Il governo sarà nuovo, ma ha salmerie vecchie

Quando il cronista di una delle televisioni freneticamente tese a seguire l’evento ha detto “ora ascoltiamo la banda dei Carabinieri, una delle eccellenze d’Italia” mi sono reso conto che stavo assistendo a una delle cerimonie più importanti della vita italiana: l’insediamento di un nuovo governo. L’evento è frequente, nel nostro Paese, ma non ha perso di fascino e di intensa attrazione, tanto più che non esiste l’altra cerimonia, l’uscita del vecchio governo, se non come la routine del passaggio di un campanellino in Parlamento (a volte con reciproco rispetto, a volte no) tra un ex e un nuovo. La frequenza di entrata e di uscita non ha disamorato i nostri concittadini. “Avanti il nuovo” dice sempre il nostro popolo, che abbia votato o no. E ci dimentichiamo in un istante il nome del premier uscente (è il cruccio di Berlusconi, che ce lo ricorda continuamente anche se è legato a parecchi reati e a qualche condanna).

Ci sono state spesso gravi ragioni, civili o penali e di disattenzione internazionale, quando qualcuno, che era arrivato al vertice della vita politica, veniva pregato di andare educatamente alla porta. Questa volta, però, mentre i Carabinieri suonano con entusiasmo ciò che anche gli spettatori e ascoltatori della penisola ascoltano come la celebrazione di una vittoria, si aggira, come una fastidiosa zanzara, la domanda: “sì, ma perché?”

La risposta ovvia e largamente accettata è che B è molto più bravo di A. Questo può sempre accadere, la vita per fortuna ha in serbo talenti (non tanti) che devi saper scoprire e portare al centro appena possibile. Più discutibile è interrompere una gara, per alzare il valore dei contendenti, mentre la gara è in corso. E allora noi, che abbiamo liquidato un laborioso governo, carico di stranezze e sentenze di discutibili garanti e di strane elezioni extraparlamentari (per fortuna inutili) ci troviamo con un governo in parte ottimo (che la banda dei Carabinieri sta celebrando), ma anche con mucchi di polvere restati sotto i tappeti nei tempi andati. Non so se esistano strumenti di misura. Ma l’impressione è che il governo improvvisamente scomparso dal video avesse una buona andatura media nonostante la fatica di trainare certe carriole. E il nuovo governo schiera cavalli impazienti e di razza, e cavalieri coraggiosi in prima fila, ma accoglie fra le salmerie carri carichi di passato che credevamo di avere escluso d’ora in poi dai nostri governi.

A questo punto gli occhi magnetici di Draghi non contano più. La nostra smodata speranza di un nuovo dove tutto odora di vernice fresca e di stanze pulite si assesta non al livello della tensione che abbiamo vissuto in questi giorni, ma a un normale passaggio di giorni e di mesi in cui speriamo di essere all’altezza di una buona stima internazionale. Basta sognare. Ormai c’è un governo.

Un governo è come un treno, o viaggia o sta fermo. Speriamo che viaggi, presto, subito. Qualcuno si chiede: valeva la pena? La domanda non ha senso per chi non milita nella politica. Ma i militanti, come ha rivelato anche questa crisi, sono gente strana. I Cinque stelle vogliono andare in Parlamento per votare su Rousseau (e sono seri, adulti, qualcuno laureato). Gli iscritti del Pd si astengono persino quando al Consiglio Comunale di Genova si vota l’equiparazione fra fascisti (Junio Valerio Borghese) e comunisti (Gramsci). Una astensione come questa spiega agli elettori genovesi che si sono sbagliati e stiano alla larga alle prossime elezioni. Nel treno di Draghi il Pd è rappresentato da tre brave persone. Chissà se li sentiremo mai dire, durante il viaggio breve di qui alla scadenza di Mattarella, una cosa di sinistra.

 

Un’attrice inarrivabile e l’audacia di spirito del “dottor” bitossi

Dai racconti apocrifi di Tom Antongini. Nessuno, in tutta la città, sospettava che Claudette Roquefort alloggiasse da qualche giorno al Grand Hotel, ma Sergio Bitossi, giovane cronista freelance, era cugino di una cameriera ai piani, che gli passò lo scoop. Ancora giovane, la famosa attrice francese aveva al suo attivo un diploma internazionale di bellezza, vari trionfi sulla scena, uno scandalo a Berlino, una commedia audacissima chiusa dopo la prima per diretto interessamento del Quay d’Orsay, un flirt con Yves Montand, il suicidio di un musicista brasiliano, un ceffone dato in pubblico a Onassis e il lancio di un nuovo modello di costume da bagno: dunque era una donna che, dal punto di vista giornalistico, batteva per interesse la crisi del governo Fanfani IV. Bitossi voleva scoprire il perché di quell’arrivo in incognito: un articolo così, qualunque settimanale scandalistico gliel’avrebbe pagato parecchio. La cugina lo informò che Claudette, quella mattina, aveva fatto chiamare il dottore. Bitossi pensava di bloccarlo appena uscito dalla stanza della paziente, invece lo trovò che passeggiava nel corridoio, visibilmente contrariato. “Salve. Bitossi, del Mondo”, mentì. “Frugoni”, disse l’altro, col tono di chi non ha tempo da perdere. “Lei è il medico curante della signorina Roquefort?” “Egregio signore, per sua norma sono un professionista serio che (consultò l’orologio) da ben 24 minuti attende in un corridoio i comodi di un’attricetta viziata che mi ha fatto chiamare d’urgenza, mentre i miei pazienti, di cui alcuni gravi, gravissimi, attendono in ambasce”. Un gaio trillo di riso, proveniente dalla suite della malata, fu la goccia che fece traboccare il vaso: il professor Frugoni espresse tutta la sua indignazione con un suono gutturale, estrasse da un divano una valigetta nera e, salutato Bitossi con un “Piacere!” di mera urbanità, sprofondò nel pavimento con l’ascensore. Bitossi era abbandonato da mezz’ora tra le braccia di una poltrona di cuoio, quando una porta bianca si aprì, e la giovane diva, in un sontuoso kimono celeste di seta a pavoni, lo fece entrare con mille scuse. Pochi minuti dopo, mademoiselle Roquefort era sdraiata sul letto, il polso sottile tra le dita del giornalista. L’anamnesi fu inconsueta: il dottore le domandò di tutto, dai suoi progetti di lavoro al suo giudizio sul cinema italiano. Gentiluomo, non volle abusare della fortuna oltre il necessario: limitò l’esame obiettivo a quel poco che l’indumento lasciava intravedere. Quando pensò di aver concluso l’intervista, si alzò, riassumendo vagamente una diagnosi: non era che un po’ di stress. Niente medicine: con due o tre giorni di vacanza si sarebbe completamente ristabilita. Le consigliò Capri.

L’intervista, pubblicata da Le ore, ebbe successo, e piacque anche al più celebre collaboratore del periodico, Salvatore Quasimodo, fresco di Nobel. Claudette, invece di denunciare tutti, partì per Capri con un industriale torinese dell’automobile (non lui, l’altro).

L’estate seguente, su un piccolo battello diretto all’isola, Sergio Bitossi vide avanzare verso di sé la figura slanciata di una giovane donna dal viso pieno di salute, di sole, di vento, come appena uscita dal manifesto di una compagnia di navigazione: Claudette Roquefort, accompagnata da un gentiluomo gagliardo che aveva tutta l’aria di essere un torero spagnolo. Bitossi già immaginava di doversi difendere a cazzotti dal caballero, quando la bella attrice lo salutò col più affascinante dei sorrisi: “Dottore! Dovrei rimproverarvi, ma non serbo alcun rancore: meritate anzi la mia riconoscenza. Siete il solo medico che abbia compreso la mia malattia!” Bitossi le indirizzò un piccolo applauso: seguirono le presentazioni.

 

Mail box

 

 

Ho proiettato il quesito su Rousseau nel 1947

Agli iscritti al 5Stelle è stato proposto il seguente quesito: “Sei d’accordo che il MoVimento sostenga un governo tecnico-politico, che preveda un super-Ministero della Transizione Ecologica e che difenda i principali risultati raggiunti dal MoVimento, con le altre forze politiche indicate dal presidente incaricato Mario Draghi”. Ho pensato a un possibile quesito presentato nel 1947 agli iscritti alla Democrazia Cristiana: “Sei d’accordo che al governo del Paese vada Alcide De Gasperi, segretario della Democrazia Cristiana, con sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giulio Andreotti, nel rispetto dei diritti della Chiesa Cattolica e dell’alleanza con gli Stati Uniti d’America e con l’esclusione del Partito Comunista da qualsivoglia governo?” e a un potenziale quesito nello stesso periodo, agli iscritti al Pci: “Sei d’accordo che il Partito Comunista Italiano rimanga nel Comintern, alleato del Partito Comunista Sovietico, guidato dal compagno Giuseppe Stalin, erede del compagno Lenin e vincitore della seconda guerra mondiale, per la difesa dei lavoratori italiani e contro il capitalismo?”. Quali sarebbero stati gli esiti dei due quesiti?

Guariente Guarienti

 

Addio a Paolo Isotta, mancherà a tutti noi

Intendo esprimere al direttore e a tutta la redazione del Fatto il mio profondo cordoglio ed il mio grande dispiacere per la scomparsa del grande Paolo Isotta. Ho provato tanta soddisfazione ed orgoglio quando l’ho visto entrare nel nostro giornale che è diventato anche il suo. Grande critico musicale ma anche grande umanista, di cultura immensa.

Livio Pilat

 

Il mio sogno: De Masi e Davigo nell’esecutivo

Cari Travaglio e Padellaro, come voi ho fatto un sogno, ma a differenza vostra non era un incubo. Ho sognato Domenico De Masi al Ministero del Lavoro e Davigo a quello della Giustizia!

Alessandro Colombera

 

La lista dei nuovi ministri mi ha terrorizzato

Ascoltando la televisione e sentendo i nomi dei ministri sono rimasto esterrefatto, anche se me lo aspettavo. E questo sarebbe il governo di alto profilo? Ringrazio tutta la redazione del Fatto di esistere, continuate nelle vostre battaglie.

Roberto M.

 

L’Innominabile esulta, ma non guarda ai numeri

Nel governo Conte, Renzi aveva due ministri e i suoi parlamentari erano indispensabili per garantire la maggioranza. Nel governo Draghi, Italia Viva ha un solo ministro e non ha alcun potere di ricatto. Stando ai soli numeri, quindi, Renzi non sembra aver fatto la mossa del cavallo, ma quella dell’asino. Eppure il nostro è su di giri e si mostra euforico. Mah…

Domenico Forziati

 

Lo spunto che mi ha dato la dichiarazione di Grillo

A sentir Beppe Grillo dire: “Draghi sembra uno di noi…”, mi è venuta in mente quella storiella turca: “… perché l’ascia era furba e li aveva convinti (gli alberi), ancora una volta, che era una di loro, perché aveva il manico di legno”.

Cesare Fioravanti

 

Un Movimento nazionale che deve rigenerarsi

Durante il periodo “Vaffa”, Grillo mobilitò il grande malcontento nella nostra società. Grillo dette vita al M5S con la partecipazione della popolazione ai MeetUp dove incominciò ad aprire gli occhi sulla politica. La popolazione si innamorò di essere parte attiva e spinse verso MeetUp regionali. Grillo, invece di fornire regole, li abbandonò e anche se alle regionali del 2015 riuscì a ottenere un buon numero di consiglieri, Casaleggio giudicò il risultato negativo e li bloccò. Nel 2015, con una lettera firmata da Fico e Di Battista ai MeetUp, venne negata la rappresentatività del M5S e di utilizzare il simbolo. Oggi i MeetUp sono pochi e non più funzionali. Grillo non capì che era la popolazione a dar vita ai MeetUp e dunque al M5S. Con quella lettera misero il M5S in mano agli “eletti”. Nelle elezioni politiche del 2018 il M5S aveva la maggioranza e imponeva l’agenda politica. Con Draghi ha 4 ministri al posto di 9. Il M5S ha mancato di coraggio: doveva puntare a nuove elezioni a giugno 2021, rigenerandosi!

Eugenio Girelli Bruno

 

Vi propongo una poesia sulla situazione politica

Vivon volanti Draghi lungo il Nilo

cercando pesciolon d’alto profilo

ma mentre Tosca Serpe i denti

aguzza

spargon nell’aer soci fetida puzza.

Mosche cocchiere zampettano

sul mulo

e fanno a gara per leccargli il culo

ma quando poi la nebbia si dirada

s’accorgon d’esser finiti fuori strada.

Luigi Caroli

 

Senza strategia e mezzi, Renzi in realtà ha perso

Vedo un Renzi gongolante sugli schermi e “modesto” nel rilasciare interviste ai giornali stranieri in cui si intesta l’operazione Draghi. Se l’orizzonte entro cui si muove è quello italiano, in questo momento Salvini è entrato nello spazio centrista e ha occupato il luogo naturale a cui Renzi poteva aspirare. Se l’orizzonte è entrare da pari nelle élite internazionali, il nuovo Machiavelli ha invertito il fine con il mezzo.

Maria Zorino

 

Salvini resta leghista e contro l’immigrazione

C’è chi è convinto che, con l’improvvisa inversione spericolata, Salvini abbia cambiato idea su migranti, Ue e banchieri di Dio. Perfino Adriano Celentano ha apprezzato l’audace “conversione” del leader della Lega. Ma Matteo rimane sempre padano e, nelle ore in cui Draghi presentava la lista dei ministri, esaltava ancora una volta la sua fiacca e securitaria politica migratoria: “Una delle non molte cose che ho detto a Draghi è che a Lampedusa la musica deve cambiare”.

Marcello Buttazzo

 

I piani alti rassicurarono la nostra lince di Rignano

Ma credete veramente che Renzi abbia mandato all’aria il governo precedente, senza avere la copertura e la sicurezza che non si sarebbe andati comunque a elezioni anticipate? Assicurazione senz’altro ricevuta dai piani alti della Presidenza che voleva Draghi.

Paolo Bravi

Prima Mario, poi ancora Draghi

 

 

“In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi, nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni. E si può dire che è finito”.

Ignazio Silone “Fontamara”

 

In capo a tutti c’è Mario Draghi. Poi, Mario Draghi. Poi, Mario Draghi. Perché il governo Draghi è Mario Draghi, questo ognuno lo sa. Poi c’è il consiglio della corona di Mario Draghi: Daniele Franco (Economia); Vittorio Colao (Transizione digitale); Roberto Cingolani (Transizione Ecologica). Con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Roberto Garofoli, maestro di palazzo. Poi c’è il gabinetto di guerra: Luciana Lamorgese (Interni); Marta Cartabia (Giustizia); Patrizio Bianchi (Istruzione); Roberto Speranza (Salute); Enrico Giovannini (Trasporti). Poi vengono le guardie di partito: per il M5S, Luigi Di Maio (Esteri); per il Pd, Andrea Orlando (Lavoro); per la Lega, Giancarlo Giorgetti (Sviluppo economico); per Forza Italia non si sa. Poi, nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi ci sono gli altri ministri. E si può dire che è finito.

Antonio Padellaro

Catto-complotto contro Conte: mani sui fondi Ue

Diceva il “divo Giulio”, che per competenza, conoscenza dell’Italia, sia in senso storico che amministrativo, intelligenza, arguzia e stile sta cinque spanne sopra i nani di oggi e che in qualsiasi altro paese europeo sarebbe stato un grande uomo di Stato, ma che in Italia ha dovuto essere una sorta di ircocervo, metà uomo di Stato e metà, forse, delinquente (anche se è sempre uscito indenne dalle sue vicende giudiziarie difendendosi nei processi, al pari di Forlani, come deve fare un politico che abbia il senso delle Istituzioni), diceva quindi Andreotti che “a pensar male si fa peccato, ma ci si azzecca quasi sempre”.

Quindi faremo anche noi, in questo Paese zeppo di cattolici, che non vuol dire cristiani, un cattolico processo alle intenzioni. Il Recovery Fund di 209 miliardi, il massimo ottenuto da un paese Ue, grazie a Giuseppe Conte con l’appoggio decisivo di Angela Merkel, ci è stato accordato il 21 luglio 2020. È da quel momento che il catto-boyscout Matteo Renzi comincia a tirare la corda e a fare il suo sordido lavorio per abbattere Conte. Perché quei miliardi facevano gola a molti, banchieri, finanzieri, persone irreprensibili perché vestono in giacca e cravatta e pranzano all’ora di pranzo e cenano all’ora di cena, partiti, e si sapeva benissimo che Conte può avere molti difetti – io non ne vedo – ma non era moralmente corruttibile. Quindi andava fatto fuori. Da qui parte la trama ordita, concordemente, dal catto-boyscout, dal catto-Tatarella e dal catto-banchiere di “altissimo profilo” Mario Draghi. Questa, secondo me, posso sbagliare naturalmente, è la storia di quel golpe di Stato mascherato che ha portato al governo Draghi, altrimenti non si spiegherebbe come l’attuale governo che pantografa sostanzialmente quello precedente tenga insieme tutti, il diavolo e l’acqua santa, però con la decisiva esclusione di Conte (oltre che, per ovvi interessi berlusconiani, di Bonafede).

Messaggio per il cattolico Marco Travaglio. In questa fogna di paese chiamato Italia siete tutti cattolici. Questo non ti fa venire qualche dubbio non sulla tua fede, che son cazzi tuoi, ma sulla potenza che il cattolicesimo, che non ha nulla a che vedere col cristianesimo, cioè coll’affascinante borderline di Nazareth, ha assunto negli ultimi decenni in Italia? In fondo a tener fede alle parole del laico e liberale Camillo Benso di Cavour, “libera Chiesa in libero Stato”, sono stati proprio i democristiani a partire da don Sturzo passando per De Gasperi ed arrivando a Fanfani e alla sua generazione. Adesso abbiamo uno Stato prigioniero dell’ipocrisia cattolica, dei catto-boyscout, dei catto-banchieri, l’unica vera e sola Santissima trinità.

Lo strano caso del programma che nessuno sa

Del governo Draghi ormai sappiamo quasi tutto. Il presidente Mattarella lo ha voluto “di alto profilo” e “che non debba identificarsi con alcuna formula politica”. Adesso sappiamo anche i nomi dei ministri e quali partiti gli hanno garantito la fiducia. Manca solo un piccolo particolare: il programma. In proposito, il buio è totale. L’arcano si svelerà solo mercoledì prossimo al Senato.

Non credo di peccare di lesa maestà chiedendomi se ciò sia normale. Per avanzare supposizioni su quale programma di governo intenda mettere in atto il presidente del Consiglio, al momento, l’opinione pubblica può risalire solo a due interventi dello scorso anno di Mario Draghi: un articolo pubblicato dal Financial Times il 26 marzo 2020; e il discorso tenuto al meeting di Rimini il 18 agosto 2020. Nient’altro. Mi sembra un po’ pochino.

Ho molto invidiato il direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana, ospite insieme a me venerdì sera di una trasmissione televisiva, quando ci ha preannunciato che Draghi modificherà “in quattro o cinque punti” il piano per il Recovery Fund. Quali punti modificherà, non l’ho letto neanche sul suo giornale.

Orbene, non discuto la correttezza della procedura costituzionale secondo cui il programma di governo va illustrato davanti al Parlamento. Né oso mettere in dubbio l’autorevolezza del premier cui tutti rendono omaggio. Voglio sperare che nel corso delle consultazioni i rappresentanti di partito ne abbiano saputo di più; anche se le cronache riferivano di un Draghi taciturno, propenso ad ascoltare e prendere appunti piuttosto che a scoprire le carte. Resta il dubbio che anche loro gli abbiano dato fiducia a scatola chiusa.

C’è chi sostiene che l’Italia, per salvarsi, necessiti di un “dittatore benevolo”. Sarà, ma intanto la prima a venir sacrificata sull’altare della tecnocrazia è stata la trasparenza.

Eroe e genio: tra giasone, Nina Simone e Copernico

 

 

 

• Il metodo Draghi cambia tutto. Segna una rivoluzione copernicana. E agisce come uno choc sul sistema dei partiti che sembrano spaesati, (…) di fronte a questo cambio di paradigma repentino e sconvolgente. Per loro, ma non per i cittadini.

 

• Nasce un Gran Governo del cambiamento. Populismi respinti, europeismi, execution, novità e continuità. Le cinque svolte dell’èra Draghi.

 

• Draghi chiama alla Giustizia Marta Cartabia. Ex presidente della Corte Costituzionale, ridente alpinista, eterna riserva delle istituzioni, giurista di grandissimo valore. Passare da Alfonso Bonafede a Marta Cartabia, al ministero di Grazia e Giustizia, è come togliere Al Bano e mettere Nina Simone.

 

• Cingolani è soprattutto un uomo di grandi progetti, uno con lo spirito di Giasone, l’eroe che guidava gli argonauti.

Cassese non sta nelle pelle: “È roba mia”

Magari è solo mitomania. O magari è la voglia irrefrenabile di lasciare tracce. Fatto sta che per la contentezza Sabino Cassese non si è tenuto. L’ex giudice costituzionale, principe degli amministrativisti e voce ascoltatissima di quel che resta dell’establishment italiano, dopo aver passato gli ultimi mesi a bombardare il governo Conte si è sfogato ieri su Repubblica e Stampa. Il nuovo esecutivo gli piace assai, ci si identifica (“è in linea con le mie personali aspettative”). Con quel “bilanciamento” fra tecnici e politici e quella ”somiglianza” con il governo Ciampi (di cui fu parte) che promette così bene. Il nostro si duole solo che possa finire: invece non dev’essere “a termine” ma durare, magari finché lo decide lui. Che la gioia di Cassese nasca dal ritorno al potere dello stuolo dei suoi affamati allievi con ottime entrature al Quirinale è solo un malevolo retropensiero. “Il Paese ora chiede sicurezza”, ha spiegato. E pazienza se la più importante è quella del posto di lavoro per i suoi amici.

Catanzaro, 2 telefonate al Colle nella guerra contro De Magistris

Catanzaro, 2 dicembre 2008, ore 16.01 e 33 secondi. Dalla procura generale parte una telefonata al numero fisso del segretariato generale della presidenza della Repubblica. Durata della chiamata: 75 secondi. Altra telefonata alle 17.47 : la conversazione dura 70 secondi. Perché la procura generale di Catanzaro – per la precisione il procuratore Enzo Iannelli – parla per ben due volte con il Quirinale? Il dato, che oggi il Fatto Quotidiano è in grado di rivelare, mette al suo posto un tassello importante di quella giornata, passata alla storia come il giorno dello “scontro tra procure”.

I pm di Salerno Gabriella Nuzzi (foto a sinistra) e Dionigio Verasani, con un atto firmato anche dal procuratore Luigi Apicella, stanno perquisendo i colleghi della procura di Catanzaro: più volte avevano chiesto, senza alcun risultato, la copia di atti che riguardavano l’inchieste Why Not e Poseidone (nei quali erano stati indagati il premier Romano Prodi e il ministro di Giustizia Clemente Mastella, che saranno poi archiviati). La procura di Salerno agisce in base alle norme sulla competenza e su denuncia dell’allora pm Luigi de Magistris: vuol capire perché i fascicoli fossero stati tolti all’attuale sindaco di Napoli e ipotizza vari reati a partire dall’abuso d’ufficio. A settembre Iannelli aveva segnalato al Csm le richieste – che non riteneva corrette – giunte dai colleghi di Salerno. Il Csm però non aveva risposto. La tensione culmina il 2 dicembre, quando avvengono le perquisizioni, che costeranno una condanna disciplinare ai magistrati di Salerno e anche ai colleghi di Catanzaro che, il 4 dicembre, decidono di “contro-sequestrare” il sequestro e, a loro volta, inscrivono nel registro degli indagati i magistrati campani che li stanno indagando. Un corto circuito completo.

Palamara, in un passaggio del libro “Il Sistema”, al direttore del Giornale Alessandro Sallusti – che gli chiede: “De Magistris andava fermato?” – risponde: “Diciamo che la decisione è di provare ad arginarlo, il ‘sistema’non può permettersi una cosa del genere (…). Lo scarichiamo e condividiamo questa scelta con il Quirinale (…). Ci furono pressioni politiche per scaricare De Magistris perché quell’inchiesta andava a colpire un governo di sinistra? Il governo era di sinistra, il mio sistema di riferimento anche, lascio a voi le conclusioni”. L’Anm guidato da Palamara scaricò i tre magistrati di Salerno, che furono immediatamente puniti dal Csm, al pari di quelli di Catanzaro colpevoli di aver indagato i loro indagatori e di aver contro-sequestrato un sequestro di atti.

Iannelli ha avanzato ricorso contro la sua condanna disciplinare alla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha dichiarato ammissibile la sua richiesta, e negli atti si legge un ulteriore dettaglio nelle ore della perquisizione dei pm di Salerno: “Rispetto a tale sconcertante quadro (…) il dottor Iannelli (…) procedeva a notiziare dell’avvenuto (…) il presidente della Repubblica, in qualità di presidente del Csm, trasmettendo (…) copia del decreto (di perquisizione, ndr) oltre a ulteriore informativa inviata al Comitato di presidenza del Csm e alla procura generale della Cassazione”. Napolitano viene quindi informato in tempo reale, alle 16.01 del 2 dicembre appunto, di quel che sta accadendo, quando Iannelli parla con il consulente giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio. Poi gli invia un fax che il Fatto rivela in esclusiva e con il quale informa Napolitano di “fatti gravissimi, eversivi delle istituzioni che in questo momento si stanno svolgendo (…)”. Iannelli sostiene che la procura di Salerno stia “tesaurizzando acriticamente le propalazioni” di De Magistris. È un corto circuito totale: a prescindere dal suo intento – diamo per scontato che fosse, dalla sua prospettiva, a fini di giustizia – Iannelli, che in quel momento è indagato (poi sarà archiviato, ndr) coinvolge direttamente Napolitano giudicando negativamente l’indagine che lo riguarda. Aggiunge che il procedimento ha “l’evidente fine” di “ricercare ancora dati a sostegno dell’ipotizzato complotto contro De Magistris” peraltro proprio mentre a Catanzaro sono pronti a chiudere Why Not e Poseidone con dei capi d’accusa. E chiede l’intervento di Napolitano “per ripristinare con la massima tempestività le basi fondanti dell’Ordine giudiziario”. Due giorni dopo, il 4 dicembre, il segretario generale di Napolitano, Donato Marra, citando la lettera inviata da Iannelli, chiede alla procura generale di Salerno di inviargli atti e notizie che riguardano la vicenda. Sembra un punto a favore di Iannelli e dei sui colleghi che, però, saranno condannati in sede disciplinare. “La nostra condanna – dice oggi Iannelli – è una vergogna nella storia della magistratura. Io mi aspettavo la tutela del Presidente. Mi chiedo perché siamo arrivati a questa soluzione. Quel sequestro era l’unico modo che avevamo per sottoporre la questione dinanzi a un giudice. Ma poi sono stato convocato dal procuratore generale della Cassazione e sono stato indotto – e immagino anche i colleghi di Salerno – a ritirare il nostro sequestro. Ritengo che il procuratore sia stato a sua volta indotto da Napolitano a farmi questa richiesta”. Resta il fatto che la procura di Salerno non potè mai consultare gli atti sequestrati. Ma di cosa parlò Iannelli con D’ambrosio? “Gli dissi che stava accadendo qualcosa di grave. Lo avvertii che stavo inviando una lettera a Napolitano. Lui poi mi chiamò: ‘Il presidente l’ha letta e l’ha apprezzata’. Non parlammo del contro-sequestro. Nei giorni seguenti gli chiesi di incontrare Napolitano per spiegargli la mia scelta ma l’appuntamento non fu fissato”.

Aiuti a 50 ditte “fantasma” Morandi, aperta l’inchiesta

L’intento sulla carta era nobile: risollevare un’economia in ginocchio, appena colpita dal crollo del Ponte Morandi. Un disastro senza precedenti. Centinaia di aziende sull’orlo del fallimento. Migliaia di lavoratori licenziati o in cassa integrazione. Un porto fermo per mesi. Negozi improvvisamente vuoti e isolati. Come in molte altre emergenze italiane, è nello stanziamento dei fondi che qualcosa è andato storto. Una pioggia di milioni è stata riversata su Genova, sostanzialmente senza alcun controllo. E adesso sugli sprechi indagano la Procura e la Guardia di Finanza.
Una parte dei fondi previsti dal Decreto Genova, erogati come aiuti una tantum (15mila euro per ogni titolare di ditta individuale), hanno tagliato fuori piccole e medie imprese della zona più colpita, la Valpolcevera, per questioni burocratiche legate alla formulazione dei bandi. Una seconda parte, la cosiddetta istituzione di una “zona franca fiscale”, è arrivata invece attraverso incentivi fiscali, assegnati a imprese già esistenti o a start up. Ed è qui che si è materializzato il peggiore finale di quasi ogni emergenza italiana. Gli aiuti sono finiti a decine di aziende fantasma, società con sedi fittizie, teste di legno, professionisti che hanno creato scatole vuote al solo scopo di capitalizzare e rivendere gli sconti fiscali. Tra i beneficiari c’è addirittura un’azienda sotto sequestro antimafia, perché ritenuta di fatto di proprietà di un boss della ‘ndrangheta.
Nelle scorse settimane i militari del Primo Gruppo (coordinati dal colonnello Ivan Bixio) e del Nucleo Metropolitano (guidati dal colonnello Giampaolo Lo Turco) hanno consegnato ai magistrati una prima informativa che spalanca uno scenario sconfortante. I casi più eclatanti riguardano una decina di beneficiari, palesemente irregolari. Ma nel primo monitoraggio ci sono quasi cinquanta società. E il numero, secondo chi indaga, è destinato a salire esponenzialmente. Gli accertamenti saranno estesi a tutti gli elenchi, che riguardano migliaia di aziende.
Sono due le ipotesi di reato. La prima è di truffa ai danni dello Stato ed è affidata al pool genovese che si occupa di reati contro la pubblica amministrazione, procuratore aggiunto Vittorio Ranieri Miniati e il pm Francesco Cardona Albini. La seconda esplora il mondo dei reati tributari, collegati alla cessione indebita del credito d’imposta: un mercato degli sgravi che, ottenuti da ditte che formalmente ne avrebbero diritto, vengono poi incamerati da altre società che non hanno nulla a che vedere con la tragedia del Ponte Morandi. Ovvero con la ragione per cui il governo aveva stanziato i fondi. In entrambi i casi, si profila l’ipotesi di indebita percezione di soldi pubblici.
C’è inoltre un terzo filone, ancora tutto da esplorare, non meno interessante. Chi doveva vigilare sull’assegnazione di quei fondi? E perché, aldilà di pochi criteri formali, non sono stati introdotti meccanismi di controllo adeguati? Sono domande che derivano da una prima constatazione degli inquirenti: non si tratta di casi isolati. Il vaglio di possibili contestazioni in questo caso è molto ampio. Si va da rilievi amministrativi fino a veri e propri reati, passando per il sospetto di danno erariale, su cui indaga anche la Corte dei Conti.
La relazione è stata anticipata da una visita della Finanza presso la sede della Regione Liguria, che ospita gli uffici del commissario all’emergenza Giovanni Toti. Dal governatore sono passati soprattutto i 31 milioni di euro previsti negli aiuti “una tantum”. La gestione di questi fondi è stata contestata in modo molto polemico dal Comitato Zona Arancione, che raggruppa decine di imprese radicate a ridosso del Ponte Morandi rimaste fuori dagli aiuti: “Il governo aveva stanziato i fondi, ma non sono nemmeno riusciti a spenderli tutti – attacca il presidente Massimiliano Braibanti – Sono avanzati 16 milioni che ora, forse per ragioni di consenso, si sta cercando di dare a pioggia in tutta la Liguria”. Le proteste degli imprenditori si concentrano soprattutto su due criteri di distribuzione: l’esclusione delle srl dai destinatari degli aiuti e la necessità di dimostrare di aver chiuso per almeno 4 giorni (molti commercianti, di fronte all’emergenza, hanno fatto l’esatto contrario). Su questi punti Toti ha sempre dato la responsabilità al governo giallo-verde: “Hanno fissato loro i paletti”.
La zona franca urbana è invece materia del Ministero dello Sviluppo Economico, che si è rivolto al commissario all’Emergenza per disegnare la cartina entro la quale dovevano essere comprese le aziende destinatarie degli aiuti: “Dopo averci chiuso la porta in faccia – conclude Braibanti – è arrivata la beffa: la platea di chi ha avuto accesso a questi aiuti si è allargata in un modo per noi inspiegabile”.