A scuola tutto il mese di giugno? Draghi consulti gli studenti

“Maestro, ma questa idea di tenere aperte le scuole d’estate è di Draghi o dei suoi figli secchioni? Noi a giugno dobbiamo andare in piscina, non ce la facciamo più a stare qui”. Alessandro, 10 anni, vorrebbe proprio parlare al premier incaricato. Super Mario non li ha ascoltati i bambini e i ragazzi, ma forse gli farebbe bene fare un giro di consultazioni con loro prima di proporre di fare lezione fino a fine giugno. Una proposta che quando era stata avanzata dalla ministra Lucia Azzolina (che ha poi fatto marcia indietro) aveva trovato le barricate di Lega e Forza Italia, ma ora “Parigi val bene una messa”.

Peccato che il mago dei numeri forse non abbia fatto un conto: per andare a scuola d’estate ci vorranno i condizionatori in aula. Il più economico costa 335 euro. Le classi di primaria, medie e superiori sono 327.168. In ogni aula ne servono almeno due. Per un mese di lezione serviranno 219.202.560 euro minimo. Non solo: davvero Mario Draghi pensa che il 28 giugno riuscirò a spiegare il sistema solare o i Romani mentre i miei alunni avranno la testa al pallone e alle nuotate?

Quando i 5Stelle non si facevano chiamare “grillini”

“Se è vero che i movimenti populisti vengono spesso innescati da un leader carismatico, è anche vero che la condizione per la loro sopravvivenza è il passaggio da movimento a istituzione”

(da Il partito di Grillo di Piergiorgio Corbetta ed Elisabetta Gualmini – Il Mulino, 2013 – pag. 213)

 

Qualche anno fa ho scritto un libro per Longanesi in forma di dialogo con mio figlio Niccolò – io “elettore critico” del centrosinistra e lui “grillino” militante – intitolato Voto di scontro e arricchito da una lucida prefazione di Stefano Rodotà. Quello era, appunto, un acceso confronto generazionale intorno alla politica italiana e in particolare all’avvento del M5S: “Un fatto traumatico, senza dubbio, difficile da interpretare con le categorie alle quali si è fatto abitualmente ricorso – qualunquismo, antipolitica e simili – perché siamo di fronte a una novità che non può essere risolta tutta con l’unico riferimento a una sorta di fede persino cieca nella tecnologia della comunicazione alla quale in Movimento si è votato”, osservava Rodotà.

A quell’epoca, eravamo nel 2013, i Cinquestelle non volevano essere chiamati “grillini”; non rilasciavano interviste ai giornali né tantomeno partecipavano ai talk show televisivi. E infatti, il mio coautore declinò il cortese invito di Lilli Gruber a Otto e mezzo: ne parlammo in diretta con il collega e amico Andrea Scanzi. Poi partecipai a una trasmissione di Gigi Marzullo su Rai1, con Luigi Di Maio e il sociologo Domenico De Masi.

Molta acqua è passata in questi otto anni sotto i ponti della politica italiana. I Cinquestelle sono approdati in Parlamento come il partito di maggioranza relativa; non l’hanno più “aperto come una scatoletta di tonno”; e in questa legislatura sono andati già due volte al governo, prima con la Lega e poi con il Pd, sempre sotto la guida di Giuseppe Conte. E ora si accingono a tornarvi con il “super-tecnico” Mario Draghi. Forse è ancora presto per tracciare un bilancio della loro metamorfosi politica. Ma una considerazione si può obiettivamente fare: e cioè che il “bagno istituzionale” li ha fatti crescere e maturare, sul piano del comportamento, della consapevolezza e della responsabilità, come del resto aveva giovato agli ex comunisti e agli ex o post-fascisti. L’esercizio del governo, accompagnato dalle lusinghe del potere, è una scuola che insegna a dire non solo “no”, ma costringe a scegliere e magari ad accettare qualche compromesso.

Oggi, alla vigilia della terza esperienza di governo, i Cinquestelle non sono più una forza anti-establishment. Hanno abbandonato da tempo una posizione euroscettica, determinando l’elezione di Ursula von der Lyen alla presidenza della Commissione di Bruxelles. E con il sostegno prima al governo Conte bis e poi al governo Draghi hanno abbandonato un orientamento populista. Diciamo pure che si sono integrati nel sistema, rappresentando le loro istanze di giustizia sociale, di maggiore onestà e trasparenza e soprattutto di un “ambientalismo sostenibile” – come l’ho sempre definito – che non invoca più la chimera della “decrescita felice” bensì persegue lo sviluppo e il benessere per ridurre le disuguaglianze.

Fa più ridere adesso, il M5S, perché va al governo con B. o faceva più piangere quando ha sottoscritto il “contratto” con la Lega di Matteo Salvini? Era più progressista quando s’era alleato con i nazionalisti e sovranisti oppure ora che convive da separato in casa con il partito-azienda di Forza Italia, sotto il “tetto verde” dell’esecutivo Draghi? Chi ha contrastato fin dall’inizio il berlusconismo, ancor prima che da fenomeno mediatico diventasse politico, non può avere dubbi: se è lecito esprimere un modesto parere personale, meglio i Cinquestelle dei “grillini”.

 

Tratta di organi in Afghanistan. E l’Occidente che fa? Niente

Il New York Times ci informa che a Herat, una delle città più moderne e modernizzanti dell’Afghanistan, è in atto, come un’abituale forma di profitto, la vendita di organi, soprattutto reni, strappati ai ragazzi afghani in cambio di poche migliaia di dollari (3.500 è la tariffa media).

L’Afghanistan è da sempre un Paese povero, privo di quelle risorse, come il petrolio e il gas, che fanno tanto gola agli occidentali. Ma mai nella sua storia, passata e recente, si era assistito a un tale sconcio. L’invasione sovietica del 1979, durata dieci anni, aveva ulteriormente impoverito questo Paese già povero, ma non ne aveva intaccato le strutture morali e culturali. La lotta per il potere fra i “signori della guerra” (Massud, Heckmatyar, Dostum, Ismail Khan) non aveva certo contribuito a migliorare le cose. Quando nel 1996 i talebani del Mullah Omar presero il potere il Paese sembrò trovare un periodo di tranquillità, di pace e di autosufficienza alimentare che è durato fino al 2001, anno dell’invasione occidentale in Afghanistan. Certamente col Mullah Omar un traffico di organi non sarebbe stato nemmeno pensabile. Avrebbe fatto impiccare immediatamente chi ci avesse provato, non solo perché traffici del genere sono proibiti dal Corano, ma perché sono inammissibili per qualsiasi etica, religiosa o laica che sia.

Oggi a Herat esiste un ospedale, il Loqman Hakim Hospital, che si vanta di aver operato più di mille trapianti di reni in cinque anni. Nell’ultimo capitolo del mio libro Il Mullah Omar, del 2011, intitolato “Come si distrugge un Paese”, avevo puntualmente descritto come l’operazione americana, denominata beffardamente Enduring Freedom, avesse devastato economicamente, socialmente, culturalmente, moralmente l’Afghanistan e la sua popolazione. Evidentemente dal 2011 Enduring Freedom ha fatto dei grossi passi avanti se questo traffico di organi, che è più grave del traffico di esseri umani tipo quello che c’è fra la Libia e l’Italia, si può svolgere tranquillamente sotto gli occhi di tutti senza che nessuno, a cominciare da Amnesty International e da tutte quelle organizzazioni internazionali tanto attente ai “diritti umani”, osi alzare un dito o emettere un flatus vocis.

Ma la cosa ancor più grave, almeno per noi, è che Herat è sotto il controllo italiano. Abbiamo 800 soldati là. Cosa fanno e cosa fanno i loro comandi? Cosa fa il nostro ministero degli Esteri e in particolare quello che, per il momento, è ancora il capo di quel dicastero, il cattolicissimo e pio Luigi Di Maio, a cui da tempo avevo segnalato la gravissima situazione afghana e la nostra corresponsabilità? Come mai notizie così sconcertanti, così gravi, così abominevoli le dobbiamo avere dal New York Times, che sarebbe il primo interessato a tacerle dato che l’invasione dell’Afghanistan è soprattutto di mano americana, mentre lì noi siamo solo a fare i servi sciocchi, fedeli come cani ma sleali come sempre?

Noi non abbiamo mai creduto ai Tribunali internazionali per “crimini di guerra” perché sono i tribunali dei vincitori, ma se questi Tribunali esistessero davvero io penso che i signori Bush e Obama e gli esecutori materiali di Enduring Freedom dovrebbero essere impiccati come i criminali nazisti a Norimberga.

 

Manager pubblici: serve la responsabilità penale

Chi impiega le risorse finanziarie è tenuto a dimostrare sia la conformità contabile sia la positività ed efficacia della gestione. La specifica responsabilità è definita accountability. Il termine è di pacifica assimilazione nei contesti aziendali per l’inerenza a un’ottimale conduzione d’impresa. Sull’uso di risorse pubbliche la nozione impegna gli studi degli scienziati della politica, che le riconoscono una funzione preminente per elevare la qualità della democrazia: diseguaglianza ed esclusione sociale sono favorite da normative che non le assegnano un ruolo importante per l’esercizio consapevole della funzione pubblica.

Alla sensibilità della dottrina accademica si contrappone il disinteresse delle forze politiche fatalmente incapaci di levare lo sguardo dal loro “particulare”. Probabilmente lo scarso interesse, per dir così, è stato favorito dalla preferenza, indotta dal provincialismo pubblicistico nostrano, per l’ideologia del “manager pubblico” sulla quale si è spiaggiata la concezione di uno stato moderno, capace di dare risposte adeguate e rapide ai cittadini: negli ultimi trent’anni si è assistito alla creazione di figure manageriali (o ritenute tali) alle quali si sono affidati grandi compiti senza imporre loro un minimo di accountability, anzi sfidando i fondamenti logici di questa nozione come relitti di un passato da cancellare. La responsabilizzazione degli operatori è stata sostituita dalla moltiplicazione degli adempimenti formali utili a tracciare un percorso astrattamente plausibile: la burocrazia è impegnata, per scelte politiche, ad alimentare una realtà formale alla quale spesso non corrisponde una fattuale, senza corrispondere in tempi accettabili e con adeguata ragionevolezza alle istanze dell’utenza.

Per questo il Next Generation Eu impone una vera riforma. Si tratta non già di sburocratizzare, secondo un vieto mantra, ma di fare della burocrazia un corpo efficiente e dialogante con i cittadini. In questa direzione i principi dell’accountability forniranno un aiuto prezioso, purché si tenga in debito conto che l’organizzazione pubblica non può essere equiparata ad un’impresa privata gestita con strumenti di diritto privato, come alcuni cattivi maestri continuano a insegnare.

Un’impresa privata mal gestita finisce per fallire e i suoi amministratori rischiano pesanti sanzioni penali per l’eventuale bancarotta. In diritto amministrativo si prevede solo il default degli enti locali, mentre strutture pubbliche complesse, inserite in un ministero e gestite con totale incompetenza, non saranno mai oggetto di analoga procedura e l’azione dei cosiddetti manager, in mancanza di organi terzi capaci di controllarne l’operato, rimane impunita e perfino esaltata dal preposto politico che li ha nominati.

Le rovine di queste male gestioni emergeranno magari cinque o sei anni dopo la fine dell’incarico e determineranno quasi sempre tentativi di aggiustamento e di copertura anche finanziaria (anche così il debito pubblico è cresciuto a dismisura).

È indispensabile introdurre principi seri e costituzionalmente coerenti per individuare il personale dirigenziale (oggi offuscati da arrogante lottizzazione con espansione incontrollata di nomine senza passaggio concorsuale in violazione dell’art. 97 della Costituzione) nonché appropriate metodiche di controllo: quello di legittimità da rendere in termini strettissimi (non oltre dieci giorni dalla ricezione dell’atto), quello di gestione, con una disamina scandita per stati di avanzamento dello specifico progetto e quello di efficacia o di risultato a compiuta esecuzione.

Affinché la corresponsabilizzazione insita nella nozione in esame non divenga coimputazione, i controlli vanno eseguiti da soggetti diversi: un corpo giuridico amministrativo per la legittimità (senza i tempi morti imposti oggi da una non commendevole prassi), un corpo di professionalità specifiche che operi come stanza di compensazione dei rapporti tra politica e amministrazione per gli stati di avanzamento e, per il controllo di risultato, un organismo nel quale sia presente la comunità degli utenti o comunque una rappresentanza della sussidiarietà orizzontale. La riforma della pubblica amministrazione, nel programma del nuovo governo, non potrà sicuramente sfuggire all’impegnativa problematica dell’accountability.

 

Covid-19 “Cronaca di una morte annunciata: quella di mio padre”

Avrei potuto ringraziare il presidente del Veneto, Luca Zaia, per il gesto “gentile e di vicinanza emotiva” espresso nel suo telegramma di condoglianze, inviatomi per la perdita di mio padre, deceduto con Covid, confidenzialmente da lui definito “amato” Aldo. Ma quel telegramma mi ha profondamente offeso, dopo il vissuto travagliato della sua malattia e il mio dolore per la sua perdita. A cosa servono i telegrammi alle famiglie venete dei deceduti con o per Covid, quando i servizi di cura dei vivi non vengono equamente garantiti? Affermo questo dopo l’esperienza mia, di mia sorella e di mio padre che, purtroppo, immagino molte altre persone avranno provato.

Contagiati e con sintomatologia varia (febbre, tosse, faringite, cefalea, diarrea, mialgie), siamo stati assistiti a domicilio dai medici Usca (Unità Speciali di Continuità Assistenziale). Il mio caro 93enne, inviato una prima volta al Pronto Soccorso dell’Ospedale di Treviso dove gli veniva diagnosticata una polmonite da Coronavirus, è stato dimesso con il solo consiglio di idratazione giornaliera e paracetamolo al bisogno. Sempre con febbre elevata e tosse, dopo quattro giorni è stato visto per la seconda volta in Pronto Soccorso e rimandato a domicilio, dove però continuavano i suoi episodi febbrili con brividi, tosse e saturazione di ossigeno instabile. A causa del peggioramento delle condizioni generali, veniva inviato per la terza volta al Pronto Soccorso e successivamente ricoverato nel reparto di Malattie infettive. Dopo un miglioramento, veniva trasferito nel reparto Covid dell’ospedale S. Camillo, ma al quinto giorno la situazione precipita e muore in completa solitudine (come tutti i malati Covid).

Mi sono dilungata nella descrizione del calvario subito da mio padre, la cui situazione clinica generale forse, già da subito, necessitava di maggiore attenzione. La veneranda età di un paziente non può essere l’unica giustificazione per l’attesa di dieci giorni per una terapia mirata. Alle mie domande ai medici, veniva sempre ribadita la necessità di rispettare le indicazioni generali dell’Aifa e continuare l’osservazione del malato. Mi sembrava veramente di andare contro i mulini a vento.

Secondo me, gli anziani come mio padre andrebbero curati sin dalle prime fasi e con i farmaci giusti, a casa loro, accompagnati dall’affetto dei propri cari. Ma tutto ciò non farà comunque tornare mio padre, per riabbracciarlo e dirgli ancora una volta ti voglio bene.

 

Mail box

Caro Fini, se fosse primo ministro la sosterrei

È un piacere leggere gli editoriali di Massimo Fini. Grazie anche a Marco Travaglio per avere così insistito per averlo nel team del Fatto. Con riferimento al suo commento “Rivoluzione”, nel caso si presentasse come candidato premier avrebbe di sicuro il mio sostegno e penso che saremmo in tanti.

Otello March

 

Il mio grazie alle firme del “Fatto Quotidiano”

Voglio ringraziare Tommaso Montanari per il bellissimo articolo di ieri e, con lui, Daniela Ranieri e Massimo Fini e tutto il Fatto per quella che ormai si potrebbe definire “controinformazione” visto il dilagare unanime dell’agiografia dei giornaloni nei confronti del “divino Draghi”.

Guido Moressa

 

A quando la battuta ironica al neo premier?

Quanto tempo passerà prima che qualcuno dica “A’ Draghi facce ride”?

Giancarlo Buccella

 

Renzi voleva la crisi di governo già da un anno

Seguo da frustrato l’evolversi del disfacimento del governo Conte e la creazione del Draghi. Penso che il Pio Uomo già da un anno meditava il tutto, frenato dalla pandemia. I mandanti: i soliti nomi. In ballo ci sono i 209 miliardi, ma anche il rischio che M5S e Pd si rafforzassero grazie alla popolarità di Conte.

Paolo Toniolo

 

Il Pd dimostra debolezza con questa ammucchiata

Siamo passati dall’Armir in ritirata all’armata Brancaleone. Draghi si sta rovinando la sua reputazione nel mettere assieme il Pd con un pregiudicato e uno squilibrato. Sarà ricordato per aver legittimato un incesto vomitevole. Povero Pd, mollusco senza vertebre e senza futuro.

Nonno Pietro

 

L’esecutivo precedente non piaceva ai media

Durante le ultime fasi del governo Conte, sui media era tutto un apparire di categorie che si lamentavano per i vari lockdown, ritardi nei ristori, impossibilità di andare avanti così. Oggi che c’è Draghi e non sappiamo ancora quale sarà il suo programma di governo, pare che il disagio sociale ed economico sia sparito. Com’è possibile?

Alessandro Guglielmotti

 

Conte, tanto amato quanto odiato

Secondo i sondaggi, Conte è il più popolare dei politici. Gli elettori sono molto più intelligenti di tanti “signori” della politica e dell’informazione: riconoscono a Conte di aver gestito al meglio, data la situazione, la pandemia da Covid–19. L’informazione italiana è nelle mani di padroni che tengono al guinzaglio direttori e giornalisti, i quali, tranne qualche rara, lodevole eccezione – ad esempio, voi del Fatto – appartengono alla specie dei “Franza o Spagna…”: leccapiedi buoni per ogni occasione.

Giuseppe De Bernardis

 

Con Gentiloni le peggiori politiche sui migranti

Non sono convinto che il Pd e la Lega, sul carro di Draghi, litigheranno sui temi dell’immigrazione. Mi ricordo che nel governo Gentiloni, l’allora ministro dell’Interno del Pd non brillò per politiche di sinistra sui profughi in fuga dal continente africano.

Flavio

 

Non capisco se lo spot di Sanremo sia adeguato

Su Rai1, la pubblicità del Festival di Sanremo con la faccia di Matteo Renzi: mi Chiedo se è possibile in una tv di Stato. E questo a prescindere da Matteo Renzi.

Salvatore Lolicato

 

È partita l’Operazione Simpatia.

M. Trav.

 

La riforma del Titolo V andrebbe cancellata

Visti i disastri causati dalla regionalizzazione della Sanità, non potrebbe essere il momento adatto per cancellare la riforma dell’articolo V del 1999?

Salvatore Griffo

 

Con il Pd e la Lega in maggioranza, la vedo dura.

M. Trav.

 

Ho 76 anni, il tempo mi scivola via: non li voto più
Caro Cannavò, nel 2018 ho votato il Movimento e le mie aspettative, dopo una vita condotta “con disciplina ed onore”, erano tante, ma, a questo punto, le pur pregevoli leggi realizzate grazie ai 5Stelle e da lei ricordate nel suo articolo dell’11 u.s., mi sembrano poca cosa.
Troppi compromessi, troppi arretramenti, a cominciare dalla vergognosa mancata revoca ad Atlantia (forse 42 morti non erano sufficienti), pur dopo l’emanazione della leggina ad hoc che esonerava Conte & C. dalla possibilità di essere accusati di danno erariale.
Il fatto è che, con buona pace di Travaglio, troppe volte nella mia vita mi sono turato il naso, per ritrovarmi ora in questo sfacelo d’Italia, ad alto tasso di illegalità, corrotta, iniqua e pervasa da mostruose disuguaglianze, dove “neanche si prova a spezzare quella catena di trasmissione e scarico delle responsabilità che nell’ordine (sociale) italiano, suol essere, in rapporto alla vita di colui che vi si trova inceppato, infinita” (Sciascia 1987 !).
Ho 76 anni e il tempo mi scivola via come la sabbia nel pugno; no, non li voterò più.
Natale Ghinassi

Registi minori, attori cani, le difficoltà coi vangeli e il bordello sotto casa

E per la serie “Chiudi gli occhi e apri la bocca”, eccovi i migliori programmi tv della settimana:

Hbo, streaming: Big Little Lies, serie. Reese Witherspoon, Nicole Kidman e Meryl Streep non sono vere attrici. Le attrici porno sono vere attrici. Una volta ne ho vista una che veniva scopata da un grosso alano a bordo piscina. Era in estasi. E anche l’attrice lo era. Quello è recitare. Ve l’immaginate Meryl Streep scopata da un grosso alano a bordo piscina? Non sarebbe credibile. Invece dell’orgasmo si mette a cantare gli Abba. Non sarebbe credibile. Io vorrei vedere l’alano, cantare gli Abba. Neanche lui sarebbe credibile.

Canale 5, 21.15: Il caso Mattei, film drammatico di Francesco Rosi. Anche a me piacerebbe recitare con registi importanti, ma tutte le parti che vorrei le danno a Ricky Memphis.

Rai 1, 10.15: La Santa Messa, fiction. Gesù, sedicente Figlio di Dio, comincia a predicare il suo vangelo in Galilea. Le difficoltà saranno molte.

Rai 3, 13.15: Passato e presente, documentario. Che direbbe Leonardo da Vinci di un quadro di Jackson Pollock? Che è il pavimento di una piccionaia? Paolo Mieli ne parla con Tomaso Montanari.

Netflix, streaming: The Social Network, film documentario sui problemi creati dalle piattaforme di sorveglianza. Arrivi al minuto 4’ 38”, senti la giovane doppiatrice italiana che dice “dismòrfia”, invece di “dismorfìa”, pensi a tutta la filiera della distribuzione italiana che non s’è accorta dell’errore, e ai giornalisti che hanno recensito la pellicola senza notare la topica, e alla fine capisci che quell’errore, nella sua banalità, illustra il dramma dell’attuale situazione creata dai social network con molta più forza di quanto il resto del documentario riesca a fare. Come se non bastasse, guardandolo su una piattaforma web non ortodossa, ogni venti secondi compare un annuncio pop up che dice: “Mi vuoi scopare? Giulia a 570 metri di distanza”. E dopo venti secondi eccone un altro che dice: “Mi vuoi scopare? Serena a 570 metri di distanza”. Non sono le sole: stando ai pop up, ci sono anche Luisa, Sandra, Carla. Tutte a 570 metri di distanza. Ora: o stanno tutte nella stessa casa a 570 metri da casa mia, quindi c’è un bordello nel vicinato; oppure stanno radialmente alla stessa distanza, cioè sono circondato. È un mistero che voglio risolvere. Vi terrò aggiornati.

Rai 3, 11.00: Elisir, medicina. Dopo 21 edizioni, Michele Mirabella non sa più cosa inventarsi per rendere interessante il programma. Per esempio, la puntata di questa settimana si intitola: “Esofagite cronica: si può curare coi pompini?”.

Amazon Prime Video, on demand: Mediterraneo, film-avventura. Salvatores ci vinse un Oscar. Ogni volta che se ne legge sui giornali, mi viene in mente un scenetta gustosa cui ho assistito. A Roma, ogni estate, si teneva una bellissima rassegna jazz nel parco di Villa Celimontana. Una sera c’è Gato Barbieri. Conoscevo l’organizzatore, e assisto al concerto da un tavolino privilegiato, subito dietro a quello in prima fila, dove è seduto Bernardo Bertolucci (Gato Barbieri aveva composto la colonna sonora di Ultimo Tango a Parigi). Finito il concerto, Barbieri viene a sedere accanto a Bertolucci. Dopo qualche minuto, arriva Salvatores col suo sorriso gentile a omaggiare il jazzista, saluta Bertolucci e se ne va. Barbieri chiede a Bertolucci: “Chi era?” E Bertolucci: “Un regista italiano. Uno minore”.

 

CdB, tessera numero 1 della competenza

Per fortunaCarlo De Benedetti è contento, beato lui. Diceva il nostro giovedì sera su La7: “La crisi del governo Conte è stata la Waterloo della politica e la fine di un governo a prevalenza di incompetenti”. Solo un’ombra lo rattrista: “La mia preoccupazione è che il governo Draghi duri troppo poco”, che ci “sia nei partiti la volontà di eliminare la presenza operativa di Draghi mandandolo al Quirinale”. Quanto alla persona Draghi – che Formigli ha sobriamente definito “l’Ayrton Senna” della politica ancorché dotato di una macchina di merda (l’Italia, parrebbe) – De Benedetti lo descrive così: “Lo conosco bene e da tanti anni, è un amico, lo stimo molto”, perché è un “politico raffinato, è intelligente, molto spiritoso ed è molto audace pur essendo prudente”. Soprattutto – e lo diciamo scivolando, per così dire, sull’entusiasmo di CDB – Draghi è competente. Come il suo laudatore, d’altronde: Olivetti, Sorgenia e tutti gli altri suoi successi stanno lì a dimostrarlo. E poi, finalmente, lo diciamo con soddisfazione, il povero De Benedetti potrà tornare a fare colazione a Palazzo Chigi come ai bei tempi: certo, magari una dritta come quella datagli da Matteo Renzi sulla riforma delle Popolari per decreto a questo giro non la raccatta. Draghi è “un amico”, per carità, ma a oggi non risulta che sia cretino.

il paradosso dei contrari che adesso passano per traditori

Non è vero che con l’entrata nel governo Draghi il M5S sia morto. Magari si rivelerà una genialata. Ma è vero che il Movimento delle origini è ormai putrescente. E il paradosso è che Di Battista, unico coerente, passi ora per traditore. Ci sta supportare Draghi, ma non ci sta il modo. Crimi è passato in un amen dal “mai con Draghi” al “Draghi è grillino”. Di Maio ha votato Sì perché glielo ha detto “Beppe” (che motivazione è?). E Grillo è rimasto folgorato da una telefonata di Draghi, e da un ministero al momento supercazzola, neanche avesse ricevuto la chiamata di Dio. La formulazione del quesito era poi imbarazzante. Una roba tipo: “Vuoi votare sì o preferisci essere una merda”. Come spesso capita, il M5S può avere ragione sul “cosa”, ma sbaglia tutto sul “come”. Continuo a pensare che l’unica cosa che conti sia formare un campo progressista con dentro Pd, M5S, sinistra radicale e società civile. Guidato da Conte. La Grande Ammucchiata aiuterà questo processo? Boh.

proprio come in un partito: non ci sono valori non negoziabili

A leggere il quesito con cui è stato messo al voto su Rousseau il sostegno al “governo dei migliori” si avverte un certo disagio. Come dire di no a un ministero della “transizione ecologica”, se si milita in un movimento che ha l’ambiente tra le sue stelle? I quesiti semanticamente manipolatori non sono una novità, su Rousseau. E si è visto come Grillo può ribaltare i risultati (“Fidatevi di me”, Genova, 2017). Nondimeno, 30mila iscritti su 75mila hanno detto no: perché hanno letto, sotto a quello, il quesito vero: “Volete andare al governo con B.?”. Il voto, democratico nel metodo, è oligarchico nella sostanza, e una sconfessione di sé: il movimento, come già i partiti, non ha valori non negoziabili. Dopo Salvini, il punto non è governare con Draghi (anche se è un simbolo del “sistema” inviso ai 5S); il punto è annichilire il proprio ubi consistam per stare al governo. E per fare cosa: la transizione ecologica? Come far valere i valori etici su quelli del “sistema”? In breve: Grillo non è più grillino, Di Battista ancora lo è.