Mezza Italia con l’incubo varianti e in Umbria dilaga la “brasiliana”

L’unico focolaio della variante brasiliana in Italia, dicono al ministero della Salute, è quello di Perugia, che coinvolge l’ospedale Santa Maria dellaMisericordia/Silvestrini. Gli altri sono casi sporadici. È la variante che preoccupa di più. Tra ospedale e Rsa ci sono 98 vaccinati contagiati e 42 reinfezioni. “Ma nessuno si è contagiato a 7 giorni dalla seconda dose, erano fra la prima e la seconda o appena dopo la seconda”, spiega Antonella Mencacci, direttrice del laboratorio di Microbiologia dell’ospedale. Proprio ieri il ministro della Salute Roberto Speranza ha prorogato il blocco dei voli dal Brasile, può rientrare solo chi ha la residenza in Italia (1.500 italiani sono bloccati lì dal 15 gennaio) e i “casi eccezionali”, con doppio tampone in partenza e all’arrivo e isolamento obbligatorio. Test e isolamento anche per chi arriva dall’Austria perché in Tirolo c’è la variante sudafricana: nel confinante Alto Adige non l’hanno ancora trovata ma i contagi aumentano, forse non la cercano abbastanza.

L’Umbria è in ginocchio, peggio della prima e della seconda ondata, l’ospedale è sotto accusa: “Misuravano solo la temperatura, facevano entrare un po’ tutti”, spiega un infermiere. Si diffonde anche la variante inglese, le terapie intensive sono al doppio della soglia critica e si cercano quasi 500 medici e infermieri. La Regione è arancione, la presidente Donatella Tesei ha ordinato la zona rossa nella provincia di Perugia e in alcuni comuni del Ternano. Il Tar però ha riaperto le scuole materne.

Anche in Abruzzo le varianti dilagano, sono “inglesi” fino al 50% dei contagi a Pescara e in alcune zone del Chietino. Al Pronto soccorso di Pescara arrivano 30/40 pazienti Covid acuti al giorno, mai visti prima. Anche lì però riaprono le scuole. In Lombardia, secondo l’assessorato ora diretto da Letizia Moratti, “le varianti del Covid-19 sono il 30% dei tamponi positivi e potrebbero arrivare nelle prossime settimane al 60/80%. Al 10 febbraio 128 casi di varianti: quasi esclusivamente inglese (126), in un caso brasiliana, in un altro sudafricana”. In Puglia sono al 15%. A livello nazionale, secondo l’indagine resa nota venerdì dall’Istituto superiore di sanità (Iss), la variante inglese è stata rintracciata nel 17,8% dei casi del 3 e 4 febbraio, quasi uno su cinque: non sembra resistere ai vaccini né risulta più letale, ma avendo una trasmissibilità fra il 30 e il 70% superiore potrebbe moltiplicare i contagi, quindi i casi gravi e i decessi, almeno in assenza di misure restrittive. “In 5/6 settimane può sostituire il virus attuale” ha detto il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro. L’indagine sarà ripetuta il 19 e il 20 febbraio per vedere la tendenza. Come in Francia: a gennaio era il 13-14% e un mese dopo il 27%, mentre i contagi sono stabili. In Danimarca il lockdown ha abbattuto i contagi, ma la variante inglese è cresciuta in sei settimane dal 2,4 al 27,1%. Nel Regno Unito, dove pure i casi scendono, è al 97%.

Il problema resta il sequenziamento. L’Italia era a meno di mille sequenze a dicembre, l’ultimo dato sulla piattaforma internazionale Gisaid è 3.250. Se il Regno Unito resta lontano a 161.174 e l’Olanda ne ha 7.020, la Francia è a 4.855 e la Germania a 3.575. Anche loro sono partiti tardi. Noi però andiamo in ordine sparso. “Liguria ed Emilia non hanno ancora mai sottomesso una sequenza, la Calabria ha iniziato solo un mese fa. Non c’è un database del ministero ma solo Gisaid, su base volontaria. E nessuna indicazione dal ministero”, osserva Antonio Parisi, direttore sanitario vicario dell’Istituto Zooprofilattico di Puglia e Basilicata. Le sequenze arrivano tardi, anche dopo 4-5 mesi. “E puntare sulla sola variante inglese è un problema, bisogna sequenziare a campione”, sottolinea Graziano Pesole, ordinario di Biologia molecolare a Bari. Il Consorzio su modello inglese, annunciato da ministero e Iss, non c’è ancora. C’è tensione tra virologi e genetisti. “C’è chi pensa che coinvolgendo i laboratori di genomica si possa perdere il controllo”, dice Pesole, che ha accumulato centinaia di sequenze. “Possiamo fare 2/3mila campioni al giorno a 30 euro l’uno, siamo a disposizione da marzo”. I contatti con l’Iss ci sono. Bisogna solo accelerare.

Sanità, la Lega vuole un posto. Arcuri e Cts verso riconferma

L’unico indizio è la permanenza di Roberto Speranza al vertice del ministero della Salute, la motivazione è quella con cui il professor Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità, ne aveva invocato la riconferma sulle colonne di questo giornale: “Speranza ha ora conoscenze che chiunque altro dovrebbe acquisire con tempi necessariamente lunghi in una intrinseca complessità”. Motivazione che dovrebbe estendersi, a sentire i rumor che rimbalzano dai palazzi della politica, anche all’intera catena anti-Covid rappresentata dal commissario all’emergenza Domenico Arcuri – nomina di diretta competenza del presidente del Consiglio con la palla ora quindi interamente nelle mani di Mario Draghi – e dai vice dello stesso Speranza su cui il ministro avrà l’ultima parola: Sandra Zampa e Pierpaolo Sileri che dice: “Non so cosa accadrà, per saperlo dobbiamo attendere una decina di giorni. Almeno di solito è così. Draghi non l’ho mai sentito. Con Roberto ci sentiamo quasi tutti i giorni, la sua riconferma vuol dire che abbiamo lavorato al meglio. Se stai facendo un intervento chirurgico non è che stacchi tutto e prosegue un altro. Lo concludi”.

D’altra parte Draghi, oltre che delle parole di Locatelli, avrebbe tenuto conto anche di un recente sondaggio Demopolis per La7 che indicava proprio in Speranza il ministro più apprezzato del governo uscente e gli stessi Sileri e Zampa nel podio di viceministri e sottosegretari maggiormente graditi dai cittadini. Insidie arrivano dalla Lega, però, che vorrebbe mettere le mani anche nella gestione della Sanità. E se appare improbabile imporre il fantomatico “modello Bertolaso” o Guido Bertolaso stesso, come hanno caldeggiato Matteo Salvini e anche Silvio Berlusconi, non è escluso che un posto vicino a Speranza possa esser assegnato a un esponente del Carroccio, anche se il nome che circola pare più sciagurato di un Bertolaso e davvero indigesto a Speranza, cioè quel Luca Coletto che da assessore alla Sanità in Umbria come primo atto nel giugno scorso si è opposto alla somministrazione della pillola abortiva anche senza ricovero, atto a cui è seguita una circolare del ministero per innescare la retromarcia umbra; oltre a una gestione della crisi pandemica negli ultimi mesi non proprio in linea con le Regioni più virtuose.

Altro problema non da poco, però, sarà anche il tavolo con le Regioni, perché se prima al fianco di Speranza c’era il ministro degli Affari regionali Francesco Boccia del Pd, sempre sulla stessa linea del collega di Leu, ora ci sarà la rediviva Mariastella Gelmini, neoministra delle Autonomie, che alcuni a microfono spento indicano come “messa là da Forza Italia a tutela delle porcate della Regione Lombardia e dei padroni delle industrie del Nord che se ne sono fregati dell’allarme sanitario”.

Dovrebbero rimanere al loro posto, invece, anche i componenti del Comitato tecnico-scientifico.

Noi credevamo: la retromarcia dei cantori del “Dream Team”

C’era una volta il governo dei migliori. Per sua sfortuna, però, non è durato molto, così come la retorica che ne ha accompagnato la costruzione. “All star”, “dream team”, gli anglicismi si sono sprecati per tentare di dare un nome al nascente governo Draghi, prima che la realtà costringesse tutti a fare i conti con la riedizione di parte del Berlusconi IV e di mezzo Conte II, quello liquidato come un ammasso di incompetenza.

Riecco Renato Brunetta, riecco Mariastella Gelmini, i leghisti non più sovranisti, i grillini (forse) non più incapaci. Il Pd che dimentica le donne, ma pazienza. Se ce lo eravamo immaginato diverso, il Draghi I, è per colpa dell’acquolina in bocca di certi giornali. Il 7 febbraio Repubblica era sicura: “Più ministri tecnici se la coalizione è larga. Spazio alle donne”. Risultato: 15 politici, 8 tecnici; 15 uomini, 8 donne.

Il giorno prima, il Corriere spiegava “il metodo Draghi”: “Ogni qualvolta gli chiedono se i suoi ministri saranno tecnici o politici, risponde che decisiva è la competenza”. Il Tempo svelava: “Ecco il dream team di Draghi”, annunciando l’arrivo di “Panetta o Cottarelli all’Economia” e “Boeri o Giovannini al Lavoro”. Ieri, prendendo atto che qualcosa è andato storto, il quotidiano ci ha ripensato: “Non è un governo da Draghi”.

Una delusione forse simile a quella del direttore de La Stampa Massimo Giannini, che aveva raccontato “il sogno di un Paese normale”, cioè “un governo di unità nazionale presieduto da Mario Draghi” con “le più alte personalità politiche e tecniche di cui questo Paese dispone”. Ieri, invece, ha allargato le braccia: “La politica italiana questo offre. Poi certo, possiamo dire: ‘Come siamo ridotti?’”. Per non dire di Marco Damilano e Alessandro De Angelis su La7, costretti ad ammettere che “c’è il riciclo della politica”, “nessun esordiente”, “uno spettacolo amaro”. Proprio loro che ci avevano creduto così tanto. Un po’ come il Messaggero, che era festante: “Tra Giovannini e Severino nomi da all star per la squadra dei migliori”, con anche “Cottarelli a un dicastero economico”. Ieri, a mezza bocca, la sorprendente constatazione: “È nato il governo Draghi, più politico che tecnico” e “in continuità col precedente esecutivo”. E l’all star?

Anche Gian Antonio Stella sul Corriere ci aveva assicurato che il nuovo governo sarebbe stato “senza paletti” – figuriamoci, mica Draghi si farà imporre qualcosa dai partiti – e ovviamente “contro la spirale della mediocrazia”. Solo fuoriclasse, “un dream team”, come da titolo di Repubblica del 4 febbraio. Che strano che ieri Stefano Folli, uno degli editorialisti di punta di Rep, abbia dovuto cambiar toni: “Come si è capito dalla lista dei ministri, non è un governo esplosivo o rivoluzionario. Non è un governo che abbaglia. O che soddisfa tutte le attese, davvero troppe, che si erano create”. Per colpa di chi, non si sa.

Via tra gli applausi, Conte ora studia il futuro da leader

Giuseppe Conte ha lasciato Palazzo Chigi con l’omaggio di un lungo e caloroso applauso. Subito prima, il passaggio di consegne era avvenuto con un’inedita “campanella” in mascherina e senza stretta di mano. Nessuna animosità con il successore, Mario Draghi, tutt’altro: è solo il primo cambio della presidenza, nella storia d’Italia, che si svolge nel mezzo di una pandemia. Poi il picchetto d’onore, la musica della banda dei Granatieri di Sardegna, la lenta camminata sulla passerella che disegna un quadrato rosso sui lati del cortile di Palazzo Chigi. Infine, appunto, il saluto e il lungo applauso collettivo dei collaboratori e dei dipendenti amministrativi, affacciati alle finestre dell’edificio. Conte chiama a sé la compagna Olivia Paladino e ricambia il saluto, appare commosso. Lo è senza dubbio il suo portavoce Rocco Casalino, ripreso in lacrime da fotografi e telecamere.

Il clima è solenne. Si può discutere – e lo stanno facendo giornalisti e osservatori politici – su quanto rituale fosse quell’ovazione. Un gesto di rispetto e di commiato che è stato concesso a molti – non tutti – premier uscenti, anche se nei filmati d’archivio raramente si assiste a un applauso così insistito e tanto intenso. Tutto sommato sono dettagli. Anche Silvio Berlusconi fu applaudito, nello stesso cortile, dopo aver ceduto la campanella a Mario Monti. Ma delle dimissioni dell’ex Cavaliere si ricordano soprattutto i massicci festeggiamenti in piazza del Quirinale e di fronte a Palazzo Chigi, nel giorno in cui andò a comunicare la rinuncia al mandato.

E d’altra parte è la prima volta che un governo politico abdica in favore dei tecnici senza essere accompagnato alla porta anche dalla riprovazione popolare. Si ricorderà appunto la festa per l’addio di B. nel 2011, ma pure nel 1993 le dimissioni di Giuliano Amato in favore di Carlo Azeglio Ciampi, sottolineate da un senso di sollievo collettivo dopo la stagione degli scandali e delle tangenti e dopo il tentato colpo di spugna del decreto Conso.

Conte se ne va a testa alta, insomma, e su questo non possono esserci dubbi o interpretazioni di parte. Lascia Chigi per un’operazione di palazzo, conservando un indice di popolarità nei sondaggi ancora piuttosto alto (altro fatto non proprio usuale quando si arriva a un cambio di governo). La domanda, adesso, è cosa farà l’ex avvocato del popolo. Nel breve periodo dovrebbe tornare a insegnare, ma nessuno si aspetta davvero che ci si dedichi a tempo indeterminato. Per il momento è diventato ufficiale quello che non farà: il ministro. Un’ipotesi che a un certo punto non era affatto irrealistica. Proposte e pressioni, in questo senso, non sono mancate: più di qualcuno avrebbe voluto la sua presenza nella squadra di governo nel Movimento Cinque Stelle e – con molto più tatto – anche dal Quirinale gli era stato fatto capire che sarebbe stato apprezzato il suo impegno nella compagine di Draghi.

Conte ha declinato. Da ieri anche sui social non è più premier, si definisce “Giurista e Avvocato. Professore ordinario di diritto privato. Papà di Niccolò”. Il suo commiato l’ha scritto su Facebook con un messaggio pacato, senza polemiche, se non in un breve passaggio sulla “cattiva politica, intesa come mera gestione degli affari correnti volta ad assicurare la sopravvivenza di chi ne fa mestiere di vita”. Un post che ha ricevuto in poche ore oltre 750mila apprezzamenti, 200mila commenti e 90mila condivisioni: numeri davvero notevoli. Le sue intenzioni, Conte le ha confermate in poche righe: “Il mio impegno e la mia determinazione saranno votati a proseguire questo percorso. La chiusura di un capitolo non ci impedisce di riempire fino in fondo le pagine della storia che vogliamo scrivere”. Il progetto è di farlo ancora da punto di riferimento di una coalizione di centrosinistra, magari da leader del Movimento Cinque Stelle.

Rivolta nei Cinque Stelle Morra: “È Jurassic Park”

Isolati, scartati, messi all’angolo. Sono gli sconfitti del governo Draghi. Tutti (o quasi) i partiti sono rimasti delusi della squadra dell’ex presidente della Bce. Dove la rabbia esplode con maggior forza in chat, post e dichiarazioni pubbliche è sicuramente il Movimento 5 Stelle, già spaccato dopo il voto su Rousseau (60 a 40). Ieri ha lasciato un altro, il cinquantesimo, parlamentare dall’inizio della legislatura: il deputato pugliese Giuseppe D’Ambrosio che su Facebook parla di “una lunga storia d’amore che si interrompe con grande sofferenza” mentre il M5S “è entrato in un vicolo cieco”. E nel giro di poche ore potrebbero seguirlo altri parlamentari: si parla di venti/trenta tra Camera e Senato. Non voteranno la fiducia i senatori Emanuele Dessì, Nicola Morra (“Il governo ricorda Jurassic Park”) e il deputato Andrea Colletti. Giuseppe Brescia, vicino a Roberto Fico, invece darà un “appoggio condizionato” perché “la squadra non convince”.

Ierisi sono riuniti i senatori con Vito Crimi che ha provato a placare gli animi. Non a sufficienza, visto che alla prossima assemblea congiunta è stata richiesta la presenza di Grillo per riuscire a mediare. Il capogruppo a Palazzo Madama Ettore Licheri ha ammesso che il momento è “difficilissimo”: “C’è delusione, frustrazione ed incertezza ma ci vuole calma”. Nelle chat, i parlamentari insorgono: secondo l’Adnkronos la deputata Margherita Del Sesto parla di “restaurazione”, Valentina Corneli di un “governicchio di mezze cartucce” mentre per Luigi Iovino i 5 Stelle sono stati trattati come deficienti con “questi ministeri”.

Nella base i toni sono ancora più alti: la petizione su change.org per ripetere il voto su Rousseau visto che il M5S non avrà il ministero alla Transizione Ecologica è arrivata a 3.300 firme. Il dissenso viene anche dai territori del Sud: per il M5S siciliano la regione è stata “dimenticata” e chiede ai suoi eletti di astenersi. Molti iscritti grillini hanno sfruttato il post di ieri di Beppe Grillo (“Ora si deve scegliere, o di là o di qua”) per attaccarlo: “Complimenti, nessun ministero importante” attacca Rosario, “vergognoso che non ci sia un 5S alla Transizione” gli fa eco Luca. E così via.

Per non parlare dei grandi esclusi del M5S. Alfonso Bonafede si è chiuso in un religioso silenzio mentre Lucia Azzolina, in un post su Facebook

, avverte: “Avrò tempo e modo per raccontare a fondo l’esperienza di questi mesi”.

Anche Matteo Salvini è irritato per i tre leghisti di governo che fanno riferimento a Giorgetti e Zaia e per la riconferma di Lamorgese e Speranza (“Così Draghi al Quirinale non ci va” ha confidato ai suoi fedelissimi), ma deluso è anche Silvio Berlusconi che avrebbe voluto al governo uno tra Antonio Tajani e Anna Maria Bernini, pretoriani del gruppo del Senato vicino ai leghisti, mentre Mara Carfagna era considerata esterna a FI. La chat dei senatori azzurri esplode: “Abbiamo tenuto il gruppo compatto e questa è la ricompensa?”. Nel Pd è polemica sulle donne che non ci sono (“La misura è colma” attacca la presidente Cuppi) mentre si racconta di una furiosa Teresa Bellanova, sacrificata sull’altare del renzismo.

“Per il M5S questo governo è un suicidio, ora rivotiamo”

La nuova battaglia parte dal super-ministero promesso su Rousseau, che nei fatti non ci sarebbe. Ma poi si arriva al nodo, cioè il nuovo governo. Quello che ha in pancia tutto ciò che il Movimento Cinque Stelle combatteva.

“Abbiamo ceduto a un governo indigeribile con la Lega e Renzi, quelli che ci hanno tradito, ma la cosa peggiore è Forza Italia, guidata da un condannato in via definitiva” scandisce la senatrice Barbara Lezzi. Ieri lei e altre decine di eletti del M5S hanno inviato una lettera al capo politico reggente, Vito Crimi, e al Garante, Beppe Grillo, chiedendo la ripetizione del voto sulla piattaforma Rousseau con cui gli iscritti avevano dato il via libera al governo Draghi. “La previsione del quesito posta nella consultazione dell’11 febbraio – scrivono – non trova riscontro nel governo. Non c’è il super-ministero che avrebbe dovuto prevedere la fusione tra il ministero dello Sviluppo economico e il ministero dell’Ambiente oggetto del quesito”. E se il voto non venisse ripetuto? “Voterò no alla fiducia” giura Lezzi.

Il ministero alla Transizione ecologica c’è. Perché negarlo?

Non è ciò che aveva promesso Grillo. In un post sul suo blog, “In alto i profili”, scriveva di fondere nel nuovo ministero quello all’Ambiente e il Mise, con una precisa visione. Poi prevedeva il trasferimento delle competenze sulla politica energetica a questo dicastero o almeno al superstite ministero dell’Ambiente. E parrebbe successo, anche se Draghi sul punto è stato avaro di parole.

Risultato ottenuto, però…

Sembrerebbe, ma il quesito parlava del superministero. Gli iscritti hanno votato su altro, quindi la consultazione va ripetuta. Lo Statuto lo consente, entro cinque giorni dalla precedente votazione.

State giocando sulle definizioni, non trova?

Niente affatto, c’è un tema di competenze. Anche perché il Mise non è più guidato dal M5S: in quel caso, Ambiente e Sviluppo economico avrebbero potuto coordinarsi. Invece il Mise è andato al leghista Giorgetti, mentre alla Transizione c’è un tecnico.

Grillo invocava per il nuovo dicastero “una persona di alto profilo scientifico e di visione”.

Hanno nominato Cingolani, che era alla Leopolda di Renzi. E non mi risulta che Grillo vi abbia mai partecipato.

Ma il suo nome a Draghi lo ha fatto proprio Grillo…

Me ne rendo conto.

Oggi il Garante ha pubblicato un post, in cui esorta: “Si deve scegliere, o di qua, o di là”. Rispondeva a lei e agli altri firmatari?

Non lo so. La mia riconoscenza nei confronti di Beppe resta intatta. Ma stento a credere che il futuro si possa scrivere con Brunetta o la Gelmini. Oppure con il leghista Garavaglia, che da viceministro al Mef nel primo governo Conte aveva un approccio classista nei confronti dei più deboli e del Sud.

Su Facebook si è rivolta a Crimi: “In qualsiasi altro Paese lei avrebbe tratto le più onorevoli conseguenze anziché minacciare espulsioni”. Vuole le sue dimissioni?

Sì, perché il quesito lo ha scritto lui. Ma le cose sono andate diversamente. O Draghi lo ha ingannato o lui non ha capito.

Si rende conto che in un nuovo voto il no prevarrebbe? Ormai avete fatto partire il governo, con quattro ministri del M5S.

Possiamo sempre optare per l’astensione, e i ministri possono fare un passo di lato. Il governo partirebbe e noi lo valuteremmo su ogni provvedimento, potendo incidere. In questo esecutivo siamo minoranza, non abbiamo peso.

Quanti la seguiranno sul no?

Non faccio numeri e nomi, parlo per me. Se non si rivotasse, non mi sentirei vincolata, visto che il quesito era erroneo.

Volete la scissione?

No, non esiste. Io sono e mi sento del Movimento. Ma questo governo per noi è un suicidio.

Il leopoldino attira-fondi (ma non ha saputo usarli)

Èun incantatore di serpenti, Roberto Cingolani. Il Recalcati della scienza: in un Paese di scarsa cultura scientifica, sa usare le parole giuste, evocative ma non troppo difficili (tecnopolitica, sostenibilità ambientale, ecologia della mente…), per sedurre la platea: sia quella renziana della Leopolda, sia quella grillina di Sum, il convegno annuale di Ivrea in onore di Gianroberto Casaleggio. Il ministero della Transizione ecologica, a lui assegnato, è stato il cavallo di Troia per espugnare la resistenza Cinquestelle al governo Draghi e ottenere una maggioranza di sì sulla piattaforma Rousseau.

Gran tessitore di rapporti, sublime cacciatore di finanziamenti, Cingolani ha saputo incantare tanto Matteo Renzi quanto Beppe Grillo. A Leonardo è approdato da poco come Chief innovation & technology officer, con l’obiettivo di portare la sostenibilità ambientale in un business, l’aerospaziale-militare, che sta all’ambiente come Dracula all’Avis. Ma la sua creatura è l’Iit, l’Istituto italiano di tecnologia di Genova, di cui è stato direttore scientifico dal 2005 al 2019. È l’unico centro di ricerca in Italia che non doveva piangere per mancanza di finanziamenti, tanti e ottenuti senza gare competitive: 100 milioni l’anno, più altri 128 di eredità ex Iri. Nel Paese in cui i ricercatori fanno fatica a trovare i soldi per continuare a lavorare, l’Iit di Cingolani aveva accumulato negli anni tanti finanziamenti da non riuscire a spenderli: oltre 1 miliardo di euro in una decina d’anni, di cui quasi la metà restati in cassa. Tanto che nel 2013 era arrivata una bacchettata della Corte dei conti, che aveva trovato 430 milioni di Iit messi sotto la voce “disponibilità liquide” e “per la maggior quota detenute in un conto corrente infruttifero aperto presso la Tesoreria centrale dello Stato”, mentre una quota minore (21 milioni) era depositata in banca. A fine 2016, il “tesoretto” di Iit era ancora di 426 milioni presso la Tesoreria centrale e di 22 milioni in conti bancari. Ne nacque uno scontro con la scienziata e senatrice a vita Elena Cattaneo (“I sovrafinanziamenti a Iit sono una abnormità scientifico-finanziaria”), che chiedeva che non fosse la politica a decidere dove mettere i soldi per la ricerca, ma il merito degli scienziati stabilito con gare competitive. La senatrice ottenne che nel 2017 dal “tesoretto” Iit fossero prelevati 250 milioni per la ricerca di base. La polemica con la senatrice si riaccese nel settembre 2016, quando un Renzi radioso, per cercare di dare un senso al futuro dell’area Expo che nessuno voleva comprare, annunciò a Milano la nascita di un “progetto petaloso” (sic): Human Technopole, centro di ricerca su genomica e big data affidato a Cingolani, con dote di 1 miliardo e mezzo in dieci anni dati a Iit senza gare pubbliche e senza trasparenza sulle assegnazioni. Si ribellarono quella volta il mondo della ricerca e i rettori milanesi (compresa Maria Cristina Messa dell’Università di Milano-Bicocca, che ora si ritrova al governo con Cingolani, che — ricambiato — la detesta): tanto che il progetto fu riscritto e il Tecnopolo assegnato a un comitato indipendente e poi al direttore Iain Mattaj. E ora il 55% dei suoi finanziamenti sarà messo a disposizione della ricerca di base grazie a un emendamento di legge fortemente voluto dalla senatrice Cattaneo. La mission che era stata assegnata da Renzi a Cingolani per Human Technopole era la ricerca su genomica, big data e medicina di precisione: oggi constatiamo che non ha dato contributi alla lotta al Covid e l’Italia è fanalino di coda in Europa per sequenziamento del genoma del virus e delle sue varianti, di cui il Paese avrebbe un disperato bisogno. Intanto, i fondi Fisr del ministero della Ricerca per l’emergenza Covid chiesti a giugno 2020 da università e centri di ricerca pubblici non sono stati ancora assegnati.

Cingolani, scalzato dal Tecnopolo renziano, era stato nel frattempo risarcito con un posto a Leonardo con superstipendio. La sua è una carriera di successo. È un ricercatore qualificato nel campo della Scienza dei materiali, con 900 pubblicazioni scientifiche al suo attivo e un H-Index di tutto rispetto, sopra l’80 (è il numero che misura la produttività e l’impatto delle citazioni delle pubblicazioni di un ricercatore). Nessuna delle sue pubblicazioni è però nel campo dell’Ecologia o dell’Ingegneria energetica. Contrariamente a quanto scrisse Il Sole 24 ore nel 2017, non compare nella classifica internazionale degli scienziati più citati al mondo (il ranking Highly Cited Researchers di Clarivate). Tra i ricercatori del suo settore con lavori ad alto impatto è al posto numero 2.380. Da direttore di Iit, per anni ha firmato una media di 60 articoli scientifici l’anno, in pratica uno a settimana. Molti per qualsiasi ricercatore a tempo pieno, troppi per uno impegnato anche a dirigere un istituto di ricerca. Ora comincia una nuova vita: dovrà indirizzare la trasformazione green dell’Italia, scegliere dove collocare i soldi del Recovery che arriveranno dall’Europa e dimostrare — questa volta — di saperli anche spendere.

Ecco chi sarà a gestire i miliardi “europei”

Il governo Draghi contiene una triade al suo interno che ne costituisce il cemento politico. Il presidente del Consiglio, il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, e quello per l’Innovazione tecnologica e la transizione digitale, Vittorio Colao, compongono infatti la tolda di comando del Recovery plan prossimo venturo (in italiano, Piano nazionale di ripresa e resilienza, Pnrr). Comando che viene rafforzato anche dalla decisione di Mario Draghi di non creare un ministero degli Affari europei delegando molto probabilmente la gestione economica del dossier al fidatissimo ministero dell’Economia e Finanze diretto da Daniele Franco.

Secondo le indicazioni del Consiglio europeo quei due ministeri gestiranno il 57% delle risorse del Pnrr: il 37% per la transizione ecologica e il 20% per quella digitale per un totale di 115 miliardi. L’ipotesi che la crisi del governo Conte sia stata scatenata da questo dossier è più che fondata soprattutto se osserviamo meglio la tela di relazioni e intrecci che legano quei ministri al cuore dell’impresa italiana.

Bravi e con tanti amici.Chi conosce il dossier e conosce gli uomini, a cominciare da Draghi, manifesta dei dubbi che il “nocciolo duro” del Recovery sarà in grado davvero di portare a termine la missione. Pesa, si dice, la scarsa conoscenza del tessuto territoriale italiano, delle sue imprese, la sua dimensione agricola. Non mancheranno, probabilmente, colpi a effetto, ad esempio sull’idrogeno e sulle rinnovabili, ma solo grazie alle condizioni avanzate in cui si trova l’Italia. A uno sguardo critico, insomma, sembra proprio che il governo Draghi non sarà quello che sa giocare di fino, ma piuttosto un governo che rincorre i modelli e gli schemi economici.

Dal punto di vista delle relazioni, sia Cingolani che Colao sono particolarmente dotati. Il primo, di cui ci occupiamo diffusamente nell’articolo a fianco, oltre a essere dirigente della più grande industria italiana, Leonardo ex Finmeccanica, ha lungamente diretto l’Istituto italiano di tecnologia dove ha avuto come membri del Consiglio figure come Alessandro Profumo (Leonardo), Francesco Profumo (SanPaolo), Vittorio Grilli, Lucrezia Reichlin (il cui nome è circolato tra le ministre papabili), Pietro Guindani, che oltre alle innumerevoli cariche (Eni, Confindustria, Assolombarda) è soprattutto presidente di Vodafone Italia. La stessa da cui proviene il ministro per l’Innovazione tecnologica. Se non ci sono conflitti di interesse si tratta comunque di una rete fitta di relazioni che non potrà che riflettersi nella gestione del Pnrr.

MiliardiIl piano di digitalizzazione, da 46 miliardi, si dovrà occupare di dossier come il Cloud Computing (la costruzione di “nuvole” digitali per l’immagazzinaggio dei dati) in cui avranno un ruolo centrale i grandi player come Google, Amazon, Microsoft o Ibm (in parte legati da laboratori congiunti con l’Istituto italiano di tecnologia). Il progetto Gaia X indicato dal Pnrr, ad esempio, vede la presenza di 28 imprese italiane tra cui Leonardo, Enel, Tim e altre. Nel “monitoraggio satellitare” ritroviamo ancora Leonardo, tramite la controllata Telespazio. Senza contare che il piano di digitalizzazione deve confrontarsi con il grande e irrisolto nodo della rete unica e del 5G: Colao viene da Vodafone, potrà essere del tutto imparziale?

La transizione ecologica, sul piano delle risorse, oltre al grande piano da 29 miliardi dell’efficienza energetica e riqualificazione degli uffici, affronterà il tema delle Energie rinnovabili con oltre 10 miliardi compreso l’idrogeno. In quest’ultimo ambito chi ha i progetti più avanzati sono Snam e Eni. Si tratterà di costruire nuovi autobus, treni e navi (Fincantieri) favorire la produzione di acciaio verde (Mittal nonostante il disastro Ilva ha delle ambizioni) e poi incentivare le imprese agricole a convertirsi in produzione sostenibile (7,5 miliardi).

A dirigere il tutto sarà la nostra triade, con le sue competenze, le sue reti di relazioni consolidate in un polo dell’impresa privata ben saldo all’interno del governo (mentre l’arcipelago dell’amministrazione pubblica e della burocrazia di Stato è rappresentato dal Sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Roberto Garofoli).

Gli altri ministri Draghi, Cingolani e Colao non faranno tutto da soli. La struttura del Pnrr, se non verrà modificata troppo, conferisce un ruolo centrale ad altri ministeri. Innanzitutto a quello delle Infrastrutture di Enrico Giovannini vincolato nel piano al trasporto ferroviario veloce (26 miliardi sui 31 complessivi) ma a cui gli amici più fidati consigliano di dare centralità ai temi della casa, della mobilità e del trasporto locale. Un ruolo non indifferente lo avrà Renato Brunetta perché il Pnrr assegna circa 8 miliardi alla digitalizzazione della Pubblica amministrazione e una rinnovata centralità al tema del “reclutamento”, cioè alle assunzioni. Molto importante Mara Carfagna alla guida del ministero del Sud che controlla i circa 65 miliardi dei fondi di coesione sociale. Non secondari nemmeno altri due tecnici, Patrizio Bianchi all’Istruzione e Cristina Messa all’Università e Ricerca: il Pnrr assegna ai loro ambiti 28,49 miliardi di cui 11,77 andranno alla voce “Dalla ricerca all’impresa”, più che un titolo un programma. Turismo e Cultura con i loro 8 miliardi daranno nuovi spazi a Dario Franceschini, ministro della Cultura e Massimo Garavaglia ministro leghista del Turismo.

L’ultima voce del Recovery, la Salute, con i 19,7 miliardi finali (trovati dopo la protesta di Italia viva) conferisce un ruolo decisivo al ministro Roberto Speranza mentre il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, potrà beneficiare di 7,5 miliardi per “le politiche attive”, su cui si misurerà il suo ministero. Il boccino, però, è nelle mani dei super-tecnici voluti da Draghi. Vedremo cosa sapranno fare.

Franco e la lettera della Bce: il governo è nato dieci anni fa

Avolte le cose si mettono in modo tale che i nudi fatti e il loro senso più profondo finiscono per coincidere in un semplice simbolo: è il caso del nuovo governo Draghi, un tentativo – si vedrà quanto riuscito – di riportare le lancette dell’orologio indietro di dieci anni, quando i barbari che trionfarono alle elezioni del 2018 col crollo contemporaneo di Pd e Forza Italia erano solo un allarme indefinito nel grande deserto fuori dalla fortezza Bastiani.

Per capirci, dobbiamo partire dai nomi di due ministri: quello dell’Economia Daniele Franco e quello della P.A. Renato Brunetta. È quest’ultimo ad aver raccontato nel suo libro Berlusconi deve cadere. Cronaca di un complotto (2014) che fu Franco a lavorare in Italia alla famosa (o famigerata) lettera della Bce al governo Berlusconi dell’estate 2011. All’inizio di agosto di dieci anni fa, Brunetta – così scrive lui stesso – viene a sapere che la Bce sta preparando la missiva e avverte Berlusconi: l’allora premier chiama il governatore di Bankitalia (in procinto di trasferirsi a Francoforte) Draghi, che conferma e spiega che a Palazzo Koch se ne sta occupando Franco. Brunetta organizza un incontro e quello “dopo dieci minuti era già da me in piedi con delle carte in inglese in mano”: “Non so ancora oggi dove quelle carte fossero state materialmente elaborate, se in sede Bce o in altra sede, magari in Banca d’Italia. So che Franco me le illustra, dandomi sostanzialmente la linea guida del documento”.

La lettera arriverà formalmente l’indomani con le firme di Draghi e del suo predecessore Jean Claude Trichet. Le sue “linee guida” da allora hanno di fatto rappresentato il programma informale di tutti i governi italiani: consolidamento fiscale (austerità), liberalizzazioni, privatizzazioni, flessibilità nel mercato del lavoro e tutto il resto della paccottiglia ideologica ottocentesca che così pessima prova di sé ha dato in Europa in questi anni. Quel programma, i suoi effetti, i suoi sponsor sono stati metaforicamente bocciati alle elezioni di tre anni fa e oggi un’assai ben congegnata operazione di Palazzo tenta di far tornare indietro il tempo.

La presenza simbolica dell’uomo macchina di quella lettera aiuta a illuminare il senso politico di questo governo costruito da Draghi e ancor più da Sergio Mattarella, anche grazie ai buoni uffici del segretario generale del Quirinale Ugo Zampetti, già dominus di Montecitorio. Qual è questo senso politico? La normalizzazione, la restaurazione a voler restare nell’ambito dei ricorsi storici. Il governo Draghi nasce sterilizzando gli elementi anti-sistema che avevano preso il centro della scena: oltre al Pd e ai suoi satelliti, un’area che non sa stare lontano dal governo, dentro l’esecutivo finisce la Lega liberaloide e padana degli affari, non quella che si voleva nazionale e scopriva a suo modo l’intervento pubblico; il M5S depurato di qualunque velleità di cambiamento dell’esistente; quel pezzo di Forza Italia che già si preparava a traslocare. Se volessimo personificare, anche se si rischia l’imprecisione: entra Giorgetti e non Salvini, Di Maio e non Di Battista, Gianni Letta e non Berlusconi.

L’operazione Draghi-Mattarella – che stavolta gioca un ruolo attivo, esplicitamente politico, alla Napolitano – tenta di levigare il quadro politico, di ripulirlo dalle asperità che minacciavano lo status quo: l’effetto secondario è creare l’humus perfetto per la creazione di un’unica sigla di centro liberal-popolare che riunisca i cespugli finora dispersi tra renziani, berlusconiani, calendiani e quant’altro, un auspicabile – in questo gioco – futuro ago della bilancia.

Ridotti a un elemento neanche centrale dell’establishment i 5 Stelle, l’esecutivo Draghi ha anche l’effetto non secondario – via Recovery Plan – di coinvolgere la Lega di Matteo Salvini nel disegno del bilancio e delle politiche pubbliche del prossimo quinquennio: il pilota automatico, insomma, è programmato anche per il dopo-elezioni. Riuscirà il giochino? Difficile da dire, molto dipenderà dai risultati: persino per il panem et circenses c’è bisogno del pane.

Tutti “neri” e composti: il giuramento come un Cda

Mario Draghi presta giuramento tre minuti prima delle dodici e l’anticipo sigilla – per gli ottimisti – il nuovo tempo che incombe. Nel salone delle feste del Quirinale, prima fila distanziata, ricompare però il trio Brunetta-Gelmini-Carfagna. Era dai tempi di Silvio unto del Signore che non facevano più gruppo assieme, ma l’esecutivo di salvezza nazionale, o anche dei “migliori”, ha dovuto subire, per via della forza gravitazionale della politica, un cambio di moto. Quindi il nuovo tempo si è fatto vecchio, e il cambio di guardia ha subìto inaspettati innesti.

Questo non vuol dire che delle novità e anche rilevanti non ci siano state. Le mascherine, per la prima volta purtroppo a infierire sui volti, hanno coperto ogni segno di imbarazzo come di euforia, e il rito, efficientista nel tono e anche nella scenografia che non ha ammesso padri e madri e fratelli e mogli e figli al seguito dei neo ministri, ha attutito di molto il segno della festa e dato ritmo al cambio di passo. Ci è sembrato di notare che solo Luigi Di Maio, autore di una bella tripletta ministeriale, fosse assai sollevato nell’umore tanto da essere l’unico vispo nella compagine che origina dall’emergenza e dunque risulta virtuosa per principio. Cosicché, per esempio, sette delle otto ministre si sono presentate in tailleur con pantalone nero, e parevano tutte provenienti da Francoforte, dove ha sede la Bce, a confermare un già risolto clima tecnocratico dell’esecutivo. “Ho trovato tanta bella gente”, ha detto Patrizio Bianchi, più sciolto dei colleghi, economista e accademico di gran corso alla guida dell’Istruzione. Proprio Bianchi è il segno vivente che il tempo è cambiato. Ha saputo solo la sera precedente della nomina: “L’ho imparato ieri sera”, ha detto. È certo che il professore abbia voluto intenzionalmente incespicare nell’italiano e infatti nessuno ha obiettato perché questo resta pur sempre il governo dei migliori.

La cerimonia, comprensiva della foto di gruppo, è stata rapida, come succede nei consigli di amministrazione. I grillini, che tre anni fa avevano raggiunto il Colle in pulmino e facendo una gran caciara, ora ne sono ridiscesi compostamente e silenziosamente nelle auto di servizio. La delegazione cinquestelle, in blu con lievi approssimazioni verso l’azzurro, aveva appena confermato davanti a Mattarella il timbro neo-efficientista della squadra. Tanto che Stefano Patuanelli, uno dei quattro salvati dalla selezione draghiana, si è presentato al tavolo del giuramento da neo ministro dell’Agricoltura recitando a memoria l’articolo della Costituzione. Solo Elena Bonetti, la renziana che un mese dopo aver fatto gli scatoloni si trova a doverli riaprire e ritornare nel luogo esatto dell’abbandono, lo ha imitato. Gli altri hanno letto. L’unico col trolley Vittorio Colao, anche l’unico a mettersi sull’attenti (per via della naja fatta come ufficiale dei carabinieri) al momento di giurare. I tre leghisti (Giorgetti, Garavaglia e Stefani) enormemente riflessivi. L’unica con le scarpe tigrate Fabiana Dadone, la più giovane del gruppo (37 anni contro un’età media di 55) destinata per competenza alle politiche giovanili. Nota trasgressiva proveniente da sinistra: due cravatte rosse, una delle quali indossata da Andrea Orlando, delegato al Lavoro.

Nessuno ha incespicato, due hanno salutato con la mano sul cuore. Uno solo, Roberto Cingolani, il fisico chiamato a guidare il neonato ministero della Transizione ecologica, è risultato essere nel cuore di due partiti e dunque, oggettivamente, in una sorta di comproprietà. Infatti mentre su Facebook i grillini lo chiamavano “il nostro Elon Musk”, Matteo Renzi scriveva dell’antica amicizia che lo lega. Cingolani – colpito da tanto affetto – è rimasto in silenzio e amen.

Quando tutto è finito, nemmeno un’ora dopo, e a Roma si respirava una bella aria di neve, la Volkswagen station wagon di Draghi ha raggiunto palazzo Chigi. Lo aspettavano Giuseppe Conte e la campanella per lo scambio di rito. Due minuti e nessun segno di emozione. Conte ha girato i tacchi e ha trovato la compagna Olivia Palladino ad attenderlo nel cortile. Fanfara di saluto, ma anche gli imprevisti applausi dei dipendenti alle finestre. E così – almeno per quel battimani – il tempo vecchio gli sarà parso nuovo. Poi però ad aspettarlo al cancello non più l’Audi presidenziale ma un’Alfa modestuccia e i lucciconi di Rocco Casalino.