Strage di Bologna, l’ex primula Bellini rinviato a giudizio

La primula nera va a processo. Il gup del Tribunale di Bologna, Alberto Gamberini, ha rinviato a giudizio Paolo Bellini, ex Avanguardia Nazionale, accusato di essere uno degli autori della strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980, in concorso con i Nar condannati e con Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi, deceduti, ritenuti mandanti, finanziatori o organizzatori. A processo per depistaggio anche l’ex carabiniere Piergiorgio Segatel e Domenico Catracchia per false informazioni al pm. Il processo comincerà il 16 aprile. La richiesta era stata avanzata dalla Procura generale – l’avvocato generale Alberto Candi e i sostituti pg Umberto Palma e Nicola Proto – che ha avocato a sé l’inchiesta sui mandanti nel 2017, alcuni mesi dopo che la procura ordinaria ne aveva chiesto l’archiviazione. Per Candi non serve parlare di “processo storico, abbiamo fatto il nostro dovere. In vista del dibattimento abbiamo fatto una completa discovery, ora vediamo se ci saranno ulteriori elementi che affioreranno”.

La Primula Nera fu inquisito nel 1992 anche grazie alla testimonianza di un paio di persone che dichiararono di averlo visto in stazione ma venne poi prosciolto con l’alibi fornitogli dalla famiglia che confermava la sua presenza a Rimini. Intercettata nell’ambito di queste nuove indagini però l’ex moglie ha riconosciuto Bellini in un’immagine catturata dalla cinepresa di un turista tedesco che si trovava sul primo binario il giorno della strage. Il reggiano, poi, potrebbe essere “l’aviere che portava una bomba”, figura di cui parla intercettato Carlo Maria Maggi, ex capo di Ordine Nuovo. La figura di Bellini è raccontata nel libro L’uomo nero e le stragi scritto da Giovanni Vignali ed edito da PaperFirst, in vendita in tutte le librerie d’Italia e nelle edicole dell’Emilia-Romagna e delle maggiori città.

 

Creval, Draghi dice sì all’Opa francese (sgradita alla Lega)

Come funzionerà il governo di Mario Draghi è evidente fin dal suo primo Consiglio dei ministri: la palla è sua, gli altri devono farsi piacere il gioco. Ci si riferisce, in questo caso, alla decisione presa proprio ieri dall’esecutivo – e anticipata dalla Reuters – di non azionare il cosiddetto “golden power” sull’Opa dei francesi di Credit Agricole sul Credito Valtellinese. Il dossier era stato preparato dal Tesoro già col governo Conte, ma la decisione era stata lasciata al successore: la linea è rimasta la stessa elaborata da Gualtieri, nonostante sull’ingresso dei francesi nella banca lombarda ci fosse qualche perplessità nei 5 Stelle e l’ostilità dichiarata della Lega. Ricordiamo, a mero titolo di esempio, gli allarmi lanciati dal presidente del Comitato parlamentare di controllo sui servizi Raffaele Volpi (vicino al ministro Giorgetti) sulle manovre francesi nel settore del credito o le parole del tesoriere della Lega, Giulio Centemero: “Per Creval il percorso che il governo avrebbe dovuto facilitare sarebbe dovuto essere di carattere domestico, perché quella che da molti è considerata una banchetta, in realtà è la banca italiana coi coefficienti di capitale più alti e una buona qualità del credito”. Contrarietà che, una volta al governo, sono diventate pragmatica accettazione della realtà. Ora la palla, ovviamente, passa al mercato: l’offerta pubblica di acquisto dei francesi, già approvata dalle autorità Ue, è di 10,5 euro per azione Creval (l’investimento totale è di 737 milioni). Molti soci dell’istituto lombardo ritengono però il prezzo troppo basso, specie dopo gli ottimi conti 2020 appena presentati: Credit Agricole, in parole povere, dovrà probabilmente alzare il prezzo per portarsi a casa la banca. In ogni caso la delibera del governo, scrive Reuters citando una fonte anonima, “contiene raccomandazioni che però non sono legalmente vincolanti”, senza specificare quali.

Ex Ilva Taranto, ArcelorMittal come i Riva: “Stop forzato causerebbe il crollo dei forni”

La fermata forzata degli impianti stabilita dal Tar di Lecce “senza la disponibilità di una stazione di miscelazione azoto e metano, non permetterebbe la tenuta in riscaldo dei forni e ne conseguirebbe il loro crollo e quindi la distruzione dell’asset aziendale di proprietà di Ilva in amministrazione straordinaria”. Lo ha fatto sapere ArcelorMittal dopo la sentenza che impone lo spegnimento dell’area a caldo entro 60 giorni. Un ultimatum che ricorda quelli della famiglia Riva. La multinazionale paventa “rischi per la sicurezza” e “totale blocco della produzione dello stabilimento, qualificato di interesse strategico, l’unico sul territorio nazionale a ciclo integrato per la produzione di acciaio”. Nel 2012 anche i Riva chiesero il dissequestro minacciando la chiusura. Al suo arrivo a Taranto, Arcelor ha lasciato a carico di Ilva in As una serie di lavoratori poco inclini al compromesso, rimediando le condanne del Tribunale del lavoro. Proprio come i Riva che nel ’95 trasferirono gli “sgraditi” nella “Palazzina Laf”, il più grande caso di mobbing della storia italiana.

E ora Sala spiega ai bimbi che il cemento è “verde”

“Ciao! Io mi chiamo Beppe Sala e sono il sindaco della città di Milano. Lo sai tenere un segreto? Sulla mia scrivania ho una scatola di cartone grosso che è una specie di macchina del tempo”. Così il libro del sindaco di Milano (Lettere dalle città del futuro, DeAgostini) racconta ai bambini alcuni dei messaggi che gli arrivano. Come la lettera, datata 20 febbraio 2031, di Viola, una ragazza che “descrive Milano precisamente come vorrei che fosse tra dieci anni”. Il greenwashing diventa così letteratura per l’infanzia, la cui qualità (con tanto di “cielo azzurro intenso” e di “aria frizzante e profumata”) lasciamo valutare ai critici. Sala è ormai come Pippo Baudo: appena ha sentito che Mario Draghi, per tener buoni i Cinquestelle, ha inventato il ministero della Transizione ecologica, ha detto che lo aveva inventato lui, a Milano, da più d’un anno. È l’assessorato alla Transizione ambientale. Un ologramma, proprio come il ministero. In data 12 luglio 2019, infatti, il sindaco aveva ridistribuito le deleghe, dopo la partenza per il Parlamento europeo dell’assessore Pierfrancesco Majorino, e aveva “accorpato tutte le deleghe in materia di Transizione ambientale, assunte direttamente dal sindaco”. Deleghe tenute in caldo, senza una sola azione concreta, se non forse il libretto per bambini pieno di belle idee (andare in bici, piantare alberi, fare mercatini di quartiere, suonare insieme, vivere in cohousing…). Non dite a Viola che nel 2031 Milano sarà sempre la metropoli che amiamo follemente perché è la nostra città, ma – se si attueranno le scelte urbanistiche di Sala – avrà più cemento, più consumo di suolo, meno verde, più inquinamento atmosferico, più differenze tra centro e periferie, più disuguaglianze sociali. Il parco di piazza Baiamonti sarà occupato dal vetro e dal cemento della seconda “piramide” di Herzog e De Meuron che Sala (per farla digerire ai cittadini) ha proposto diventi sede del museo della Resistenza (dopo il greenwashing, anche il partisanwashing). L’area di San Siro non avrà più il glorioso Meazza, ma uno stadio nuovo con più spazi commerciali che posti a sedere e un paio di grattacieli a uffici, hotel e via costruendo. I sette scali ferroviari (1 milione e 250 mila metri quadrati, la più grande riconversione urbana d’Europa che potrebbe fare di Milano la città più verde d’Europa) saranno trasformati in quartieri residenziali, specie lo scalo Farini e lo scalo Romana (dove sorgerà il villaggio olimpico). I terreni Expo, che ora chiamano Mind, non saranno al 50 per cento parco, come promesso dall’allora sindaco Giuliano Pisapia, ma un coacervo di case e facoltà universitarie, abbellito da aiuole verdi chiamate parco. E cosa diventerà Città Studi, abbandonata dalle facoltà della Statale spostate a Mind? E il parco Bassini? E il bosco urbano La Goccia, quello dei gasometri della Bovisa? E la Piazza d’Armi di Baggio? Poveri bambini di domani. Forse le loro lettere dal futuro dovrebbero scriverle ai nuovi, veri padroni di Milano, tipo Manfredi Catella di Coima. Sono loro che progettano il futuro, cemento rivestito di fiumi verdi, boschi verticali, torri botaniche, biblioteche degli alberi, mentre Sala si balocca con la scatola di cartone grosso sulla sua scrivania di sindaco.

Falsi e ingannevoli la metà degli slogan ambientali sul Web

Il rifacimento di un’inesistente “verginità” ambientale della propria azienda e dei propri prodotti per migliorare l’immagine riguarda il 42% delle affermazioni “ambientaliste” fatte dalle imprese su prodotti attivi nell’abbigliamento, nei cosmetici e negli elettrodomestici. Il fenomeno cresce di giorno in giorno di pari passo con l’aumento delle richieste da parte di consumatori e clienti di un’economia e una finanza “verdi”. È il greenwashing, un problema pervasivo perché non consente di distinguere tra chi è sostenibile e chi no, distorce la concorrenza e penalizza chi davvero tiene all’ambiente.

Lo hanno confermato la Commissione Ue e le autorità nazionali di tutela dei consumatori che da poco hanno pubblicato i risultati di uno screening specifico contenuto nell’indagine annuale sulle violazioni delle regole Ue a tutela dei consumatori nei mercati online. Quest’anno per la prima volta l’indagine a tappeto si è concentrata sul greenwashing e ha analizzato le affermazioni “ecologiche” pubblicate in rete. Per le autorità nel 42% dei casi c’è motivo di credere che fossero esagerate, false o ingannevoli e configurino di fatto pratiche commerciali sleali.

La Commissione e le autorità nazionali hanno messo sotto la lente, in particolare, 344 affermazioni “ambientali” apparentemente dubbie. Dall’analisi è emerso che in oltre la metà dei casi non sono state fornite ai consumatori informazioni sufficienti per valutare la loro veridicità, mentre nel 37% dei casi erano stati usati termini vaghi e generici come “cosciente”, “rispettoso dell’ambiente” o “sostenibile” per suscitare la falsa impressione che non avessero impatti negativi sull’ambiente. Solo nel 59% dei casi sono stati forniti elementi di verifica facilmente accessibili.

Il greenwashing inganna gli attori economici e non offre il giusto vantaggio a quelle aziende che si stanno davvero impegnando per rendere i loro prodotti e le loro attività sostenibili. Alla fine il fenomeno porta a un’economia meno “verde” perché “la moneta cattiva scaccia la moneta buona”, si legge nel rapporto. Il problema è la moltiplicazione degli standard ecologici delle imprese: una vera Babele dietro la quale c’è il rischio che si celino forme di greenwashing istituzionalizzato realizzate dalle diverse lobby dei settori economici che cercano di farsi ciascuna “regole” ambientali proprie. Secondo la Commissione Ue oggi è difficile dare un senso a etichette e iniziative ambientali di prodotti e aziende. Nella sola Ue oggi esistono più di 200 etichette ambientali sulle oltre 450 presenti nel mondo. Il Green Deal europeo prevede che le aziende che fanno affermazioni verdi “dovrebbero convalidarle rispetto a una metodologia standard per valutare il loro impatto sull’ambiente”. Il piano d’azione per l’economia circolare del 2020 impegna Bruxelles a “proporre che le aziende sostengano le proprie dichiarazioni usando i metodi dell’impronta ambientale”. Solo così, forse, si metterà fine alla babele.

Cingolani e quei fondi dati dall’Iit al centro guidato dalla ex moglie

Nel 2006, Roberto Cingolani, neo ministro della Transizione ecologica voluto da Grillo, trasferì 3,5 milioni di euro dai fondi dell’Istituto italiano di tecnologia (Iit), di cui era direttore dal 2004, al Laboratorio nazionale di nanotecnologie di Lecce diretto dalla moglie Rosaria Rinaldi (oggi ex moglie) e da lui stesso fino al 2004. Il travaso di fondi di Iit al Laboratorio salentino è stato possibile grazie al doppio ruolo di Cingolani in quel momento: dal 2004 direttore Iit nominato da Giulio Tremonti e, fino al 2006, responsabile della fase di accorpamento dell’Istituto nazionale di fisica della materia (Infm) dentro il Cnr su nomina dell’allora presidente Cnr Fabio Pistella.

Era stato Cingolani a fondare il Laboratorio nazionale di Nanotecnologie di Lecce nel 2001, quando ricopriva la carica di vicedirettore Infm. Lo ha diretto fino al 2004, anno in cui Cingolani si sposta ad Iit e la moglie Rinaldi diventa responsabile dello stesso laboratorio. Athanassia Athanassiou, la seconda moglie di Cingolani, fisica della materia, è tra i primi ricercatori ad essere assunta a tempo indeterminato presso l’Iit. Il Fatto può ricostruire la storia grazie a documenti pubblici del Cnr, soggetto alla legge sulla trasparenza.

Itt è una fondazioneprivata, sebbene finanziata con fondi pubblici, non è obbligata a pubblicare le convenzioni che stipula né i bilanci. La vicenda vede Cingolani vicedirettore dell’Infm dal 2001 al 2003, anno in cui viene nominato commissario straordinario per guidare la sua chiusura e il suo assorbimento da parte del Cnr. A giugno 2005, è il Cnr a nominarlo responsabile Cnr-Infm per l’accorpamento dei laboratori dell’Infm, con mandato prorogato più volte, fino al 31 dicembre 2006. È in questo periodo di proroghe che Iit stabilisce una convenzione di ricerca con il Cnr, il 7 giugno 2006. Come si evince dai documenti Cnr, a firmare la convenzione per conto di Iit non è il suo direttore, Cingolani, ma l’allora vicepresidente di Iit, Giuseppe Cerboni. Per il Cnr, firma Pistella. Cingolani firma invece come responsabile Cnr-Infm la delibera in cui si autorizza che la convenzione Iit-Cnr venga svolta presso il laboratorio di Lecce e sotto la direzione della Rinaldi. Autorizza anche un trasferimento di 3,5 milioni in 5 anni da Iit al laboratorio leccese. Cingolani era, quindi, al tempo stesso erogatore (in qualità di direttore di Iit) e beneficiario dei fondi, visto che risultava ancora responsabile dei laboratori Cnr-Infm, come quello diretto dalla moglie. La Rinaldi ottenne anche un contratto di collaborazione esterna di un anno con Iit. Altri laboratori precedentemente apparenti a Infm vennero scelti discrezionalmente da Iit per collaborare e beneficiare dei suoi fondi: il centro di ricerca Soft-Infm della Sapienza diretto dal fisico Giancarlo Ruocco, e il centro Nest alla Normale di Pisa, diretto da Fabio Beltram, ordinario di Fisica della materia nello stesso ateneo. Oltre a un altra decina di gruppi e centri dell’università pubblica scelti da Iit.

Da gennaio 2006 a dicembre 2010, Athanassia Athanassiou, attuale moglie di Cingolani, è stata anche lei ricercatrice senior presso il Laboratorio di nanotecnologia di Lecce.

Da gennaio 2011 è diventata coordinatrice della Piattaforma materiali intelligenti nello stesso laboratorio, parte della rete Iit. Nel settembre 2012, si è trasferita all’Iit ed è stata tra i primi 5 ricercatori a ottenere una posizione di tenure track, cioè un contratto a tempo indeterminato. Anche il figlio e il marito della tata dei figli di Cingolani, rispettivamente Paolo e Arcangelo Barbieri, sono stati assunti ad Iit. Il primo in categoria protetta e il secondo come tecnico di laboratorio. Lo riporta Thomas Mackinson in un’intervista allo stesso Cingolani nel 2014 sul Fattoquotidiano.it. Non c’è nulla di opaco, aveva risposto il neo ministro, spiegando che al laboratorio di Lecce c’era un ragazzo che aveva potuto conoscere e apprezzare. Così decise di assumerlo a Iit come tecnico della sicurezza. Fece un contratto anche al padre tra le categorie protette. La moglie era la baby sitter dei figli.

Cingolani non ha risposto alla richiesta di chiarimenti del Fatto.

Funiciello: sessista con la Appendino e censore del Fatto

Nel governo “dei migliori” che è un po’ Berlusconi IV e un po’ Conte II, non poteva mancare chi le ultime stagioni politiche le ha attraversate tutte, sopravvivendo alla noia tra nomine, comitati elettorali, incarichi pubblici. Antonio Funiciello, 45 anni, di Caserta, una laurea in Filosofia e 15 anni nel Pd, sarà il prossimo capo di gabinetto del presidente Mario Draghi, riuscendo così a fare ritorno a Palazzo Chigi dove già aveva servito Paolo Gentiloni fino al 2018.

La sua stagione d’oro, però, Funiciello l’aveva vissuta un paio d’anni prima. Reduce da alcune consulenze – Enrico Morando, Giorgio Tonini, Walter Veltroni – e da una sbandata per “l’agenda Monti”, nel 2013 riesce a diventare “responsabile della Cultura” del Pd con Guglielmo Epifani, poi si innamora di Matteo Renzi e decide di dedicarsi alla “svolta buona”.

Funiciello diventa uno dei tanti bracci armati del renzismo tanto che sui social sbeffeggia con fare sessista la sindaca M5S Chiara Appendino: “Appendino è bocconiana, come Sara Tommasi”. Poi lavora con Luca Lotti e dà il meglio durante l’infinita campagna elettorale per il referendum costituzionale del 2016, quando diventa presidente del Comitato Basta un Sì. In quel periodo tutti i quotidiani nazionali – a esclusione del Fatto e di un paio di altri vietcong – si schierano pancia a terra per il Sì alla riforma Boschi-Renzi. Nonostante basti sfogliare i giornali o anche solo fare zapping in tv per accorgersene, Fuciniello fantastica di un “gravissimo vulnus alla libera informazione” a scapito del fronte del Sì, tanto che presenta un esposto all’Agcom – la quale aveva appena certificato una sovraesposizione dei favorevoli alla riforma – per chiedere il Daspo per quei 3 o 4 giornalisti schierati per i No. Funiciello e i suoi giurano di “monitorare tutte le trasmissioni tv” a caccia di un’apparizione di Marco Travaglio, Antonio Padellaro o Andrea Scanzi, qualcosa che provi “la persistente manifesta violazione della normativa”. La7 viene spacciata per una specie di covo carbonaro, Funiciello si agita un altro po’ ma poi ci pensano le urne a recapitare un bagno di realtà al Comitato del Sì e al suo presidente. Che però per sua fortuna, forse grazie all’ispirazione di Machiavelli – non a caso nel titolo del suo ultimo libro –, ha mille risorse e non si fa certo abbattere.

Dopo la batosta renziana diventa capo di gabinetto di Gentiloni, oscillando tra Palazzo Chigi e il consiglio d’amministrazione dell’Inpgi, l’istituto pensionistico dei giornalisti, dove prima era stato nominato – in spregio alle coincidenze – proprio dalla Presidenza del Consiglio. Poi il cda della Fondazione Leonardo – Civiltà delle Macchine, presieduto dall’ex deputato dem Luciano Violante, lo nomina direttore della rivista della Fondazione.

Forse è anche per queste fortune che un giorno Vito Crimi lo definisce “un prodotto del poltronificio del Pd”, evidentemente ammirato dalla sua capacità di ricollocamento. Per trovare giudizi più generosi non serve però andar lontano. Basta aprire l’ultima – già citata – fatica letteraria del Nostro: “Difficilmente un leader di valore si lascia presentare o rappresentare da collaboratori incapaci”. Come a dire: stavo con Gentiloni, io. E prima con Renzi, quando la sinistra “fedele a se stessa” era “alla Leopolda”. E prima con Veltroni, quando forse la sinistra era un’altra cosa ancora. E adesso con Draghi, dove se non altro l’ammucchiata dei partiti farà risparmiare persino la fatica di riposizionarsi.

Cassese & C. l’abbuffata dei super burocrati

Governi e ministri, è noto, vanno e vengono. Capi di gabinetto e alti burocrati restano e comandano, a volte fanno lunghi giri e poi ritornano. Qualche decina di grand commis – consiglieri di Stato, magistrati amministrativi, etc – che detengono un potere immenso. Sacerdoti di una religione laica che scrive e interpreta le leggi (comprese quelle che permettono di distaccarli fuori ruolo nei ministeri o nelle Authority, di cui poi giudicano gli atti). Il governo Draghi non fa eccezione. Anzi è anche il risultato di una delicata battaglia sotterranea che ha visto la capitolazione di Giuseppe Conte.

C’è un partito della burocrazia, il cui stratega – o almeno così lui prova ad accreditarsi – è il giurista Sabino Cassese, principe degli amministrativisti, già giudice della Consulta, ministro con Ciampi e voce ascoltatissima della maionese impazzita detta establishment italiano. Il nostro ha passato mesi a bombardare a mezzo stampa il governo Conte, considerato inadeguato a gestire la crisi e il Recovery Plan. Con la nascita del governo di Mario Draghi, con cui vanta ottimi rapporti, non si è tenuto: “È in linea con le mie aspettative”, ha esultato, auspicando che il neo esecutivo “non sia a termine”.

Tanta gioia magari si spiega anche con il ritorno al comando dei suoi numerosi allievi, una schiera nutrita con ottime entrature al Quirinale e tra i quali si contano Giulio Napolitano (figlio di Giorgio) e Bernardo Giorgio Mattarella (figlio di Sergio) o avvocati di grido come Andrea Zoppini (e il suo rinomato studio). Una fitta rete di potere che può vantare oggi diverse posizioni chiave nei ministeri la neo-titolare della Giustizia, Marta Cartabia, vicina a Comunione e Liberazione, nonché giudice costituzionale negli anni in cui alla Consulta sedeva anche Cassese. Questo mondo – oggi in attrito con quel che resta della filiera andreottiana incarnata dal Gran Visir del berlusconismo Gianni Letta e dal faccendiere Luigi Bisignani, prova a tessere le file del gioco e sembra avere il sopravvento. Al punto che Cartabia viene perfino indicata tra i papabili futuri presidenti della Repubblica.

Conte non è estraneo alla macchina della giustizia amministrativa, è stato vicepresidente del Consiglio di presidenza dell’organo di autogoverno (il Cpga). Ai tempi del governo gialloverde, Cassese era stato anche prodigo di elogi (“sei meglio di Gentiloni”), ma dall’estate 2020 qualcosa è cambiato; è iniziato il bombardamento che oggi vede il suo esito vittorioso.

Il ritorno più clamoroso, in questo senso, è quello di Roberto Garofoli a Palazzo Chigi: arriva, in quota Quirinale, addirittura come sottosegretario alla Presidenza. Consigliere di Stato, nel Conte I fu costretto alle dimissioni da capo di gabinetto al Tesoro (arrivato con Padoan in quota Enrico Letta, fu confermato da Tria) su input dell’allora premier: il portavoce di Palazzo Chigi, Rocco Casalino, lo attaccò insieme ai “pezzi di merda” del ministero dell’Economia accusati da 5Stelle e Lega di sabotare il governo non facendo saltare fuori i soldi per il ddl Bilancio 2019. Tra i “pezzi di merda” c’era anche l’allora Ragioniere generale dello Stato, Daniele Franco, neo ministro dell’Economia.

Oggi, stando alle indiscrezioni, dal repulisti di Cassese&Draghi si dovrebbe salvare (per ora) Roberto Chieppa, segretario generale di Palazzo Chigi: fedelissimo di Conte e bersaglio prediletto di Cassese nei suoi editoriali contro i Dpcm scritti “da chi meriterebbe di essere mandato in Siberia”, nel Palazzo si dice che debba la riconferma ai buoni uffici di Mattarella jr. Chi dovrebbe saltare è invece Ermanno De Francisco, l’uomo che Conte ha chiamato a capo dell’Ufficio legislativo a Palazzo Chigi, anche lui, come Chieppa, vicino al presidente del Consiglio di Stato, Filippo Patroni Griffi, ex ministro del governo Monti, nominato al vertice di Palazzo Spada proprio da Conte.

Al suo posto dovrebbe arrivare un altro fedelissimo di Patroni Griffi, Carlo Deodato, giudice del Consiglio di Stato, già capo di gabinetto al ministero degli Affari europei con Paolo Savona, che seguì quando quest’ultimo fu dirottato alla presidenza della Consob (è stato segretario generale dell’Authority).

Vicino ad Andrea Zoppini – ha scritto con lui un Manuale di diritto civile edito da “Nel diritto”, casa editrice con fatturato milionario della moglie di Garofoli – è anche Giuseppe Chinè, che dovrebbe sostituire Luigi Carbone (anche lui consigliere di Stato in distacco) come capo di gabinetto al Mef: magistrato amministrativo (cresciuto alla scuola di Vincenzo Fortunato, potentissimo al Tesoro ai tempi di Tremonti e Monti), oggi capo della Procura federale della Figc, Chinè è stato capo di gabinetto di Beatrice Lorenzin alla Salute (governo Renzi) e al Miur con Marco Bussetti (in quota Lega nel governo Conte I).

Gradita a Giorgetti, ma anche al mondo dem, è la papabile nuova capo di gabinetto di Garofoli, Daria Perrotta: già capo segreteria del leghista quando era sottosegretario a Palazzo Chigi coi gialloverdi, ricoprì lo stesso ruolo con Maria Elena Boschi nell’esecutivo Gentiloni; oggi è consulente di Dario Franceschini al Mibact.

Al ministero dello Sviluppo, Giorgetti dovrebbe invece portarsi Paolo Visca, alto funzionario della Camera e capo di gabinetto di Matteo Salvini da vicepremier .

In quota Confindustria, ma vicina al finanziere-costruttore Francesco Gaetano Caltagirone, al ministero della Pubblica amministrazione di Renato Brunetta dovrebbe arrivare l’ex dg di Viale dell’Astronomia, Marcella Panucci. Invece Gaetano Caputi, che fu direttore generale Consob ai tempi di Giuseppe Vegas, è in pole position per la stessa poltrona al ministero del Turismo del leghista Massimo Garavaglia.

Berlusconi dà il “contentino” agli esclusi Tajani e Ronzulli

Dopo giorni di crisi di nervi e lamentele, Forza Italia è ancora nel caos. Silvio Berlusconi è dovuto correre ai ripari, dando un contentino agli esclusi dalle scelte di Mario Draghi. E così ieri sono arrivate le nomine di Antonio Tajani a coordinatore del partito, di Anna Maria Bernini a sua vice e di Licia Ronzulli a “responsabile per i rapporti con gli alleati di centrodestra”, carica nuova di zecca che prima non esisteva. Inoltre, il senatore Massimo Ferro è stato messo a capo del dipartimento Economia al posto di Renato Brunetta. E l’ex premier ha pure confermato Roberto Occhiuto, che per ora ha preso il posto della Gelmini alla Camera, come candidato alla presidenza della Regione Calabria.

Una pezza, quella dell’ex premier, che se placa in minima parte lo scontento di chi si vedeva già al governo (come Tajani e Bernini), dall’altra ha fatto esplodere il partito, provocando l’uscita di tre deputati: i piemontesi Osvaldo Napoli e Daniela Ruffino e il lombardo Guido Della Frera ieri hanno lasciato il gruppo forzista per aderire a Cambiamo, di Giovanni Toti, entrando nel gruppo misto di Montecitorio. Ma ora è tutto il gruppo alla Camera che ribolle. Qui si dovrà eleggere un nuovo capogruppo, con i deputati che chiedono di votare in autonomia. “Se arriva un nome calato dall’alto, sponsorizzato dai soliti noti, saranno in molti ad andarsene…”, dicono quelli che a Montecitorio vogliono sbarrare la strada a Giorgio Mulè. In corsa ci sono anche Cattaneo, Mandelli e Zangrillo. Per non parlare della partita dei sottosegretari, dove in tanti aspirano a un posto al sole.

Vigilanza Rai: Meloni vuole la “Pitonessa”

Nel 2010, a un anno dalla caduta del terzo governo Berlusconi, era arrivata a chiedere la par condicio per i pubblico in studio ad Annozero di Michele Santoro. In questi mesi, lasciata da tempo le corte di Arcore, invece è stata la pasdaran di Giorgia Meloni contro la Rai. Dalle proteste contro le inchieste di Report sul mondo “nero” di Fratelli d’Italia agli esposti per il poco spazio del suo partito nei Tg, Daniela Santanchè è stata la capogruppo in Vigilanza Rai che ha difeso Meloni e contrastato la gestione del servizio pubblico a suo dire troppo piegato sull’ex premier Conte. Adesso lei, senatrice e con un passato da “pitonessa” berlusconiana, potrebbe diventare la nuova presidente della commissione di Vigilanza Rai dove siede il forzista Alberto Barachini.

Vistoche Fratelli d’Italia sarà l’unica forza di opposizione, ora sta rivendicando le presidenze delle commissioni parlamentari di garanzia. E Santanchè, dicono da Fratelli d’Italia, è la candidata ideale per fare le pulci alla Rai nella nuova èra Draghi. “È la nostra candidata naturale” dicono fonti ben informate di FdI. Lei per il momento resta sul vago: “Ora non stiamo parlando di poltrone e siamo concentrati sulle riaperture, sugli indennizzi ai lavoratori del settore sciistico”. Ma non smentisce: “Se me lo chiedessero, io sono a disposizione del partito – dice al Fatto –. La Vigilanza Rai, come le altre commissioni di garanzia, svolge un ruolo fondamentale come contropotere della nostra democrazia. E per questo deve essere riservata alle forze di opposizione”. Oltre a fare da controllo al servizio pubblico, Meloni sa che essere l’unica opposizione al governo Draghi darebbe un enorme vantaggio in termini di visibilità a FdI: nei tg e nei talk show, se sarà applicato il solito criterio che prevede un terzo degli spazi al governo, un terzo alla maggioranza e un terzo all’opposizione, il partito della Meloni potrebbe godere di un’esposizione mediatica senza precedenti. Così ieri la leader di FdI ha proposto il “no” alla fiducia in direzione nazionale, votato all’unanimità.

Ma non c’è solo la Rai a far gola a FdI. In ballo ci sono anche altre commissioni di garanzia che potrebbero finire ai meloniani: oltre alla Vigilanza, il Copasir presieduto dal leghista Raffaele Volpi il cui candidato naturale è Adolfo Urso (oggi vicepresidente), la Giunta per le autorizzazioni del Senato presieduta dal forzista Maurizio Gasparri (potrebbe sostituirlo Ignazio La Russa) e la commissione per la vigilanza di Cdp che dovrebbe andare al senatore Andrea De Bertoldi. Ma le richieste pressanti di FdI stanno creando malumori in Lega e FI che rimarrebbero a mani vuote (le commissioni ordinarie sono tutte in mano a Pd e M5S). Al Copasir a FdI toccherebbero 5 membri su 10. Un modo per Meloni di avvicinarsi a quei mondi – Rai e Servizi segreti – per accreditarsi e puntare al governo. Il prossimo.