Cacao amaro per i forzati dei campi

Da una parte 8 giovani uomini maliani, vittime di traffico di minori, finiti a lavorare come schiavi per raccogliere cacao nelle piantagioni della Costa d’Avorio e poi riusciti a sfuggire allo sfruttamento. Dall’altra le maggiori multinazionali del cioccolato al mondo, Nestlé, Cargill, Mars, Mondelez, Hershey, Barry Callebaut e Olam, accusate da quei ragazzi di sfruttamento del lavoro minorile. In mezzo, una denuncia federale, depositata da International Rights Advocates, organizzazione americana che vigila sul rispetto dei diritti umani da parte di società come quelle dietro a Big Chocolate.

La class action, la prima di questo genere contro l’industria del cioccolato, si basa sulla Trafficking Victims Protection Reauthorization Act, una legge che consente alle vittime di traffico di esseri umani e lavoro forzato di fare causa alle società che di quel lavoro hanno beneficiato. Mira ad ottenere un risarcimento per lavori forzati, arricchimento indebito, assenza di supervisione e danni emotivi intenzionali. Le piantagioni in cui avrebbero lavorato i ragazzi non erano di proprietà delle multinazionali, ma l’accusa sostiene che i produttori non solo fossero al corrente della realtà ma avessero consapevolmente messo sotto contratto fornitori in grado di offrire prezzi più bassi proprio grazie allo sfruttamento della manodopera. In un caso, la vittima avrebbe avuto solo 11 anni quando era stata attirata lontano dal proprio villaggio in Mali da un trafficante con la promessa di un lavoro in Costa d’Avorio a 34 sterline al mese. Soldi mai pagati nei due anni in cui il bambino avrebbe lavorato, spesso distribuendo pesticidi senza equipaggiamento protettivo. Nei documenti si legge che tutti i ragazzi, minori di 16 anni al momento dei fatti, avrebbero lavorato in piantagioni dove l’influenza delle multinazionali del cioccolato è dominante. L’accusa cerca di dimostrare la responsabilità diretta dei produttori sulle condizioni di lavoro in tutta la regione. E cita ricerche del Dipartimento del lavoro Usa, dell’ International Labour Organization e dell’Unicef: una sentenza a favore significherebbe inchiodare Big Chocolate, nero su bianco, all’accusa infamante di utilizzo di lavoro minorile. Quello dello sfruttamento della manodopera in Ghana e Costa d’Avorio, le nazioni africane che, insieme, nel 2019 producevano quasi i due terzi della fornitura globale di cacao grezzo, è un problema ampiamente documentato. I loro profitti? Meno di 6 miliardi di dollari, briciole in un mercato di settore da 100 miliardi di dollari di vendite l’anno. Secondo Nana Akufo-Addo, presidente del Ghana, il suo Paese è prigioniero di una relazione “di stampo colonialista” con i grandi produttori di cioccolato, un meccanismo economico perverso in cui esporta la materia grezza e importa il prodotto finito. È il paradosso antico di contadini che si spezzano la schiena per coltivare e raccogliere un prodotto che li lascia in povertà estrema ma diventa oro per le multinazionali che controllano il mercato. Ma non riguarda solo gli adulti. Nel 2001, spinto anche dalla crescente sensibilità globale verso la sostenibilità etica di prodotti di paesi emergenti, Big Chocolate firma l’Harkin-Engle Protocol, impegnandosi a eradicare il lavoro minorile da Ghana e Costa d’Avorio entro il 2005. Invece, denuncia International Rights Advocates “si concede una serie di dilazioni unilaterali”. L’ultimo obiettivo, ridimensionato, è la riduzione del 70% del lavoro minorile entro il 2025. Nel frattempo, scopre uno studio della Chicago University finanziato dal Dipartimento del Lavoro Usa, il numero di bambini sfruttati aumenta del 14%, superando i 2 milioni. Ed è antico anche lo scontro giudiziario. IRAdvocates ha preso la difesa anche di altre 6 persone, bambini nel 2005, entrati allora in un contenzioso partito da accuse simili: sarebbero stati costretti a lavorare fino a 14 ore al giorno, a mangiare resti di cibo, picchiati e torturati se tentavano la fuga. La vicenda giudiziaria si trascina da allora: è arrivata alla Corte Suprema, che nel gennaio 2020, su questo contenzioso, ha chiesto un parere al procuratore generale Noel Francesco sull’opportunità di convocare Big Chocolate.

Casi simili di sfruttamento del lavoro internazionale sono di solito regolati dall’Alien Tort Statute del 1789, che dà ai tribunali federali l’autorità di giudicare denunce di violazione di leggi internazionali formulate da cittadini non statunitensi. Legge che la stessa Corte, nel 2013, ha interpretato in senso restrittivo, decidendo che non possa applicarsi oltre le frontiere Usa. Messaggio rinforzato nel 2018, quando ha deciso che le multinazionali straniere non possano essere chiamate in giudizio su questa base. Su questa interpretazione fanno leva i legali di Big Chocolate per far cadere le accuse. Ma la questione è ancora aperta, vista la presenza di uffici ed impianti di Big Chocolate negli Stati Uniti.

Il giovane Consulente e il noto Personaggio: la crisi è un bel thriller

Se fosse un romanzo, qualche mese fa ci sarebbe stata una riunione.

In un posto lussuoso e segreto, con una ampia vetrata che dà sul mare e consente di guardare gli yacht ondeggianti placidamente, coi marinai a bordo che preparano un perfetto pranzo a base di pesce.

Alla riunione avrebbero partecipato pochi uomini, sei o sette. Di mezza età ma ben tenuti, nessuno dei quali noto alla stampa o alla televisione, abituati a non farsi vedere e a dare secchi comandi a qualche collaboratore incaricato di muovere le fila. Una riunione rara, perché normalmente si sentono attraverso linee criptate e sicure: ma il momento è grave, meglio parlarsi de visu.

Se fosse un romanzo, l’occasione sarebbe enorme e pressoché irripetibile: arrivano duecentodieci miliardi dal cielo in questo piccolo povero paese che la mezza dozzina di uomini riuniti ha già spolpato fino all’osso. Non si può lasciare che tutto questo ben di Dio venga gestito da quattro politici inconsapevoli e ignoranti, peraltro in gran parte provenienti da movimenti populisti, da vecchi partiti allo sbando e da sovranisti arrabbiati. Bisogna intervenire.

Gli uomini riuniti di fronte al mare non portano la mascherina, perché appena trovato il vaccino hanno ricevuto le primissime dosi. Ma sono preoccupati lo stesso, perché non possono lasciare che la faccenda gli sfugga dalle rapaci mani. Tutto rimonta a loro: la grande finanza, l’industria, la comunicazione; e anche il riciclaggio, l’evasione, le organizzazioni criminali. Sono a monte di tutto, nel romanzo. Sono la cupola delle cupole.

Nel romanzo si apre una porta ed entra il Consulente, il braccio armato, quello che in genere si occupa della messa in opera delle soluzioni concordate. Resta rispettosamente in piedi, e nessuno lo invita a sedersi. Fuori le barche ondeggiano, i marinai sfaccendano e il mare è più azzurro che mai.

Il Consulente ascolta le paure degli uomini riuniti. Resta in silenzio e pondera, come è abituato a fare. Poi propone la soluzione.

Basta trovare un politico giovane e in gamba, determinato a un’azione apparentemente suicida che faccia saltare il banco, pilotando le cose in maniera da evitare stravolgimenti elettorali dall’esito imprevedibile. L’azione peraltro sembrerà così onesta e idealista da non essere accusabile di interesse privato. Certo, costerà: ma il giovane politico coi poteri forti ha già una stretta consuetudine, magari qualche vecchio debito da saldare che può essere messo all’incasso, e farà sempre in tempo a rimettersi all’impiedi, magari tra una legislatura o due. Nel romanzo qualcuno degli uomini, preoccupato, chiede al Consulente che cosa succederà dopo che il giovane politico avrà fatto saltare il banco.

Il Consulente, con la voce calma di chi ha già visto tutto e il contrario di tutto, spiegherà che il pallino andrà necessariamente a un nome super partes, di grande prestigio internazionale e che, guarda caso, proviene proprio dal mondo della finanza e della gestione delle risorse continentali. Nel romanzo questo Personaggio esiste, e ognuno degli uomini presenti alla riunione in qualche modo ci avrà avuto a che fare.

Qualcuno a quel punto chiede, con residua inquietudine, come se la caverebbe il Personaggio col parlamento litigioso e violento, impossibile da mettere d’accordo su qualsiasi fesseria, figurarsi su una cosa grossa come questa.

Il Consulente, nel romanzo, sorride sornione. Dice che di fronte all’eventualità di tornarsene a casa perdendo poltrone e stipendi e soprattutto il potere di gestire formalmente, perché nella sostanza tutto resterebbe saldamente nelle mani dei presenti, tutto quel ben di Dio, l’accordo lo troverebbero. Eccome, se lo troverebbero.

E il Consulente nel romanzo parlerebbe di un governo politico nella gestione ordinaria e tecnico per i ministeri seri, quelli che dovranno ricevere i recovery funds. Dell’alleggerimento sostanziale della presenza meridionale, privilegiando ministri provenienti dai luoghi dove hanno sede grandi banche e grandi industrie, non sia mai che qualcuno abbia ripensamenti territoriali. Della ricompensa per il Personaggio che dovrà guidare il governo, in corrispondenza dell’elezione di un presidente che potrebbe tornare sempre utile.

Nel romanzo la strategia del Consulente provocherebbe un progressivo, largo sorriso dei presenti. E la riunione sarebbe sciolta in corrispondenza della perfetta cottura dello spaghetto allo scoglio sulla più bella delle navi alla fonda nel piccolo porticciolo privato, al di là della vetrata.

Fortuna che i romanzi non sono la realtà. Per questo sono sempre così belli.

Sesso, scherzi e pitali: le armi seducenti di Arlecchino & C.

La sbirciatina col senno di poi al teatro comico greco e latino ci ha mostrato, fra le altre cose, che il teatro è un’arte semantica: consiste nella trama, nell’azione, e nel carattere dei personaggi. La trama è preminente, il testo è fungibile: infatti un canovaccio bastava alla Commedia dell’arte, ovvero al mestiere veneziano di improvvisare commedie che rivoluzionò le scene europee dal XVI al XVIII secolo. “Quell’improvvisare era truccato, frutto di una scaltra organizzazione, predisposta con situazioni e dialoghi mandati a memoria in anticipo” (Fo, 1987). I comici erano tanto più bravi quante più tirate e gag conoscevano, adatte alla propria maschera e alle possibili situazioni (chiavi) di una storia: le utilizzavano alla bisogna, e all’impronta, giocando con i montaggi, i tormentoni e i ribaltoni. Le gag fisiche, dette lazzi, erano un patrimonio che i capocomici custodivano gelosamente, a scapito della concorrenza. Il canovaccio (scenario) non era che un calendario di situazioni ed entrate, e coinvolgeva tipi fissi (una coppia di innamorati, due servi come Brighella e Arlecchino, una servetta come Colombina, un vecchio avaro come Pantalone, un Dottore, un Capitano): con frasi e gesti convenzionali, gli interpreti si comunicavano a vicenda le intenzioni narrative (aperture, sviluppi, chiusure). Ogni attore era specializzato in un personaggio, dal dialetto caratteristico: uno Zanni era lombardo o veneto, Pantalone veneziano, il Dottore bolognese, gli innamorati e la Colombina toscani, Pulcinella napoletano, il Capitano spagnolo. La messa in scena era opera di compagnie di attori “dell’arte”, cioè “di mestiere”, una novità rispetto agli acrobati e ai cantastorie che si esibivano nelle fiere dell’epoca. La corporazione degli attori professionisti aveva uno statuto che proibiva le intrusioni di abusivi (guitti, saltimbanchi, compagnie di dilettanti) sulla stessa “piazza” (la località dell’esibizione). In caso di concorrenza non autorizzata, una compagnia che deteneva il privilegio di rappresentazione poteva chiedere l’intervento dell’autorità affinché gli intrusi fossero ricacciati “fuori piazza”, come fa Isabella Andreini, famosa attrice della Commedia dell’arte, in una lettera al governatore di Milano: “Poiché s’intende che di questi che montano il banco in piazza pubblica fanno commedie, anzi, guastano commedie, parimenti la supplico a fare scrivere al Sig. Podestà che non consenta che le facciano.”

Le maschere della Commedia dell’arte hanno un’origine ancestrale nei travestimenti con pelli di animale per la caccia e per le cerimonie religiose (l’animalità evoca il capro espiatorio: ne sono traccia le maschere dei carnevali arcaici, come i Mamuthones sardi). Altri precedenti: il carnevale veneziano; i giullari da strada; e i fool, i buffoni di corte.

Zanni è fra le maschere più antiche della Commedia dell’arte, tanto che questa era chiamata anche Commedia degli Zanni. Lo Zanni è il servo di origine contadina, affamato di cibo e di sesso: sul modello plautino, può essere furbo e svelto (Primo Zanni), oppure sciocco e lento (Secondo Zanni); appaiati, costituirono il prototipo della coppia comica. L’antagonista dello Zanni è il Magnifico, ovvero Pantalone, un vecchio mercante avaro e libidinoso.

Arlecchino combina i tratti dello Zanni, di Ellechino (un diavolo medievale, scurrile, autore di beffe e truffe) e del Selvatico della tradizione popolare. Spesso provoca il pubblico: l’Arlecchino di Martinelli, durante un dialogo amoroso fra un cavaliere e una damigella, si cala le brache in proscenio, defeca e lancia il castagnaccio a piene mani contro gli spettatori urlando: “Porta fortuna! Approfittatene!” Altre volte finge di urinare sul pubblico; di cadere addosso alle prime file; di gettargli addosso oggetti o di sparargli con colubrine (Fo, 1987). L’Arlecchino di Biancolelli affronta anche temi satirici: in un canovaccio, è un giudice ladro, in un altro un inquisitore fanatico e ipocrita. Da un adattamento dei fabliaux medievali (poemetti osceni e triviali di tipo satirico e parodistico) derivano invece canovacci come Arlecchino fallotropo, dove la chiave è una pozione magica che procura una virilità prorompente e indomabile.

Pulcinella, il gobbo bianco con naso adunco, ventre prominente e voce stridula da pulcino, è un Secondo Zanni. Deriva da un personaggio delle farse Atellane, Dossenno, il parassita gobbo e astuto. In alcuni scenari è vantone e irascibile come un Capitano.

La Commedia dell’arte abbonda di lazzi scatologici. Ne Le disgrazie di Flavio (Flaminio Scala, 1611), la serva Franceschina versa addosso ai litiganti un pitale pieno di urina. Lo stesso fa Zanni col Capitano ne Gli intrighi amorosi, con Francatrippe ne Il fonte incantato e con Mescolino ne L’imbrogliati intrighi. Ne La pazzia di Filandro (Basilio Locatelli, 1617), Zanni e Graziano, ubriachi, si burlano di Lidia cercando di pisciarle addosso. Ne La sepultura, Trastullo defeca nella bara in cui giace Pantalone, preda di un incantesimo. Ne Le mogli superbe, Zanni fa bere urina a Flavia dicendole che è malvasia. Fa lo stesso con Bizzarra nella Terza del tempo. Ne La Trappoleria (G.B. Della Porta, 1615), Coviello fa rinvenire una schiava svenuta gettandole in faccia un pitale di urina. Nelle Invenzioni di Coviello (Annibale Sersale, 1700), Rosetta sviene e Coviello la rianima buttandole in faccia un pitale di urina; poi sviene Coviello, e Pulcinella lo rianima allo stesso modo; infine sviene Pulcinella, e il Dottore rianima anche lui in quel modo, su suggerimento di Pulcinella medesimo, rinvenuto per un attimo a dare il consiglio, e poi subito di nuovo svenuto!

Alla Chiesa non piaceva il potere seduttivo della Commedia dell’arte. Scrive il prelato Ottolelli, collaboratore del cardinal Borromeo: “Li attori non adoperano in tutte le rappresentazioni le stesse parole della nuova commedia, s’inventano ogni volta, apprendendo prima la sostanza, come per brevi capi e punti ristretti, recitano poi improvvisamente così addestrandosi ad un modo libero, naturale e grazioso. L’effetto che ne ottengono sul pubblico è di molto coinvolgimento, quel modo così naturale accende passioni, commozioni, che son di grave pericolo per il plauso che si fa della festa amorale dei sensi e della lascivia, del rifiuto delle buone norme, della ribellione alle sante regole della società, creando gran confusione presso le semplici persone.”

(43. Continua)

Ex Ilva, il Tar ordina lo stop agli impianti: “C’è grave pericolo per la vita e la salute”

“Lo stato di grave pericolo” in cui vivono i cittadini di Taranto a causa del “sempre più frequente ripetersi di emissioni nocive ricollegabili direttamente all’attività del siderurgico, deve ritenersi permanente ed immanente”. Lo hanno scritto i giudici del Tar di Lecce nella sentenza con la quale hanno disposto lo spegnimento degli impianti dell’area a caldo dell’ex Ilva gestita oggi dalla joint venture tra Stato e ArcelorMittal entro 60 giorni. I magistrati hanno rigettato il ricorso dell’impresa contro l’ordinanza emanata a febbraio 2020 dal sindaco di Taranto Rinaldo Melucci che, dopo l’ennesima nube tossica che si abbattè sulla città, emanò l’ordinanza imponendo la chiusura dei sei reparti già sequestrati nell’estate 2012. È la prima volta che la giustizia amministrativa si schiera contro la fabbrica: nel provvedimento i magistrati hanno chiarito che “il rispetto dei parametri emissivi previsti in Aia” (autorizzazione integrata ambientale, ndr) non comporta automaticamente “l’esclusione del rischio o del danno sanitario”. Insomma rispettare le regole non basta per continuare a produrre se questa attività crea danni alla salute di operai e cittadini. Una decisione storica, insomma, che diventa la prima grande grana nelle mani del neo presidente del Consiglio Mario Draghi: il primo banco di prova per la transizione ecologica a cui è stato dedicato il ministero affidato a Roberto Cingolani.

Nelle 60 pagine del provvedimento, inoltre, i magistrati hanno affermato che il diritto alla salute non può più essere sacrificato sull’altare del profitto. Il tempo per bilanciare i diritti a salute e lavoro concesso dalla Corte Costituzionale ai primi decreti Salva Ilva varati ben 9 anni fa, è scaduto: i tarantini “hanno pagato – scrivono i giudici – in termini di salute e di vite umane un contributo che va di certo ben oltre quei ‘ragionevoli limiti’”. Un limite che evidentemente la fabbrica ha abbondantemente superato. Ai giornalisti il sindaco Melucci ha parlato di una “Taranto finalmente libera dal ricatto occupazionale: nessuno potrà farci tornare indietro. Questa comunità non dovrà più convivere con quella forma di produzione vecchia e dannosa”. All’incontro con la stampa ha partecipato anche il governatore di Puglia Michele Emiliano: “Spero che nessuno – ha detto il presidente della giunta regionale – possa sperare in acrobazie giudiziarie dal Consiglio di Stato così come avvenuto in passato per la Corte Costituzionale. Questa storia è ormai finita”. ArcelorMittal infatti ha subito annunciato ricorso “immediato” al Consiglio di Stato, che potrebbe intervenire con una sospensiva in attesa del giudizio di merito.

Il Cnr da domani senza presidente: rischia la paralisi

Il pasticciaccio brutto si consuma in una manciata di ore e c’è pure il sospetto che qualcuno l’abbia voluto apposta per determinare la paralisi e quindi il commissariamento del Cnr. Ché Patrizio Bianchi era atteso ieri a piazzale Aldo Moro per prendere posto nel cda su indicazione della Conferenza Stato-Regioni, ma ha fatto sapere di dover rinunciare all’incarico per assumere quello di ministro della Scuola nel governo di Mario Draghi. Ma nelle stesse ore si è dimesso pure Gabriele Fava, altro consigliere pure lui appena nominato ma su indicazione dall’Unione italiana delle camere di commercio e dalla Confindustria. Mentre un terzo neo consigliere, Lucio D’Alessandro espressione della Conferenza dei rettori, ha preferito non presentarsi al cda che avrebbe dovuto nominare un vice presidente in vista della scadenza del mandato del presidente Massimo Inguscio. Che da domani decade essendo scaduta anche la prorogatio in forza della quale era rimasto al suo posto ben oltre il mandato. Il risultato? In mancanza di un reggente dotato della rappresentanza legale, il Cnr è nelle condizioni di non poter essere operativo a meno che la neoministra dell’Università Cristina Messa non intervenga subito.

E qui la storia si fa addirittura surreale. Perché proprio la neo ministra era in predicato per la nomina a presidente del Cnr: si era infatti piazzata quarta (primo era risultato il professor Andrea Lenzi della Sapienza) alla selezione del Miur che aveva incaricato una Commissione di altissimo profilo per scegliere i curriculum migliori. I 5 nominativi erano stati poi consegnati al ministro Gaetano Manfredi ma senza che accadesse nulla. E così adesso tocca proprio a Messa che insieme ai suoi 4 concorrenti aveva atteso inutilmente per un anno un cenno sul suo futuro, sciogliere la riserva sul destino dell’ente con la nomina immediata di un presidente o di un commissario.

Bassolino: “Mi candido a sindaco di Napoli”. Corsa a ostacoli: il Pd è ostile, veto del M5S

Antonio Bassolino si candida a sindaco di Napoli, spiazza tutti e rovina il pomeriggio dei membri della segreteria Pd tifosi del Napoli: il segretario Marco Sarracino ha convocato la direzione per un vertice d’urgenza, svolto durante Napoli-Juventus. Decisione presa un’oretta dopo l’annuncio di Bassolino: “Fare il sindaco – ha scritto sui social – è stata l’esperienza più importante della mia vita e sento il dovere di mettermi al servizio della città. Napoli prima di tutto, prima di ogni interesse di parte”. Bassolino è stato sindaco dal 1993 al 2000, il “Rinascimento Napoletano”. Meno felice la stagione successiva, i dieci anni da governatore, stretto nella morsa di Mastella e De Mita e travolto dall’emergenza rifiuti. Già cinque anni fa si era riproposto alle primarie, perse di un soffio contro Valeria Valente tra le polemiche e i ricorsi sui presunti brogli e le monetine regalate all’ingresso dei seggi. Bassolino per ora conta solo sulle sue forze: i dem gli sono ostili, il M5s ha posto un veto. La candidata sindaco di De Magistris, Alessandra Clemente, gli ha fatto gli auguri.

Il ministero della Cultura che ricorda il fascismo

“Governo di alto profilo che non debba identificarsi con alcuna formula politica”: la sintesi vivente delle prescrizioni del presidente Mattarella è Dario Franceschini, eterno ‘rieccolo’ delle correnti tardodemocristiane, smentita vivente della precarietà del lavoro culturale: chi ha un lavoro più sicuro di lui? Ma sarebbe ingeneroso non vedere che una novità c’è: il nome del Mibact cambia, passando da “Ministero per i Beni e le attività culturali e il turismo” a “Ministero della Cultura”. La Cultura: dunque il Pd ha chiesto qualcosa di femminile. Non è un cambiamento irrilevante. Nel momento in cui si tornava a scorporare il Turismo (ottima cosa, questa: anche se dovuta alla fame di dicasteri di un governo pletorico), ci si è ben guardati dal lasciare lo spazio al patrimonio culturale, così bisognoso di cura e attenzione. E si è preferita una dicitura suggestiva, quanto pericolosa: che lasciasse in ombra la tutela e promuovesse la retorica della cultura. In Italia, infatti, l’abbiamo avuto un Ministero della Cultura (Popolare): lo volle Mussolini nel 1937, e fu cancellato, grazie alla Liberazione, nel 1944. Era il simbolo del controllo del fascismo sulla cultura, sull’espressione, sul pensiero. E fu contro quella stagione orribile che la nostra Costituzione proclama che “Le arti e le scienze sono libere” (art. 33). Quando, nel 1974, Spadolini volle il Ministero alla cui poltrona è oggi incollato l’avvocato ferrarese, lo chiamò (echeggiando riflessioni di Norberto Bobbio) “per i beni culturali” e non “dei beni culturali”: proprio contro quel genitivo che esprimeva un’idea di possesso e direzione della cultura. Ma oggi siamo nell’epoca della Netflix della Cultura e dell’Arena del Colosseo: l’epoca del Ministero DELLA Cultura DI Franceschini. Chiamiamolo pure Ministero della Propaganda.

Quel nuovo governo mi ha chiuso lo stomaco

Avevano tutti la stessa notizia: “Oggi Draghi sale al Quirinale e scioglie la riserva”. Io che ho seguito con una certa passione tutta la vicenda, arrivando ad avere dialoghi diretti con alcuni protagonisti della crisi, mi accorgo che sono in attesa. Nei giorni precedenti mi ero posto il problema di come impedire una scelta che mi avrebbe deluso. (…) Il mondo della politica sciava in fondo al pozzo. E la stampa ci intratteneva con i misteri sulla composizione del governo. Nel tardo pomeriggio arriva la notizia che alle 19.00 Draghi sale al Colle. Accendo la televisione e mi godo lo spettacolo. La politica è un genere di intrattenimento che alle tv porta il vantaggio di non pagare i suoi attori. Ecco le riprese del corteo, ecco la macchina, tedesca e di buona cilindrata, con cui il presidente incaricato entra nel cortile del Quirinale. Una signora elegante accoglie Draghi e lo accompagna dal Presidente. Le immagini tornano in studio, ora si tratta solo di aspettare che il colloquio finisca e finalmente sapremo i nomi dei salvatori dell’Italia. Passano una quarantina di lunghissimi minuti. Draghi legge la lista, non si disperde in frasi retoriche, non c’è una parola di più, solo un lieve indugio per descrivere un nuovo ministero. Per comporre il governo lui si è avvalso di oculatissimo realismo politico, tutto calcolato, nessuna avventura. E io mi chiedo: ma dov’è lo spettacolo? Perché non c’è neppure una persona che sia stata chiamata a rappresentare l’Italia che ho visto ogni sera a Nord e a Sud negli ultimi anni, un’Italia bella che ha cantato assieme a me Bella ciao e che non era necessariamente tutta di sinistra. E se pure io volessi definirmi di sinistra, chi sarebbero oggi i miei rappresentanti al Governo? Dopo cena faccio alcune convulse telefonate all’insegna del motto aver compagno a duol scema la pena, ma mi accorgo che il mio dolore è più grande e me lo dice lo stomaco che si è ammutinato. Quando torno a casa un giornalista del Messaggero mi ricorda le mitiche frasi con cui Draghi ha salvato l’Europa. Quali saranno quelle che salveranno l’Italia?

Arriva l’aria fredda ma le temperature restano troppo alte

In Italia – Il vero freddo invernale è arrivato alla metà di un febbraio che stava passando con temperature da 1 a 3 °C più tiepide del solito. La scorsa settimana le incessanti perturbazioni miti da Ponente hanno aggiunto altre piogge intense e temporali tra Nord-Est, Levante ligure e regioni tirreniche (oltre 150 mm d’acqua sul Matese tra martedì 9 e mercoledì 10). Allagamenti nel Reatino, straripamento del fiume Calore nel Beneventano, cadute di massi su Alpi e Appennini (una vittima in Valtellina), frane e colate di fango sui suoli saturati da due mesi di precipitazioni straordinarie (invase la provinciale della Val di Zoldo, Belluno, e l’autostrada Salerno-Avellino), mentre a Vipiteno crollava il palaghiaccio sotto mezzo metro di neve, una coltre notevole ma non rara per la località. Aria precocemente primaverile con 20 °C a Bari e 21 °C a Catania mercoledì, poi a cambiare di colpo scenario venerdì è dunque intervenuta la bora, impetuosa e gelida. Ieri notte lievi nevicate a Bologna, Torino, Perugia, Arezzo, copiose sui rilievi dall’Abruzzo all’Irpinia (10-30 cm), e nel pomeriggio i termometri superavano di poco lo 0 °C in Valpadana; due morti in un grave incidente dovuto probabilmente al ghiaccio sull’autostrada verso Bardonecchia. Un episodio invernale che in tempi di riscaldamento globale si fa notare, tuttavia breve e non inconsueto, inferiore ai casi del febbraio 2012, gennaio 2017 e febbraio 2018.

Nel mondo – Nel Centro-Nord Europa neve e gelo intenso erano già arrivati da alcuni giorni facendo registrare, a differenza dell’Italia, valori rari a vedersi: -25,6 °C a Sontra (Turingia), battuto il primato del gennaio 1963; -23,0 °C a Braemar (Scozia), temperatura più bassa nel Regno Unito dal dicembre 1995. Poco usuali anche i -7 °C di Parigi e i -16 °C di Basilea. Inoltre circolazione paralizzata per la pioggia congelantesi sull’Ovest francese dalla Bretagna all’Auvergne. Pure negli Stati Uniti grande ondata di freddo che culminerà a inizio settimana, intanto bufere di neve, -15 °C fin nel Texas e sei vittime in un mega-tamponamento su una strada ghiacciata presso Dallas. Ma a fronte di queste temporanee incursioni gelide – legate a un vortice polare debole che quest’inverno lascia facilmente “scappare” aria fredda verso le regioni temperate – le medie globali continuano a mostrare un pianeta troppo caldo: l’agenzia meteo americana Noaa segnala il settimo gennaio più caldo in 140 anni nel mondo, con il contributo dei tepori esagerati in Canada (anche 9 °C sopra media). Non è ancora chiara la dinamica e l’eventuale responsabilità del riscaldamento globale nell’enorme crollo di roccia e ghiaccio del 7 febbraio nel distretto indiano di Chamoli (Himalaya), complesso fenomeno evoluto in violenta colata di acqua e detriti che ha ucciso forse più di 150 persone lungo il fiume Rishiganga. In Marocco, 28 vittime per un’alluvione-lampo che lunedì ha sommerso Tangeri. In Francia fa discutere la proposta di legge su clima e resilienza: il governo la difende, ma gli esperti la ritengono snaturata rispetto ai suggerimenti della “Convention citoyenne pour le climat” da cui deriva, e insufficiente a ridurre le emissioni del 40% al 2030, obiettivo peraltro già superato dalla nuova ambizione europea di giungere a -55%. Intanto, come i vicini d’oltralpe ora anche l’Italia di Draghi si è dotata del Ministero della Transizione Ecologica: la speranza è che il neoministro Cingolani possa promuovere finalmente azioni efficaci senza i soliti compromessi al ribasso con la vecchia economia sviluppista e di stampo fossile. Gli consigliamo di leggere Minuti contati – Crisi climatica e Green New Deal Globale di Noam Chomsky e Robert Pollin (Ponte alle Grazie). Perché il clima va salvato. Whatever it takes.

 

Il bene più grande. Abbiamo bisogno di amore e libertà nella responsabilità

Martedì 16 febbraio si accenderanno i “fuochi della libertà” in una piccola porzione montana delle cosiddette Valli Valdesi, in provincia di Torino, nei pressi di Pinerolo. È la preparazione alla “festa dei Valdesi” del 17 febbraio, celebrata ininterrottamente dal 1848 in memoria dell’Editto di emancipazione di re Carlo Alberto che, da quel giorno, diede dignità e diritti alla minoranza cristiana protestante rendendola parte integrante della comunità nazionale. Un mese più tardi, il 15 marzo, avvenne lo stesso per gli ebrei, e in mezzo, il 4 marzo, ci fu la promulgazione dello Statuto, la prima costituzione italiana per 100 anni, fino a quella repubblicana del 1948. Per valdesi ed ebrei non si trattò di una libertà completa: per i valdesi era esclusa la libertà di culto al di fuori dell’antico ghetto alpino delle valli di Pinerolo e per gli ebrei era esclusa al di fuori delle 23 sinagoghe già presenti nel Regno. Poi la libertà, faticosamente, divenne più ampia per tutti e non solo per le minoranze ebraica e valdese.

Più ampia ma non completa: ancora oggi, dopo 173 anni, le minoranze religiose in Italia (ma anche in Europa, per non parlare di molte altre parti del mondo) soffrono di limitazioni nella libertà di espressione della fede e del culto, soprattutto soffrono di pregiudizi e odio e anche di odio violento. Un passato che non passa, che si vorrebbe archiviato nei magazzini della storia e che invece ritorna in un presente amplificato dalla potenza dei mezzi di comunicazione informatici, come sta accadendo in questi mesi con l’intromissione di gruppi fanatici e antisemiti in incontri telematici che vedono la presenza di ebrei italiani. L’anno scorso la Federazione delle chiese evangeliche italiane aveva dedicato il 17 febbraio all’impegno contro l’antisemitismo e la deriva dell’odio perché: “le parole e le azioni di odio contro gli ebrei sono il primo segnale di una deriva liberticida e di attacco ai principi su cui si basano le nostre democrazie”.

Abbiamo bisogno di pluralismo e rispetto reciproco nelle nostre società moderne, abbiamo bisogno di più libertà responsabile, e abbiamo bisogno anche di più amore responsabile. Scrive l’apostolo Paolo: “Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi amore, sarei un rame risonante o uno squillante cembalo. Se avessi il dono di profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede in modo da spostare i monti, ma non avessi amore, non sarei nulla” (I Corinzi 13,1-2). Quand’anche avessimo tutto, anche ciò che è la nostra massima aspirazione, senza l’amore – e l’amore di Dio in particolare, quello di cui parla Paolo – non siamo nulla. Non solo non abbiamo intelligenza per capire la nostra esistenza e quella degli altri e del mondo, non solo non “abbiamo” nulla, ma non “siamo” nulla. Perché è l’amore che ci salva dal nostro essere perennemente centrati su noi stessi (Martin Lutero, riprendendo Sant’Agostino, ha usato l’espressione latina “homo incurvatus in se”). In questo senso, responsabilità e amore sono la stessa cosa.

Paolo conclude il suo straordinario inno all’amore così: “queste tre cose durano: fede, speranza, amore; ma la più grande di esse è l’amore” (v.13). Perché l’amore è più grande? Perché non è misurabile, è infinito, soprattutto è l’essenza dell’essere di Dio (“Dio è amore”, I Giovanni 4,8). Siccome è grande, l’amore è anche il più difficile da vivere. Anche la fede e la speranza sono difficili da vivere, ma l’amore – che è grande come Dio – è la cosa più difficile e al tempo stesso la più durevole: “non verrà mai meno” (I Corinzi 13,8).