Con il colpo di stato militare del primo febbraio e l’arresto di Aung San Suu Kyi, simbolo della transizione democratica, appena alcune settimane dopo l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca, la Birmania si è ritrovata al centro della rivalità geopolitica tra Cina e Stati Uniti. Se la fine della giunta ha permesso un certo avvicinamento tra il Myanmar (nome che i militari hanno dato alla Birmania nel 2010) e l’Occidente, l’influenza esercitata dal grande vicino cinese sul paese del sud-est asiatico è rimasta comunque significativa, soprattutto sul piano militare ed economico. “È il principale partner del Myanmar da 40 anni – sottolinea Sophie Boisseau du Rocher, ricercatrice all’Istituto francese di relazioni internazionali (Ifri) -. Ovviamente la Cina è una locomotiva economica e finanziaria per il paese, il primo partner commerciale ed economico”. ERappresenta circa il 30% delle esportazioni birmane e il 40% delle importazioni.
Nelle regioni di frontiera, la Cina poi è presente ovunque, dai negozi e fino alla vendita di motociclette, più accessibili rispetto a quelle dei concorrenti giapponesi. Nel nord, a Mandalay, la seconda città del paese, i cinesi rappresentano un terzo della popolazione. La Cina sta realizzando grandi progetti di infrastrutture, strade, porti, ferrovie, in un paese che ne ha un disperato bisogno. È presente anche nel settore delle materie prime ed è uno dei principali fornitori di materiale militare. La Birmania è infatti un tassello importante del programma della “Nuova via della seta” lanciato dal presidente della Repubblica popolare Xi Jinping nel 2013 per sviluppare le regioni dell’ovest e sud-ovest della Cina e collegarle rispettivamente all’Asia centrale e al Sud-est asiatico. “Il Myanmar occupa una posizione centrale nella strategia della Belt and Road Initiative, la BRI, nome ufficiale inglese del programma, nella regione, in particolare per il trasporto di idrocarburi”, sottolinea Jean-François Rancourt, politologo al Centro di studi asiatici dell’Università di Montreal. Gli oleodotti, costruiti tra il 2010 e il 2015 da due aziende statali cinesi (CNPC e China National Petroleum Corporation) e una birmana (Myanmar Oil and Gas Enterprise), collegano il terminal petrolifero e per il gas del porto di Kyaukpyu (dove delle aziende cinesi hanno partecipato anche alla costruzione di una zona economica speciale) alla provincia dello Yunnan, nel sud-ovest della Cina, garantendo a quest’ultima un accesso all’Oceano Indiano e permettendole di evitare il mar Cinese meridionale, dove le navi cinesi rischiano di pagare le spese di un conflitto con gli Stati Uniti. “Ciò consente ai cinesi di far transitare gas e petrolio senza dover passare per lo stretto di Malacca e il mar Cinese”, spiega Jean-François Rancourt. I due paesi si sono particolarmente avvicinati a partire dal 2017. Quando l’Occidente ha condannato la pulizia etnica dei Rohingya, la minoranza musulmana in Birmania, i militari sono stati oggetto di sanzioni e l’immagine di Aung San Suu Kyi si è oscurata, la visita nel 2017 della premio Nobel a Pechino e la sua calorosa stretta di mano con Xi Jinping si sono fatte particolarmente notare. In questo contesto, Pechino godeva un ampio margine di manovra tra i militari e la Lega nazionale per i democratici (Nld), la formazione di Aung San Suu Kyi. Nel gennaio 2020, prima dell’epidemia del nuovo coronavirus, Xi Jinping si era recato in Birmania per firmare una trentina di accordi. Anche in questo caso la visita aveva sollevato molti commenti.
Il Global Times, portavoce della corrente ultranazionalista all’interno del Partito-Stato cinese, ha ironizzato sulle critiche avanzate dagli occidentali ai birmani, assicurando che solo la Cina voleva “aiutare il Myanmar a uscire da questo pantano”: “Dopo alcune turbolenze, il Myanmar si è reso conto che c’erano due pesi e due misure nell’approccio dei paesi occidentali alle questioni relative ai diritti umani e ha cominciato a rivolgersi alla Cina per ottenere un aiuto diplomatico ed economico”, ha scritto il giornale. Dopo il colpo di stato, Pechino ha evitato di avanzare critiche e di condannare, conservando un atteggiamento cauto. In un primo tempo, il portavoce del ministero degli Esteri Wang Wenbin ha spiegato che il suo paese aveva “preso atto” degli eventi in corso, aggiungendo in un secondo tempo che i diversi attori birmani avrebbero dovuto “risolvere in modo adeguato le loro controversie all’interno di un quadro costituzionale e giuridico e attraverso il dialogo, al fine di salvaguardare la stabilità politica e sociale”. Ha quindi aggiunto: “Pensiamo anche che la comunità internazionale debba promuovere un contesto favorevole alla buona risoluzione delle controversie in Myanmar. Tutte le misure adottate dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite devono contribuire alla stabilità politica e sociale del Myanmar, promuoverne la pace e la riconciliazione ed evitare di aggravare il conflitto e complicare la situazione”. La stabilità, dunque, prima di tutto. Questo è il leitmotiv ripetuto da Pechino, che spiega il perché della sua opposizione ad una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che condanni il colpo di stato. Alla fine è stato adottato un testo vicino alle aspettative cinesi. Di sicuro Pechino non appoggia il colpo di stato militare, ma spera di trarne profitto in un contesto di rivalità con gli Stati Uniti. Delle sanzioni occidentali avrebbero come effetto di spingere ulteriormente la Birmania tra le braccia di Pechino. “Il Myanmar e la Cina condividono una lunga storia comune di relazioni politiche ed economiche. Questi legami già stretti sarebbero ulteriormente rafforzati se i governi occidentali decidessero di isolare il Myanmar – analizza Htwe Htwe Thein, docente di economia internazionale e specialista della Birmania alla Curtin University di Perth, in Australia -. Sul piano economico, siamo di fronte allo stesso tipo di scenario. Le aziende cinesi, che sono già molto presenti in Myanmar in tutta una serie di settori economici, riempirebbero rapidamente il vuoto lasciato dall’eventuale ritiro di aziende europee e di altri paesi occidentali”. Inoltre, come sottolinea Jean-François Rancourt, un regime totalitario birmano sarà meno scrupoloso e esigente in materia di impatto economico, sociale o ambientale, mentre Aung San Suu Kyi e la NLD avevano riconosciuto l’importanza di avere più trasparenza e meno corruzione. Tuttavia, i rapporti tra i militari e il regime comunista cinese sono sempre stati complessi.
“In Europa c’è una certa difficoltà a capire il nazionalismo esacerbato dei birmani, c’è grande diffidenza nei confronti della Cina. Il Tatmadaw, l’esercito della Birmania, soffre di un complesso obsidionale, il complesso ossessivo di chi si sente accerchiato. I cinesi sono considerati alla stregua di tutti gli altri”, spiega Sophie Boisseau du Rocher. Htwe Htwe Thein sottolinea che è sempre esistita “una tensione di fondo” tra le due nazioni: “Negli ultimi dieci anni, ci sono stati esempi di attività commerciali e investimenti di aziende cinesi che hanno sollevato un sentimento populista anti-cinese che ha attraversato tutto il paese”. Si ricordano per esempio le proteste contro la costruzione della diga di Myitsone che alla fine hanno portato alla sospensione della sua costruzione nel 2011 o a quelle contro la miniera di Letpadaung, in cui aveva investito una società cinese. “Questi sentimenti, che covavano da tempo, sono venuti a galla all’alba dell’era democratica del paese”, spiega ancora Htwe Htwe Thein. Pechino potrebbe agire dietro le quinte in favore di Aung San Suu Kyi, alleata passeggera, ma che sarebbe sacrificata senza problemi sull’altare degli interessi economici e strategici in nome della sacrosanta stabilità. “Per la Cina, un Myanmar destabilizzato causerebbe maggiori problemi anche nelle zone di confine, come spostamenti della popolazione e traffici di droga”, aggiunge Htwe Htwe Thein