Ciao Paolo, un maestro. Morto Isotta, il (nostro) critico

E così non andrò a trovare Paolo Isotta nella magnifica casa affacciata sul golfo di Napoli di cui era tanto orgoglioso, segno della sua distinzione, il primo di una lunga serie. Il primo invito di Paolino – come lo chiamavano i molti amici, e gli ancor più numerosi nemici – era arrivato quasi quarant’anni fa a casa del regista Luca Coppola. Isotta era già l’enfant prodige della critica musicale italiana in anni in cui ancora in Italia esisteva una critica che non fosse critica gastronomica, anni in cui la critica, segnatamente musicale, era considerata l’unico metro di giudizio possibile e necessario, frutto di studio e competenza oggettivi (nemmeno Draghi avrebbe avuto niente da ridire), ed essere critici del Corriere della Sera nella città della Scala significava occupare una posizione di prestigio e potere incontestabili.

Quel giovane professore dall’orecchio assoluto, sempre seduto in prima fila del San Carlo in giacca e cravatta, era stato segnalato da Fedele D’Amico a Piero Buscaroli; e su suggerimento di Buscaroli, Isotta fu assunto come critico musicale del Giornale di Montanelli. Aveva 24 anni, a 30 sarebbe passato al Corriere per diventare il temutissimo, amatissimo e odiatissimo recensore del più diffuso quotidiano nazionale.

Fin da subito, e con l’orgoglio di rivendicarlo, Isotta è stato qualcosa di più e qualcosa di meno di un critico musicale. Qualcosa di meno, perché dichiaratamente umorale, sulfureo, sanguigno, incapace di mezze misure, sedotto dal demone della stroncatura (i critici diventano scrittori solo quando stroncano, diceva Missiroli). Qualcosa di meno, perché dichiaratamente schierato anche nella politica culturale, uomo di platea e di foyer, costruttore di carriere e consigliere di sovrintendenti. Qualcosa di meno, anche per la sua felice adesione al politicamente scorretto, felicemente provocatorio anche nel rivendicare la propria bisessualità (“Io faccio tutte cose. Attivo e passivo. Con maschi e con femmine”. “Gay è una parola pezzente, un eufemismo piccolo-borghese da mezzacalzetta. Il termine più consono a una natura curiosa di altre navigazioni è ‘ricchione’”).

Qualcosa di più di un critico; anzi, molto di più, perché come il suo maestro Buscaroli possedeva il passo, il respiro e la lingua del saggista di vaglia, i suoi libri maggiori entrano a pieno in quella linea dove si incontra, quasi senza eccezioni, la prosa più alta del Novecento italiano; sia che si occupasse di musica muovendo dal centro dei suoi amori, Richard Wagner (Le ali di Wieland, Il ventriloquo di Dio, sui rapporti tra Wagner e Thomas Mann), sia che, negli anni più tardi, archiviata per sempre la critica militante e divenuto tra l’altro firma del Fatto Quotidiano, si cimentasse con la memorialistica a partire dal rapsodico, feroce, spassoso Le virtù dell’elefante, che resta il suo capolavoro.

In più di trent’anni di missioni nei teatri d’Europa non aveva mai voluto muoversi dalla casa avita dove mi ripromettevo di andare a trovarlo; però lo avevo perso di vista da parecchi anni, Paolino, quando un giorno, in piena notte, mi arrivò una sua telefonata. “Sono a Milano, vieni a trovarmi domattina presto, devo parlarti con urgenza”. Non so come, era riuscito a sapere che ero sul punto di dare le dimissioni dal Giornale in vista della nascita della Voce di Montanelli. “Sei pazzo? Quel giornale vivrà al massimo un anno, poi ti ritroverai in mezzo a una strada”. Un anno dopo ripensai alle sue parole; Isotta aveva avuto ragione al 100 per 100 quasi che il destino della Voce fosse scritto in partenza; ma non ero pentito, a volte nella vita per restare liberi bisogna avere torto.

Conoscendolo, adesso c’è un solo modo per rendergli omaggio evitando di incappare nel sarcasmo che sempre riservava ai farisei: riconoscerne il valore senza eufemismi politicamente corretti o monumenti funebri piccolo borghesi, senza nascondere lo spirito, il sangue ma nemmeno la bile. Magari con le stesse parole con cui aveva concluso sul Fatto il suo ricordo di Franco Zeffirelli: “Era cattivo (e anche molto buono), era intelligente (anche se faceva il cretino). Tutte le parti negative scompaiono con la sua vita. Ci resta il genio”.

“Impeachment: tutto cinema dei Dem”

Il processo di impeachment è un “atto di vendetta politica ingiusto e palesemente anticostituzionale” che “dividerà ulteriormente la nostra nazione”. E i Democratici che sostengono l’accusa hanno “fabbricato e alterato” le prove presentate. Ci sono andati giù pesanti gli avvocati di Donald Trump, protagonisti dell’udienza di ieri del procedimento in corso nel Senato dell’Unione. I legali del magnate hanno sostenuto che Trump non incitò alla violenza i facinorosi suoi sostenitori che il 6 gennaio investirono il Campidoglio, cercando d’indurre il Congresso a rovesciare l’esito delle elezioni. S’è poi aperta una fase di ‘domande e risposte’ tra i senatori e l’accusa e la difesa. Oggi, il processo osserva una pausa. Domani, se – come pare – non verranno chiamati testimoni, accusa e difesa pronunceranno requisitoria e arringa. La sentenza potrebbe arrivare subito dopo.

La tesi della difesa è che il comizio di Trump davanti alla Casa Bianca il 6 gennaio non costituiva un appello alla violenza ed è protetto dal primo emendamento della Costituzione, che tutela il diritto di parola. Michael Van de Veen, uno degli avvocati, ha detto: “Le parole di Trump incoraggiarono esplicitamente i presenti a esercitare i loro diritti pacificamente e patriotticamente”. David Schoen, un altro legale, ha detto che l’accusa ha “fatto cinema”. Bruce Castor ha contestato come irrilevanti le prove basate su documenti mediatici e ha accusato i Dem di manipolare video e tweet con montaggi artati. Sono stati presentati estratti di discorsi di leader democratici, da Chuck Schumer a Nancy Pelosi, con linguaggi simili a quelli incendiari del magnate. Ed è stata riproposta l’equivalenza tra i fans dell’ex presidente, “un piccolo gruppo”, e i militanti anti-razzisti di Black Lives Matter. Versione che contrasta con gli sviluppi delle indagini, dove diventa centrale la figura di Thomas Edward Caldwell, 66 anni, di Berryville (Virginia), ex agente dell’Fbi e dell’intelligence della Marina, che avrebbe addestrato e coordinato militanti di gruppi paramilitari di estrema destra. L’udienza è stata preceduta da polemiche perché tre senatori repubblicani, giurati sulla carta imparziali, hanno avuto un incontro informale con gli avvocati di Trump. Ted Cruz, Mike Lee e Lindsey Graham, tutti già decisi a votare per l’assoluzione del magnate, hanno derubricato l’iniziativa a gesto di cortesia. L’impressione suscitata dalle accuse mosse a Trump rende il presidente Joe Biden “impaziente – dice – di vedere che cosa faranno i miei amici repubblicani”. Il processo ha più attenzione del primo, un anno fa: decine di milioni di americani lo seguono in tv. E a Mar-a-Lago, Trump non ha tregua: uno striscione in cielo chiede “Condannate Trump e chiudetelo in prigione”.

“Senza di noi Orbán non ha freni: è l’Ungheria pre ’89”

Da mezzanotte di domani, Klubradio, l’ultima voce del giornalismo indipendente ungherese, verrà silenziata per un cavillo burocratico che ha permesso il ritiro della licenza: “Formalmente la sentenza fa riferimento alla violazione del regolamento che stabilisce le quote di musica e notizie nazionali e internazionali da trasmettere, ovviamente ci sono precedenti di violazioni più gravi del nostro, abbiamo fatto ricorso alla Corte, che però non ci ha difeso”, riferisce Mihalj Hardy, direttore della leggendaria emittente.

Direttore Hardy, è stata una scusa che il governo ha usato per farvi chiudere?

Certo. Il premier Orbán ha dato un occhio al calendario: nella primavera del 2022 ci saranno le elezioni parlamentari. Fino ad allora ha tempo di eliminare tutte le voci indipendenti. Anche se ci definiscono una radio di sinistra e liberale, ribadisco che noi forniamo un servizio pubblico, critico e senza appartenenza politica, che funziona su base commerciale. Siamo una radio di notizie, di dibattiti e programmi di politica e cultura. Dal 2010 viviamo solo delle donazioni del nostro pubblico e, in dieci anni, abbiamo ricevuto in pagamenti e abbonamenti oltre quattro milioni di euro.

Se non ci sarete più, chi indagherà il governo Orbán e i suoi scandali?

Il 95% del panorama mediatico ungherese è di proprietà di investitori vicini a Orbán o controllato direttamente dai suoi uomini. Resta qualche giornale locale e siti marginali ancora indipendenti, ma non sono abbastanza forti da influenzare il dibattito pubblico.

Come è cambiato il suo Paese da quando il sovranista è al potere?

Non sta facendo niente di buono per l’Ungheria: la sua leadership sta portando l’economia al collasso. Perfino Romania e Slovacchia stanno facendo meglio di noi, mentre una volta eravamo pionieri nella regione dell’Europa orientale. Il mio Paese adesso rimane indietro perché la politica governativa ci danneggia innanzitutto finanziariamente, è una dittatura in cui i soldi finiscono nelle tasche di Orbán, dei suoi amici e parenti.

Lei e i suoi giornalisti cosa farete da lunedì prossimo?

Noi continueremo come radio libera, con lo spirito combattivo che ci appartiene, abbiamo un obbligo verso il pubblico. Continueremo a trasmettere sul Web: ovviamente non sarà lo stesso e manterremo, secondo le stime, solo il 20 o 30% del nostro pubblico di ascoltatori.

Prevede cambiamenti nel prossimo futuro?

La nostra opposizione è frammentata, sia a destra che a sinistra. Forse i giovani si stancheranno di questo sistema, ma ci vorrà tempo. Almeno 500 mila persone hanno varcato il confine e lavorano all’estero: i migliori, i più brillanti se ne sono andati e non vogliono tornare.

Perfino Bruxelles ha rimproverato Budapest. La Commissione europea si è seriamente preoccupata per il pluralismo e la libertà dei media in Ungheria e per il caso di Klubradio. Contate sull’aiuto dell’Ue?

Nessuno risolverà il problema ungherese, se non gli ungheresi. Ma ogni aiuto è benvenuto e i contribuenti europei dovrebbero sapere che le loro tasse finiscono nelle tasche del nostro primo ministro, che i budget europei vanno a finire nei conti dei suoi tirapiedi.

Trasmettete ormai da 20 anni, siete un pezzo di storia dell’Ungheria libera, nata dopo il collasso dell’Urss. Si aspettava di vedere tutto questo?

Non è per questo che le persone hanno combattuto nel 1989 e 1990, è stata un’opportunità storica perduta e adesso stiamo tornando indietro. Gli uomini del sistema Orbán controllano tutto e temo che più che delle elezioni per mandarli via, ci vorrebbe un altro 1989.

Facebook limita i post dei militari: “C’è troppa disinformazione”

“Evitare che si diffonda disinformazione”. Facebook ieri è entrato formalmente nell’agone politico della Birmania, “limitando i post dei militari golpisti”, mentre decine di migliaia di persone sono scese in piazza nel più grande giorno di proteste contro il colpo di Stato del 1° febbraio che ha deposto Aung San Suu Kyi. “Nessun divieto – fa sapere il social network – solo limiti mirati a ridurre il numero di utenti che possono visualizzare il contenuto di alcuni post”. Si parla sia della pagina gestita dai miliari che del profilo del generale Min Aung Hlaing, che con i feed negli ultimi mesi ha fatto la sua propaganda. Facebook ha anche sospeso la capacità delle agenzie governative di inviare richieste di rimozione di contenuti e “iniziato a proteggere i contenuti che consentono al popolo birmano di esprimersi e di mostrare al mondo ciò che sta accadendo”. Questo mentre 350 persone tra politici, attivisti e cittadini sono stati arrestati, secondo quanto illustrato a Ginevra dalla vice Alto Commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite, Nada al-Nashif all’apertura della sessione speciale sulla Birmania, che ha condannato il golpe in quanto “profonda battuta d’arresto dopo un decennio di conquiste democratica”. Una bozza di risoluzione, presentata dalla Gran Bretagna e dall’Ue, chiede il “rilascio immediato e incondizionato” di Suu Kyi, il presidente U Win Myint e altri funzionari, la revoca delle restrizioni su Internet e l’accesso umanitario. La giunta dal canto suo ha annunciato che, nel Giorno dell’Unione, festa nazionale, rilascerà 23 mila prigionieri e ridurrà le condanne di altri detenuti, ma al contempo ha chiamato la popolazione a collaborare “per una realizzazione di successo della democrazia”.

Le bambine vanno in guerra. La parità dei mini-eserciti

Da anni l’opinione pubblica mondiale è a conoscenza dell’orribile pratica del reclutamento di bambini per combattere, ma sono in pochi a sapere che ben il 40% di loro sono bambine che oltre a essere usate come schiave sessuali si trovano costrette a dover imbracciare un fucile e uccidere. Inoltre i bambini vengono arruolati anche dagli eserciti regolari tenuti dalle convenzioni internazionali a salvaguardare i più deboli, in primis i bambini. Si tratta di una piaga che continua ad allargarsi: il numero di casi registrati è costantemente aumentato dal 2012 al 2020. La denuncia arriva dall’Organizzazione non governativa Intersos nella Giornata mondiale contro l’impiego dei bambini soldato. L’Ong ha lanciato anche la campagna twitter #Stopbambinisoldato per sensibilizzare maggiormente anche i giovani internauti.

Le testimonianze documentate dalle organizzazioni umanitarie provengono da 18 paesi in cui, dal 2016 a oggi, viene fatto uso sistematico di bambini soldato. La lista della vergogna comprende Afghanistan, Camerun, Colombia, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, India, Iraq, Mali, Myanmar, Nigeria, Libia, Filippine, Pakistan, Somalia, Sudan, Sud Sudan, Siria e Yemen. Federica Biondi, operatrice di Intersos, ha lavorato a lungo per il recupero di questi bambini e bambine che talvolta riescono a fuggire. “Vengono arruolate anche bambine di 11 anni dopo essere state rapite in seguito ad attacchi contro i villaggi dove vivono. Talvolta sia le bambine sia i bambini vengono plagiati dagli stessi guerriglieri o soldati regolari. In genere le organizzazioni umanitarie iniziano i percorsi di recupero dei bambini soldato dopo che i caschi blu dell’Onu o l’Unicef sono riusciti a ottenere il loro rilascio negoziando con i loro aguzzini”, spiega Biondi. Sul numero dei bambini soldato non esiste una statistica ufficiale ma solo stime. In questo momento a fare gli sguatteri nelle retrovie e a combattere in prima linea ce ne sarebbero centinaia di migliaia. “Per le bambine, spesso costrette a sposare i guerriglieri in ossequio alle tradizioni locali, la notte si trasforma in un incubo nell’incubo”, sottolinea l’operatrice. Altri bambini sono spinti ad arruolarsi dalla povertà e dalla necessità di sopravvivere. Intersos conduce, con il sostegno di Unicef, un progetto di reintegrazione di ex bambini soldato nella Repubblica Centrafricana, (uno dei paesi più colpiti da questo fenomeno) dove dal 2013 è in corso una sanguinosa guerra civile.

Tra i 180 bambini che stanno completando il percorso di reinserimento sociale e lavorativo c’è Sefaka. Si è arruolata nel gruppo Anti-Balaka dopo che un membro del gruppo armato Seleka ha ucciso i suoi genitori e l’ha costretta a un matrimonio combinato. Al termine di alcuni incontri di sensibilizzazione organizzati da Unicef per i gruppi armati di Kagabandoro, il suo generale ha deciso di lasciarla andare. “Mi sono unita al gruppo armato solo per rabbia. La vita con i ribelli è stata difficile, non sempre avevamo da mangiare ma io volevo continuare comunque per vendicare i miei genitori”, ha raccontato agli operatori umanitari. Grazie al programma di reinserimento, Sefaka ha imparato a cucire e adesso lavora nel suo villaggio, Bakongo. In questi giorni è in attesa di una macchina per cucire e altri materiali che le verranno forniti dal progetto. Anche i maschi possono desiderare di fare i sarti. Doungomou aspira addirittura “a lavorare in un grande atelier”. Da poco maggiorenne, originario del villaggio di Kagongo (Repubblica Centroafricana) Doungomou era diventato un bambino soldato nel 2014 quando uno dei gruppi armati che animano il conflitto interno al Paese, ha saccheggiato e bruciato la sua casa, torturato i suoi genitori e ucciso la sorella minore. “In seguito alla decisione di mio padre di fuggire nella grande foresta per supportare il gruppo Anti-Balaka, ho fatto lo stesso. All’inizio non avevo che un coltello, è stato durante un combattimento che sono riuscito a procurarmi una vera arma”. Per Doungomou e i suoi compagni, oltre ai combattimenti con gli altri gruppi, il problema principale era procurarsi da mangiare: “I capi ci costringevano a fare le rapine in cambio di cibo e a volte i commercianti ci sparavano contro”. Grazie al supporto dell’Onu il ragazzo ora si trova a Sibut dove frequenta un corso di cucito e ha imparato a realizzare abiti per bambini. Come erano lui e Sefaka prima che gli adulti rubassero loro l’infanzia.

L’“effetto Draghi” ormai è mondiale

I benefici della sola presenza di Mario Draghi hanno superato i confini italiani coinvolgendo l’intero pianeta. Ecco una breve rassegna stampa dal mondo su quello che è ormai noto come “Effetto Draghi”.

Mercati. “Effetto Draghi anche per i Bonos: boom di domanda”. Svolgimento: “Anche la Spagna beneficia dell’effetto Draghi. In un contesto di mercato molto favorevole per i titoli della periferia dell’Eurozona per via del rally dei Btp ieri Madrid ha raccolto 5 miliardi di titoli a 50 anni registrando oltre 65 miliardi di ordini”

(Il Sole 24 Ore, 11 febbraio)

Clima. “Effetto Draghi sull’effetto serra: un caso di contro-effetto”. Svolgimento: “Gli scienziati da giorni stanno osservando un’incredibile espansione dei ghiacciai ai poli”
(La Gazzetta di Zuzzana, 12 febbraio)

Medioriente. “Effetto Draghi sul conflitto palestinese”. Svolgimento: “Improvvisamente ieri Netanyahu ha indossato una kefiah e s’è recato a piedi a casa di Abu Mazen urlando contro le colonie nei Territori occupati. L’ospite ha cercato di calmarlo: a me le colonie piacciono, lasciale lì”

(Tel Aviv Oggi, 10 febbraio)

Ue. “Effetto Draghi sulla Brexit: Londra ci ripensa”. Svolgimento: “Boris Johnson sta per annunciare un clamoroso dietrofront: niente più Brexit, la Gran Bretagna resterà nell’Ue. La cosiddetta variante inglese del Covid s’è portata avanti: da ieri si chiama variante europea”

(Il Corriere di Liverpool, 12 febbraio)

Medicina. “Effetto Draghi sulle disfunzioni erettili: Pfizer crolla in Borsa”. Svolgimento: “Una inusuale potenza sessuale è stata riscontrata nei maschi affetti da disfunzione erettile: gli scienziati del Mit di Castellammare di Denver lo hanno notato proprio a partire dal minuto in cui l’ex Bce è stato incaricato di formare il governo. Le voci attorno a quest’anomalia medica hanno fatto crollare il valore delle azioni di Pfizer, produttrice del Viagra”

(Il Colorado della Sera, 9 febbraio)

Disclaimer. Gli articoli qui citati, come i nomi dei giornali che li hanno pubblicati, sono falsi. Cioè, tutti tranne uno…

Casalesi, Pasquale Zagaria esce dal carcere Il boss avrebbe dovuto scontare 25 anni

Questa volta il presunto rischio Covid non ha alcun ruolo. Il boss del clan dei Casalesi, Pasquale Zagaria, è uscito dal carcere per fine pena, ricalcolata al ribasso perché gli è stata riconosciuta quella che si chiama “continuazione”. Intorno alle 18 di ieri, ad aspettarlo fuori dal centro clinico del carcere di Opera (Milano) c’erano la moglie e le figlie. Zagaria, considerato la mente economica del clan capeggiato dal fratello Michele, era tornato al 41-bis il 22 settembre. Cinque mesi prima aveva ottenuto i domiciliari dal tribunale di Sorveglianza di Sassari, dove era detenuto, sempre al 41-bis, perché, secondo i giudici, le sue condizioni di salute e le terapie a cui doveva sottoporsi lo sovraesponevano al rischio Covid. Lo hanno, però, mandato a casa, nel Bresciano, in piena zona rossa. Quei domiciliari a Zagaria furono facilitati anche da una serie di lacune del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che portarono alle dimissioni forzate del direttore Francesco Basentini, responsabile anche di una controversa circolare nelle carceri, che è stata usata come pretesto dagli avvocati di diversi boss. Ma a concedere decine di domiciliari per rischio Covid, è bene ricordarlo, sono stati i giudici. Il passo indietro c’è poi stato con un decreto del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, grazie al quale i boss che possono curarsi nei centri clinici dei circuiti carcerari, ora per legge indicati dal Dap diretto da Dino Petralia, sono tornati nei penitenziari. Contro quel decreto si era rivolto alla Corte costituzionale, perdendo, proprio il Tribunale di Sorveglianza di Sassari. Pasquale Zagaria, intanto, era tornato in carcere ma da ieri è un uomo libero per ordine della competente Procura generale di Napoli. Il gip, infatti, sempre ieri, “decidendo in sede di rinvio della Cassazione” cui si erano rivolti gli avvocati Angelo Raucci e Andrea Imperato “ha riconosciuto la continuazione tra reati”, in sostanza, ha ravvisato che dietro i fatti per cui sono state inflitte varie pene definitive c’era un unico disegno criminoso e quindi, per legge, viene riconosciuta la continuazione e si riduce la pena. In questo caso si è passati dal fine pena del 27 agosto 2023 “con decorrenza dal 28 giugno 2007” al fine pena “26 ottobre 2020”, cioè quasi 4 mesi fa. Come si è arrivati a questa fine così anticipata? Tra cumuli delle pene, sconti “automatici” per legge e la continuazione, la prima nel 2018 e la seconda di ieri, la condanna definitiva è passata da 25 anni e 7 mesi a 16 anni e 2 mesi.

Corte dei Conti, Renzi e Verdini a giudizio insieme

Matteo Renzi e Denis Verdini, amici al punto che l’ex premier il 23 dicembre era andato a trovare l’ex sherpa di Berlusconi a Rebibbia, il 24 febbraio andranno a processo davanti alla Corte dei Conti. I due casi però non hanno punti in comune. Renzi dovrà presentarsi davanti ai giudici contabili con l’accusa di danno erariale insieme ad alcuni dirigenti del Comune di Firenze per aver scelto nel 2009, da sindaco, due giovani assunti a tempo indeterminato e inseriti come collaboratori nel suo staff. Problema: i due non avevano la laurea, uno dei requisiti richiesti. Per questo a Renzi viene contestato un danno di 69mila euro.

Verdini, da pochi giorni ai domiciliari nella sua villa fiorentina, invece è a processo insieme ad altre 10 persone per la vicenda della truffa legata ai 24 milioni di contributi pubblici percepiti, indebitamente per l’accusa, dalla Società Editoriale Toscana (Ste) che pubblicava Il Giornale della Toscana. Renzi e Verdini, però, non si incroceranno: le due udienze si terranno per via telematica.

Martina Rossi, Cassazione smonta l’Appello “Era senza i calzoncini, non tentò il suicidio”

“Un errore macroscopico”, “sottovalutazioni” e soprattutto una sentenza, quella di Appello, caratterizzata da “incompletezza, manifesta illogicità e contraddittorietà”. Con queste motivazioni la terza sezione penale della Cassazione ha smontato la sentenza della Corte di Appello di Firenze del 28 luglio che aveva assolto due giovani di Arezzo, Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi, per la morte di Martina Rossi ordinando un nuovo processo di secondo grado. La 20enne di Genova era morta il 3 agosto 2011cadendo dal balcone di un hotel di Palma di Maiorca, dove si trovava in vacanza: secondo la Procura di Arezzo stava sfuggendo a un tentativo di stupro e il 14 dicembre 2018 i due giovani erano stati condannati dal Tribunale di Arezzo a 6 anni.

A giugno scorso i giudici d’appello avevano ribaltato la sentenza assolvendo i due perché il fatto non sussiste, mentre l’accusa di morte come conseguenza di altro reato si era prescritta a novembre 2019: secondo i giudici di Firenze, anche se un’aggressione sessuale “non può del tutto escludersi”, le modalità della caduta della giovane era “dissonante con l’ipotesi di un tentativo di fuga e dal tentativo di violenza sessuale”. Ma i giudici della Cassazione nella sentenza in cui ordinano un nuovo processo, spiegano che, quando è caduta, Martina Rossi non aveva i pantaloncini e questo “appare difficilmente collegabile con un tentativo di suicidio”. Non solo: gli ermellini accusano i giudici fiorentini di aver fatto, tramite un “esame invero superficiale del compendio probatorio”, un “macroscopico errore visivo di prospettiva nell’esaminare alcune fotografie, quanto all’individuazione del punto di caduta, individuandolo nel centro del terrazzo”. Così facendo – si legge nella sentenza – sono stati “depotenziati tutti gli elementi fattuali certi della scena del tragico evento come emergenti dagli atti” e con un ragionamento “di evidente incongruenza logica” i giudici “hanno assolutizzato le dichiarazioni del testimone oculare della precipitazione di Martina”. La sentenza d’appello, quindi, “non è capace di resistere” e la connessa motivazione è “priva di una visione sistematica dell’intero quadro istruttorio”. Per questo, concludono gli ermellini, deve essere fatto un nuovo processo di secondo grado. Una corsa contro il tempo visto che anche per il reato di accusa di tentata violenza sessuale scatterà la prescrizione il 20 agosto.

La morte velataregna in sicilia

Qualche anno fa Armando Rotoletti ci ha deliziato e sorpreso con un volume (Sicilia in piazza) che pareva il reportage da un pianeta sconosciuto: mirabili piazze da Siracusa a Trapani, da Marzamemi ad Alcamo, vi sono infatti mirabilmente fotografate a colori, vuote non solo di incongrui parcheggi e petulanti mercatini, ma anche di persone. Ridotte alla loro asciutta, smagliante bellezza le piazze di Sicilia raccontano di una civiltà del vivere insieme che le volgarità del tempo presente sembrano aver travolto per sempre. E che invece è ancora lì, tutta. Rotoletti vive a Milano ma è di Messina, e a lui si devono libri fotografici di grande qualità, dove la Sicilia torna spesso ma non sempre (suo è anche Valelapena, storie dal carcere di Alba; e si attende ora un libro fotografico su Ventimiglia). Tutto siciliano, e da un angolo rivelatore, è un libro appena pubblicato, Morte in Sicilia. Poco più di cento fotografie in impeccabile bianco-e-nero raccontano, con umana sintonia (da emigrato), ma anche con la sapiente distanza di uno sguardo antropologico, quanto a fondo la cultura siciliana sia imbevuta di senso della morte, ingrediente necessario del vivere. Come scrive Dacia Maraini nelle pagine introduttive, in queste foto “un apparente realismo ci fa strada nella ritualità antica dai gesti sempre uguali, qualcosa d’indefinito blocca il movimento e rende persone e cose come pietrificate”. Ma in questa “Sicilia dove le morti non sono tutte uguali” e dove “non si nasconde il dolore” ma lo si ritualizza, tutto muore e rinasce: “Per lei le morti sono state solo l’inizio di nuove vite e come i vecchi saggi resta immobile, col mare che la circonda e la brezza leggera che l’accarezza”.

Nelle sue foto Rotoletti esplora con struggente empatia l’incombenza della morte nella vita quotidiana di Sicilia, ma anche la palpabile presenza della vita nei rituali funebri, nei cimiteri, sui volti e nei rituali dei dolenti. Vediamo così abbrunarsi le doratissime specchiere del salone delle feste, cuore del Circolo di Conversazione di Ragusa (un club nobiliare di metà Ottocento); a Fiumefreddo sentiamo echeggiare, dai gesti e dai volti delle donne ammantate di nero, gli antichi lamenti delle prefiche; a Palma di Montechiaro assistiamo al rito senza tempo della “mano al morto”, quando “i parenti del defunto costituiscono una società speciale situata al confine tra il regno dei vivi e il regno dei morti”. Si aprono spiragli sui riti della Settimana Santa, quando la morte di Gesù viene celebrata con marce funebri, anche perché la Resurrezione arriva poi subito (e in una processione di Serradifalco le bambine “in lutto” non sanno trattenere un sorriso); vediamo il feretro di un benestante di Adrano muoversi verso la cappella di famiglia su una carrozza tirata da cavalli, mentre a Scaletta la bara di una vittima dell’alluvione deve accontentarsi di un motorino a tre ruote. Incontriamo sguardi, volti ora concentrati ora distratti, abiti d’ogni giorno e vesti cerimoniali di pie confraternite, e infine, ultime fra le immagini del libro, le disseccate spoglie umane che ancora ci guardano a Palermo nella Cripta dei Cappuccini, gli scheletri di stucco del Serpotta e la Morte in persona su uno scheletrico cavallo nel Trionfo della Morte di Palazzo Abatellis (circa 1440), per approdare alla necropoli rupestre di Pantálica (secolo XIII avanti Cristo): sobrie allusioni a una memoria storica plurimillenaria, dove gli uomini cambiano lingua e costumi, la morte no.

Con quanta pietosa cura e sapienza propriamente narrativa Rotoletti venga costruendo il suo racconto per immagini lo mostra specialmente una sequenza di tre foto (pp. 85-89). Nella prima vediamo uno scorcio del cimitero di Scicli (Ragusa), dove sotto un mucchietto di pietre giace l’“Immigrato n. 12 – Sbarco Sampieri”, anonima vittima “della nostra opulenza, della nostra arroganza, della nostra empietà e ferocia, della nostra ottusa indifferenza” (Vincenzo Consolo). Alla pagina dopo un anziano signore, su uno scoglio di Taormina, con gesto da seminatore getta in mare le ceneri di un defunto, presumibilmente siciliano. Appare infine un piccolo, ordinato cimitero a Capo d’Orlando, nel giardino dei baroni Piccolo di Calanovella (Lucio Piccolo, notevole poeta, era cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa): è il cimitero dei cani di famiglia, ognuno con la sua lapide di marmo, e il suo nome scritto sopra: Puch, Alì, Pascià, Mamoud, Bey, Flich e così via. La tomba dell’immigrato senza nome evoca un terribile viaggio attraverso il Mediterraneo in tempesta e poi (18 novembre 2005) il naufragio del barcone in vista della costa siciliana, e i morti di allora, senza più né identità né patria. A contrasto, le ceneri che a Taormina (ma stavolta per scelta del defunto) precipitano nel nulla fra le onde. E l’anonimità di chi, persa la patria e il nome, non è più che un numero contrasta duramente con la sequenza dei cani a cui le amorose cure dei Piccolo hanno consentito di conservare in morte i loro nomi (fra cui qualcuno vagamente medio-orientale). Lo dice bene Ignazio Buttitta in altre pagine di questo libro: “Dimenticare i morti, il loro insegnamento, (…) significa disperdere la propria storia culturale, consegnarsi al nulla, essere nulla. (…). Come ci suggeriscono le simboliche e potenti immagini di Armando Rotoletti, impedire il loro ritorno cancella ogni speranza in un domani autenticamente umano: si nun vennu li morti, nun caminanu li vivi [se non vengono i morti, non camminano i vivi]”.