseramente il berlusconismo; nel 2013, quando finirono tragicamente i tecnici montiani e il Pd che se li era accollati per ordine di Napolitano; nel 2018, quando il popolo bocciò le tre ammucchiate demo-forziste di Letta, R. e Gentiloni benedette dal Colle per tener fuori i marziani e votò in massa per i due partiti rimasti fuori: M5S e Lega. Dopo ogni embrassons-nous di establishment, tecnica o politica che sia, vincono sempre quelli che le élite non riescono a comprendere e demonizzano-esorcizzano come “populisti”: dopo Ciampi, B.; dopo Monti, i 5Stelle; dopo il napolitan-renzismo, ancora il M5S più Salvini. E ora, dopo Draghi, è molto probabile un derby fra i due leader che se ne tengono a distanza: Meloni e Conte (se gioca bene le sue carte). Sempreché la gente non scambi per novità i codini dell’Ancien Régime di ritorno, che non possono essere la soluzione perché sono il problema. Gli italiani, diceva Flaiano, “vogliono la rivoluzione, ma preferiscono fare le barricate coi mobili degli altri”.

Angelica ha un appuntamento con se stessa. Allo specchio

La straordinaria somiglianza con la grande Alice, che quarant’anni or sono, di questi tempi, con Per Elisa trionfava sul palco del festival di Sanremo, è un bel viatico per la cantautrice Angelica, alias Angelica Schiatti, che ha da poco pubblicato il suo secondo disco intitolato Storie di un appuntamento. E, chissà, magari in futuro, un appuntamento che l’aspetta è proprio quello con la maggiore manifestazione canora del nostro Belpaese.

Dopo essere stata per anni la frontwoman della band Santa Margaret, Angelica ha deciso di mettersi in proprio e nel nuovo album sono molti i riferimenti al proprio recente passato. Infatti, racconta Angelica, “le canzoni parlano di appuntamenti col destino, appuntamenti con gli amori passati, presenti e futuri. Appuntamenti disdetti, cercati, programmati, di lavoro, con gli amici, al buio, per strada. Ma l’appuntamento è in realtà con me stessa e con tutte quelle cose che avevo fatto finta di non vedere, ma che negli ultimi due anni sono riuscita ad affrontare e a risolvere”, perché “l’appuntamento con se stessi vale più di mille altri appuntamenti”. Storie di un appuntamento è un disco personale, intimo, composto da otto brani che mescolano un pop con sonorità retrò, tanto puro quanto rustico, insieme con l’elettronica.

Canzoni che sono fotografie di momenti precisi di vita vissuta, che esce in un momento particolare come quello che stiamo vivendo, segnato da una pandemia. La conferma che l’incertezza è il rifugio della speranza: “Chiaramente – afferma Angelica – la situazione è inedita ed è difficilissima per la musica, è un terreno sconnesso dove si cammina a fatica. Quando è scoppiata la pandemia ero già nel mezzo dei lavori per questo disco e mi sembrava eticamente giusto sia per me, sia per chi lavora con me e per chi ascolta musica farlo uscire comunque. Alla fine non credo faccia male a nessuno, forse solo a me”. Anticipato dai singoli C’est Fantastique, “nato in un momento complicato, dove mi stavo complicando le cose da sola, un loop in cui non voglio più cadere”, Il momento giusto, “un promemoria di quanto in realtà sia inutile star fermi ad aspettarlo perché il momento giusto non esiste e non arriva mai, siamo noi a dover essere pronti” e L’ultimo bicchiere, che parla di quelle relazioni tossiche che finiscono, spesso male e con fatica, perché è difficile dire goodbye quando una cosa ti piace anche se ti fa male, come smettere di fumare”, Storie di un appuntamento racconta in modo intimo e sincero l’importanza di imparare a guardarsi allo specchio, riconoscendo le proprie fragilità per riuscire a superarle, accettandosi infine per quello che si è.

“Shuggie Bain”, povero cristo nella Scozia thatcheriana

La copertina di Shuggie Bain, uno scatto di Jez Coulson ambientato nei sobborghi di Glasgow, s’intitola Crucified in Easterhouse: il bimbo che vi appare, goffo ma pudico, piccolo ma ansioso di scavalcare il telaio di metallo che lo impastoia, è un’icona perfetta del protagonista eponimo del romanzo di Douglas Stuart, fresco vincitore del Booker Prize 2020. Non è però la crocifissione di Shuggie a costituire l’ossatura del libro: la trama, che si snoda interamente nella Glasgow degli anni 80 (il decennio terribile della chiusura di industrie, cantieri e miniere), ruota attorno alla lenta e inesorabile Passione di sua madre Agnes, una donna forte e fragilissima, sposata prima a un devoto ma scialbo cattolico e poi a un aitante ma infedele tassista protestante, che dai foschi palazzoni di Sighthill (oggi demoliti) la porta con i suoi tre figli in un ancor più grigio casamento di Pithead, oltre la periferia più remota e degradata, e l’abbandona lì, in preda all’alcolismo, allo scherno delle vicine invidiose, alle lussurie animali di mascalzoni senz’anima.

La scrittura di Stuart segue con precisione quasi neorealista le tappe di una discesa agli inferi che passa per i fallimenti economici, urbanistici e sociali di quella stagione; e indugia sulla contraddizione, così tipica del Regno Unito, fra l’attenzione a una forma di cura ed eleganza personale (“non costa niente tenere al proprio aspetto”, ripete Agnes al figlio) e il persistente odore di unto, di piscio e di margarina, le moquette macchiate, l’ubiqua puzza di birra e fumo, la sporcizia dei cani randagi e delle strade abbandonate, financo le nere e mefitiche colline di carbone subito dietro i caseggiati. Non è un caso che, in un romanzo che vive di figure femminili deputate a reggere il peso di famiglie troppo larghe, di fantasmi di uomini falliti, disoccupati e puttanieri, le figure storiche che vengono evocate siano solo due: Liz Taylor, cui Agnes somiglia per bellezza e che segue nelle sue metamorfosi fino alla “versione sprezzante e vanesia immortalata dai paparazzi a Puerto Vallarta”; e Margaret Thatcher, più volte additata en passant dai personaggi come responsabile dell’irreversibile declino della Scozia. Ma al contempo la Thatcher è anche colei che ogni lunedì paga i sussidi di invalidità, di disoccupazione, di mantenimento: quelle poche sterline che servono per sopravvivere o per comprare gli alcolici di cui non si può fare a meno.

Siamo insomma in pieno clima Ken Loach, tra Ladybird e My Name is Joe: tenement poverissimi, vite vissute a noleggio, famiglie disfunzionali, società di alcolisti anonimi, tassisti pedofili e aperta omofobia (Shuggie si scopre “diverso”), bellum omnium contra omnes in una working class meschina e impietosa; si somma l’aggravante dell’odio religioso, che percorre da sempre la città e ancora oggi fa del tifo per il Celtic o per i Rangers ben più che una questione calcistica. Il padre di Shuggie Bain percepisce dai discorsi dei suoi clienti che “Glasgow si stava scoraggiando… Li sentiva dire che la Thatcher non sapeva più che farsene di onesti lavoratori; che per lei il futuro era nella tecnologia, nel nucleare, nella sanità privata”. Ma a differenza di Loach, Stuart non vuole far politica: ciò che descrive è l’ostinata e magnifica empatia tra un figlio, Shuggie, che nel momento più buio giunge a dire ad Agnes “farei qualsiasi cosa per te”, e una madre che il mondo e la società hanno condannato a morte. Ed è proprio nelle ultime pagine del libro che la storia d’amore tra Shuggie e la madre riceve il suo senso più convincente.

Forse l’unico momento di reale ed effimera serenità del romanzo è anche l’unico flashback, quello che trasporta il lettore agli anni che precedono la Seconda guerra mondiale: la gita domenicale che Wullie, il padre di Agnes, regala alla moglie Lizzie nel sontuoso palazzo di Kelvingrove Hall. Nel 1952 la Kelvingrove Art Gallery, proprio lì davanti, acquistò quello che è tuttora il suo quadro più celebre: il Cristo di San Giovanni della Croce di Salvador Dalì. In quell’opera vertiginosa c’è quasi la metafora degli anni di passione vissuti da una donna, da una famiglia, da una città: ma c’è anche, nel corpo intatto del Cristo di Dalì come nella figura sempre curata di Agnes, la forza di una dignità ostinata, di un amore altezzoso ma generoso, capace di redimere il degrado circostante, e di fornire un lembo di speranza ai giovani figli che guardano lontano.

“Porto giornali e pace”. Tom Hanks, altro Oscar?

“È un film sullo scambio di informazioni: i fatti vengono rappresentati a un pubblico affamato di notizie, che viene edotto e anche divertito”. A oggi Tom Hanks ha vinto due Oscar, miglior attore protagonista per Philadelphia (1994) e Forrest Gump (1995), a fronte di sei nomination, la settima dovrebbe venirgli dal western umanista che Paul Greengrass ha tratto dal libro omonimo di Paulette Jiles: News of the World. Disponibile su Netflix, Hanks vi interpreta il capitano Jefferson Kyle Kidd che gira gli Stati Uniti del 1870 leggendo ai connazionali i giornali del mondo.

Siamo a ridosso della Guerra Civile, con quali conseguenze?

Ostilità e sconfitta sono il pane quotidiano, soprattutto in Texas. La pacificazione è lungi dall’essere realizzata, ansia, rabbia e conflittualità si ritrovano ovunque.

Nondimeno, il film non abdica all’ottimismo.

Il vero messaggio è: se vogliamo, andrà tutto bene. Anche in questi nostri tempi bui possiamo riguadagnare una prospettiva positiva: quando ne saremo fuori, constateremo che siamo più fortunati di quanto pensassimo.

Merito del suo veterano e vedovo Captain Kidd.

Ha trovato uno scopo nella vita, grazie a Dio. Si alza, raccoglie le storie, sceglie le notizie, attacca la locandina, porta a termine la sua missione e si sposta nella città successiva…

Sul suo cammino s’imbatte in Johanna, una bambina catturata dalla tribù dei Kiowa sei anni prima e allevata come una di loro.

Le autorità governative vogliono capire da dove venga e riconsegnarla alla propria famiglia. Problema, lei non ha idea di quale sia la sua famiglia. Per fortuna, trova Kidd.

E per fortuna lei ha trovato la piccola Helena Zengel.

Questo film non esisterebbe senza Helena, non si può dire in un altro modo. Non è una bambina che fa l’attrice, ma un’attrice bambina… Non abbiamo “lavorato” insieme perché eravamo semplicemente “insieme”. Il film non consisteva nel recitare le battute, ma nel condividere il momento, che fosse a cavallo o attorno al fuoco. Ho 64 anni, faccio questo lavoro da un po’ e mi piace ancora imparare dai colleghi, ma guardavo questa co-protagonista undicenne e bilingue e pensavo: “Se solo potessi essere così naturale e semplice come lei…”.

Qual è stato il contributo dei Kiowa?

Abbiamo girato le scene con veri membri della tribù, venuti dall’Oklahoma e da altre zone. Li ringrazio per averci dato fiducia, per aver voluto fare parte del film: il loro imprimatur è fondamentale.

Che cosa pensa dell’arte di raccontare?

Si impara sempre qualcosa dal sentire una storia. Non penso ci sia professione più nobile di quella del narratore, di chi sta cercando di “avere le carte in regola e dire la verità”, per usare le parole di Spencer Tracy. C’è una verità là fuori: lo sai tu e lo sa il tuo pubblico.

Tutti narratori?

No, non tutti possono esserlo, ma tutti vogliono essere tirati dentro una conversazione, tutti vogliono appartenere a qualcosa di più grande. C’è un modo perfetto per intavolare una discussione con chiunque, in qualsiasi circostanza: “Ho visto la cosa più bella”, “ho sentito il fatto più incredibile”, e raccontandoli puoi sentirti immediatamente legato a uno sconosciuto o ancora più vicino alla persona che ami.

Com’è stato ritrovare Paul Greengrass?

Lavorare nuovamente con qualcuno, in particolare se hai avuto un’esperienza emotivamente straordinaria come la nostra su Captain Phillips, significa che non devi prendere le misure né temporeggiare, non devi chiedere “per quale squadra di football tifi?”, già lo sai. Risparmi tempo e puoi sederti a parlare, spartire pensieri e sentimenti.

Da attore e spettatore, che cosa apprezza di News of the World?

Sia il romanzo di Jiles che la sceneggiatura di Paul parlano di connessione: Captain Kidd capisce che il suo dovere primario è unire le persone, metterle nella stessa stanza, per uno stesso motivo, ovvero per sentire le notizie, per essere informati circa la propria comunità e il mondo.

Parola chiave: condivisione?

Raccogliendo questi articoli, Kidd riesce a valorizzare la condizione umana, così da dimostrare che abbiamo più in comune, in termini di azioni e motivazioni, di quanto pensiamo. Quella specifica comunità sarà interessata alle malattie e alla costruzione della ferrovia, ma il mondo è influenzato da quello che succede in Europa, da una guerra combattuta a migliaia di chilometri di distanza, come dagli incontri di una squadra di baseball di Cincinnati. Captain Kidd mette in piedi uno spettacolo che riunisce le persone, e le rende più consapevoli: potenza del giornalismo.

Morale della favola?

Belle o brutte che siano le notizie, la cosa positiva è che la gente venga informata. È un tema che definisce la condizione umana stessa: vogliamo sentire sempre la storia della caccia, seduti intorno al fuoco, nella grotta, alla fine della giornata.

Frodi, raggiri: Trump rischia ancora

“Not guilty”, non colpevole: per la seconda volta, il processo d’impeachment contro Donald Trump finisce con questo verdetto. Ma non è detto che i guai giudiziari dell’ex presidente abbiano tutti un lieto fine: c’è l’intreccio d’inchieste a New York, su evasione e frodi; e l’indagine in Georgia, sulle pressioni esercitate sulle autorità statali per rovesciare l’esito del voto, favorevole a Joe Biden. E pure l’eventualità che la giustizia ordinaria raccolga il testimone lasciato cadere dalla politica. L’ha prospettato il leader dei senatori repubblicani, Mitch McConnell: ha votato “Not guilty” perché l’impeachment, a suo giudizio, sarebbe stato incostituzionale; ma ritiene che Trump mancò ai suoi doveri il giorno dell’assalto al Congresso, macchia indelebile sulla sua fedina politica. E Bruce Castor, uno dei difensori nel dibattimento in Senato, fece sobbalzare il magnate seduto davanti alla tv a Mar-a-lago, dicendo: “Il presidente non può comportarsi in modo violento a fine mandato e farla franca. Il dipartimento di Giustizia sa cosa deve fare: se il presidente ha commesso dei crimini, dopo che ha lasciato l’incarico, va e lo arresta”. Trump, ora, non gode più di immunità.

Sull’attacco al Campidoglio, la magistratura di Washington non esclude di coinvolgere Trump nell’inchiesta in corso. E la magistratura di Atlanta indaga sulla telefonata con cui il magnate chiese al segretario di Stato della Georgia, Brad Raffensperger, di trovare “abbastanza suffragi” per ribaltare l’esito del voto nello Stato. Sotto inchiesta anche il senatore repubblicano Lindsey Graham, regista dell’assoluzione in Senato, per una telefonata analoga in cui chiedeva a Raffensperger se poteva scartare i voti per posta in alcune contee. Ma le inchieste più insidiose sono quelle della Procura di New York, che potrebbero portare Trump in galera: si indaga per accertare se il magnate e la Trump Organization abbiano commesso frodi e se abbiano falsificato documenti aziendali, partendo dai pagamenti in nero per comprare il silenzio di due ‘amichette’; e si indaga se Trump abbia manipolato i valori dei suoi beni, per pagare meno tasse. Il figlio Eric è stato interrogato sotto giuramento e potrebbe presto toccare a Babbo Donald.

Ci sono poi l’inchiesta su abusi di fondi per l’Inauguration Day 2017, che coinvolge i figli Ivanka e Donald jr; la causa intentata dalla nipote Mary, che sarebbe stata privata dell’eredità del nonno; e le cause della scrittrice Jean Carroll e di un’ex concorrente di The Apprentice Summer Zervos che avrebbero subito da Trump aggressioni sessuali.

Jihad, Parigi tira l’Italia dentro la trappola Sahel

Le forze del G5-Sahel sono riunite da ieri a N’djamena, nel Ciad, per stilare un bilancio della lotta anti-jihadista nella regione. Emmanuel Macron avrebbe dovuto raggiungere i presidenti dei cinque Paesi del Sahel (Burkina Faso, Mauritania, Niger, Mali e Ciad), ma ha annullato il suo viaggio per “motivi sanitari” e ha partecipato al vertice ieri in videoconferenza da Parigi. Questo G5-Sahel arriva a circa un anno dal vertice di Pau, nel sud della Francia, in cui Parigi aveva deciso l’invio di altri 600 soldati nella regione africana, portando da 4.500 a 5.100 il numero di uomini. Ma a distanza di un anno la presenza francese con l’operazione Barkhane fa discutere. In Francia ci si chiede sempre di più quanto durerà ancora questa guerra contro un nemico lontano che ha già ucciso 50 soldati francesi dal 2013. Per la prima volta un sondaggio Ifop ha rilevato che più della metà dei francesi, il 51%, “non è favorevole” alla missione militare. Si pone dunque ormai più la questione della riduzione delle forze nella regione: “Saremo molto probabilmente portati a aggiustare il dispositivo”, ha detto la ministra della Difesa, Florence Parly, a gennaio.

La decisione spetta a Macron in quanto capo delle forze armate. Il ritiro dei 600 soldati inviati in rinforzo un anno fa potrebbe essere una prima soluzione. L’altra si gioca sul piano internazionale con la task force Takuba, una missione europea guidata dai francesi cui hanno già aderito Svezia, Repubblica Ceca, Estonia, Danimarca, Portogallo, Belgio, Paesi Bassi e anche Italia. I primi 200 soldati italiani potrebbero partire a marzo. La composizione del contingente non è stata ufficializzata, indiscrezioni parlano di almeno 200 uomini delle truppe speciali. La forza Takuba (“sciabola” in lingua tuareg), di cui si è parlato molto poco, è entrata in azione il 15 luglio 2020 con un primo contingente di un centinaio di militari estoni e francesi, seguito a ottobre dall’arrivo di forze ceche. Takuba “è incaricata di formare le unità del Mali: le addestra e le accompagna in combattimento sul campo. Lo scopo è di renderle autonome”, ha spiegato la ministra Parly a gennaio. Non sarà dunque solo una missione di addestramento. I soldati francesi combattono i terroristi nelle regioni aride del Sahel, al fianco di forze locali poco addestrate e poco attrezzate, dal 2013, prima con l’operazione Serval in Mali, poi con Barkhane, dal 2014, estesa ai cinque Paesi del Sahel. I rinforzi inviati un anno fa hanno raggiunto la zona delle “tre frontiere” (tra Niger, Burkina Faso e Mali) dove è attivo lo Stato Islamico del Gran Sahara (Eigs). Parigi difende il suo bilancio: a Le Parisien la ministra Parly ha parlato di “vittorie tattiche”, tra cui la morte a giugno del capo di al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi), l’algerino Abdelmalek Droukdal. Ma di fatto Parigi si è impantanata in una guerra da cui non vede via d’uscita e in cui sta trascinando ora gli altri paesi europei, Italia compresa. Nel Mali la situazione politica resta instabile: “Il colpo di stato dell’agosto 2020 ha segnato un arretramento dello Stato di diritto e gli abusi contro i civili imputati alle forze di sicurezza del Sahel sono stati numerosi nel 2020”, ha spiegato a Le Monde la politologa Niagalé Bagayako. Si contano due milioni di sfollati.

I gruppi jihadisti restano attivi. Un anno fa, anche il generale Lecointre, capo di stato maggiore dell’esercito francese, aveva riconosciuto che “la minaccia terrorista non è stata contenuta nel Sahel”. I Paesi del G5 non riescono a coordinarsi tra loro: “Lo slancio di mobilitazione degli Stati del G5 Sahel deve essere sostenuto e rinforzato da tutta la comunità internazionale”, ha detto ieri Idriss Déby, presidente del Ciad. L’efficacia della presenza francese è messa in dubbio ormai anche dalle popolazioni locali e dalle Ong. Di recente, Parigi è stata accusata di aver ucciso 19 civili in un raid nella zona di Bounti, il 3 gennaio, che avrebbe dovuto colpire un gruppo jihadista.

 

I “Topi di fogna” in rivolta: dopo 42 anni, da Bengasi parte la caccia a Gheddafi

Sono passati dieci anni dall’inizio delle guerre e delle rivoluzioni battezzate Primavere Arabe, sogno democratico che in certi Paesi s’è trasformato in un incubo di oppressione e di negazione di ogni diritto. Ma quanto possono durare i processi di democratizzazione di uno Stato dopo un conflitto armato? Cinque, dieci, trenta, forse cinquanta anni?

Nel febbraio 2011 la Libia comincia il lungo cammino di rinascita attraverso una rivoluzione diventata guerra civile, supportata dalla Nato e certificata dal Consiglio di Sicurezza Onu e terminata in autunno con la cattura e l’assassinio di Muammar Gheddafi.

I ricordi diventano fluidi e si mescolano creando un insieme di emozioni. Gli ospedali, le piazze, i cimiteri, la frontline e le strade percorse si incrociano, scandite nella mia memoria dalle fotografie scattate. Come una cicatrice che ricorda il dolore della ferita, le immagini mi portano indietro nel tempo, accompagnandomi durante gli otto mesi di guerra che ha cambiato il corso della storia contemporanea.

La rivoluzione comincia con manifestazioni pacifiche contro l’ultra-decennale governo del Raìs. In 42 anni di potere indiscusso, l’eccentrico e paranoico dittatore dall’ego smisurato, aveva accentrato su di sé, sulla sua famiglia e sugli alleati tribali tutte le ricchezze procurate dai giacimenti di petrolio. Accusato di corruzione, soprusi, attacchi terroristici e mancanza di diritti umani, il Colonnello ha aperto il fuoco contro il suo stesso popolo, arrestando, incarcerando e uccidendo i primi dissidenti. Diversamente dall’esito delle proteste che detronizzano i regimi di Ben Ali in Tunisia e Mubarak in Egitto, Gheddafi sfida il suo nemico in tv: “Non sono un presidente, sono un leader, un rivoluzionario e resisterò fino alla morte. Morirò da martire”, annuncia apostrofando i dissidenti come “topi di fogna” e ripetendo che la rivolta è sobillata dai terroristi di al Qaeda che avrebbero drogato i giovani libici.

La rivoluzione inizia in Cirenaica, con la Tripolitania ancora sotto il suo controllo. Con i voli diretti in Libia cancellati, bisognava arrivare al Cairo e raggiungere in auto il confine prima di entrare nel territorio controllato dai ribelli. Bengasi era la base degli oppositori del governo. Le bandiere rosse, nere e verdi della nuova-vecchia Libia sventolavano dagli scheletri delle case distrutte dai combattimenti, mentre lungo la passeggiata che costeggia il Mediterraneo la gente festeggiava l’inizio della fine.

“Allah u Akbar”: all’improvviso dalla folla spunta una processione al seguito di una bara. È il feretro di un martire della rivoluzione: così vengono chiamati i combattenti uccisi dal fuoco lealista. Studenti, architetti, commercianti, tutti insieme uniti dalla speranza di una Libia libera dal satrapo. Imbracciano le armi senza averle mai viste prima e senza sapere come e dove sparare, vanno al fronte in maglietta e ciabatte, per uccidere o morire.

Ogni guerra ha le sue battaglie, e in Libia nei primi giorni si combatte verso Ajdabya, Brega, Ras Lanuf, lungo la strada litoranea inaugurata da Mussolini nel 1937. L’unico asfalto che unisce il Paese dall’Egitto alla Tunisia, per più di 1.800 chilometri, è il teatro di guerra: costellato da raffinerie di petrolio, come una spaccatura fra mare e deserto, linea immaginaria d’una frontline inesistente, sulla quale sfrecciano le jeep che montano mitragliatrici antiaeree da 14,5 millimetri. Il fronte cambia di ora in ora: di mattina si possono fare chilometri insieme ai ribelli che conquistano terreno, e di sera tornare indietro fino al punto di partenza, se sei fortunato. Il rischio è perdersi nella terra di nessuno fra i due schieramenti e venire catturato dei lealisti.

Il numero delle vittime non fa che aumentare di settimana in settimana e con il Raìs ancora al sicuro nel bunker di Bab al-Azizia di Tripoli, le truppe lealiste riconquistano il terreno perso raggiungendo le porte di Bengasi, pronti a sferrare l’attacco finale per cancellare la chimera rivoluzionaria. Ma a distruggere il sogno della Grande Jamahiriya di Gheddafi, arrivano i bombardamenti della Nato capeggiati dalla Francia di Sarkozy e dall’Inghilterra di Cameron, pronti a sostenere i ribelli, possibili nuovi interlocutori con cui spartirsi ciò che rimarrà della ricca ex colonia italiana.

Draghi e la necessità di un lockdown

La prima prova del governo Draghi, e la più urgente, riguarda il Covid e le varianti che stanno per prendere il sopravvento in tutta Italia (la variante inglese si sostituirà al virus circolante entro 5/6 settimane, ha detto il 13 febbraio Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità. Le varianti brasiliane e sudafricane cominciano a circolare).

Le nuove necessità sanitarie non consentono dilazioni, e si spera vengano esplicitate nel discorso programmatico che Draghi pronuncerà mercoledì in Parlamento. Il Comitato tecnico scientifico e i principali esperti chiedevano da giorni il rinvio della riapertura delle piste di sci, ma c’era la crisi. Alcuni consigliano un lockdown totale e immediato, scuole comprese. L’appello al lockdown viene da esperti indipendenti come il virologo Andrea Crisanti, e dal consigliere del ministro della Salute Walter Ricciardi. Ridurre la trasmissione del virus è oggi l’imperativo whatever it takes, a ogni costo.

Roberto Speranza ne ha tenuto conto, appena riconfermato ministro, e in accordo con Draghi ha deciso di prolungare la chiusura degli impianti di sci. Ma i segnali che arrivano dalla maggioranza sono inquietanti. Sia la Lega che Italia Viva s’indignano per l’ordinanza del ministro. Matteo Salvini, ospite di Mezz’ora in più, ha attaccato Ricciardi, accusandolo di “terrorizzare 60 milioni di italiani”: “Non mi va bene che questo consulente dica che bisogna chiudere tutto. (…) Visto che ci sono tanti scienziati che non la pensano come Ricciardi, mettiamoli tutti intorno a un tavolo e chi convince di più con numeri alla mano ha ragione. Non ne possiamo più di questo apri-chiudi continuo”. Quanto alla chiusura delle scuole, pochi ne vogliono sentir parlare, a cominciare dal ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi e forse anche da Draghi, che nei giorni scorsi ha manifestato la sua preferenza: anno scolastico allungato sino a fine giugno, per recuperare il tempo, che probabilmente ritiene perduto e rovinoso per il Pil, della didattica a distanza (come se quest’ultima non avesse enormemente logorato professori e studenti).

In un articolo sul Corriere della Sera dell’11 febbraio, lo scrittore e fisico Paolo Giordano esprime una preoccupazione interamente condivisibile: che il discorso economico sia tornato a predominare su quello della sicurezza sanitaria, e che la concentrazione sul Recovery Fund e la crisi di governo “stia nella sostanza ‘assorbendo’ il discorso pandemico, relegandolo a un sottofondo, a un ipotetico normale”. Di qui la marginalizzazione degli esperti: la loro sovraesposizione mediatica, aggiunge Giordano, “li ha resi organici alla crisi, quindi più deboli nei messaggi”.

Anche se indeboliti, tuttavia, i messaggi scientifici restano lucidi, e smantellano gran parte dei discorsi consolatori o minimizzanti fatti dai politici. Innanzitutto – dicono – non è vero che le varianti aumentano la contagiosità ma non la letalità del virus. L’aumento vistoso dei contagi moltiplicherà esponenzialmente anche i decessi, come confermato da studi britannici. In secondo luogo non è vero che le scuole siano senza pericolo: è ormai acclarato che le varianti approfittano delle scuole aperte, infettando anche bambini e adolescenti, e tramite loro le famiglie e gli anziani. È il motivo per cui Regno Unito e Germania hanno chiuso le scuole, anche se le regioni tedesche decideranno in autonomia (Angela Merkel non ha convinto tutti i Länder: il che conferma quanto sia difficile anche in Germania il rapporto Stato-regioni). Infine, non è vero che le vaccinazioni garantiranno presto l’immunità collettiva: nell’intervallo, il rischio è grande che il virus “impari” – se la sua circolazione non viene drasticamente bloccata – ad aggirare la protezione vaccinale attraverso nuove e probabili mutazioni. Il lavoro così come impostato da Domenico Arcuri è prezioso e si spera che possa continuare e accelerare: comunque, è grazie a lui che l’Italia è oggi il Paese che vaccina di più in Europa.

Questo significa che fin da mercoledì, Draghi si troverà a dover scegliere, e ad annunciare misure molto più restrittive, come seppe fare Giuseppe Conte in occasione del primo lockdown generale. Non è detto che saprà o vorrà farlo. Perché la maggioranza così ampia che lo sostiene non favorisce coesione e rapidità di decisioni. Perché lui stesso non ha mai detto nulla di importante sul Covid in Italia (più di 74.000 morti in un anno e varianti che rendono inefficaci i vaccini: è qualcosa che subito dovrebbe neutralizzare le pressioni delle lobby economiche e i discorsi sul Pil). Se c’è una spesa da fare subito, è quella destinata al sequenziamento delle varianti Covid: un’attività per cui mancano fondi, come sostiene da dicembre il virologo Massimo Galli: “In Gran Bretagna il Covid-19 Genomics Consortium, che comprende le maggiori Università del Paese, è stato finanziato con 20 milioni di sterline e ha potuto realizzare oltre 50.000 sequenze genomiche del coronavirus, permettendo di identificare (la variante inglese), mentre in Italia i laboratori non hanno ricevuto supporto significativo. Da noi la ricerca è poco considerata anche quando servirebbe a dare risposte immediate per il controllo di una pandemia”.

Vale la pena ricordare che tra gli obiettivi di chi per mesi ha lavorato all’abbattimento del governo Conte, c’era anche quest’obiettivo: metter fine alle chiusure e agli allarmi, riaprire e ripartire. È da tempo l’opinione di Renzi, secondo cui “la politica ha abdicato nei confronti dei virologi, esattamente come abdicò negli anni 92-93 nei confronti dei magistrati e nei primi anni del decennio scorso nei confronti dei tecnici dell’economia” (discorso al Senato, 30 aprile 2020). Un’opinione che il centrodestra e le regioni da esso governate condividono.

Conte era sospettato di sottomissione al Comitato tecnico scientifico: è stato silurato anche per questo. Non è stato mai sconfessato invece dagli italiani, convinti dal suo coraggio. La sua popolarità va studiata, perché è venuta da un popolo che si è sentito al tempo stesso salvato e rovinato da lockdown e zone rosse. Il consenso di cui beneficia Draghi è costruito per adesso su parole dette in altri tempi e sul mito dell’italiano incensato all’estero, che giornali e tv amplificano smisuratamente. Per il momento ha poco a che vedere con la popolarità di Conte, per il semplice motivo che Draghi ancora non è stato messo alla prova, e che la crisi politica ha ridotto la pazienza e la vigilanza degli italiani.

 

“Noi fummo anche sanzionati, adesso chi sa dica tutta la verità”

La colpa più grave per un magistrato è occultare la verità e contribuire a distruggere la vita di una persona che sa di essere innocente. Nelle pagine del suo libro Il Sistema, Palamara non dice nulla del metodo violento che quel “sistema” attuò per fermare i magistrati di Salerno impegnati nella ricostruzione delle indagini sottratte al pm di Catanzaro, Luigi de Magistris. Tanti i tasselli di verità non ancora ricomposti. Il sequestro probatorio del 2 dicembre 2008, delle copie dei fascicoli Poseidone e Why Not, era il doveroso epilogo di una sequenza di richieste inevase, rivolte agli Uffici catanzaresi e delle quali, sin dall’inizio, la Procura di Salerno informò il Pg della Cassazione. Nessuno adottò iniziative a tutela dell’esercizio della giurisdizione di Salerno. Dall’articolo del Fatto del 13 febbraio, emerge che l’ex Pg di Catanzaro, Enzo Iannelli, informò in tempo reale il Quirinale dei “gravissimi fatti” di cui, a suo giudizio, i magistrati di Salerno si stavano rendendo autori, chiedendone l’intervento “per ripristinare” le “basi fondanti dell’Ordinamento giudiziario” invece che sollevare conflitto di competenza.

Il 4 dicembre l’Ansa comunicava che il segretario della Presidenza della Repubblica, su incarico del presidente Napolitano, aveva chiesto alla Procura generale di Salerno gli atti dell’indagine salernitana. Nello stesso frangente, la Procura generale di Catanzaro procedeva al controsequestro degli atti e a indagarci per abuso d’ufficio e interruzione di pubblico servizio. Un atto illegittimo, secondo la Cassazione nella sentenza disciplinare, sul quale, nonostante le denunce alle Procure di Salerno e Perugia, alcuno osò indagare. Iannelli sostiene che fu convocato dal Procuratore generale della Cassazione e indotto a revocare il sequestro. Adombra un’ulteriore interferenza esterna. Il Riesame di Salerno confermò la legittimità del nostro sequestro, ma gli atti rimasero a Catanzaro. Io e Verasani fummo sanzionati, Apicella si dimise dalla magistratura; le indagini a nostro carico furono archiviate (come le nostre denunce); il nostro lavoro si dissolse; chi ebbe un ruolo attivo nelle nostre vicende fu destinato a importanti incarichi. La verità è appena accennata. Ma per emendarsi dal peccato non è mai troppo tardi.

 

Variante inglese, troppa confusione

In questeultime settimane ferve l’attenzione sulla cosiddetta “variante inglese” del SarSCoV2. Come spesso è accaduto durante la pandemia, dichiarazioni scientifiche e rumor mediatico si sono mescolati in un cocktail chiamato “confusione”. Innanzitutto si parla di varianti, ma pochi sanno realmente di cosa si tratti. Da quando abbiamo saputo dell’esistenza del virus sono state rilevate più di 23mila mutazioni. Sono gli errori di “lettura”, molto frequenti in virus a Rna, commessi durante la sua moltiplicazione. Ma si tratta solo della modifica di una, due ”lettere”. Le varianti sono mutazioni più complesse e sono definite dalla presenza di un intervallo di 14 mutazioni che comportano modifiche degli aminoacidi e tre delezioni. Sulla cosiddetta variante Uk nulla di scientifico è ancora stato definito. Peraltro, il timore che possa rendere inattivi gli attuali vaccini è stato smentito da studi pubblicati nelle più autorevoli riviste scientifiche. Giustamente l’Iss sta conducendo studi epidemiologici per avere un quadro più approfondito, ma, a oggi, nulla può autorizzarci a far diventare l’identificazione di questa variante un elemento diagnostico significativo per il trattamento del paziente. Il test di genotipizzazione, per costo e time consuming elevati, non può essere considerato un test di routine. Peraltro la variante Uk è già molto diffusa e nessuna misura di isolamento sarebbe in grado di fermarla. I primi dati, raccolti anche dal nostro laboratorio, ci dicono che è già presente nel 34% dei virus genotipizzati.

Cosa fare? Come sempre, da un lato continuare con la ricerca che ci aiuta a conoscere meglio i fenomeni e, dall’altra, utilizzarne i risultati per una migliore gestione del paziente. A oggi, dunque, non ci resta che continuare a migliorare le nostre conoscenze indagando sui reali effetti della variante e, dall’altro, fino a quando i risultati non saranno solidi, abbassare il rumor e continuare con ciò che ci ha permesso di non soccombere: mascherine, distanziamento, igiene e, quando arriva il turno, vaccino. Tenendo però un occhio molto attento alle altre varianti che, pare, siano già temibili.