L’appello di Fico nel marasma M5S (e forse parla Grillo)

L’anno zero del Movimento è già qui, già ora. Anche se mancano ancora 24 ore al mercoledì in cui i primi conti verranno regolati in pubblico, quello del voto di fiducia in Senato al governo di Mario Draghi, “e in un giorno può succedere di tutto”, come sussurra un senatore. Magari anche recuperare alcuni dei 15 eletti a Palazzo Madama del M5S che per ora giurano di non voler dire sì al nuovo esecutivo, a cui vanno aggiunti alcuni incerti. Ma dentro i 5Stelle l’aria è tossica e non c’è un assetto, un ordine. Beppe Grillo, ancora il capo, quello che ha teorizzato la necessità di deglutire il governo con un (altro) ex nemico, viene informato di tutto. Gli hanno chiesto di parlare nell’assemblea congiunta che dovrebbe tenersi stasera, o almeno un segnale per sedare l’insurrezione. E dicono che il Garante alla fine dovrebbe palesarsi. Probabilmente in collegamento. Nell’attesa ecco Roberto Fico, il presidente della Camera, con cui il fondatore parla quasi tutti i giorni, e con cui si è sentito anche nelle ultime ore. Non a caso, è proprio Fico a rilanciare le ragioni di una scelta lacerante. “Il nuovo super ministero alla Transizione ecologica c’è, ed è una novità storica” assicura in un post, rivolgendosi a quei 5Stelle che chiedevano di votare di nuovo sulla piattaforma Rousseau “perché il super ministero di cui parlava il quesito non c’è”.

Certo, continua, “so che molti dei nostri attivisti e parlamentari sono delusi e comprendo il malumore. Ma dobbiamo adottare un cambio di prospettiva drastico”. Invoca “responsabilità”. Soprattutto, aggiunge: “Voglio ringraziare Giuseppe Conte. Abbiamo fatto tanta strada insieme, e sono certo che continueremo a farne ancora”. Ci sarà ancora il professore, giura Fico. Dovrebbe servire a calmare alcuni dei ribelli, contiani conclamati. Intanto però non ha convinto la senatrice Barbara Lezzi, che gli replica così: “Ho sempre apprezzato la tua onestà intellettuale, caro Roberto, ma il tuo post è una profonda delusione: vedi un ministero che non c’è”. E comunque servirebbe anche altro, visto che diversi dissidenti invocano una via d’uscita dal reggente Vito Crimi. “Diccelo Vito, se ci alzassimo e non partecipassimo al voto per te potrebbe andare?” gli hanno chiesto nell’assemblea dei senatori di domenica sera. Ma il reggente non ha garantito l’incolumità agli assenti o a chi vorrà astenersi, come pure aveva suggerito – non si sa a quale titolo – Davide Casaleggio. È tutto in bilico, “anche se alla fine a dire di no saranno 8-10 senatori” è il pronostico diffuso. Tra questi, Bianca Laura Granato e il ligure Mattia Crucioli, che al Fatto dice: “Mi cacceranno o me ne andrò via, non fa differenza. Questo è un governo elitario e di destra, che non farà gli interessi dei lavoratori o della classe media, bensì lavorerà perché i soldi del Recovery Plan vadano ale grande industrie. Il M5S doveva stare all’opposizione”. Ma lavorate a una scissione? “Non so se ci saranno i numeri per un gruppo, ma se fosse possibile sarà più facile lavorare in Senato”. Chissà cosa ne pensa Conte, dal futuro politico nebuloso. L’unica sicurezza è che tornerà a fare il professore universitario (il rettore dell’università di Firenze ha firmato il decreto per il suo ritorno in cattedra).

Però vorrebbe restare in gioco, come ha detto ieri sera al fattoquotidiano.it uscendo da Palazzo Chigi: “Ci sono tanti modi per partecipare alla vita politica, lo vedremo insieme agli amici con cui abbiamo lavorato”. Sul come però è ancora mistero, anche perché di entrare nella segreteria collegiale del Movimento non sembra avere voglia: e poi non è neppure iscritto. Così i tanti contiani del M5S ruminano pessimismo: “Se non si sbriga finirà nel cono d’ombra”. E a occhio lo sospetta anche il suo portavoce Rocco Casalino, che a Otto e mezzo lo ha detto così: “Penso che Conte debba decidere presto cosa fare. Vorrei che avesse un ruolo nel Movimento, ma è presto per dire quale. Ma non so cosa farà”. Un altro enigma, per i 5Stelle a corto di risposte.

Draghi I: guerra per 40 posti. Ma i partiti litigano “al buio”

Lo schema divide i posti a seconda della rappresentanza parlamentare. Un ministro con portafoglio vale 5 eletti. Uno senza, ne pesa 3. Un posto di sottogoverno (viceministro o sottosegretario) ne vale 1. Tutti vogliono contare, figurarsi. E hanno deciso di affrontare Mario Draghi sul terreno a lui più congeniale: la matematica.

Almeno sulla carta. Perché, per restare alle metafore aritmetiche, hanno fatto i conti senza l’oste: dei 41 incarichi ancora disponibili (40 se si toglie Roberto Garofoli, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio), quanti saranno quelli che il premier ha intenzione di assegnare ai tecnici? Di nuovo, i partiti si ritrovano a ragionare al buio, senza conoscere nel dettaglio gli obiettivi di Draghi. E, va detto, senza nemmeno conoscere – questo vale per i 5Stelle – quanti parlamentari diranno sì alla fiducia. Se qualcuno vota no, abbassa la quota di tutto il gruppo.

Così, mentre Mario Draghi compone la squadra a Palazzo Chigi e prepara – insieme a Garofoli – il discorso da presentare domani e dopodomani alle Camere, i partiti stanno rivivendo lo stesso incubo della formazione dell’esecutivo. E i 40 posti in palio, tra viceministri e sottosegretari, hanno aperto la guerra nella maggioranza, a cominciare dagli ex giallorosa, con tutti gli uscenti vogliosi di essere riconfermati.

Dunque, secondo il bizzarro schema che circola in queste ore, al Pd toccano 5,9504 posti, ai Cinque Stelle (per ora) 16,9376, alla Lega 9,6592, a Forza Italia e Udc 7,3520, A Italia Viva 2,3728, a Centro democratico-Maie, 3,3872, a Leu (va però pure levata la quota Fratoianni) 0,8766, a Cambiamo 1,5184, alle Minoranze linguistiche, 1, 4016, a Azione e Più Europa 0,7008, a Noi con l’Italia 0,5840. L’elenco è decisamente troppo dettagliato, ma indicativo del clima in cui si attendono le nomine.

Nel Pd la guerra è già totale, con le donne in rivolta per la scelta come ministri dei tre capicorrente (tutti maschi). Si ipotizza una “ricompensa” con tutti i posti restanti, ma in realtà, almeno 2 postazioni strategiche sarebbero già impegnate: quella di Antonio Misiani al Mef e quella di Andrea Martella sottosegretario all’Editoria (che però potrebbe essere sostituito da un tecnico). La Lega, per dire, vorrebbe portare uno dei suoi – Nicola Molteni – al Viminale. D’altra parte, la guerra già aperta contro Roberto Speranza sulla chiusura degli impianti da sci – ieri il ministro del Turismo Massimo Garavaglia “comiziava” in Regione Lombardia – fa capire che il Carroccio non sarà proprio un facile socio di maggioranza. Forza Italia deve fare i conti con lo smacco subito dai berluscones. Nei 5Stelle si lotta per il vice di Roberto Cingolani alla Transizione ecologica (vuole il posto Stefano Buffagni), per la riconferma al Tesoro di Laura Castelli e scalpita anche Giancarlo Cancelleri. Ma le pressioni non arrivano solo dai partiti. Il presidente del Coni, Giovanni Malagò, per dire, non pago della scomparsa del ministero del Sport, spinge perché la delega per la guida del dipartimento finisca nelle mani di un suo fedelissimo. Ha già la lista dei desideri: Gianni Petrucci, Raffaele Ranucci o Daniela Sbrollini. E poi c’è la questione della delega ai Servizi.

Ad ogni modo, se ne parlerà dopo la fiducia. Di certo, l’impressione generale è che il neo premier che “della macchina non capisce nulla”, possa restare prematuramente vittima degli incontrollati appetiti di palazzo. Ne è prova (ne parliamo a pag. 6 – 7) la partita delle nomine dei vertici amministrativi della presidenza e dei ministeri, delegata in toto a Garofoli. Così come ha destato non poco stupore la notizia (de ilfattoquotidiano.it) che i “leader” – esclusi da Draghi nella squadra di governo – abbiano cominciato le loro interlocuzioni parallele: ieri sera alla Camera il Pd Nicola Zingaretti ha incontrato per mezz’ora il leghista Matteo Salvini. Per parlare del blocco dei licenziamenti che sta per scadere. E di sottosegretari, inutile precisare.

Vergassola “incolpano Conte, i Draghi non si vedono”

“C’è un problema: al mio bar di La Spezia c’è ancora un sacco di gente che viene e si lamenta – si lamenta Dario Vergassola al telefono – accusando Giuseppe Conte per le chiusure”.

Nessuno gli ha detto che è arrivato Mario Draghi nel frattempo?

Il fatto è che Draghi, che è molto sveglio, non lo vedi in giro, altro che basso profilo.

Si nasconde?

È come i draghi, non li vedi, sono leggenda.

Insomma non è soddisfatto del cambio-premier?

Draghi ce lo vendiamo come un pilota di Formula1, speriamo sia così, il problema è che deve guidare una Panda e portarla fuori dalle secche della burocrazia e del- l’immobilismo.

Da voi in Liguria come si sta? Disobbedite eh…

Qui si sta che siamo arancioni, purtroppo ci sono bande senza mascherine che entrano nei locali per lo spritz. E sapete di chi è la colpa? Di Conte.

Teme un altro lockdown?

No, ho un cane cieco che non cammina da trascinare in giro in caso.

Lockdown, Galli sta coi “terroristi”. Vaia: “Bastano chiusure locali”

Lockdown sì, lockdown no, lockdown forse. La chiusura del Paese torna sull’agenda. A rilanciarla è Walter Ricciardi, consigliere del ministro della Salute Roberto Speranza: va applicato su tutto il territorio nazionale come a marzo 2020 per limitare la circolazione del virus al di sotto dei 50 casi ogni 100mila abitanti. La prima reazione è del Matteo Salvini ritornato in maggioranza con la sua Lega al governo: “Non è possibile che qualcuno si alzi la mattina gettando nel panico milioni di italiani, parlando di morti e chiusure senza che ne abbia discusso con altri”. D’accordo con Ricciardi, invece, l’infettivologo Massimo Galli: “È davanti agli occhi di tutti che la faccenda delle Regioni colorate ha funzionato molto poco senza toglierci dal problema”; e il virologo Fabrizio Pregliasco, secondo cui sarebbe la soluzione con “maggiore efficacia, ma mi rendo conto che c’è una rabbia sociale in chi è in sofferenza”. E questo perché la tutela della salute deve fare i conti con la tenuta economica del Paese. A sposare una linea intermedia, che prevede lockdown mirati, in grado di incidere nei territori più colpiti dal virus, sono Francesco Vaia e Matteo Bassetti. Per Vaia, direttore sanitario dello Spallanzani di Roma, è vero che le varianti “sono un problema che deve destare molta attenzione, ma siamo contrari alle psicosi di massa, non serve aggravare le misure, ma applicare con severità quelle che già abbiamo. Bastano lockdown chirurgici laddove se ne verifichi la necessità”. Per Bassetti, direttore malattie infettive del San Martino di Genova, servono interventi “rapidi, incisivi, ma molto localizzati”.

Il “sistema montagna”: i veri numeri dei ribelli

“Se vogliono farci chiudere devono pagare, altrimenti ci lascino lavorare in pace”. Luca Mantovani è l’amministratore delegato di Vigezzo&Friends, società che gestisce gli impianti sciistici di Piana di Vigezzo, nella provincia piemontese del Verbano-Cusio-Ossola.

Un ribelle. Deciderà solo oggi se fermare gli impianti di risalita che ha avviato ieri mattina, per protesta, nonostante le disposizioni del ministro della Salute, Roberto Speranza, che ha fatto slittare la riapertura delle piste da sci al 5 marzo. “Ha assunto la decisione all’ultimo momento – dice Mantovani –. Invece di un comunicato stampa il ministro doveva farci un bonifico dei ristori”. A sua volta la presidente degli albergatori di Cortina d’Ampezzo, Roberta Alverà, liquida come “terrorismo mediatico” le dichiarazioni del consigliere di Speranza, Walter Ricciardi, che a Che tempo fa di Fabio Fazio ha spiegato che è stato proprio a causa dell’apertura delle piste da sci in Svizzera che si è propagata in Europa la variante inglese del virus. Alverà ammette però che il sold out, la corsa alle prenotazioni in vista della riapertura del 15 febbraio, non c’è mai stata: “Quella scatta solo se c’è programmazione, se ci sono certezze. La stagione è ormai irrimediabilmente compromessa. Alla fine del mese, quando saranno terminati i campionati mondiali di sci (in corso proprio a Cortina, ndr), la maggior parte degli alberghi chiuderanno”.

Le Regioni del Nord si sono tutte schierate compatte con le imprese turistiche della montagna, chiedendo ristori immediati: questione sul tavolo del neo ministro al Turismo, Massimo Garavaglia. Così Maurizio Fughetti (presidente della Provincia autonoma di Trento): “O tutti, da Roma a Bruxelles, capiranno che ristori sono la differenza tra il baratro e la salvezza, oppure la montagna ripiomberà desolatamente nel Medioevo dell’abbandono e della povertà”. Così Alberto Cirio, governatore del Piemonte, e Luca Zaia del Veneto.

La Regione Piemonte ha anche chiesto un indennizzo per le cinque false partenze dall’avvio della stagione invernale, a partire dal ponte dell’Immacolata del dicembre scorso, valutando anche l’ipotesi di costituirsi parte civile al fianco dei gestori degli impianti. “Il mondo dello sci – ha detto Cirio –, aspetta ancora di capire come verrà risarcito. Il governo continua a discutere sulle percentuali del sostegno e sul modello da seguire ma la sostanza è che non è ancora arrivato un euro”.

Per ora, però, Anef, l’associazione a cui fanno capo le imprese del settore, non sale sulle barricate. “Vista la gravità della situazione sanitaria – dice Valeria Ghezzi, presidente nazionale di Anef –, era chiaro fin dall’inizio che non sarebbe stato possibile aprire gli impianti. Ciò che contestiamo è il metodo. Ma siamo pronti a dialogare con il governo”.

Sullo sfondo, però, ci sono numeri che raccontano anche un’altra storia. E ha poco a che fare con la pandemia. Arrivano dall’International Report on Snow&Mountains Tourism: dal 2004 il mercato dello sci alpino italiano è crollato del 50%. In quella stagione invernale furono acquistati quasi 400mila paia di sci. Dieci anni dopo erano già scesi a 173mila.

“Modello Bertolaso”: piattaforma vaccini per over 80 già in tilt

Doveva essere il primo giorno del “Modello Bertolaso” in azione, quello da esportare ovunque, quello nel quale gli oltre 700 mila lombardi over 80 avrebbero potuto iniziare a dare il proprio consenso alla vaccinazione anti-Covid (che è diverso da prenotazione, dato che l’utente, che da ieri può manifestare la volontà di vaccinarsi, solo tra qualche giorno riceverà un sms con data, ora e luogo del vaccino, senza possibilità di cambiare l’appuntamento). Il giorno in cui, grazie a un sistema basato su tre gambe – piattaforma informatica, medici di famiglia e farmacie – si sarebbe iniziato a erodere il ritardo col quale la Lombardia sta affrontando la campagna vaccinale. Invece è stata una débâcle.

La piattaforma andata online alle 13:00 di ieri, alle 13:01 era già in tilt, abbattuta da oltre 120 mila accessi; i medici sono stati presi d’assalto dalle telefonate e si sono ritrovati nell’impossibilità sia di registrare i pazienti, sia di fare le normali visite; le farmacie hanno dovuto pregare gli anziani di tornare nei prossimi giorni, perché era tutto bloccato.

Una situazione prevedibile – anche alla luce di quanto accaduto settimane fa nel Lazio – ma che non è stata prevista. Inoltre, l’attesa di ore davanti al pc cui si sono sottoposte centinaia di migliaia di lombardi, non è stata neanche garanzia di successo: molti, infatti, sono riusciti a entrare nel sistema, ma non a chiudere l’operazione, perché la piattaforma non inviava in tempo utile l’sms di conferma, causando l’espulsione dell’utente e obbligandolo a ricominciare tutto daccapo. Solo che a quel punto, l’utente si ritrovava con 120 mila persone davanti…

Un perverso gioco dell’oca che ha fatto infuriare i cittadini. In migliaia hanno chiamato il numero verde della Regione, che si limitava a rispondere: “Ci spiace, il sistema è andato in tilt, provi tra qualche ora, o al limite domani”. Totalmente diversa la versione del presidente Attilio Fontana, che in serata ricordava come in cinque ore si fossero avute 100 mila registrazioni. Certo, “all’inizio abbiamo avuto alcuni disagi”, ha ammesso, “dovuti al gestore telefonico, che però sono stati superati. Quindi non si è verificato il temuto crash tecnologico”, ha concluso. Insomma, qualche “disfunzione”, ma solo per colpa di Tim, la versione del Pirellone. Eppure non è proprio così: medici di famiglia e farmacisti, infatti, sono stati vittime degli stessi blocchi nonostante operino sul Siss, il Sistema informativo socio sanitario (diverso dalla piattaforma utilizzata dai singoli utenti), il quale non prevede alcun sms. Quindi non è stato il messaggino di Tim a bloccare tutto, ma la piattaforma concepita dalla controllata regionale Lombardia Informatica.

“Il sistema non ha retto, è andato in totalmente in tilt dalle 16. Speriamo che domani (oggi, ndr) vada meglio. Comunque abbiamo detto agli utenti di tornare tra qualche giorno”, spiega Annarosa Racca, presidente di Federfarma Milano. A rendere la situazione ancora più calda, lo scontro che da giorni divide Regione e medici di famiglia, da quando cioè i medici hanno appreso dalla stampa di dover raccogliere le adesioni dei pazienti. Un’attività che l’assessore Letizia Moratti e Bertolaso hanno imposto loro di effettuare durante l’orario di visita. E poi c’è il problema degli over 80 che non possono raggiungere i centri vaccinali.

“La Regione dice sul portale di adesione ai vaccini che gli allettati over 80 si devono rivolgere a noi? In realtà è stato dato un annuncio molto generico ed è difficile rispondere alle richieste. La Regione ci ha chiesto di aggiornare gli elenchi degli allettati, ma non ci ha mandato un modulo che precisi come fare”, dice un furibondo Guido Marinoni, presidente dell’Ordine dei medici di Bergamo e membro del Cts regionale. Per Marinoni “non è solo una lacuna di comunicazione, è qualcosa di più, un pasticcio”. Il medico evidenzia poi un altro ostacolo: “Quando si tratterà di andare a domicilio bisognerà risolvere un altro problema perché bisogna fare la vaccinazione Pfizer o Moderna, i flaconi hanno dentro dieci dosi e una volta che sono bucati durano sei ore. Un tempo in cui non si riescono a fare dieci vaccinazioni a domicilio. È un problema a cui si sarebbe dovuto pensare prima”. Eppure Libero ieri titolava “Moratti è pronta a vaccinare, ma Arcuri è un freno a tutto”.

Lega-FI-Iv-Pd contro Speranza. Che pensa alle “varianti” Covid

La prima offensiva del centrodestra di governo è contro il ministero della Salute. “Ci vuole un cambio di passo” aveva detto Matteo Salvini venerdì sera dopo aver appreso la riconferma di Roberto Speranza. Non potendo attaccare il ministro, che ha la fiducia del capo dello Stato, se la prende con il suo consigliere Walter Ricciardi per l’uscita di domenica sul nuovo “lockdown totale”, ma anche con la decisione di Speranza sugli impianti da sci, che dovevano riaprire ieri e sono stati bloccati dal ministro domenica sera, all’ultimo momento, secondo il parere del Comitato tecnico scientifico e con il via libera di Mario Draghi. È una scelta che penalizza soprattutto il Nord dove la Lega pesca voti. Così ieri sera l’attacco è arrivato da Massimo Garavaglia, neoministro leghista del Turismo: “C’è stato un danno per una scelta del governo e i danni vanno indennizzati”, ha detto, contestando “la normativa” che lascerebbe queste decisioni al solo ministro della Salute. Protesta anche Andrea Marcucci, capogruppo Pd già molto vicino a Matteo Renzi: “Impossibile chiudere poche ore prima della riapertura”. Pure Italia Viva si lamenta per la “tempistica”.

“Mai fatto polemiche in questi mesi. E non ne faccio ora. La difesa del diritto alla salute viene prima di tutto”, è la replica di Speranza. Che ha deciso domenica in base ai dati usciti venerdì, poco prima della sua conferma da parte di Draghi: Rt in aumento a 0,95 e la variante inglese, più contagiosa e anche più letale secondo diversi studi britannici, al 17,8% dei nuovi contagi, poco meno di uno su cinque, con punte del 30% in Lombardia e del 59% in alcune aree del centro-nord. In poche settimane sarà prevalente, spiega l’Istituto superiore di Sanità, che chiede di rafforzare le misure. Allarme varianti anche dall’Ecdc, il Centro europeo di prevenzione e controllo delle malattie. La scelta di chiudere, peraltro, è stata condivisa anche dalla neo ministra degli Affari Regionali, Mariastella Gelmini, bresciana di Forza Italia, che ieri sera per la prima volta ha partecipato con Speranza e il presidente della Conferenza delle Regioni, l’emiliano Stefano Bonaccini del Pd, a una riunione del Cts. Tutti concordano sull’esigenza di decisioni collegiali e comunicazioni univoche. Più d’uno ha storto la bocca su Ricciardi, la cui posizione traballa. Bonaccini ha insistito anche sul grave disagio sociale connesso alle chiusure, ma tutti sanno che l’epidemia è in ripresa e che nel fine settimana possono esserci altre Regioni “arancioni” o “rosse”. Speranza stesso domenica ha promesso ristori tempestivi, dipenderà da Draghi.

Chi ha parlato con il leader del Carroccio lo definisce “furioso” perché durante le consultazioni era stato proprio il presidente incaricato a spingere per “le riaperture”, ma soprattutto perché, si è sfogato con i suoi, “se questo è la riedizione del Conte II cosa siamo entrati a fare nel governo?”. E allora, prima domenica sera a cena con i tre ministri leghisti Giorgetti, Garavaglia e Stefani e poi ieri mattina, ha fatto capire che il “cambio di marcia” significa “aperture” ma anche nuovi tecnici. Nel mirino, prima ancora di Ricciardi, c’è il commissario Domenico Arcuri, criticatissimo da Lega e centrodestra: Salvini vorrebbe al suo posto Guido Bertolaso, consulente della Regione Lombardia con cui si è sentito ieri mattina. Forza Italia condivide: “La conferma di Arcuri sarebbe un errore. Soluzione? Guido Bertolaso” ha twittato ieri Antonio Tajani, neo coordinatore nazionale del partito. “La comunità scientifica è piena di medici e virologi che non terrorizzano gli italiani, ne parleremo con Draghi”, dice Salvini, che nel Cts vorrebbe tra gli altri il genovese Matteo Bassetti e al ministero un sottosegretario leghista per “controllare” Speranza, come Luca Coletto o Stefano Candiani. Nella Lega hanno capito che avere il ministero del Turismo può essere “un boomerang”, spiega Gian Marco Centinaio, perché la materia resta regionale e se comunque decide il ministero della Salute, gli imprenditori potrebbero “rifarsi su di noi”.

Cafone il Censore

La stima che nutriamo per Draghi ci fa escludere che sia stato lui a scegliersi come capo di gabinetto Antonio Funiciello. Basta scorrere le biografie dei due per escludere che si siano mai incontrati neppure per sbaglio, in treno, in aereo, in ascensore. Né, nel Governo dei Migliori, possono esser bastati gli slurpissimi tweet del Funiciello all’avvento di Draghi: “DRAGONS. L’alba dei Nuovi Cavalieri”, “Poi parve a me che la terra s’aprisse tr’ambo le ruote, e vidi uscirne un #drago…” (Dante, Purgatorio), o i sobri retweet “Da pochi giorni Città della Pieve sembra Versailles” e “Grazie Presidente! #Mattarella” (by Gentiloni). No, qualcuno deve aver tirato un pacco a SuperMario, approfittando della confusione generale. Nato a Piedimonte Matese (Caserta) 45 anni fa, il nostro eroe è laureato in Filosofia e giornalista pubblicista, il che gli fa credere di essere un “intellettuale liberale”. Ha pubblicato alcuni libri all’insaputa dei più e collaborato con Riformista, Europa, Liberal (tutti falliti) e poi col Foglio e l’Espresso (auguri ai colleghi). Blairiano e clintoniano fuori tempo massimo e all’insaputa di Blair e Clinton, è un patito degli States, soprattutto del Texas, che sta a lui come il Kansas City stava a Nando Mericoni. Ma la sua vera vocazione è il consigliere dei principi o presunti tali. Per 10 anni portaborse di Morando e poi di Zanda, che sono già belle soddisfazioni, divenne veltroniano e napolitaniano, poi si avvicinò persino a Ichino e Tonini, che ne fecero il direttore di una cosa denominata “Libertà Eguale”. E aggiunsero la sua firma a un mitico “Appello per l’Agenda Monti”. Epifani lo promosse financo a “responsabile Cultura” del Pd: ma fu un attimo, poi lo riconobbero. Lui, deluso, passò al servizio dell’Innominabile, che lo elevò a direttore del comitato referendario BastaunSì e – riferivano le cronache, senza offesa – “braccio destro di Lotti”.

Nel 2016 questo Anzaldi minore divenne l’occhiuto censore dei due-tre critici della schiforma Boschi- Verdini, “monitorando tutti i programmi tv” e presentando un “esposto all’Agcom” per disinfestare La7 dalla “persistente manifesta violazione della normativa” perpetrata invitando giornalisti del Fatto “che si sono espressi chiaramente per il No”, anziché far parlare a reti unificate il Sì. Molto liberale, ma soprattutto fine, Cafone il Censore definì Chiara Appendino in dolce stil novo “bocconiana come Sara Tommasi”. E divenne capostaff di Gentiloni. Ora siede alla destra di Draghi. Eppure ancora nel 2018 il peripatetico rampicante tuonava sul contro “i lacchè e piaggiatori che danneggiano le leadership e rovinano lo Stato con l’adulazione”. E lui, modestamente, lo nacque.

Sull’acqua e nel cuore. Keats, fugace ma così eterno

C’è una tomba senza nome al Cimitero acattolico di Roma, ai piedi della piramide-mausoleo di Caio Cestio. Vi si legge un’iscrizione enigmatica: “Qui giace uno il cui nome fu scritto nell’acqua”. È John Keats (1795-1821) l’uomo il cui nome fu scritto nell’acqua. Mentre giovanissimo scorgeva il profilo della propria morte, il poeta malato di tubercolosi disse all’amico e collega Joseph Severn che lo assisteva: “Sento crescere i fiori su di me” e poi gli chiese di appuntarsi quell’epitaffio sibillino rivolto a tutti coloro che nella sua breve esistenza osteggiarono la sua poesia. Pochi giorni dopo, il 23 febbraio, morrà tra le braccia del caro Joseph.

Figlio di uno stalliere dell’East End londinese e scolarizzato fino a quattordici anni per poi intraprendere gli studi di medicina, ancora oggi che sono passati duecento anni dalla sua dipartita sembra impossibile che in così poco tempo di creazione – lasciò la medicina per la poesia nel 1818, ma nel 1820 già si ammalò – abbia creato un’opera così immensa per quantità e qualità. Ci aiuta a comprenderlo, nel modo in cui procede l’arte e cioè all’inverso, l’originale biopic-omaggio che Julio Cortázar tributa al poeta romantico, A Passeggio con John Keats (Fazi editore, traduzione di Elisabetta Vaccaro e Barbara Turitto, pp. 660, euro 22). Chiuso nella sua stanza all’ultimo piano di un palazzo di calle Lavalle a Buenos Aires, il grande scrittore argentino – in quest’opera zibaldone che è insieme saggio, romanzo, biografia e autobiografia – definisce la poesia di Keats come frutto di “un’operazione simultanea grazie alla quale il poeta conosce nel momento stesso in cui il suo poema sorge come conoscenza”. Ed è qui, tra queste pagine in cui ritroviamo la potenza dell’allucinazione e della corsa alla poesia – i viaggi giovanili di John in Scozia, l’amore con Fanny Brawne, il soggiorno italiano, l’amicizia con Percy Bysshe Shelley, la casa che divisero a Roma accanto a Piazza di Spagna – ci sembra di essere lì, di fianco a John, che è “maestro di se stesso, discepolo di se stesso, occhio che legge ciò che la mano rapidamente scrive”. Con lui mentre si tormenta alla ricerca del capolavoro; mentre scrive generose missive agli amici; mentre si confronta con Dante e Shakespeare; mentre detesta il perbenismo di Wordsworth; mentre progetta il grande poema epico-mitologico (Endymion prima, Hyperion dopo) o mette in versi il poema romantico in Sonno e poesia; mentre lascia incompleta l’ultima opera La caduta di Iperione. Un sogno in cui supera le categorie di memoria e coscienza; infine, mentre scrive innamoratissime lettere a Fanny: “Il tuo ultimo bacio è sempre il più dolce” e ancora “Mi scordo di tutto salvo che di vederti ancora”. Fanny che in Ode su un’urna greca è “Bellezza è Verità, Verità Bellezza”.

Per lei, sua Fulgida Stella, sospende la ragione per incarnare le ragioni dell’Amore, il punto più alto della conoscenza. Un sentimento rigenerato in eterno presente, affinché la profezia della morte non oscuri neppure per un istante la scoperta della luce emanata dagli amorosi sensi. Su questa immagine sembra informarsi l’unico testo filmico a memoria odierna dedicato alla passione tra Keats e Fanny Brawne, Bright Star, scritto e diretto dalla neozelandese Jane Campion nel 2009. Un’opera modellata come il prosieguo di quell’urna greca, le cui scene congelate all’infinito appaiono finalmente libere dalla gravità del tempo: così John & Fanny sono custoditi nell’incanto dei loro sguardi, protetti dal tocco materno di una regista che li rispetta e li ama teneramente. Perché in fondo sono poco più che ragazzi, lei solare e intuitiva, creatrice di una moda tutta sua, lui generoso e malinconico, s’incontrano e giocano dentro alla poesia che resta il vibrante leitmotiv dell’intero romance.

La poesia che non si insegna, benché Fanny chieda a John di impartirla in lezioni, ma “se non nasce da sola come un albero in natura, è meglio non venga del tutto”. Ed è chiaro a entrambi che il tessuto lirico è il riverbero del loro amore, così fragile e potente, sensuale e ineffabile.

D’altra parte, “una poesia si comprende solo attraverso i sensi”. Campion affida a Fanny il punto di vista del film, rendendo Keats il s(oggetto) che eleva il suo sguardo di donna intimamente moderna. “Come descriveresti il mio carattere?” le chiede John in uno dei loro primi incontri. “Ti serve una nuova giacca” reagisce lei, illuminandogli il sorriso. È anche grazie alla linfa vitale di Fanny che Keats ha sublimato la sostanza dell’immaginazione consegnandola al mondo in versi immortali come “Su, incendiamoci di parole/ E bruciandomi sorridimi – stringimi/ Come devono gli amanti – su, baciami,/E l’urna, poi, delle mie ceneri seppelliscila nel tuo cuore –/ Su, amami davvero!” Meno agguerrito di Byron e meditabondo di Wordsworth, la vita e la poesia così fugaci di John Keats – illuminate da una luce reale e simbolica, dove la parola è sempre rivelazione – lo aureolano a mito romantico per eccellenza.

Israele Stop allevamenti, si punta sulla bistecca in 3D

Una bistecca di manzo prodotta con cellule di carne coltivate in laboratorio dalla start-up israeliana Aleph Farms è pronta per arrivare sulle tavole, il “prototipo” è stato presentato la scorsa settimana.

Il bioprinting tridimensionale – realizzato dalla Aleph Farms, in team con il Technion Institute of Technology di Tel Aviv – ha prodotto una bistecca con “gli attributi di una deliziosa e succosa costata che compreresti dal macellaio” secondo i suoi realizzatori. L’azienda – secondo i programmi che ha reso pubblici – è in grado di coltivare “deliziose bistecche di manzo” da cellule non geneticamente modificate che sono state isolate da una mucca, il metodo utilizza molte meno risorse di quelle necessarie per allevare un intero animale per la macellazione e senza la necessità di antibiotici. Si supererebbero così anche i danni all’ambiente derivanti dall’allevamento intensivo e questo potrebbe essere un aspetto che troverebbe il consenso di ecologisti e detrattori di quel tipo di attività commerciale

L’obiettivo di Didier Toubia, co-fondatore e amministratore delegato di Aleph Farms, è “realizzare la nostra visione di un mondo più sostenibile, equo e sicuro ma senza derogare dal gusto e dal sapore”. La tecnologia di bioprinting utilizza “elementi costitutivi naturali della carne” sviluppati da vere cellule di mucca, spiegano dalla Aleph, il processo non implica ingegneria genetica né la coltivazione delle cellule utilizza sieri derivati da animali macellati. Le cellule vengono prelevate da due donatrici e poi cresciute in incubatrici.

Le bistecche 3D saranno disponibili in alcuni ristoranti fin dal prossimo anno – almeno questa è l’intenzione dell’azienda – , anche se si stimano in due-tre anni i tempi per il commercio al minuto. La Aleph Farms ha già un accordo con il gruppo dell’industria alimentare Mitsubishi Corporation per portare la carne coltivata sulle tavole giapponesi. Fra i partner c’è anche Migros, gruppo industriale svizzero e la società alimentare Usa Cargill, che hanno investito nella startup israeliana.