“Ministri, sobrietà”. Il primo monito del premier Draghi

“L’unità” che non è “un’opzione”, ma “un dovere” e la raccomandazione alla “sobrietà nella comunicazione”: lo raccontano “essenziale” Mario Draghi ed effettivamente nel primo Cdm del suo governo è essenziale pure nel chiarire che cosa si aspetta dai suoi 23 ministri. Il messaggio da una parte è talmente scontato che ci si poteva scommettere, dall’altra però è un’indicazione precisa che marca la discontinuità. Non ci sono barricaderi nell’esecutivo e non si registrano particolari tensioni. Sarà pure quel plexiglass ovunque che distanzia i presenti e crea un clima stralunato e surreale. La riunione, durata una mezz’ora, comincia alle 14, dopo il giuramento, la cerimonia della campanella (passaggio simbolico di consegne tra premier uscente e premier entrante), l’addio di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi, tra gli applausi dei dipendenti e le lacrime di Rocco Casalino. Draghi parla a braccio, ringrazia Sergio Mattarella, fa gli auguri ai suoi ministri. Ricorda che l’esecutivo deve avere come priorità la “messa in sicurezza del Paese, perché gli interessi dell’Italia vengono prima degli interessi di parte”, richiama alla “compattezza” e alla “massima collaborazione” nonostante la provenienza da storie diverse. Poi sottolinea: “Il governo avrà una forte impronta ambientalista”. Prima di tutto, “qualsiasi cosa faremo, a iniziare dalla creazione di posti di lavoro, andrà incontro alla sensibilità ambientale e non graverà sulla situazione esistente”. Il Cdm avvia l’iter per l’istituzione del ministero della Transizione ecologica: via libera entro 10 giorni. Il dicastero guidato da Roberto Cingolani è un anello centrale del nuovo esecutivo, soprattutto per il ruolo guida rispetto al Next Generation Ue. Politicamente, l’intersezione è interessante: il nome del fisico l’ha fatto Beppe Grillo, ma erano settimane che Matteo Renzi lo buttava nella mischia. E soprattutto, rapporti antichi legano Cingolani a Daniele Franco, scelto alla guida del Mef come diretta emanazione del premier.

Per il resto, il Cdm procede formale, tra il ricordo dei “migliaia di morti” e le “perdite di anni di scuola”, visti dal governo precedente. La scuola è in cima ai dossier di Draghi, con l’idea di prolungarne la durata. Poi la notazione sull’economia che soffre, per cui “serve un impatto culturale e sociale”. E innanzi tutto, “la sfida alla pandemia, con una accelerazione della campagna vaccinale” sul modello britannico.

Per il resto, Draghi conferisce le deleghe ai ministri senza portafoglio e il Cdm nomina Roberto Garofoli, Sottosegretario a Palazzo Chigi. Subito dopo, lui e il premier si mettono a lavorare sul programma da presentare alle Camere mercoledì. Le tematiche sono quelle note accennate in Cdm, ma il primo grande nodo da sciogliere sarà la fine del blocco dei licenziamenti a fine marzo.

Intanto, nei partiti, si rivive, in tono minore, l’attesa degli scorsi giorni per la nomina dei sottosegretari (al massimo 41).

In Europa è un tripudio di complimenti. A partire da Angela Merkel e Emmanuel Macron (“Lavoriamo insieme per un’Europa più forte”). Draghi si appresta ad essere sufficientemente ingombrante pure per gli equilibri del Vecchio Continente. Conte e la sua squadra erano riusciti a portare a casa i 209 miliardi per il Piano che è ora la mission di questo governo. Chi lo sa se Draghi riuscirà ad imprimere un’accelerazione alla creazione di bond europei permanenti.

Il governo Dragarella

Siccome ogni Restaurazione ha i suoi rituali, non avrebbe guastato se il governo Dragarella avesse giurato in uniforme da Congresso di Vienna: parrucche imbiancate con codini e fiocchi neri, volti incipriati e impomatati, marsine a coda, culotte, scarpe a punta. Invece i nuovi (si fa per dire) ministri erano tutti in borghese, per non farsi riconoscere. Avevamo promesso un giudizio sul governo quando ne avessimo visti i ministri (per il programma c’è tempo: uscirà dal cilindro di Super Mario un minuto prima della fiducia, o forse dopo, fa lo stesso: è il ritorno della democrazia dopo la feroce dittatura contiana, come direbbe Sabino Cassese). E il momento è arrivato.

Ministri. Il bottino di 209 miliardi del Recovery se lo pappano il premier, il suo amico Giorgetti (Mise) e i suoi tecnici, cioè gli uomini delle lobby: Franco (Mef e Bankitalia), Cingolani (renzian-leopoldino di Leonardo- Finmeccanica che Grillo ha scambiato per grillino) e Colao (Morgan Stanley, McKinsey, Omnitel, Vodafone, Rcs, Unilever, Verizon, con breve parentesi di incompetenza quando lo chiamò Conte per il piano-fuffa Fase-2 e ora tornato il genio di prima); più Giovannini (ottimo prof di statistica alle Infrastrutture). Del resto Draghi se ne infischia e lascia pasturare i partiti con i loro nanerottoli, scelti aumma aumma dai Quirinal Men: so’ criature.

Pandemia. Speranza resta alla Salute, per la gioia di Salvini e dei teorici della “dittatura sanitaria” e del “riaprire tutto”. Ma arriva la Gelmini alle Regioni al posto di Boccia, protagonista di epici scontri con gli sgovernatori. Sarà uno spasso vederla genuflessa alle loro mattane. Al suo fianco, come viceministro, vedremmo bene Bertolaso. E, commissario al posto di Arcuri, troppo efficiente sui vaccini, il mitico Gallera: era stanco, ma si sarà riposato.

Discontinuità. Undici ministri, la metà del governo Draghi, vengono dal Conte-2: i 9 confermati più Colao più il neotitolare dell’Istruzione Bianchi, capo della task force dell’Azzolina per la scuola (tecnico del congiuntivo, dice “speriamo che faremo bene”, ma non è grillino, quindi è licenza poetica). E ora chi la avverte la Concita del “basta ministri scadenti, arrivano quelli bravi”? Fatti fuori Conte, Bonafede, Gualtieri, Amendola e regalato il Recovery ai soliti noti, si digerisce tutto.

Cielle. I garruli squittii di Cassese a edicole unificate indicano che, dopo il lungo digiuno del Conte-1 e del Conte-2, qualche protégé l’ha piazzato. Tipo Marta Cartabia, Guardasigilli di scuola ciellina (come la ministra dell’Università, Cristina Messa), ma pure napolitaniana e mattarelliana, celebre per l’abilità di non dire nulla, ma di dirlo benissimo, fra gridolini estatici di giubilo.

Di lei si sa che sogna “una giustizia dal volto umano” (apperò) e una “pena che guarda al futuro” (urca). Ora, più prosaicamente, dovrà dare subito il parere del governo sul ritorno della prescrizione, previa seduta spiritica con Eleanor Roosevelt che – assicura il Corriere – è “tra le figure femminili ‘decisive’ per la sua formazione” (accipicchia).
Pd. Sistemati tutti i capicorrente Franceschini (al quinto governo), Guerini e Orlando, prende pure l’Istruzione con il finto tecnico Bianchi, due volte assessore dem in Emilia-Romagna: 4 ministri come il M5S, che però ha il doppio di seggi.
5Stelle. Machiavellici alla rovescia, sapevano che senza di loro il Pd e Leu si sarebbero sfilati e Draghi, per non finire ostaggio delle destre, avrebbe rinunciato. Bastava mettersi in attesa e, se proprio Grillo voleva entrare, dettare condizioni minime: Giustizia, Lavoro, Istruzione, Mise o Transizione Ecologica. Invece han detto subito di sì, presentandosi a Draghi con le brache calate e le mani alzate. E hanno ammainato le loro bandiere Bonafede, Azzolina e Catalfo (con Reddito e Inps). Risultato: SuperMario li ha sterminati e pure umiliati, con i pesanti ma inutili Esteri a Di Maio, Patuanelli degradato dal Mise all’Agricoltura, più i Rapporti col Parlamento e Politiche giovanili (sventata la Marina mercantile, ma solo perché non c’è più). Ciliegina sulla torta: la Transizione Ecologica, subito dimezzata, è finita a un renziano. Meno male che Draghi era grillino: figurarsi se non lo era. Insomma: aperta finalmente la scatoletta di tonno, i 5Stelle hanno scoperto che il tonno erano loro.
FI-Lega. Il capolavoro del Rignanese, prima di tramutare Iv da ago della bilancia a pelo superfluo, è aver riportato Salvini e B. al governo. Il resto l’han fatto Draghi e Mattarella, regalando alla destra un governo tutto nordista e i ministeri politici più lucrosi: Mise e Turismo (Giorgetti e Garavaglia), Pa (Brunetta), Regioni (Gelmini) e Sud (Carfagna, con i fondi di coesione Ue, nel fu serbatoio di voti dei 5Stelle).
Ps. Nota per gli storici della mutua che vaneggiano di “fallimento della politica come nel 1993 e nel 2011” e paragonano l’avvento di Draghi a quelli di Ciampi e Monti. Nel ‘93 Ciampi arrivò mentre gli italiani lanciavano le spugne ad Amato e Conso per il decreto Salvaladri e le monetine a Craxi per l’autorizzazione a procedere negata dal Parlamento al pool di Milano. Nel 2011 Monti arrivò mentre due ali di folla maledicevano B. che saliva al Quirinale a dimettersi e poi fuggiva dal retro dopo aver distrutto l’Italia per farsi gli affari suoi. Nel 2021 Draghi arriva mentre Conte esce da Palazzo Chigi a testa alta fra gli applausi e le lacrime. Mica male, per un fallito.

Quei seriosi “avanguardisti” che volevano cambiare il mondo

Come ricorda nella prefazione Giovanna Moruzzi, che di fare questo libro ha avuto l’idea, della storia di Avanguardia operaia si sa poco o niente. L’organizzazione politica comunista nata e morta nel corso degli anni 70 è per lo più ricordata per la tragica vicenda dell’uccisione del fascista Sergio Ramelli, per il quale alcuni dei suoi dirigenti e militanti finiranno in carcere. Ma poco altro. Sul piano letterario una bella storia locale è narrata da Bruno Arpaia nel romanzo Il passato davanti a noi, ma poco altro.

Moruzzi racconta che a muoverla è stato il desiderio di ricordare il marito, Michele Randazzo, che di Ao è stato uno dei dirigenti, affidandosi poi al sostegno dei due curatori, lo studioso Roberto Biorcio e il giornalista Matteo Pucciarelli. Forza del volume è quella di essere basato non tanto sui contributi di vari autori, tra cui Franco Calamida che racconta la “nuova cultura operaia” e la nascita dei comitati unitari di base (Cub) nelle fabbriche milanesi, o Vincenzo Vita che racconta della cultura di Ao come di “un romanzo di formazione”, ma le interviste a 110 ex militanti, che offrono così uno spaccato di “come eravamo”.

La storia degli anni 70 è sempre correlata al “piombo” e all’esito brutale della lotta armata, ma riguarda invece un decennio di speranze, di ambizioni, desideri. Certo, quelli di Ao erano i più seri, preparati, forse anche un po’ “noiosi”. Venivano da una parte dei militanti della Quarta internazionale che ruppero con il Pci, ma poi riuscirono a legarsi ai movimenti del ’68, agli operai milanesi e da lì radicarsi, nel 1975, in 85 città. Si sono fatti scappare di mano il servizio d’ordine nel caso Ramelli, ma hanno rappresentato una struttura solida, mai incline alle derive armate e che, con la fondazione di Democrazia proletaria e poi la confluenza in Rifondazione comunista, è durata a lungo. È, inevitabilmente, la storia di una sconfitta, ma anche di un ideale, della voglia di organizzarsi e di lottare per cambiare il mondo.

Volevamo cambiare il mondo – Roberto Biorcio e Matteo Pucciarelli, Pagine: 302, Prezzo: 20, Editore: Mimesis

 

Torino nerissima: ecco il commissario. Arcadipane in coppia con Bramard

Al lettore essenziale ma esigente l’impatto con la seconda di copertina suscita subito una sana diffidenza. Al posto della trama ci sono infatti i ghirigori entusiastici di Baricco-Barocco che riducono la scrittura a un cocktail con l’aggiunta di spezie. Poi uno principia il libro e inarca il sopracciglio quando s’imbatte due volte in “basculante” nell’arco di tre pagine e quando il periodare si fa ridondante con una ventina di “sempre” volutamente ripetuti in cinque righe.

Per fortuna è un equivoco, un abbaglio provocato dalla citata seconda di copertina e già al secondo capitolo il lettore si adagia comodo in una storia tutta da leggere. Stiamo parlando di Una rabbia semplice, nuovo romanzo del pompatissimo Davide Longo (Scuola Holden, e abbiamo detto tutto!). Un giallo che non è solo giallo, in questi tempi in cui la narrativa di genere sta diventando una sorta di gruccia omnibus cui appendere disagio esistenziale, degrado urbano e una bella dose di ironia. Longo però confeziona la trama con personaggi di spessore, il commissario Arcadipane e il suo maestro Bramard. Il mistero origina da una donna colombiana picchiata quasi a morte a una fermata della metropolitana. Siamo a Torino. Viene arrestato un ragazzo con precedenti penali che si ostina a dire di non saperne nulla. Arcadipane, ultracinquantenne con il classico matrimonio fallito per la sua dedizione al lavoro, risale al vero colpevole ma qualcosa comunque non gli torna. Il filo si fa inquietante e s’immerge nel mare nero del web. La mania dei dettagli un po’ stufa, in questa deriva microrealista della nostra narrativa, ma Arcadipane e Bramard non vanno persi d’occhio. E il capitolo della seduta del commissario dalla psicologa è davvero esilarante.

Una rabbia semplice – Davide Longo, Pagine: 322, Prezzo: 18, Editore: Einaudi

“Scrivo per capire quello che penso”

Quando a metà degli anni 80 vinse uno dei più prestigiosi premi letterari americani, Don DeLillo salì sul palco e disse: “Mi dispiace non poter essere con voi stasera ma grazie per essere venuti”. La battuta divertì il pubblico, ma era quanto di più autentico lo scrittore potesse rivelare di sé. Allergico alla ribalta, sono rare le interviste concesse alla stampa, ancora meno le fotografie che lo immortalano.

Nato a New York nel 1936 da genitori originari di Campobasso, DeLillo, insieme a Thomas Pynchon e Cormac McCarthy, è un classico vivente della letteratura a stelle e strisce. Se è vero che non esiste niente di più americano di un figlio di immigrati che finisce per incarnare il sogno della terra promessa, ecco che DeLillo in mezzo secolo di scrittura si è guadagnato forse come nessun altro la palma di coscienza critica.

Il metodo di lavoro è suggestivo: “Io non sono certo di quello che penso finché non scrivo. Devo scrivere per comprendere ciò che penso”. Se ne sta trincerato nella propria solitudine a Manhattan con la moglie texana Barbara, fedele al suo mantra: “Lo scrittore è la persona che sta fuori dalla società”. Americana, suo debutto del 1971, e Il silenzio, sua ultima fatica in libreria per Einaudi, sono gli estremi di un affresco sulla storia contemporanea – che si estende per migliaia di pagine distribuite in una ventina di volumi – sempre impietoso e coerente. Nel primo un dirigente della televisione, stanco delle imposture aziendali, si concede un on the road rurale per scrollarsi di dosso l’alienazione. Nel secondo un blackout improvviso, tra schermi neri e ristoranti a lume di candela, neutralizza la tecnologia ormai surrogato delle relazioni umane. La civiltà collassa e restano solo coscienze nude, disarmate. Emerge ne Il silenzio una New York predigitale molto simile a quella che DeLillo ha vissuto da bambino, in quelle strade strette e promiscue del Bronx che spesso fanno capolino nelle sue opere.

La Grande Mela è il perimetro della sua intera esistenza: dall’infanzia trascorsa a mescolare inglese e italiano alla scoperta adolescenziale nel parcheggio di un luna park degli autori più amati. Frequenta lo stesso liceo di Martin Scorsese, si laurea senza entusiasmo e prima di consacrarsi alla letteratura si impiega come copywriter per un’agenzia che pubblicizza tessuti.

Dagli anni 70, dopo Americana, DeLillo persiste a picconare il muro del sogno americano e a spargerne nell’immaginario collettivo i calcinacci: la fama nella società dello spettacolo in Great Jones Street, l’intelligenza aliena in La stella di Ratner, il terrorismo anticapitalistico in Giocatori, l’orgia hitleriana in Running Dog, gli omicidi rituali in I nomi, il romanzo incompiuto di un autore isolato in Mao II, l’assassinio di Kennedy in Libra, la rovina e la morte di un multimilionario in Cosmopolis, l’attentato alle Torri Gemelle in L’uomo che cade, la conservazione dei corpi morti in Zero K.

L’ossessione che l’autore srotola come una fune dentro le sue storie è sempre la stessa: la resistenza dei singoli di fronte alle pressioni della società organizzata, del potere in tutte le sue ramificazioni. Nei romanzi di DeLillo è sempre sottesa una metafora simbolica della nostra contemporaneità: i rifiuti, conseguenza di bisogni spesso indotti e dunque superflui e ingovernabili. In Rumore bianco, che nel 1985 lo consacra a livello internazionale, una piccola apocalisse chimica sprofonda un professore borghese nella paranoia e nel terrore della morte. In Underworld del 1997, dove si legge l’amarissimo adagio “Consuma e muori. E finisce tutto nella spazzatura”, si dipanano quarant’anni di storia degli Usa. Seguendo il destino di una pallina di baseball, che nel 1951 viene raccolta da un ragazzino nero, il lettore, avanti e indietro nel tempo, entra in contatto con personaggi luoghi eventi della società americana fino agli anni 90.

DeLillo batte i suoi romanzi su una vecchia macchina per scrivere, e non possiede nemmeno uno smartphone. Eppure nessuno meglio di lui sa, prima ancora che raccontare, percepire le crepe del nostro tempo. A 84 anni, con il Novecento sulle spalle, ha la vista più lunga di tutti verso il domani che si profila all’orizzonte.

Morte a Venezia, dopo 60 anni di grande amore

Nel 1992 l’americano Harold Brodkey e sua moglie si aggiravano per le calli di Venezia, ospiti della Serenissima per tre mesi. A lui, accostato di volta in volta a Wordsworth o Milton, per Harold Bloom “un Proust americano”, osannato dall’editor Gordon Lish ma pure criticato da chi lo reputa narrativamente logorroico e stilisticamente ridondante, il Consorzio Venezia Nuova aveva commissionato la stesura di un libro, da distribuire fuori commercio, per “narrare la città della laguna”.

Brodkey – che per scrivere la sua opera prima, L’anima che fugge, per Lish “l’unico romanzo necessario del 900”, per altri un bildungsroman indigesto, impiegò quasi trent’anni (a chi glielo faceva notare rispondeva ironico: “Goethe ne ha impiegati 60 per scrivere il suo Faust”) – chiarì subito che non sarebbe riuscito a completare la stesura fintanto che stava a Venezia: lo avrebbe fatto una volta rientrato a New York. Il fascino irresistibile della città, che amava girare a piedi, lo distraeva troppo. Il libro in questione è Amicizie profane, edito da Mondadori nel ’94 e ora riproposto da Fandango, come tutti gli altri.

Di Venezia, Brodkey scrive così: “A Venezia si brucia pian piano” (sì, si sente l’eco di Morte a Venezia di Mann) e quel bruciare ha a che fare coi sentimenti quando consumano fino alle braci. La fama, benché ancora modesta, di Brodkey in Italia si deve al lavoro di traduzione di Delfina Vezzoli e al regista teatrale Pippo Delbono che durante un viaggio in Birmania s’imbatté casualmente, innamorandosene, nel memoir Questo buio feroce, sugli anni successivi alla diagnosi di Aids, in attesa della morte, occorsa nel ’96, e decise di trarne l’omonimo spettacolo teatrale nel 2009.

Cuore di Amicizie profane è la travagliata e complessa storia di amicizia e amore tra l’americano Niles, detto Nino, voce narrante, il cui padre è un romanziere amico di Hemingway, e l’italiano Onni, figlio di un funzionario fascista. La conoscenza sbocciata negli anni 30 sui banchi di scuola veneziani, ancora bambini, è destinata a durare, tra infiniti alti e bassi, fino ai sessanta suonati, quando Nino è scrittore affermato e Onni attore di fama, tormentato dalla bramosia di successo. Imperniato sull’arduo recupero dei ricordi, che nella mente di Nino non sono mai davvero in grado di restituire la tangibilità del momento vissuto (“Il ricordo è soltanto una luce, un faro puntato, a volte intimorito e a volte sfacciato, una luce discontinua generata dalla mente e proiettata dentro una soffitta-universo di momenti antichi, le cui tracce sono nel proprio cervello”), e sull’analisi maniacale degli abissi della coscienza, la narrazione alterna momenti di tenerezza e complicità ad aspri conflitti, avvicinamenti a rifiuti, in un ritrovarsi e allontanarsi incessante, tra odio e amore, che assume i tratti dell’ossessione morbosa.

Diametralmente opposti, Nino riservato, cerebrale, rigido, puritano, sentimentale, Onni arrogante, egocentrico, mondano, tranchant, lascivo, molesto e molestatore, perché a sua volta abusato in tempo di guerra, si provocano verbalmente, fisicamente e sessualmente nottetempo. Protagonista pulsante, mai solo sfondo, è una Venezia scintillante ma oscura di vicoli stretti e distese d’acqua increspate a incorniciare quella che è, a tutti gli effetti, un’apocalisse emotiva.

Amicizie profane, Harold Brodkey, Pagine: 464, Prezzo: 25, Editore Fandango

Metti una casa degli orrori ai tempi della Germania Est: è “Hausen” di Stuber

Casa infestata. Il sottogenere è di lunga e larga fortuna, Sky Original ha deciso di ancorarvi la prima serie horror prodotta, Hausen: alla regia Thomas Stuber, protagonisti Tristan Göbel (Goodbye Berlin) e Charly Hübner (Le vite degli altri), andrà in onda da sabato 20 febbraio alle 21.15 su Sky e in streaming su Now Tv.

Creati da Till Kleinert e Anna Stoeva, confezionati da Lago Film per Sky Deutschland, gli otto episodi mettono al centro un casermone nella Germania dell’Est: prefabbricato, fatiscente e inquietante, vive di vita propria, forse alimentandosi delle infelicità degli inquilini. Presenze, urla, visioni, soprattutto, un sinistro liquame che percola dalle condutture e inibisce il riscaldamento centralizzato: proverà a metterci mano il nuovo custode, Jaschek (Hübner), che s’insedia nel complesso residenziale periferico insieme al figlio sedicenne Juri (Göbel), fresco orfano di madre. La voglia di ricominciare li accomuna, ma non sarà da zero: forze oscure minacciano i condomini, e trovare la forza nell’unione si rivelerà un’impresa ardua per l’indomito e ultrasensibile Juri…

Stuber si serve di tutti i topoi dell’orrore, evocando diabolico e fantasmatico già sul piano acustico, mentre la tavolozza non dimentica l’eredità cromatica della Ddr: il lavoro è accurato, la drammaturgia senza frenesie, le atmosfere debitrici, un’ottava sotto, della lezione architettonica di Delicatessen (Jean-Pierre Jeunet e Marc Caro, 1991) e di altri domicili stregati, dalla saga di Amityville a 1408, passando per La comunidad.

Nei primi due episodi, sottrazione, suggestione e rivelazione la fanno da padrone, cercando nel formato famiglia – quella mutilata di Jascheck e Juri, quella derelitta di Kater e Cleo – proliferazione e insieme resistenza al male: le geometrie sono quelle poco variabili della casa infestata, ma in Hausen prende residenza un orrore sottile, filologico, perfino elegante.

 

Scamarcio “all’ombra di Caravaggio”, Germano a Latina

Dopo il successo di Favolacce, Elio Germano sarà il protagonista anche del nuovo film dei fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo intitolato America Latina, un thriller prodotto da FremantleMedia Italia sul set a marzo nei dintorni di Latina.

L’ultima sceneggiatura di Jean-Claude Carrière, La croisade, è diventata un film diretto da Louis Garrel a due anni dal suo L’homme fidèle, scritto sempre con il geniale sceneggiatore scomparso giorni fa a 89 anni. Interpretato dal 37enne attore/regista con sua moglie Laetitia Casta vedrà in scena i parigini Abele e Marianne che si ritrovano sconvolti e confusi quando scoprono che il loro figlio tredicenne Joseph ha venduto oggetti di valore per finanziare con altri amici un misterioso progetto ecologico in Africa. Nei mesi scorsi Garrel è stato anche il coprotagonista accanto a Riccardo Scamarcio di L’ombra di Caravaggio di Michele Placido e di Mon legionnairedi Rachel Lang insieme a Camille Cottard, la star della serie cult francese Call my agent.

Si sono concluse a Roma le riprese di Crazy for Football – Matti per il calcio, un tv movie tratto da una storia vera diretto da Volfango De Biasi ispirandosi al suo documentario Crazy for football e prodotto da Mad Entertainment e Rai Fiction con il supporto della Figc. Un gruppo di pazienti psichiatrici trova nella passione per il calcio e per la maglia azzurra una nuova forma di cura al dolore insieme a uno psichiatra fuori dalle regole (Sergio Castellitto) che li guida con coraggio oltre le barriere dell’ospedale e dei farmaci. Accanto a lui una preziosa assistente (Antonia Truppo) e un pragmatico allenatore (Max Tortora) che guida e motiva i ragazzi nel campionato mondiale di calcio a cinque nonostante lo scetticismo di un medico tradizionalista verso la nuova terapia (Massimo Ghini).

Qualcosa non torna nel Caso del Cecil Hotel

Questa è la storia di un hotel famoso per aver ospitato vari serial killer, di una ragazza misteriosamente scomparsa all’interno dell’albergo e di un gruppo di investigatori da tastiera convinti di poter trovare da soli la soluzione dell’enigma. Il caso del Cecil Hotel, girato da Joe Berlinger, è la prima stagione di Sulla Scena del Crimine, la nuova docuserie true crime antologica di Netflix.

Los Angeles, 2013. La studentessa canadese Elisa Lam, in viaggio negli Stati Uniti, sparisce nel nulla. Le indagini della polizia si concentrano subito sull’hotel dove soggiornava la ragazza. Come mai? Innanzitutto perché il Cecil, un albergone degli anni Venti del Novecento, è noto per aver fatto da sfondo nel corso della sua lunga storia a numerosi fatti di sangue (lo sa bene chi ha guardato Night Stalker: Caccia a un Serial Killer, la docuserie su Richard Ramirez uscita qualche settimana fa proprio su Netflix). E poi perché si trova a due passi da Skid Row, l’area più malfamata di Downtown, abitata da migliaia di senzatetto e tossicodipendenti.

La prima svolta arriva con un video. Il filmato, girato dalla telecamera interna di un ascensore, prova che Elisa è entrata nell’hotel e non ne è più uscita. A catturare subito l’attenzione è lo strano comportamento della ragazza, che entra ed esce dalla cabina, schiaccia i tasti a ripetizione, muove le mani in maniera assurda e poi scompare. Dov’è andata? C’era qualcuno con lei? E perché le porte dell’ascensore non si sono mai chiuse? La polizia brancola nel buio e decide di dare il video in pasto al web, dove in pochi giorni viene cliccato da milioni di utenti.

Alla seconda svolta nelle indagini contribuiscono, invece, gli ospiti del Cecil. Alcuni clienti segnalano che dai rubinetti esce acqua marrone. Un addetto alla manutenzione sale sul tetto, apre i serbatoi e trova… il cadavere di Elisa Lam. Ma quella che sembra la soluzione del caso diventa l’inizio di un’altra storia che vede come protagonisti gli “internet sleuth” (investigatori del web) che si lanciano in ipotesi via via sempre più assurde.

La vicenda di Elisa Lam contiene in sé tutti gli elementi per dare vita a un perfetto true crime. La vittima: una studentessa problematica e attivissima su Tumblr. Il luogo del crimine: un hotel tristemente famoso per i casi di cronaca nera. L’indizio: un video assurdo che sembra fatto apposta per costruirci sopra teorie bizzarre. E poi una serie davvero incredibile di coincidenze che alimentano le fantasie degli investigatori amatoriali.

Qualcuno rispolvera Dark Water, un horror del 2005 la cui trama ha molti punti in comune con il caso di Elisa. Poi viene fuori il cantante death metal Morbid, che il web inserisce fra i sospettati perché ha soggiornato al Cecil e ha scritto una canzone su una ragazza morta nell’acqua. Infine, la coincidenza più incredibile di tutte: nel periodo in cui la ragazza scompare a Skid Row infuria un’epidemia di tubercolosi e Lam-Elisa è il nome di uno dei test usati per individuare l’infezione. Insomma, ce n’è abbastanza per far immaginare spy story e complotti governativi.

Prodotta dalla coppia Brian Grazer-Ron Howard e girata da Joe Berlinger, il regista della trilogia di Paradise Lost e del documentario su Ted Bundy, Sulla Scena del Crimine: Il caso del Cecil Hotel ripercorre la vicenda dando voce a molti dei protagonisti dell’epoca, dai detective incaricati dell’indagine agli youtuber, dalla direttrice ai clienti dell’albergo. L’ultimo episodio, poi, tenta di chiudere il cerchio e fornire la soluzione più credibile al mistero.

Cosa non va nella serie? Probabilmente il formato. Per mettere insieme quattro episodi da 55 minuti l’uno, Berlinger ha inserito tutto: la morte di Elisa e la storia dell’hotel, le tematiche sociali legate a Skid Row e le fake news partorite dal web. Nonostante questo le prime tre puntate scorrono troppo lente e ripetitive. Forse sarebbe stato più efficace un documentario di 90 minuti focalizzato solo sul caso di Elisa Lam.

Sulla scena del crimine: Il caso del Cecil Hotel

 

Gioventù bruciata nell’Inferno della notte romena

Unire il miglior cinema americano d’inchiesta giornalistica, da Tutti gli uomini del presidente a Il caso Spotlight, al migliore cinema di Francesco Rosi, da Le mani sulla città a Il caso Mattei? Incredibile ma vero, è riuscito al regista romeno classe 1979 Alexander Nanau con Collective (Colectiv), che arriva il 18 febbraio sulla piattaforma IWonderFull.

Pluripremiato, in lizza per l’Oscar, trova questa sintesi inaudita perfino in modo inedito: è un docuthriller, documentario nell’aderenza fattuale, thriller per progressione ansiogena. Da La morte del signor Lazarescu (2005) di Cristi Puiu a Police, Adjective (2009) di Corneliu Porumboiu fino a Bacalaureat (2016) di Cristian Mungiu, la nouvelle vague romena si è largamente confrontata con la corruzione patria, ma Nanau non si accontenta del realismo, vuole la realtà, la cronaca colta nel suo farsi.

È il 30 ottobre del 2015, sul palco del Colectiv, famosa discoteca di Bucarest, sta suonando il gruppo metalcore Goodbye to Gravity. Il frontman Andrei Galutț ha appena finito di urlare “Fanculo la vostra sporca corruzione! Esiste fin dalla nostra nascita…”, ma qualcosa non va, “qualcosa là ha preso fuoco” e, precisa Galut, “non fa parte dello spettacolo”. Nessuna trasfigurazione artistica, appunto, la tragedia irrompe nel cinema: Galut, con ustioni sul 45% del corpo, sarà l’unico a salvarsi, gli altri quattro membri della band verranno annoverati tra i sessantaquattro morti, compresa la studentessa italiana Tullia Ciotola, del rogo del Colectiv.

Centocinquantatré i feriti, le manifestazioni di piazza spingono il primo ministro Victor Ponta alle dimissioni il 4 novembre. Alla classe politica viene imputata la corruzione sistemica del Paese: il club operava nella completa inosservanza delle misure di sicurezza. Ma è solo l’inizio: 27 periscono nell’incendio, le altre 37 vittime sono causate da strutture ospedaliere inadeguate e infezioni batteriche devastanti.

A infilare la penna nello scandalo è il giornalista del quotidiano sportivo Gazeta Sporturilor Catalin Tolontan: le infezioni dei pazienti gravemente ustionati si debbono all’utilizzo di disinfettanti criminosamente diluiti fino a perdere efficacia. Se i test governativi – il ministro della Salute Nicolae Banicioiu si dimetterà – accordano ai disinfettanti un’efficacia del 95%, le analisi indipendenti di Tolontan rivelano l’operato fraudolento del fornitore Hexi Pharma e del titolare Dan Condrea, che si suicida in circostanze opache. Al posto di Banicioiu arriva il giovane Vlad Voiculescu, già attivista per i diritti dei malati: l’operazione trasparenza sarà decisiva?

Collective affaccia sull’abisso, senza remore: nell’orecchio di un paziente brulicano vermi, ma il vero spavento è per il giuramento di Ippocrate rinnegato, la corruzione dilagante, la pietas arsa anch’essa. Uno dei film più potenti, intelligenti e necessari (sì: necessari) degli ultimi anni: non perdetelo.