E così non andrò a trovare Paolo Isotta nella magnifica casa affacciata sul golfo di Napoli di cui era tanto orgoglioso, segno della sua distinzione, il primo di una lunga serie. Il primo invito di Paolino – come lo chiamavano i molti amici, e gli ancor più numerosi nemici – era arrivato quasi quarant’anni fa a casa del regista Luca Coppola. Isotta era già l’enfant prodige della critica musicale italiana in anni in cui ancora in Italia esisteva una critica che non fosse critica gastronomica, anni in cui la critica, segnatamente musicale, era considerata l’unico metro di giudizio possibile e necessario, frutto di studio e competenza oggettivi (nemmeno Draghi avrebbe avuto niente da ridire), ed essere critici del Corriere della Sera nella città della Scala significava occupare una posizione di prestigio e potere incontestabili.
Quel giovane professore dall’orecchio assoluto, sempre seduto in prima fila del San Carlo in giacca e cravatta, era stato segnalato da Fedele D’Amico a Piero Buscaroli; e su suggerimento di Buscaroli, Isotta fu assunto come critico musicale del Giornale di Montanelli. Aveva 24 anni, a 30 sarebbe passato al Corriere per diventare il temutissimo, amatissimo e odiatissimo recensore del più diffuso quotidiano nazionale.
Fin da subito, e con l’orgoglio di rivendicarlo, Isotta è stato qualcosa di più e qualcosa di meno di un critico musicale. Qualcosa di meno, perché dichiaratamente umorale, sulfureo, sanguigno, incapace di mezze misure, sedotto dal demone della stroncatura (i critici diventano scrittori solo quando stroncano, diceva Missiroli). Qualcosa di meno, perché dichiaratamente schierato anche nella politica culturale, uomo di platea e di foyer, costruttore di carriere e consigliere di sovrintendenti. Qualcosa di meno, anche per la sua felice adesione al politicamente scorretto, felicemente provocatorio anche nel rivendicare la propria bisessualità (“Io faccio tutte cose. Attivo e passivo. Con maschi e con femmine”. “Gay è una parola pezzente, un eufemismo piccolo-borghese da mezzacalzetta. Il termine più consono a una natura curiosa di altre navigazioni è ‘ricchione’”).
Qualcosa di più di un critico; anzi, molto di più, perché come il suo maestro Buscaroli possedeva il passo, il respiro e la lingua del saggista di vaglia, i suoi libri maggiori entrano a pieno in quella linea dove si incontra, quasi senza eccezioni, la prosa più alta del Novecento italiano; sia che si occupasse di musica muovendo dal centro dei suoi amori, Richard Wagner (Le ali di Wieland, Il ventriloquo di Dio, sui rapporti tra Wagner e Thomas Mann), sia che, negli anni più tardi, archiviata per sempre la critica militante e divenuto tra l’altro firma del Fatto Quotidiano, si cimentasse con la memorialistica a partire dal rapsodico, feroce, spassoso Le virtù dell’elefante, che resta il suo capolavoro.
In più di trent’anni di missioni nei teatri d’Europa non aveva mai voluto muoversi dalla casa avita dove mi ripromettevo di andare a trovarlo; però lo avevo perso di vista da parecchi anni, Paolino, quando un giorno, in piena notte, mi arrivò una sua telefonata. “Sono a Milano, vieni a trovarmi domattina presto, devo parlarti con urgenza”. Non so come, era riuscito a sapere che ero sul punto di dare le dimissioni dal Giornale in vista della nascita della Voce di Montanelli. “Sei pazzo? Quel giornale vivrà al massimo un anno, poi ti ritroverai in mezzo a una strada”. Un anno dopo ripensai alle sue parole; Isotta aveva avuto ragione al 100 per 100 quasi che il destino della Voce fosse scritto in partenza; ma non ero pentito, a volte nella vita per restare liberi bisogna avere torto.
Conoscendolo, adesso c’è un solo modo per rendergli omaggio evitando di incappare nel sarcasmo che sempre riservava ai farisei: riconoscerne il valore senza eufemismi politicamente corretti o monumenti funebri piccolo borghesi, senza nascondere lo spirito, il sangue ma nemmeno la bile. Magari con le stesse parole con cui aveva concluso sul Fatto il suo ricordo di Franco Zeffirelli: “Era cattivo (e anche molto buono), era intelligente (anche se faceva il cretino). Tutte le parti negative scompaiono con la sua vita. Ci resta il genio”.