Quando il cronista di una delle televisioni freneticamente tese a seguire l’evento ha detto “ora ascoltiamo la banda dei Carabinieri, una delle eccellenze d’Italia” mi sono reso conto che stavo assistendo a una delle cerimonie più importanti della vita italiana: l’insediamento di un nuovo governo. L’evento è frequente, nel nostro Paese, ma non ha perso di fascino e di intensa attrazione, tanto più che non esiste l’altra cerimonia, l’uscita del vecchio governo, se non come la routine del passaggio di un campanellino in Parlamento (a volte con reciproco rispetto, a volte no) tra un ex e un nuovo. La frequenza di entrata e di uscita non ha disamorato i nostri concittadini. “Avanti il nuovo” dice sempre il nostro popolo, che abbia votato o no. E ci dimentichiamo in un istante il nome del premier uscente (è il cruccio di Berlusconi, che ce lo ricorda continuamente anche se è legato a parecchi reati e a qualche condanna).
Ci sono state spesso gravi ragioni, civili o penali e di disattenzione internazionale, quando qualcuno, che era arrivato al vertice della vita politica, veniva pregato di andare educatamente alla porta. Questa volta, però, mentre i Carabinieri suonano con entusiasmo ciò che anche gli spettatori e ascoltatori della penisola ascoltano come la celebrazione di una vittoria, si aggira, come una fastidiosa zanzara, la domanda: “sì, ma perché?”
La risposta ovvia e largamente accettata è che B è molto più bravo di A. Questo può sempre accadere, la vita per fortuna ha in serbo talenti (non tanti) che devi saper scoprire e portare al centro appena possibile. Più discutibile è interrompere una gara, per alzare il valore dei contendenti, mentre la gara è in corso. E allora noi, che abbiamo liquidato un laborioso governo, carico di stranezze e sentenze di discutibili garanti e di strane elezioni extraparlamentari (per fortuna inutili) ci troviamo con un governo in parte ottimo (che la banda dei Carabinieri sta celebrando), ma anche con mucchi di polvere restati sotto i tappeti nei tempi andati. Non so se esistano strumenti di misura. Ma l’impressione è che il governo improvvisamente scomparso dal video avesse una buona andatura media nonostante la fatica di trainare certe carriole. E il nuovo governo schiera cavalli impazienti e di razza, e cavalieri coraggiosi in prima fila, ma accoglie fra le salmerie carri carichi di passato che credevamo di avere escluso d’ora in poi dai nostri governi.
A questo punto gli occhi magnetici di Draghi non contano più. La nostra smodata speranza di un nuovo dove tutto odora di vernice fresca e di stanze pulite si assesta non al livello della tensione che abbiamo vissuto in questi giorni, ma a un normale passaggio di giorni e di mesi in cui speriamo di essere all’altezza di una buona stima internazionale. Basta sognare. Ormai c’è un governo.
Un governo è come un treno, o viaggia o sta fermo. Speriamo che viaggi, presto, subito. Qualcuno si chiede: valeva la pena? La domanda non ha senso per chi non milita nella politica. Ma i militanti, come ha rivelato anche questa crisi, sono gente strana. I Cinque stelle vogliono andare in Parlamento per votare su Rousseau (e sono seri, adulti, qualcuno laureato). Gli iscritti del Pd si astengono persino quando al Consiglio Comunale di Genova si vota l’equiparazione fra fascisti (Junio Valerio Borghese) e comunisti (Gramsci). Una astensione come questa spiega agli elettori genovesi che si sono sbagliati e stiano alla larga alle prossime elezioni. Nel treno di Draghi il Pd è rappresentato da tre brave persone. Chissà se li sentiremo mai dire, durante il viaggio breve di qui alla scadenza di Mattarella, una cosa di sinistra.