La prima uscita in macchina con il padre terminata alla prima curva con tanto di bernoccolo, sangue, occhiali rotti e l’arrivo della mamma in taxi.
La storia d’amore – platonica – con una prostituta; una storia d’amore breve, vissuta, dove il non detto era talmente denso, vero e lucido, da restare tale.
La scoperta del palco, della televisione, i tre mesi a Torino, Enzo Trapani tra il sogno di nuova tv da inventare e la realtà racchiusa dentro una pistola posizionata davanti a sé.
E ancora Francesco Nuti sulla tazza del gabinetto, Massimo Troisi già malato, o una pletora di mitomani, a Roma definiti anche “coatti antichi”, protagonisti delle bische anni Settanta.
Sono alcune delle storie raccontate da Carlo Verdone nel suo ultimo libro, La carezza della memoria; un libro che più di ogni suo film rivela chi è Verdone, i suoi inizi, i dubbi, le paure, le certezze, la tenacia, la perenne curiosità per la vita, per ogni sfumatura pratica ed emotiva.
Non è una semplice raccolta di ricordi, di autocelebrazioni, di aneddoti, di nomi illustri sui quali costruire una narrazione epica; non è un libro di pettegolezzi, ma di cuore e anima, un viaggio anche dentro la Roma lontana dalla Banda della Magliana, del sottoproletariato, dei giovani sedotti dalla poesia e richiamati da un celebre festival organizzato a Ostia nel 1979 e finito in un disastro.
È un libro in stile Compagni di scuola, dove si ride e si piange, dove commedia e tragedia si guardano negli occhi.
Come nasce?
Esattamente nel primo giorno di lockdown: ero solo in casa, quindi decido di mettere in ordine, di affrontare una grossa cassa di cartone sigillata e piazzata in un armadio. Sopra c’era scritto: “oggetti e fotografie da riordinare”, e le aveva raccolte il mio compianto segretario, Ivo Di Persio…
E…
Sopra c’era la sua scrittura, e ho rimandato l’apertura per non affrontare il dolore della perdita; (piccola pausa) quando ho sollevato la scatola non ho tenuto conto della situazione delle mie anche (a settembre si è operato a entrambe). Pesava. Ho avvertito un dolore lancinante tanto da mollare la presa.
Patatrac.
La scatola si è rotta e si sono sparse una miriade di fotografie in bianco e nero, a colori, stampe, lettere, oggetti, appunti, agende telefoniche, rosari, santini; a quel punto mi sono seduto e ho iniziato a esaminare, e ogni foto e oggetto mi ha riaperto dei cassetti delle memoria. Dopo un quarto d’ora ho capito: il contenuto sarebbe stato il tema del libro.
I suoi figli conoscevano queste storie?
No, e non solo loro: quasi nessuno; erano vicende che in qualche modo avevo rimosso, e non so bene il motivo.
Qual è l’effetto di ritrovare certi ricordi?
L’ho intitolato La carezza della memoria perché hanno rappresentato una reale carezza per la mia anima; io che sono una persona che non piange mai, e non è un bene, in questo caso in un paio di occasioni ho sentito le lacrime agli occhi.
Dove?
La storia di Maria (la prostituta) e il viaggio con mia figlia; (cambia tono) la maggior parte del libro l’ho realizzato nella casa di campagna, davanti all’immensa libreria di mio padre, e sullo stesso tavolo da pranzo dove ho scritto Un sacco bello e Bianco, Rosso e Verdone; quel tavolo mi porta fortuna.
È un libro molto intimo, era preoccupato per la reazione dei suoi figli?
No, perché così hanno la possibilità di conoscere il padre da giovane, meandri della mia anima, e per me è un grosso privilegio; (pausa) questo libro è l’assoluta verità, l’assoluta sincerità, ed è la sua forza.
Coraggioso.
È la mia vita; (ci pensa) per capire chi sono qualcuno potrebbe consigliare uno dei miei film, ma non è la stessa cosa: la scrittura consente una libertà assoluta, senza alcuna pressione, senza nessuno che ti indica dove devi strappare una risata, o un momento di riflessione; il cinema è sempre un compromesso tra te e il produttore.
È lei bravo a scrivere o la sua vita è un film? Come nella storia con la prostituta…
Alla fine di quel capitolo ho sentito le lacrime: si è aperto un periodo, un mondo, quegli anni, lei, i patemi d’animo e mi sono reso conto che poteva diventare un bel film romantico…
Il finale è quasi alla Dottor Zivago.
Sì, ma oggi ha più valore: all’epoca avevo solo 23 anni, ed era impossibile approfondire più di tanto, comprendere la poesia, mentre ora è tutto più chiaro, di come quelle ore con lei erano delicate, belle, affettuose, misteriose; è l’età che dà un valore a quello che hai scritto, mentre allora era un patema; non riesco a capire perché avevo rimosso tutto.
Nel libro riporta a una Roma che sembra il lato B di Romanzo criminale.
E non c’era la cattiveria e il cinismo di oggi, ma solo mitomanie veniali che diventavano delle rappresentazioni teatrali (è da lacrime la vicenda del bullo che si abbassa le mutande e si piazza un secchio sul pene eretto per dimostrare la sua forza erotica); il libro è lo stupore di una persona perbene, come mi ritengo, davanti alle proprie emozioni.
Una Roma pasoliniana.
È vero, ma anche da nouvelle vague.
Racconta di Beppe Grillo, e attraverso lui comprende la sofferenza della fama…
Mi colpì una sera, quando lo vidi poco in forma sul palco, e in quel momento era il numero uno; capita a molti, ed è normale quando su trenta giorni hai trenta serate: a un certo punto avverti come un rifiuto ad andare avanti, e vieni avvolto da un po’ di depressione e stanchezza.
Ha smesso quasi subito con il teatro.
È una mia fragilità, e non bisogna aver paura ad ammetterlo; (cambia tono) sarei stato un ottimo attore teatrale, perché non ho mai fallito uno spettacolo, ho sempre riempito le sale, ma avevo l’angoscia di ripetere sempre lo stesso spettacolo. Non lo sopportavo. Mi portava all’esaurimento nervoso. Eppure in ogni rappresentazione cercavo di variare, di improvvisare, con i miei attori terrorizzati che non sapevano cosa stessi combinando; (ci pensa) non ho la mentalità teatrale, dopo la mia ultima recita ho provato la sensazione di essermi tolto un macigno.
Addirittura.
Sul palco davo tutto, ogni sera mi ammazzavo, non sapevo centellinare le forze, non dosavo la voce e dopo quindici giorni ero sistematicamente afono: era uno sforzo sovrumano.
Parla di grande capacità di amministrarsi…
Saper dire novantanove “no” e un sì, perché questo mondo è pieno di tranelli, di proposte che ti possono far sbandare, e sono stato bravo a evitarli, ad azzeccare la situazione giusta, e questa dote forse la devo alla mia famiglia, alle idee molto chiare sul mio lavoro, conoscere i limiti e le forze: ho fatto a meno di tanti soldi ma forse mi sono allungato la carriera.
Sua mamma è sempre sullo sfondo.
È stata l’angelo custode di tutta la carriera iniziale; ogni sera veniva a teatro, per lei era troppo bello vedere il figlio ricevere quegli applausi; si è ammalata dopo due anni e non c’è stato più niente da fare, e se devo dire un grazie a qualcuno per slancio, spinta, incoraggiamento, lo rivolgo a lei.
Mamma la proteggeva da suo padre alle prese con la guida dell’auto.
Papà era un uomo ottocentesco, scriveva con penna e calamaio, e dal punto di vista tecnologico era un disastro: prima di prendere la patente ha tentato più volte l’esame e, ottenuta, ha impiegato cinque anni per riuscire a portare la macchina.
Subito l’incidente.
E mamma ha preteso l’autista e proibito di andare soli con lui; per papà un’umiliazione enorme; (sorride) era bravo solo con la retromarcia e i parcheggi, per il resto una tragedia: doveva nascere in Inghilterra perché andava sempre a sinistra.
Nel libro si definisce un “pedinatore di italiani”.
È un’espressione del critico Natalino Bruzzone che trovo perfetta; sono da sempre alla ricerca dello stupore, di un qualcosa che mi colpisce, di megalomani, di mitomani, poi non sapevo che sarebbero diventati il mio alter ego. Io amo la gente. E questo lavoro puoi portarlo avanti solo se ami il prossimo, se stai in mezzo agli altri, se li vivi.
I fan, nel libro, ritroveranno la genesi di alcuni dei suoi personaggi.
È il racconto di come è nato Oscar Pettinari di Troppo forte, o il bullo di Un sacco bello, Leo, Mimmo, Borotalco.
La fotografia con Nuti e Troisi è storia.
Scattata da Alberto Sordi.
Tre geni.
E non lo sapevamo.
Nuti.
Personaggio particolare: lui era nei Giancattivi, e insieme ad altri comici componevamo il cast di Non stop; per cercare di rompere il ghiaccio gli chiesi un parere su uno sketch. Lui mi fissò un appuntamento nel suo camerino e quando mi presentai non lo trovai. Una sarta mi rivelò che l’aveva visto entrare in bagno. “Francesco, sono Carlo,” dissi, bussando. “Sììì, Carlo”. La porta si aprì. Era seduto sul gabinetto a leggere Tex. “Ti cercavo per il mio sketch”. “Ah già, è vero” replicò senza alzare lo sguardo dal giornalino. “Stai bene?” “Mi girano i coglioni.” “E perché?” “So’ cose nostre… ciao”.
Il guru della trasmissione era Enzo Trapani, sempre con la pistola appresso.
Avevo intuito dei suoi momenti di fragilità, mi chiedeva cosa prendevo per dormire, con lui che assumeva il Librium, che erano pasticche pesantissime, più questa fissa delle armi che utilizzava come degli amuleti; però come pochi capiva chi aveva talento, e con Gambarotta e Voglino ha costituito un trio meraviglioso.
Lei ha una memoria pazzesca.
Ho un rapporto sessuale con la vita: l’ho amata talmente tanto da non farmi sfuggire nulla; nella vita non c’è piattume, ma poesia anche dentro lo scompartimento di un vagone vuoto, così ho vissuto pienamente, da maniaco del dettaglio.
Nella prima pagina ci sono i nomi di Giulia e Paolo…
Tengo talmente tanto a questo libro da averlo dedicato alle due persone più importanti della mia vita, i miei figli, così da fargli conoscere l’anima del loro padre quando ancora non erano nati.