Golpe, alla Cina non piace: ma studia come sfruttarlo

Con il colpo di stato militare del primo febbraio e l’arresto di Aung San Suu Kyi, simbolo della transizione democratica, appena alcune settimane dopo l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca, la Birmania si è ritrovata al centro della rivalità geopolitica tra Cina e Stati Uniti. Se la fine della giunta ha permesso un certo avvicinamento tra il Myanmar (nome che i militari hanno dato alla Birmania nel 2010) e l’Occidente, l’influenza esercitata dal grande vicino cinese sul paese del sud-est asiatico è rimasta comunque significativa, soprattutto sul piano militare ed economico. “È il principale partner del Myanmar da 40 anni – sottolinea Sophie Boisseau du Rocher, ricercatrice all’Istituto francese di relazioni internazionali (Ifri) -. Ovviamente la Cina è una locomotiva economica e finanziaria per il paese, il primo partner commerciale ed economico”. ERappresenta circa il 30% delle esportazioni birmane e il 40% delle importazioni.

Nelle regioni di frontiera, la Cina poi è presente ovunque, dai negozi e fino alla vendita di motociclette, più accessibili rispetto a quelle dei concorrenti giapponesi. Nel nord, a Mandalay, la seconda città del paese, i cinesi rappresentano un terzo della popolazione. La Cina sta realizzando grandi progetti di infrastrutture, strade, porti, ferrovie, in un paese che ne ha un disperato bisogno. È presente anche nel settore delle materie prime ed è uno dei principali fornitori di materiale militare. La Birmania è infatti un tassello importante del programma della “Nuova via della seta” lanciato dal presidente della Repubblica popolare Xi Jinping nel 2013 per sviluppare le regioni dell’ovest e sud-ovest della Cina e collegarle rispettivamente all’Asia centrale e al Sud-est asiatico. “Il Myanmar occupa una posizione centrale nella strategia della Belt and Road Initiative, la BRI, nome ufficiale inglese del programma, nella regione, in particolare per il trasporto di idrocarburi”, sottolinea Jean-François Rancourt, politologo al Centro di studi asiatici dell’Università di Montreal. Gli oleodotti, costruiti tra il 2010 e il 2015 da due aziende statali cinesi (CNPC e China National Petroleum Corporation) e una birmana (Myanmar Oil and Gas Enterprise), collegano il terminal petrolifero e per il gas del porto di Kyaukpyu (dove delle aziende cinesi hanno partecipato anche alla costruzione di una zona economica speciale) alla provincia dello Yunnan, nel sud-ovest della Cina, garantendo a quest’ultima un accesso all’Oceano Indiano e permettendole di evitare il mar Cinese meridionale, dove le navi cinesi rischiano di pagare le spese di un conflitto con gli Stati Uniti. “Ciò consente ai cinesi di far transitare gas e petrolio senza dover passare per lo stretto di Malacca e il mar Cinese”, spiega Jean-François Rancourt. I due paesi si sono particolarmente avvicinati a partire dal 2017. Quando l’Occidente ha condannato la pulizia etnica dei Rohingya, la minoranza musulmana in Birmania, i militari sono stati oggetto di sanzioni e l’immagine di Aung San Suu Kyi si è oscurata, la visita nel 2017 della premio Nobel a Pechino e la sua calorosa stretta di mano con Xi Jinping si sono fatte particolarmente notare. In questo contesto, Pechino godeva un ampio margine di manovra tra i militari e la Lega nazionale per i democratici (Nld), la formazione di Aung San Suu Kyi. Nel gennaio 2020, prima dell’epidemia del nuovo coronavirus, Xi Jinping si era recato in Birmania per firmare una trentina di accordi. Anche in questo caso la visita aveva sollevato molti commenti.

Il Global Times, portavoce della corrente ultranazionalista all’interno del Partito-Stato cinese, ha ironizzato sulle critiche avanzate dagli occidentali ai birmani, assicurando che solo la Cina voleva “aiutare il Myanmar a uscire da questo pantano”: “Dopo alcune turbolenze, il Myanmar si è reso conto che c’erano due pesi e due misure nell’approccio dei paesi occidentali alle questioni relative ai diritti umani e ha cominciato a rivolgersi alla Cina per ottenere un aiuto diplomatico ed economico”, ha scritto il giornale. Dopo il colpo di stato, Pechino ha evitato di avanzare critiche e di condannare, conservando un atteggiamento cauto. In un primo tempo, il portavoce del ministero degli Esteri Wang Wenbin ha spiegato che il suo paese aveva “preso atto” degli eventi in corso, aggiungendo in un secondo tempo che i diversi attori birmani avrebbero dovuto “risolvere in modo adeguato le loro controversie all’interno di un quadro costituzionale e giuridico e attraverso il dialogo, al fine di salvaguardare la stabilità politica e sociale”. Ha quindi aggiunto: “Pensiamo anche che la comunità internazionale debba promuovere un contesto favorevole alla buona risoluzione delle controversie in Myanmar. Tutte le misure adottate dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite devono contribuire alla stabilità politica e sociale del Myanmar, promuoverne la pace e la riconciliazione ed evitare di aggravare il conflitto e complicare la situazione”. La stabilità, dunque, prima di tutto. Questo è il leitmotiv ripetuto da Pechino, che spiega il perché della sua opposizione ad una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che condanni il colpo di stato. Alla fine è stato adottato un testo vicino alle aspettative cinesi. Di sicuro Pechino non appoggia il colpo di stato militare, ma spera di trarne profitto in un contesto di rivalità con gli Stati Uniti. Delle sanzioni occidentali avrebbero come effetto di spingere ulteriormente la Birmania tra le braccia di Pechino. “Il Myanmar e la Cina condividono una lunga storia comune di relazioni politiche ed economiche. Questi legami già stretti sarebbero ulteriormente rafforzati se i governi occidentali decidessero di isolare il Myanmar – analizza Htwe Htwe Thein, docente di economia internazionale e specialista della Birmania alla Curtin University di Perth, in Australia -. Sul piano economico, siamo di fronte allo stesso tipo di scenario. Le aziende cinesi, che sono già molto presenti in Myanmar in tutta una serie di settori economici, riempirebbero rapidamente il vuoto lasciato dall’eventuale ritiro di aziende europee e di altri paesi occidentali”. Inoltre, come sottolinea Jean-François Rancourt, un regime totalitario birmano sarà meno scrupoloso e esigente in materia di impatto economico, sociale o ambientale, mentre Aung San Suu Kyi e la NLD avevano riconosciuto l’importanza di avere più trasparenza e meno corruzione. Tuttavia, i rapporti tra i militari e il regime comunista cinese sono sempre stati complessi.

“In Europa c’è una certa difficoltà a capire il nazionalismo esacerbato dei birmani, c’è grande diffidenza nei confronti della Cina. Il Tatmadaw, l’esercito della Birmania, soffre di un complesso obsidionale, il complesso ossessivo di chi si sente accerchiato. I cinesi sono considerati alla stregua di tutti gli altri”, spiega Sophie Boisseau du Rocher. Htwe Htwe Thein sottolinea che è sempre esistita “una tensione di fondo” tra le due nazioni: “Negli ultimi dieci anni, ci sono stati esempi di attività commerciali e investimenti di aziende cinesi che hanno sollevato un sentimento populista anti-cinese che ha attraversato tutto il paese”. Si ricordano per esempio le proteste contro la costruzione della diga di Myitsone che alla fine hanno portato alla sospensione della sua costruzione nel 2011 o a quelle contro la miniera di Letpadaung, in cui aveva investito una società cinese. “Questi sentimenti, che covavano da tempo, sono venuti a galla all’alba dell’era democratica del paese”, spiega ancora Htwe Htwe Thein. Pechino potrebbe agire dietro le quinte in favore di Aung San Suu Kyi, alleata passeggera, ma che sarebbe sacrificata senza problemi sull’altare degli interessi economici e strategici in nome della sacrosanta stabilità. “Per la Cina, un Myanmar destabilizzato causerebbe maggiori problemi anche nelle zone di confine, come spostamenti della popolazione e traffici di droga”, aggiunge Htwe Htwe Thein

 

Illa, l’uomo di Sánchez, cura il separatismo

Una vittoria a tre teste per i Socialisti catalani, Esquerra Rebublicana e Junts Per Catalunya: dai primi dati, i tre partiti si attestano ognuno intorno al 20% dei voti alle elezioni catalane di ieri. Il più votato sarebbe l’uomo di Pedro Sanchez a Barcellona, l’ex ministro della Salute Salvador Illa. Ma sono i partiti separatisti ad avere la maggioranza. Il voto – banco di prova dell’indipendentismo a tre anni dal referendum per l’indipendenza e il mai concluso proces verso la separazione dal resto di Spagna – non ha riservato sorprese. Resta da capire che governo potrà formarsi, dopo che Erc di Pere Aragones ha escluso un patto con i socialisti e questi sembrano puntare al modello del governo centrale rosso-viola dichiarandosi vicino a En Comù Podem di Jessica Albiach che ottiene però solo tra i 6 e 7 seggi, che, sommati ai 34-35 di Illa non arriverebbero ai 68 necessari alla maggioranza in Parlamento. Quarto incomodo, alle calcagna della sinistra del vicepresidente Pablo Iglesias, l’ultradestra di Vox, che per la prima volta ottiene rappresentanti (almeno 6), al pari di Ciudadanos, exploit del 2017 con il 25%. Contro il candidato di Vox, Ignacio Garriga, le Femen hanno manifestato a seno nudo: fuori i fascisti dalle urne.

Urne segnate dal Covid-19 e per questo suddivise in fasce orarie, con seggi elettorali eccezionali in mercati, parcheggi e finanche nello stadio del Barcellona. Covid, che – insieme a un diffuso disinteresse dei catalani per la politica segnata da forti scontri, mai sanati – ha portato a un calo della partecipazione di 22 punti rispetto alle elezioni record di tre anni fa. A votare è andato il 46%, contro il 68 del 2017, ma con un aumento del 350% del voto postale. A nulla è servito l’appello contro l’astensione delle maggiori forze politiche. Da Oriol Junqueras, presidente di JxCat ai domiciliari per sedizione e in attesa del terzo grado di giudizio che ha chiamato alla battaglia: “Ci giochiamo sempre molto, ora ci giochiamo tutto, è imprescindibile riempire le urne”, a Illa, che ha fatto appello all’“affetto che deve sconfiggere l’odio”, mentre Albiach ha chiamato al voto utile per frenare la destra. Banco di prova anche per il governo di Sanchez a cui non giova un calo di voti dell’alleato viola né il risultato di JxCat, l’ala estrema del separatismo che fa riferimento al leader in esilio in Belgio Carles Puigdemont, contrario al tavolo negoziale più volte saltato e promesso da Esquerra, da allestire già oggi, magari partendo dall’indulto per i leader indipendentisti.

Freno al debito.In Germania vacilla il totem Fratzscher (Diw) spiega perché è “senza senso”

La duttilità è dote rara, soprattutto in economia. In Germania la pandemia sta facendo vacillare, non ancora cadere, i pilastri di quella ferrea disciplina di bilancio che sembrava scolpita nella pietra. E questo potrebbe avere una benefica reazione a catena in tutta la Ue. Lo smottamento tuttavia è appena all’inizio, prova ne è la reazione incontrollata della stampa conservatrice all’uscita del capo dell’Ufficio di cancelleria Helge Braun che dalle pagine del quotidiano economico Handelsblatt ha detto che “il freno sul debito non può essere rispettato nei prossimi anni, anche con una disciplina di spesa altrimenti rigorosa” e che “ha senso combinare una strategia di ripresa con una modifica della Costituzione”. “Attacco al freno sul debito” ha tuonato la Faz che poi ha definito Braun un “provocatore”. “Per tanti il dibattito è altamente emotivo” spiega l’economista del prestigioso istituto di ricerca tedesco Diw, Marcel Fratzscher in un incontro con la stampa estera. “Il freno sul debito è per molti una ‘vacca sacra’. Ma non è la soluzione: è il problema”.

Il freno sul debito è un paragrafo di un articolo della Costituzione in cui si prevede in tempi normali un bilancio in pareggio con l’opzione di sforare al massimo fino al 0,35% sul Pil, mentre in tempi eccezionali (come questi) è possibile superare questo limite. Quest’anno la Germania ha sforato ma il punto è cosa farà in futuro. Il tema è caldo perché si iniziano a fare i conti con i costi del lockdown: “Noi del Diw avevamo detto che la Germania entro gennaio avrebbe perso fino a 60 miliardi di euro, circa 1,8% del Pil nel 2021 ma ora le prospettive sono decisamente peggiorate” con il prolungamento delle misure a marzo. Secondo le stime dell’istituto Ifo, invece, ogni settimana di lockdown costa 1,5 miliardi di euro. Il problema adesso è bilanciare quattro macro-aspetti, sostiene Fratzscher. Il primo è che “lo Stato deve tirare fuori più soldi in modo da aiutare la crescita economica e la trasformazione in direzione della protezione del clima con massicci investimenti pubblici per una durata di 10-15 anni”.

Il secondo sarà gestire una transizione demografica che aumenta le spese e diminuisce le entrate fiscali. “La Germania ha la seconda popolazione più vecchia in Ue” e “dal 2010 ha vissuto un ‘miracolo occupazionale’ legato in parte all’immigrazione dall’Europa”. Questo “cambierà drasticamente nel prossimo decennio. I baby boomer andranno in pensione e non avremo 2-3 milioni di occupati in più ma in meno, quindi minore potenziale di crescita, minori entrate fiscali e più uscite in prestazioni sociali”.

Il terzo aspetto è il dogma dei partiti conservatori di non alzare a nessun costo le tasse, mentre il quarto è mettere da parte denaro per ripianare progressivamente il debito. “Il divario tra questi aspetti non è ricomponibile per definizione” dice l’economista. In tutto ciò “il freno sul debito è economicamente insensato, perché è pro-ciclico: dà a governo e Laender troppa libertà di manovra in tempi positivi e troppo poca in tempi negativi”. Toglierlo dalla Costituzione sarebbe soltanto “logico” perchè gli effetti della pandemia dureranno 5-6 anni. Vale la pena ricordare che anche l’Italia ha il pareggio in Costituzione…

Non c’è transizione ecologica senza una vera equità sociale

Il Green Deal europeo prevede 1.000 miliardi di euro in un decennio, incluso il 25% delle risorse del prossimo bilancio pluriennale Ue 2021-2027, destinati alla transizione ecologica. Il 37% del Recovery and Resilience Facility, il cuore del piano europeo, saranno dedicati allo stesso obiettivo. Dall’abbandono degli investimenti in idrocarburi da parte della Banca europea degli investimenti, all’esplosione della capitalizzazione in borsa della società simbolo della mobilità elettrica (come Tesla), le pressioni per una transizione energetica dalle fonti fossili sono poderose. Eppure, la giusta fretta di offrire un orizzonte moderno, luminoso, depurato dalle emissioni di gas a effetto serra, tende a nascondere troppa polvere sotto il tappeto.

Tra le questioni di cui si parla ancora troppo poco, il prezzo futuro dell’energia e l’equità sociale della transizione, sono le più rilevanti. Abbiamo già testato con il movimento dei gilet gialli in Francia, una delle maggiori rivolte sociali dallo crollo del muro di Berlino, quanto anche le società europee siano sensibili alla percezione di una “transizione ineguale”, per esempio con il rialzo dei prezzi della benzina. Abbiamo anche visto come gli incentivi all’acquisto di auto elettriche, così come i super bonus per l’efficientamento energetico delle abitazioni, oggi aiutino in proporzione molto maggiore le famiglie più ricche, costituendo una sorta di redistribuzione al contrario della ricchezza.

Quando la Camera deliberò nel 1951 la “Inchiesta sulla miseria in Italia, e sui mezzi per batterla”, in un Paese nel quale in alcune aree le condizioni di vita non erano cambiate dall’epoca pre-industriale, la spesa per “illuminazione, riscaldamento, cottura” rappresentava in media l’8% del bilancio familiare. Oggi la “bolletta energetica” rappresenta circa il 7% del bilancio medio delle famiglie: la spesa per l’energia è ancora gravosa, e la cattiva notizia è che i prezzi, in particolare quelli dell’elettricità, non hanno fatto che salire negli ultimi anni. In Italia il prezzo dell’elettricità è aumentato da 19,65 euro a KWh a 22, 26 euro nell’ultimo decennio, anche se Pil del 2019 (senza contare il tracollo del 2020) risultava ancora più basso del picco raggiunto nel 2007.

Si tratta di un fenomeno europeo. Dal 2010 al 2019 i prezzi dell’elettricità per le famiglie dell’Unione europea sono aumentati in media del 2,3% l’anno, a fronte di un aumento generale dei prezzi del 1,4% l’anno. I prezzi del gas, a loro volta, sono aumentati del 2,1%. In tutta Europa, dunque, l’economia è cresciuta meno delle bollette. Secondo una raccomandazione della Commissione europea sulla “povertà energetica” dell’ottobre 2020, nel 2018 oltre 30 milioni di cittadini europei non erano in grado di pagare luce e gas, e la percentuale è in crescita.

Considerando la tendenziale diminuzione dei prezzi di gas e petrolio a partire dal 2014, l’aumento delle bollette elettriche si spiega in larga misura con i costi per sostenere le rinnovabili: quelli che noi conosciamo come “oneri di sistema”. Sebbene anche qui si tratti di un fenomeno europeo, in Italia la quota della bolletta che, tra le altre cose, va a finanziare le rinnovabili è passata dall’8% del 2009 al 25% del 2019.

La transizione energetica è una sfida monumentale. L’Italia sta cercando di ritornare agli Anni 30, quando tutta l’elettricità veniva da fonte rinnovabile (l’idroelettrico, detto “carbone bianco”), ma senza dover rivivere anche la miseria diffusa e l’autarchia fascista. Oggi non basta l’idroelettrico, ma occorre espandere massicciamente l’eolico, il solare, in generale le rinnovabili che rappresentano oggi circa il 30% della produzione elettrica, quando siamo ancora di fatto a zero nell’elettrificazione dei trasporti.

Solo pochi gruppi si pongono la questione dell’equità dell’accesso all’energia nell’era della transizione. L’obiettivo è eliminare la “povertà energetica” ed evitare che a beneficare di più dalla transizione siano gli stessi strati della popolazione che hanno avuto maggiore responsabilità nelle emissioni di CO2, considerando che dal 1990 al 2015 il 10% del cittadini europei più ricchi ha prodotto le stesse emissioni del 50% più povero.

Il dilemma è se l’obiettivo di garantire quote minime gratuite di elettricità, o la fornitura garantita alle aree più svantaggiate, possa essere raggiunto seguendo la pura logica del “libero mercato dell’energia”, o se non occorra piuttosto rivedere quella logica per ragionare di l’elettricità come “servizio di interesse generale”. Un passo in questa direzione sarebbe pensare a un “ministero della transizione e l’equità ecologica” che affronti strutturalmente questo tema.

Il “miracolo Draghi” sullo spread? I dati ci svelano l’ipocrisia

Tra i vari miracoli che si attribuiscono al nuovo governo c’è quello di esser già riuscito a far risparmiare allo Stato qualche centinaio di milioni, forse miliardi, di interessi sui titoli di debito pubblico. I tassi sono vicini al minimo storico e lo spread, la famigerata differenza tra il rendimento dei nostri titoli a 10 anni e quelli tedeschi, è da qualche giorno sotto il livello di 100 punti, al minimo degli ultimi cinque anni. Tutto questo, se rapportato allo stock di debito emesso dallo Stato italiano, potrebbe far pensare ad un effettivo risparmio. Ma risparmio rispetto a cosa?

Il risparmio si può manifestare rispetto agli interessi che lo Stato sta pagando sui titoli emessi, ma esso si produrrà solo in futuro e solo nel momento in cui il Tesoro andrà ad emettere nuovi titoli a tassi inferiori. Con il giungere a scadenza dei vecchi titoli, e la ri-emissione di nuovi a tassi più vantaggiosi, si concretizzerà questo risparmio. Il risparmio si potrebbe poi pensare rispetto alla situazione di qualche mese fa, nel senso che se lo Stato avesse dovuto emettere gli stessi titoli alle condizioni di qualche mese fa, sotto il precedente governo, avrebbe potuto pagare un interesse maggiore. Ed è forse questo il risparmio a cui sembra si faccia riferimento in questi giorni, dato che i tassi sono scesi in modo abbastanza significativo da quando Draghi ha ricevuto l’incarico. Ma se andiamo ad analizzare le ragioni di tale discesa, scopriremo forse che essa sconta un’anomalia nel trend seguito in tutta la seconda parte dello scorso anno, e che probabilmente tutti i risparmi a cui si fa riferimento sono, al momento, sovrastimati.

Una regola base in finanza per valutare la convenienza di un investimento è che il tasso d’interesse dice poco se non è accompagnato da una valutazione del rischio. I tassi d’interesse, compresi anche quelli dei titoli di Stato, si muovono in funzione del rischio che viene percepito da chi deve sottoscriverli o detenerli. Maggiore il rischio, maggiore il tasso di interesse. Titoli più sicuri avranno un tasso d’interesse più basso, mentre titoli più rischiosi uno più alto. La differenza, detta appunto spread, compensa l’investitore per il maggiore rischio che intende assumersi. Anche i titoli di Stato seguono questa logica, ci sono titoli di Stato più sicuri (quelli tedeschi, austriaci, olandesi) e altri meno. Draghi, nel famoso discorso di luglio 2012, per intenderci quello del “whatever it takes”, descrisse in modo dettagliato quali erano i rischi che muovevano gli spread sui titoli di Stato: “… poi c’è un’altra dimensione, che ha a che fare con i rendimenti dei titoli sovrani. Questi rendimenti hanno a che fare, come ho detto, con il default, con la liquidità, ma hanno anche sempre di più a che fare con il rischio di convertibilità..”. Tre rischi quindi: default, liquidità e convertibilità. Per default si intende la possibilità che lo Stato non ripaghi, per intero o in parte, i propri titoli a scadenza. Esso si lega al concetto di sostenibilità del debito, un concetto non esclusivamente numerico – cioè quanto è grande lo stock del debito – ma che dipende da una serie di variabili (deficit pubblico, tasso medio sul debito, crescita economica) che ne fanno percepire la maggiore o minore sostenibilità. Per liquidità si intende quanto il mercato è in grado di assorbire i titoli che vogliono esser scambiati senza perturbazioni significative sui prezzi. La convertibilità è invece il rischio che lo Stato possa decidere di ripagare il debito in una valuta diversa dall’euro, nel caso dell’Italia in lire. L’andamento dello spread di questi anni può esser spiegato osservando queste tre tipologie di rischio. Ad esempio, il rialzo dello spread del 2018 ed il calo del 2019 è essenzialmente legato all’andamento del rischio di convertibilità, cresciuto a livelli elevati con l’arrivo del governo gialloverde e poi invece ridottosi con il nuovo governo giallorosa. Il rialzo di marzo 2020 è invece legato ai deflussi di liquidità verificatisi in Italia con l’arrivo della pandemia e l’ipotesi che le misure di contrasto non sarebbero state supportate dalla Bce. La famosa gaffe del presidente della Bce Christine Lagarde (“non siamo qui per chiudere gli spreads”), riportò lo spread oltre 300 punti. Ma da allora sono successe molte cose. Gli acquisti di titoli Bce sono ripartiti ad un livello mai visto prima, inondando di liquidità il mercato dei titoli di Stato e non solo. Nel luglio scorso l’Ue ha varato quell’embrione di unione fiscale ed eurobond che viene chiamato Recovery Plan, rendendo più fondate le aspettative di un rafforzamento della struttura della moneta unica. Questi eventi hanno compresso gli spread prima in modo rapido, poi in modo più costante. Se prendiamo i valori di inizio 2021, il calo nei sei mesi precedenti è stato di circa 10 punti al mese. Poi però è arrivata l’anomalia in questa continua tendenza di discesa: la crisi di governo, e con essa l’aumento del rischio Italia e dello spread, salito di 25 punti tra la prima e la terza settimana di gennaio. Risolvendo la crisi, eliminando quindi questa perturbazione al continuo trend di discesa del rischio Italia, il calo dei tassi di interesse è ripreso ed è probabile che, come pareva possibile a fine 2020, in qualche mese possano allinearsi al livello di Spagna e Portogallo.

Insomma, l’effetto Draghi è ancora difficile da valutare. Lo spread venerdì ha chiuso a 91,5 punti, 8,5 in meno rispetto al valore registrato l’8 gennaio scorso, riportandosi quindi nella tendenza che aveva prima della crisi. Anche i tassi sul Btp decennale, seppur scesi rispetto a quindici giorni fa, sono ritornati poco sotto lo 0,5%, su valori che avevano registrato tra dicembre e l’inizio di gennaio. Così il vero miracolo sembra invece essere la conversione dei tanti che, indomiti dinanzi all’evidenza, ancora a gennaio alimentavano la polemica sull’assoluta importanza dell’aiuto del Mes. Nonostante spread e tassi siano in linea con il livello di un mese e mezzo fa, l’utilizzo del Mes pare non esser più così conveniente.

 

Una combriccola di ricchi può dirottare Wall Street?

Hanno nome e cognome, soldi e profili sui social network da dove fanno il bello e il cattivo tempo: Elon Musk, Mark Cuban, Ja Rule, Snoop Dogg, Gene Simmons e JayZ. Sono imprenditori e analisti i primi due, rapper e musicisti gli altri. Indirizzano eserciti di piccoli investitori nella direzione finanziaria che gli è congeniale con tweet e presenze social. Sono già stati definiti i “troll del capitalismo” per i loro fini antisistema e i casi del rally di Gamestop e della criptomoneta Dogecoin sono un esempio del loro potere mediatico.

È il 26 gennaio: alle 10.32 il venture capitalist Chamath Palihapitiya, che ha più di 1,3 milioni di follower su Twitter, scrive sul social di aver acquistato azioni di GameStop, aggiungendo un entusiasta “Andiamooooooo !!!”. Dopo un minuto, il prezzo sale del 9,6%. Il volume degli scambi quadruplica, ci sono quasi 10.200 lotti di circa 100 azioni che passano di mano (l’analisi è del Wall street journal). Alle 16.08 dello stesso giorno, il fondatore di Tesla Elon Musk twitta “Gamestonk !!” innescando lo scambio di più di 250 mila azioni. Dopo dieci minuti GameStop cresce del 31%, in 24 ore le azioni passano da 144 a 348 dollari. Il 3 febbraio, il miliardario Mark Cuban twitta: “Se dovessi scegliere tra l’acquisto di un biglietto della lotteria e #Dogecoin, comprerei #Dogecoin”. E ancora: Elon Musk twitta e ne parla sul social network Clubhouse, Snoop Dogg fissa sul suo feed di Twitter un meme col cane simbolo della criptomoneta. Ne parla il chitarrista dei Kiss, Doge Simmons. Risultato: la moneta sale del 1.300%. “È uno scherzo” ha detto Musk in un intervento, ma ha effetti reali. Nel pieno della crisi di Whatsapp, con la fuga di utenti per i timori sulla privacy, Musk twittò “Usate Signal” riferendosi a un’altra App e immediatamente le azioni di una (solo) omonima azienda quotata in borsa passarono da pochi centesimi a 70 dollari.

Una dinamica molto simile sta coinvolgendo il mondo dei Bitcoin, ma con risultati più solidi. Tesla ha annunciato un investimento da 1,5 miliardi di dollari e immediatamente il valore della criptomoneta ha segnato un nuovo record. Poco dopo, i circuiti di pagamento come Visa, Paypal e Mastercard hanno fatto sapere che predisporranno nuovi strumenti per Bitcoin. Infine, il rapper JayZ e il fondatore di Twitter Jack Dorsey hanno lanciato la loro fondazione per sostenere questo “sistema di pagamento” con già 50 milioni di dollari in Bitcoin in pancia. Un cambio di passo per un tema di nicchia: fondi e grandi investitori iniziano a percepirlo come bene rifugio certamente complice la rassicurazione degli “sponsor” di lusso. Le grandi masse che si muovono insieme, guidate da quello che viene identificato come il guru di turno, fanno però paura, tanto più se escono dalla loro nicchia.

Nel caso GameStop, l’orda di piccoli investitori (depurata da intermediari e consulenti ha svelato un potenziale terribile per i mercati al punto che le indagini federali sull’ipotesi di manipolazione del mercato si stanno concentrando sugli utenti di Reddit e sulle piattafrome di brokeraggio che hanno permesso loro di vendere e comprare autonomamente le azioni facendone così lievitare il prezzo. “In passato erano gli addetti ai lavori di Wall Street (analisti, economisti, strateghi degli investimenti e gestori di portafoglio) che alimentavano i mercati rialzisti invitando le masse a consegnare i loro soldi – ha spiegato l’editorialista Jason Zweig sul Wsj – ora invece a far da padroni sono questi ‘outsider’”. L’idea è che stiano spazzando via il vecchio mito secondo cui Wall Street è il custode esclusivo delle chiavi della ricchezza, che condividerà solo con chi è disposto a pagare una quota. “Ma – aggiunge Zweig – , un nuovo mito è in arrivo: che sappiano per davvero ciò che gli addetti ai lavori fingevano di sapere”. In pratica, questa “elite rivoluzionaria” o fa da cassa di risonanza di informazioni che già sono disponibili online o, soprattutto, diventa essa stessa notizia che muove i mercati. Chi è sintonizzato forse riesce a ritagliarsi una propria fetta di ricchezza, nella speranza che sia anche consapevole dei rischi. La disintermediazione è però solo apparente: le dinamiche sono le stesse, cambiano solo i ricchi protagonisti e (si spera) le loro intenzioni.

Bitfinex, la rete italiana dietro il big che fa tremare i Bitcoin

L’ottovolante senza legge del bitcoin arricchisce pochi investitori mentre molti, spesso, perdono tutto. Dopo il boom del dicembre 2017 a 16.720 euro, il 6 febbraio 2018 la valuta virtuale aveva perso il 65%. Ora vola intorno ai 40mila euro, ma la bolla può esplodere in qualsiasi momento. La comunità cripto considera un guru Giancarlo Devasini che su Skype si firma “mago Merlino”. Il manager è responsabile finanziario di Bitfinex, tra le maggiori piattaforme di scambio (exchange) di cripto al mondo, e dirigente di Tether che emette l’omonima valuta virtuale “agganciata” al dollaro attraverso cui passa l’80% delle compravendite di bitcoin. Bitfinex da aprile 2019 è sotto inchiesta della Procura di New York per intermediazione finanziaria abusiva. Altre indagini federali accusano di riciclaggio di narcodollari una società panamense usata da Bitfinex come “banca ombra”, Crypto Capital Corp., che ad agosto 2018 avrebbe sottratto all’exchange e ai suoi clienti 850 milioni di dollari. Chi è il manager italiano al centro del caso che rischia di far implodere il bitcoin e l’intero settore cripto?

Bitfinex sorge nel dicembre 2012 a Hong Kong per mano del francese Raphael Nicolle, ma decolla solo dal 2013 quando Devasini vi entra attraverso iFinex, società delle Isole Vergini Britanniche. Nato a Torino il 30 aprile 1964, laureato in medicina a Milano nel 1990, Devasini lascia la professione di chirurgo plastico nel 1992 per fondare Point G Srl che importa pezzi di computer da Cina, Hong Kong e Taiwan. Ma il 3 dicembre 1996 Microsoft annuncia che Devasini, dopo aver patteggiato, pagherà 100 milioni di lire per aver piratato copie di software tramite Point G. Il 28 dicembre 2007 anche Toshiba fa causa a un’altra sua società, Acme Srl, per violazioni di brevetti sui dvd. Sino al 2014 Devasini apre e chiude una decina di società attive tra informatica, computer, ecommerce, immobiliare delle quali è amministratore, come Perpetual Action Group a MonteCarlo. Con altri dirigenti di Bitfinex, nel 2014 fonda anche Tether Holding alle British Virgin Island. Poi Devasini scopre la finanza. Dal 24 luglio 2013 è azionista insieme a Rodolfo Fracassi, Andrea Carati e Niccolò Branca, erede del Fernet, nella società londinese Mainstreet Capital Partners. Il 20 febbraio 2015 con Fracassi fonda a Londra anche Mainstreet Financials, oggi Holland Street. È un contatto importante: dopo una carriera alla Camera di Commercio italiana a Hong Kong, in Salomon Smith Barney, Franklin Templeton e Goldman Sachs, Rodolfo Fracassi Ratti Mentone oggi con Mainstreet Partners si occupa di investimenti sostenibili come consulente di clienti quali Banca Generali, Fideuram, Sella Sgr, Cdp ed è membro della Human Foundation di Giovanna Melandri. Il 17 e 18 settembre 2014 per Bitfinex Fracassi va sull’isola di Man dove incontra manager della Cayman National Bank e il primo dicembre 2015 insieme a Devasini fonda alle Cayman DigFinex, holding del gruppo Bitfinex, di cui acquisisce il 5%.

“Nel 2014 sono stato invitato a partecipare alla costituzione di Bitfinex con una quota di minoranza”, conferma Fracassi. “Nel 2016 l’iniziativa non si allineava più con il mio approccio al business: sono uscito cedendo le mie quote ai fondatori e ricomprando da Devasini le sue quote in MainStreet Partners, nella quale Devasini non ha mai avuto ruoli operativi come io non ne ho mai avuti in Bitfinex. Dal 2016 non ci siamo più sentiti né abbiamo attività in comune”, spiega. A maggio 2018 però Fracassi viene registrato per Bitfinex come partecipante a Consensus, la conferenza annuale sulla blockchain di New York: “Ero lì a titolo personale, gli organizzatori hanno fatto confusione”, ci dice.

Intanto Bitfinex inizia ad avere problemi. Il 2 agosto 2016 scopre il furto di 119.756 bitcoin, che all’epoca valevano 62,5 milioni e oggi 4,74 miliardi di euro. L’exchange spalma il danno pro quota su tutti i clienti e li compensa con token Bfx del valore di un dollaro convertibili in azioni iFinex. Devasini però cerca altre soluzioni: il 12 ottobre 2016 incontra in un ristorante in via dell’Orso a Milano alcuni dirigenti di una grande banca italiana per sondare la disponibilità a “cartolarizzare” il debito di Bitfinex verso i clienti derubati. “Si parlò di bitcoin ma non c’erano margini per fare interventi”, racconta un manager.

Nel 2018 Bitfinex è di nuovo in crisi di liquidità per gli 850 milioni di dollari sottratti da Crypto Capital. Un suo alto dirigente che si firma “Merlin” scrive frenetici messaggi alla società panamense chiedendo di rimborsare i fondi: “È estremamente pericoloso per tutta la comunità cripto. Se non agiamo alla svelta il bitcoin potrebbe crollare sotto quota mille”. Il 5 novembre 2018 da dirigente di Tether Devasini presta 900 milioni di dollari a Bitfinex e da dirigente di Bitfinex Devasini firma la ricevuta a Tether. Il 22 maggio 2019 iFinex, casa madre di Bitfinex e Tether, raccoglie “sulla fiducia” un miliardo di dollari emettendo la nuova cripto Leo. “Leo è la cartolarizzazione di un debito, emessa per coprire un buco in cui il ruolo di Bitfinex non è ancora stato chiarito. L’emittente, che è lo stesso di Tether, non ha mai superato un audit indipendente”, spiega Ferdinando Ametrano, professore di Bitcoin e blockchain technology all’università di Milano Bicocca. Il 6 febbraio scorso Bitfinex ha annunciato il rimborso integrale del prestito a Tether.

Ma a Londra Devasini conosce anche Silvano Di Stefano, oggi responsabile investimenti di Tether. Di Stefano nella capitale inglese ha lavorato per Mps insieme ad Alberto Cantarini, sottoposto di Gianluca Baldassarri, ex capo dell’area finanza. Di Stefano e Cantarini sedevano nel comitato investimenti di Athena Capital Fund, società lussemburghese di Raffaele Mincione che nel 2012 attraverso scatole societarie acquista l’edificio londinese di Sloan Avenue 60 al centro dell’inchiesta sui fondi del Vaticano. Lasciata Athena, Di Stefano e Cantarini fondano Edmond Capital. L’11 dicembre 2017 Di Stefano e Devasini costituiscono in Lussemburgo la società di fondi cripto BlueBit Capital Partners e il 1° luglio incontrano in Svizzera i rappresentanti di Citex, società di criptovalute iraniana.

Per Bitfinex passa anche Enrico Danieletto che lavora a Londra nella società Pairstech. Tra il 2004 e il 2005 Danieletto è stato amministratore di una società del professor Alberto Micalizzi, “il Madoff della Bocconi” condannato per altre vicende a gennaio 2019 a sei anni per una truffa da decine di milioni ai danni di banche italiane ed estere. Danieletto il 12 marzo andrà in udienza preliminare a Modena: è accusato di aver usato Pairstech nel 2018 per aiutare l’ex presidente della Fondazione Cassa Risparmio di Mirandola, Giovanni Belluzzi, a sottrarre 7 milioni all’ente con finti investimenti in diamanti. Danieletto il 17 e 18 settembre 2014 era andato con Fracassi sull’isola di Man per conto di Bitfinex: “Ero già amico di Fracassi, il mio ruolo si è limitato a una consulenza tra il 2013 e il 2014 sulla possibile autorizzazione di Bitfinex in Inghilterra. La società decise di non seguire quel percorso e la mia consulenza terminò. Non ho avuto altri ruoli in Bitfinex”, spiega Danieletto. Contattati, Devasini, Bitfinex, Tether e Bluebit non hanno risposto.

Lo struscio a Cortina. Saluti e baci a vanvera “E quello chi era? Non ricordo nulla… è grave?”

Sono sul corso di Cortina D’Ampezzo, bellissima, piena di gente, fa uno di quei freddi che ci sono solo in montagna. Il vento mi punge il viso che è diventato una specie di castagna secca. Urge buttarsi sull’aperitivo. Magari un bombardino, una specie di stufa alcolica che butti giù, e ti infiamma tutto!

Incontro tanta gente, tanti altri infiammati che, come me, cercano di recuperare un colorito umano, bevendo. Sorrido, saluto, ma non riconosco nessuno. Credo di soffrire di prosopagnosia! Quel disturbo per cui vedi delle facce note, ma non ti ricordi a chi appartengano.

Ho davanti a me una persona che mi è familiare, ma non so chi sia. Lo bacio, ma chi ho baciato? Inizio così a indagare con vaghe domande: “Ciao come stai, che fai qua?”. E lui: “Bene, bene, sono in vacanza” – “Beh certo, anche io. Quanto ti fermi? Quando torni a Roma, anzi a… a… a Padova-Milano-Crotone?” – “A Roma il 28!” – “Ah. E abiti sempre lì in via del… ?” – “Sì, io sto sempre dalle mie parti”. Ma quali parti? Non me lo dice il maledetto! Allora cerco disperatamente di scoprire il lavoro che fa: “Il lavoro tutto bene sì?” – “Sì, sì” – “Ma sei sempre lì in… ?”. Una domanda che può significare in fabbrica, in ufficio, in una casa di appuntamenti e lui dice… “Sii e chi si muove da lì! ”.

Ma da lì dove? Non ho capito, il maledetto non mi dice neanche questo! “Beh, allora tanti auguri per il tuo lavoro, sempre quello, no? Il tuo lavoro è un lavoro che stanca molto, no?” – “Sì abbastanza…”, e non dice altro. Può essere chiunque, il figlio della mia portiera, uno degli Agnelli, o forse fa il travestito sulla circonvallazione.

Vivrò questo periodo di vacanza con un atroce dubbio: chi è quello che ho salutato con tanto affetto sul corso di Cortina? Non è che sarà il tassista che mi ha portata qui? Oddio, ho baciato il tassista? E se fosse mio cugino? A proposito, ma come si chiama mio cugino?

 

Terrazza sul Fascismo. La Storia è un autoritratto di famiglia (e l’antisemitismo un tradimento reale)

Profumo di fascismo e sali di Mar Morto, romanzo di Vittorio Pavoncello (edizioni All Around srl) è un libro costruito come un meccano. A mano a mano che vi accostate sentite, quasi sotto le dita, la forza dei pezzi di racconto e il legame inesorabile delle connessioni (le viti del meccano) che vi portano da un punto a un altro, senza divagazioni.

Il linguaggio fluisce come se fosse facile. Non corteggia il lettore e non esibisce tenerezza. Mentre l’autore si siede sulla sua terrazza per scrivere, molto è già scritto.

Vittorio Pavoncello, il narratore, si presenta in questo modo al lettore del libro: “Essendo questo un romanzo, è composto di parole, immagini e quindi lettere (…) Immagini ora il lettore che l’autore sia anche pittore. Sì, un pittore che voglia fare di sé un autoritratto con l’arte delle parole. Un autoritratto unico nel suo genere perché ha due figure: un personaggio è vivo e l’altro è morto. L’ebraismo è sfondo, ambiente, e primo piano del romanzo”.

Sulla terrazza accadono tre cose: il colpo di cannone con cui a mezzogiorno Roma celebra sé stessa, ma anche lo sfondamento della porta del Papa. L’immagine del nonno, che l’autore sente subito, sia pure senza vederla; sa dunque che è presente e ne sente il conforto perché può fare domande (anche se non avrà risposte). E la sua pagina da cui potrebbe già leggere tutto il racconto, fino alla conclusione, perché gli eventi sono già accaduti, e restano solo piccole storie a parte per chi non è mai stato coinvolto.

È importante apprendere che questo nonno Pavoncello nato nel 1893 (i nonni sono quattro, ci ricorda l’autore, perché i conti con gli eventi restino in pari) si chiamava Vittorio Emanuele in onore dei Savoia liberatori dei ghetti; un dettaglio, nel testo, che serve a segnare l’immensa gravità del tradimento (o, se vogliamo, dell’aristocratico scherzo) di un re a una parte del suo popolo confidente e devoto. C’è altro, molto altro di cui rendere conto, quel mezzogiorno, dopo la cannonata, sulla terrazza di Vittorio. Per esempio, una folata di vento porta accanto all’autore la sua cartella di bambino, quella che portava a scuola. Dentro c’è un solo libro intitolato Perché sono ebreo, uguale (ma senza il punto interrogativo) al libro che gli avevano dato da bambini e che lui non aveva mai letto.

Ma Profumo di fascismo e sali del Mar Morto di cui sto parlando (Il Mar Morto finirà nel giro di una generazione se sarà abbandonato) è un oggetto misterioso: all’improvviso una folla di volti e di nomi della vita ebrea romana (Pavoncello insiste nel dire “israelita”) si dispone, come per una foto ricordo accanto al nonno.

E poi una folla di pensieri che è bene conoscere e conservare.

 

Profumo di fascismo e sali del Mar Morto Vittorio Pavoncello – Prezzo: 15 euro – Editore: All Around

Il geom. flavio briatore e gli auguri sgraffignati al premier cattedratico

 

BOCCIATI

Stile juve. Le telecamere della Rai consegnano ai telespettatori l’immagine del presidente della Juventus Andrea Agnelli che, alla fine della partita di Coppa Italia Juventus-Inter apostrofa il ct nerazzurro Antonio Conte con la gentile frase: “Stai zitto coglione”. Prima era accaduto che il suddetto mister avesse alzato il dito medio verso l’angolo juventino, davanti ai giocatori che stavano tornando negli spogliatoi, alla presenza di Agnelli. Dalle immagini si vede Conte urlare qualcosa, secondo “orecchie bianconere” (così scrive il sito della Gazzetta) avrebbe accompagnato il gestaccio con il gentile imperativo “suca”. Che è successo? Vecchie e note ruggini tra i due gentleman: Conte con la Juve ha vinto tre scudetti di fila ma si dimise in piena estate, con la squadra già in ritiro, all’inizio della stagione 2014-’15 (divergenze legate al mercato). È la sportività bellezza!

Blablando. Flavio Briatore posta sui social il suo augurio a Mario Draghi: “C’è un signore con master al Massachussetts Institute of Technology, ex governatore della Banca d’Italia, consulente delle più importanti società del mondo, presidente del Financial Stability Board, professore ordinario in politica monetaria, membro del Board of Trustees di Princeton, presidente per 8 anni della Banca Centrale Europea, che deve fare le consultazioni con il bibitaro, la Signora Pina, quello con la terza media, l’ex velina, la lavandaia, l’ex tronista, il dj, il diplomato alle scuole serali, l’odontotecnico… È come se Michelangelo si mettesse a fare le consultazioni sulla pittura con quello che fa le strisce pedonali… Auguri a Mario Draghi”. Siamo andati a ripassare il succinto curriculum scolastico del geometra Briatore. Sue parole in un’intervista a Repubblica (2005): “Ho preso il diploma di geometra da privatista, dopo essere stato bocciato due volte, in seconda e in terza, nell’istituto pubblico. Non me ne fregava niente, avevo scelto quella scuola perché qualcuno mi aveva detto che era la più facile. Alla maturità ho presentato come tesina il progetto di una stalla, quando sono diventato un manager di successo, quindi antipatico a molti, hanno detto che all’entrata della stalla avevo disegnato anche i gradini. È una balla”. Voi direte: adesso c’è la battuta. No! La storia non è ancora finita. Il post sarebbe copiato da un utente di Facebook, Francesco Ferla, che ha denunciato la cosa. E comunque: l’ex velina, l’ex tronista e il dj sono i clienti del Mit-Billionaire.

 

 

NON CLASSIFICATI

Streets of New Jersey. Secondo il sito Tmz Bruce Springsteen è stato arrestato per guida in stato d’ebbrezza, in New Jersey. I fatti risalgono a metà novembre, ma sono stati resi noti solo ora. “The Boss” sarebbe stato fermato presso la Gateway National Recreation Area di Sandy Hook e trovato in stato d’ebbrezza, oltre ad essere accusato di consumo di alcol in zona chiusa per epidemia e guida spericolata. I funzionari del parco hanno confermato l’arresto ad una rete locale, precisando che il cantautore è stato “collaborativo”. Stando poi al racconto del New York Post, “The Boss potrebbe essere stato vittima di un eccesso da parte della polizia” perché non aveva il tasso alcolemico superiore al consentito. Intanto la Jeep blocca lo spot del Super Bowl, di cui il cantante era protagonista. C’entrerà mica il supporto a Biden?

Farmacia Ariston. Le ventisei canzoni del Festival, pur essendo state verosimilmente scritte nei mesi bui della pandemia, non parlano di lockdown. In compenso si parla parecchio di medicinali: ben tre canzoni ne fanno menzione, a parte l’elenco sterminato del pezzo di Max Gazzè, c’è anche Aiello che parla dell’analgesico Ibuprofene e Giò Evan intitola il brano “Arnica”. Manca solo una valeriana per FiorAma, la coppia alla guida della maratona sanremese!