Da una parte 8 giovani uomini maliani, vittime di traffico di minori, finiti a lavorare come schiavi per raccogliere cacao nelle piantagioni della Costa d’Avorio e poi riusciti a sfuggire allo sfruttamento. Dall’altra le maggiori multinazionali del cioccolato al mondo, Nestlé, Cargill, Mars, Mondelez, Hershey, Barry Callebaut e Olam, accusate da quei ragazzi di sfruttamento del lavoro minorile. In mezzo, una denuncia federale, depositata da International Rights Advocates, organizzazione americana che vigila sul rispetto dei diritti umani da parte di società come quelle dietro a Big Chocolate.
La class action, la prima di questo genere contro l’industria del cioccolato, si basa sulla Trafficking Victims Protection Reauthorization Act, una legge che consente alle vittime di traffico di esseri umani e lavoro forzato di fare causa alle società che di quel lavoro hanno beneficiato. Mira ad ottenere un risarcimento per lavori forzati, arricchimento indebito, assenza di supervisione e danni emotivi intenzionali. Le piantagioni in cui avrebbero lavorato i ragazzi non erano di proprietà delle multinazionali, ma l’accusa sostiene che i produttori non solo fossero al corrente della realtà ma avessero consapevolmente messo sotto contratto fornitori in grado di offrire prezzi più bassi proprio grazie allo sfruttamento della manodopera. In un caso, la vittima avrebbe avuto solo 11 anni quando era stata attirata lontano dal proprio villaggio in Mali da un trafficante con la promessa di un lavoro in Costa d’Avorio a 34 sterline al mese. Soldi mai pagati nei due anni in cui il bambino avrebbe lavorato, spesso distribuendo pesticidi senza equipaggiamento protettivo. Nei documenti si legge che tutti i ragazzi, minori di 16 anni al momento dei fatti, avrebbero lavorato in piantagioni dove l’influenza delle multinazionali del cioccolato è dominante. L’accusa cerca di dimostrare la responsabilità diretta dei produttori sulle condizioni di lavoro in tutta la regione. E cita ricerche del Dipartimento del lavoro Usa, dell’ International Labour Organization e dell’Unicef: una sentenza a favore significherebbe inchiodare Big Chocolate, nero su bianco, all’accusa infamante di utilizzo di lavoro minorile. Quello dello sfruttamento della manodopera in Ghana e Costa d’Avorio, le nazioni africane che, insieme, nel 2019 producevano quasi i due terzi della fornitura globale di cacao grezzo, è un problema ampiamente documentato. I loro profitti? Meno di 6 miliardi di dollari, briciole in un mercato di settore da 100 miliardi di dollari di vendite l’anno. Secondo Nana Akufo-Addo, presidente del Ghana, il suo Paese è prigioniero di una relazione “di stampo colonialista” con i grandi produttori di cioccolato, un meccanismo economico perverso in cui esporta la materia grezza e importa il prodotto finito. È il paradosso antico di contadini che si spezzano la schiena per coltivare e raccogliere un prodotto che li lascia in povertà estrema ma diventa oro per le multinazionali che controllano il mercato. Ma non riguarda solo gli adulti. Nel 2001, spinto anche dalla crescente sensibilità globale verso la sostenibilità etica di prodotti di paesi emergenti, Big Chocolate firma l’Harkin-Engle Protocol, impegnandosi a eradicare il lavoro minorile da Ghana e Costa d’Avorio entro il 2005. Invece, denuncia International Rights Advocates “si concede una serie di dilazioni unilaterali”. L’ultimo obiettivo, ridimensionato, è la riduzione del 70% del lavoro minorile entro il 2025. Nel frattempo, scopre uno studio della Chicago University finanziato dal Dipartimento del Lavoro Usa, il numero di bambini sfruttati aumenta del 14%, superando i 2 milioni. Ed è antico anche lo scontro giudiziario. IRAdvocates ha preso la difesa anche di altre 6 persone, bambini nel 2005, entrati allora in un contenzioso partito da accuse simili: sarebbero stati costretti a lavorare fino a 14 ore al giorno, a mangiare resti di cibo, picchiati e torturati se tentavano la fuga. La vicenda giudiziaria si trascina da allora: è arrivata alla Corte Suprema, che nel gennaio 2020, su questo contenzioso, ha chiesto un parere al procuratore generale Noel Francesco sull’opportunità di convocare Big Chocolate.
Casi simili di sfruttamento del lavoro internazionale sono di solito regolati dall’Alien Tort Statute del 1789, che dà ai tribunali federali l’autorità di giudicare denunce di violazione di leggi internazionali formulate da cittadini non statunitensi. Legge che la stessa Corte, nel 2013, ha interpretato in senso restrittivo, decidendo che non possa applicarsi oltre le frontiere Usa. Messaggio rinforzato nel 2018, quando ha deciso che le multinazionali straniere non possano essere chiamate in giudizio su questa base. Su questa interpretazione fanno leva i legali di Big Chocolate per far cadere le accuse. Ma la questione è ancora aperta, vista la presenza di uffici ed impianti di Big Chocolate negli Stati Uniti.