Si trattava di scegliere tra due trappole, ma è meglio il sì

Pur capendo le ragioni del No, e nutrendo parecchi dubbi sul governo Draghi (qualcosa di davvero inedito: un commissariamento promosso da tutti i partiti tranne FdI) sono convinta che per il M5S non esistesse altra scelta se non il Sì. Non perché l’operazione Draghi, predisposta da Renzi ben prima di silurare Conte, sia salvifica (è una spaventosa tabula rasa). Ma perché il No estrometterebbe dal governo il M5S con zero possibilità di intervento e zero possibilità di garantire una qualche continuità dell’esperienza Conte: il quale non è affatto fallimentare come sentenziano in coro i commentatori, specie per quanto riguarda il Covid e le vaccinazioni organizzate da Arcuri. Non solo: star fuori implicherebbe la fine dell’alleanza con Pd e LeU, e la prevedibile defenestrazione di Zingaretti (altro desiderio di Renzi). Si trattava di scegliere fra due trappole impaurenti, dove il Sì è meno nocivo del No (o dell’astensione).

La coerenza, una moneta fuori corso

Fuori la coerenza, antica e tristanzuola come lo scialle della nonna e dentro il pragmatismo Prêt-à-porter che si porta su ogni gabbana nella collezione dell’allegra ammucchiata. E dunque fuori dalle scatole Alessandro Di Battista, uno fissato con la coerenza che, come diceva Oscar Wilde, è l’ultimo rifugio delle persone prive di immaginazione (per non dire peggio). Che infatti annuncia l’addio al Movimento “con un video ambientato nella cucina Ikea di casa zona Cassia tra tegami, presine fatte con l’uncinetto” (Il Messaggero). Poveraccio, che brutta fine, fornelli a gas e squallidi uncinetti invece della sala d’armi di un casale umbro tra stemmi araldici e teste di cervo impagliate, mentre nel camino scolpito a mano il sobrio fuoco crepita. Un tipo davvero strano questo “Che de’ noantri” (ah ah) visto che “nessuno ha mai capito veramente perché sia rimasto fuori dalle elezioni del 2018, rinunciando a una poltrona sicura da ministro degli Esteri” (Repubblica): e chissà cosa c’è sotto. Uno che “negli ultimi anni ha postato quasi ogni giorno una foto di sé con i figli , Dibba in famiglia, uno sfoggio che testimoniava un certo imborghesimento, una lontananza dalle durezze della battaglia politica” ( Repubblica). Foto quotidiane con pargoli e consorte: davvero un borghesuccio. E mentre gli altri capi grillini “si sono mossi eccome, esercitando una coerenza che gli va riconosciuta Alessandro Di Battista è rimasto fermo. E si è trasformato nell’ultimo panda” (Corriere della Sera).

Diciamolo, un panda un po’ cretino. Del resto, continuare a credere negli ideali giovanili, rifiutare seggi in Parlamento e poltrone ministeriali, e poi staccarsi dalle proprie radici, dai ricordi più belli (e magari provarne dolore) non ha molto senso se l’unità di misura è la coerenza. Moneta fuori corso e con cui non si mangia, soppiantata dal pragmatismo (che è come paragonare il tallero al bitcoin). “Io europeista? Sono un pragmatico”, replica Matteo Salvini a chi gli fa notare la giravolta leghista a 360 gradi. Pragmatismo: corrente filosofica/atteggiamento finalizzato a ottenere, talvolta anche in modo spregiudicato, risultati concreti. Ricordate quel motivetto? “Io sono un uomo nuovo, da un po’ di tempo ambientalista, sono progressista, al tempo stesso liberista antirazzista, e sono molto buono sono animalista, non sono più assistenzialista, son federalista”. Non vi sembra un eccellente programma di governo? Autore Giorgio Gaber. Titolo: Il Conformista (“che senza consistenza si allena a scivolare dentro il mare della maggioranza”).

Bello e bravo come una star americana

Draghi mi piace più di Conte, ha più stile e ha un volto molto cinematografico, un volto da attore americano, interessante, affascinante. In un mio film potrebbe essere quello che sta per esser assassinato, ma che poi ce la fa a divincolarsi, aiutato da una guardia del corpo come Jason Statham. Oppure, restando in politica, Giorgetti della Lega”
Dario Argento

Un governo bellissimo. Pochi tecnici, molti politici, niente estremisti, niente galli nel pollaio, moderati valorizzati ovunque (Giorgetti e Garavaglia: wow!) e alcuni ministri che hanno saputo della nomina in diretta tv (Carfagna). Poteva essere il governo di nessuno, sarà il governo di tutti!
Claudio Cerasa

Ciascuno dei leader politici sembra rivendicare una condizione magica in cui può dirsi felice “non tanto del Draghi in sé quanto del Draghi in me”
Corriere della Sera

E il giudice domandò a Conte: “Sa di complotti anti-Salvini?”

Si è parlato dello sbarco della nave Gregoretti, di come il governo Conte abbia affrontato le questioni migratorie, ma anche di un aspetto che emerge dalle chat del caso Palamara, ossia di presunti “progetti della magistratura o del Csm contro determinati assetti politici e contro Salvini”, per dirla con le parole del giudice Nunzio Sarpietro. C’è tutto questo nel verbale di interrogatorio del 28 gennaio di Giuseppe Conte. L’ex premier è stato sentito a Roma dai magistrati di Catania come persona informata sui fatti su quanto avvenuto nel luglio 2019, quando 131 migranti furono lasciati per cinque giorni a bordo della nave della Guardia Costiera Gregoretti. Una circostanza che è costata a Matteo Salvini, allora ministro dell’Interno, l’accusa di sequestro di persona. La Procura aveva chiesto il non luogo a procedere ma il giudice Nunzio Sarpietro ha voluto sentire alcuni testimoni. E tra questi Conte. Davanti a Sarpietro, al pm Andrea Bonomo, agli avvocati di parte civile e a Giulia Buongiorno (ex ministro in veste di legale di Salvini), l’ex premier spiega – come si legge nella trascrizione dell’interrogatorio – che no, “la decisione specifica dello sbarco non è una decisione” del premier.

Il giudice: “Apprezzo il suo discorso in Europa”

Il gup Sarpietro, nel corso dell’interrogatorio, sembra apprezzare l’operato del governo: sulla Gregoretti, dice, “l’Ambasciatore Massari si diede da fare in una maniera incredibile, poi c’era qualche giorno festivo in mezzo, però riuscì a portare un risultato, debbo dire, encomiabile, la nostra diplomazia tanto di cappello”. E ancora: “Un orgoglio nazionale”. In un altro passaggio Sarpietro spiega anche di aver “apprezzato il discorso che ha fatto lei (Conte, ndr) in quel Consiglio d’Europa dove ha cercato, con un discorso raffinato secondo me, di fare capire che è un problema molto grosso, che non è un problema solo Italiano o Greco o Spagnolo ma è un problema di tutti…”. Quindi la domanda a Conte: “Quando l’Europa rimane sorda al grido di aiuto che arriva dal sud, dal mar Mediterraneo, secondo lei la risposta da dare è una risposta dura, diplomatica, semidura? …?”. L’ex premier spiega: “Innanzitutto… è stato un Consiglio in cui (…) ci fu un braccio di ferro lunghissimo, addirittura fui costretto a bloccare i lavori e a minacciare il veto (…). Molti Paesi si disinteressavano completamente. Quindi ci fu la netta determinazione a richiamare l’attenzione su questo problema”.

Poi Conte ribadisce: “La decisione specifica sullo sbarco non è una decisione” del premier. Ogni ministro è competente per la propria materia. “Se parliamo del Pos, il place of safety – spiega l’ex premier – è di competenza del ministro dell’Interno. Poi siccome c’è anche il centro di coordinamento per i soccorsi in mare, c’è anche la competenza del Ministero delle Infrastrutture. Credo che ci sia uno spicchio anche di competenza, se parliamo di naviglio militare, del ministro della Difesa. Diciamo ogni singola situazione va valutata sulla base del contesto delle circostanze e se parliamo di sbarco è chiaro che chi acquisisce le informazioni, ha competenza ad assumere l’atto amministrativo, è nella condizione di valutare come, quando, se e dove deve essere assegnato il posto di sbarco e quando sbarcare”.

Sulla chat di Palamara “sa di manovre del csm?”

Per quanto riguarda la vicenda Gregoretti, continua Conte, “non avevo neppure tutti gli elementi, se non quelli che venivano fuori anche dai giornali, etc .. È una filiera, un flusso di informazioni che non veniva riportato alla Presidenza…”. “Se parliamo di indirizzo politico – ha aggiunto poi l’ex premier – (…) posso dire che anche con questo governo la linea è di perseguire i ricollocamenti Europei nel modo più efficace secondo meccanismi Europei. Tant’è che adesso stiamo lavorando (…) alla riforma del pacchetto intero sull’asilo (…) e da questo punto di vista ottenere (…) lavorare per una ricollocazione c’è stato nel primo governo e c’è nel secondo governo e mi auguro che ci sia sempre anche nel terzo, quarto, quinto governo che ci sarà, (…), di tutti i governi che seguiranno insomma”. Qui il giudice sembra sbilanciarsi: “Non voglio entrare nell’agone politico, le auguro che faccia il Conte Ter senza nessun problema, senatore non me ne abbia a male”.

A un certo punto però nel corso dell’interrogatorio irrompe il caso Palamara. Sarpietro fa riferimento alle chat del caso Palamara, “dove riporta un dialogo… tra un magistrato che si chiama Auriemma e Palamara, dove sostanzialmente Auriemma (…) dice: ‘Ma Salvini quello che sta facendo per Diciotti sostanzialmente sono tutti d’accordo con lui, sta facendo bene’ e il Palamara risponde: ‘Si, è vero, però lo dobbiamo perseguire’, per ragioni politiche, etc.”. Quindi il giudice chiede: “Lei aveva la delega fino a poco tempo fa ai servizi segreti, se è a conoscenza di (…) progetti di esponenti della magistratura o del Csm contro determinati assetti politici e contro Salvini in particolare?”. Conte è netto: “Assolutamente no, a qualsiasi livello istituzionale (…) Se qualcosa avessi saputo sarei andato prontamente a denunziarlo”.

La riunione a Chigi “Solo su questioni generali”

Al pm che invece gli chiede se vi fosse stata una riunione sulla “modalità in cui possa ritenersi legittima questa prassi della ridistribuzione”. Conte spiega: “Si è parlato di aspetti in generale, ma non si è mai parlato né si è condiviso diciamo un intervento di dettaglio che determinasse giorni, condizioni e via discorrendo…”.

Per le vaccinazioni mancano almeno 20 mila infermieri

Adesso se li litigano tutti. Se li contendono le Regioni, la sanità pubblica e quella privata, gli ospedali e le Rsa. Sì, perché di infermieri, sul mercato, non se ne trovano. Solo che servono per la campagna di vaccinazione anti-Covid e ne mancano almeno 20 mila. Stima del sindacato Fials sottoscritta dalla Fnopi, la Federazione degli ordini infermieristici. “Fino a oggi quelli in servizio sono stati sufficienti per vaccinare gli operatori sanitari e gli ospiti delle case di riposo – dice Aurelio Filippini, presidente dell’Ordine infermieri di Varese –. Ma il vero e proprio lavoro, quello sui grandi numeri, comincia adesso. E abbiamo meno di un quarto di quanto ci serve”.

In fondo, il flop del bando del Commissario all’emergenza Domenico Arcuri è dovuto anche a questo. Avrebbe dovuto reclutare, attraverso le agenzie interinali (con un contratto di nove mesi), 12 mila tra infermieri e assistenti sanitari. Finora, tra i primi, hanno risposto solo in 4.776. E tra questi sono stati molti quelli che alla fine o non sono stati proprio contattati o non hanno stipulato il contratto. Perché il bando prevede una retribuzione di 3.077 euro lordi ma al momento dell’accordo le agenzie, trattenendo la loro remunerazione, non ne hanno offerti nemmeno 2 mila.

Ogni equipe sanitaria preposta alle vaccinazioni deve essere composta da un medico e da quattro infermieri. Così ha disposto il ministero della Salute. Ed è così che il piano vaccini rischia davvero di traballare. Tanto da aver indotto il coordinatore Sanità della conferenza Stato-Regioni, Luigi Icardi (assessore alla Salute del Piemonte) a chiedere al ministro Roberto Speranza di dare il via libera alla disposizione della legge finanziaria che ha istituito un fondo per pagare le prestazioni aggiuntive 50 euro lordi all’ora. Per tentare di sopperire alla grave carenza di personale infermieristico che riguarda tutte le regioni, che devono anche recuperare le liste d’attesa.

“Arcuri non ha trovato infermieri semplicemente perché non ce ne sono”, dice il segretario nazionale della Fials, Giuseppe Carbone. Attualmente sono 395 mila quelli attivi, dei quali 270 mila alle dipendenze del Ssn. “Ora le aziende sanitarie cominciano a richiamare al lavoro quelli che sono andati in pensione”, spiegano dalla Fnopi. Il problema è che adesso, come rileva la Cgil, l’infermiere può scegliere. “Legge di mercato – osserva Giancarlo Go, della Fp-Cgil – e chi può cerca di entrare stabilmente nella pubblica amministrazione. Ma è da anni che lo ripetiamo: nel momento in cui la sanità avrebbe avuto bisogno di assumere non avrebbe trovato nessuno”. C’è poi il tema del vincolo di esclusività che li lega alla Pa: a differenza dei medici, gli infermieri non possono svolgere anche attività libero-professionale. Ma come si è arrivati a questo punto? Programmazione sbagliata, fabbisogni delle professioni sanitarie sottostimati per lungo tempo. “I corsi di laurea sono a numero chiuso e il numero dei professionisti che ogni anno possono laurearsi è indicato sulla base dell’accordo tra Miur e Conferenza Stato-Regioni – spiega Go –. Solo che poi è a discrezione delle singole università stabilire alla fine quanti formarne”.

L’Rt è tornato a salire: 0.95 Un contagio su 5 è “inglese”

Un decreto legge ponte concordato con il presidente incaricato Mario Draghi proroga al 25 febbraio il divieto di spostamento tra le Regioni “gialle”, che altrimenti sarebbe scaduto lunedì 15 e peraltro in concomitanza con la riapertura degli impianti sciistici. Il monitoraggio settimanale diffuso ieri conferma che la circolazione del virus aumenta di poco a livello nazionale: Rt, l’indice di trasmissione, passa da 0.84 a 0.95, con 1,06 come valore maggiore, ma la situazione è molto diversa a seconda delle Regioni. In sette è sopra 1 nel valore puntuale che risale comunque al 27 gennaio.

Abruzzo (Rt a 1.22), Liguria (1.08), Toscana (1.1) e provincia di Trento (1.2) da domani entrano, cioè tornano, in zona “arancione”, secondo l’ordinanza firmata ieri sera dal ministro della Salute riconfermato Roberto Speranza: divieto di uscire dai Comuni e bar e ristoranti chiusi tutto il giorno a parte l’asporto. La Puglia (1.05) è di nuovo “gialla” da giovedì perché c’era stato un errore nei dati, la Sicilia (0.66) torna gialla lunedì dopo i 15 giorni previsti. Restano invece “arancioni” l’Umbria (1.2) e Bolzano (1.25), dove le misure restrittive sono rafforzate a livello locale per la presenza massiccia delle varianti del virus. L’intera provincia di Perugia e alcuni Comuni del Ternano sono “rossi” da giorni per decisione della Regione dopo la scoperta di rilevanti focolai della mutazione inglese e di quella brasiliana; si cercano medici e infermieri con un bando straordinario. In Alto Adige c’è un semi-lockdown perché i nuovi casi degli ultimi 7 giorni fino al 10 febbraio sono 770,12 contro una media nazionale di 133,13 (stabile: erano 132,64 sette giorni prima) e nel confinante Tirolo austriaco dilaga la variante sudafricana. Mini-zone rosse sono già attive in Abruzzo tra Pescara e la provincia di Chieti, a Chiusi (Siena) che confina con l’Umbria e in altri piccoli Comuni.

Sono le varianti con la loro maggiore contagiosità, da settimane, la principale fonte di preoccupazione. Appartengono alla variante inglese VUI 202012/01, secondo uno studio dell’Istituto superiore di sanità reso in parte noto ieri, il 17,8% dei contagi in Italia, poco meno di uno su cinque. È l’esito di un’indagine lampo sui tamponi positivi del 4 e del 5 febbraio: 3.600 sottoposti al prescreening e 852 – provenienti da 16 Regioni e Province autonome, cinque non hanno partecipato – alla ricerca della specifica mutazione. La media è il risultato di significative differenze regionali, che dipendono dalla data di ingresso della variante sul territorio: si va “dallo 0/5% al 50/59%”, ha detto il professor Gianni Rezza, direttore della Prevenzione al ministero della Salute. Cioè, in alcune parti d’Italia la variante inglese, cui si attribuisce una trasmissibilità maggiore del 50%, è già prevalente: non siamo riusciti a farci spiegare quali perché i dati, dicono ministero e Iss, non sono omogenei. Ma anche la media è allarmante: l’ipotesi di partenza è che si fermasse al 5%. Sono comunque numeri, spiega l’Iss, paragonabili a quelli di altri Paesi: 20-25% in Francia, 30% in Germania. “In 5-6 settimane la variante inglese potrebbe sostituire il virus SarsCov2 ora circolante”, ha detto il presidente dell’Iss, professor Silvio Brusaferro. Cosa può voler dire l’ha chiarito il modello matematico presentato il 26 gennaio al Comitato tecnico scientifico dall’epidemiologo Stefano Merler: ipotizzava una moltiplicazione dei contagi fino a 6,6 volte in tre mesi, partendo da una prevalenza media dell’1% e non certo del 17,8%, cioè 400.000 nuovi casi al giorno contro gli attuali stimati in 60 mila (il quadruplo di quelli rilevati, secondo le stime dell’Iss e dello stesso Merler).

Brusaferro ha anche confermato il lento calo dei decessi e dei contagi tra gli operatori sanitari, quest’ultimo legato anche, ha spiegato, al “positivo impatto delle vaccinazioni”. Il monitoraggio rileva anche un lieve calo dei pazienti in terapia intensiva: da 2.214 il 2 febbraio a 2.143 il 9 (e ieri 2.095). Ma anche qui le cose cambiano a seconda delle Regioni: i posti letto occupati da malati Covid negli ultimi giorni sono aumentati in Abruzzo, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, a Bolzano, in Toscana e naturalmente in Umbria.

Una mina bancaria per l’ex Bce

Di certe cortesie istituzionali Mario Draghi avrebbe fatto a meno e forse è il motivo per cui gliele fanno. Di fatto tra una decina di giorni – caso Alitalia a parte (vedi l’articolo qui sopra) – dovrà prendere due decisioni difficili data l’eterogenea maggioranza che lo sostiene: decisioni che l’esecutivo uscente gli ha lasciato con gioia mascherandola appunto da cortesia istituzionale (è giusto che siano il nuovo governo e la nuova maggioranza a decidere).

La prima “mina”, la più ovvia, riguarderà cosa fare col divieto alla mobilità fra le Regioni che l’ultimo Consiglio dei ministri del governo Conte 2 ieri ha prorogato fino al 25 febbraio: il premier incaricato e il Colle – che lo assiste sulle cose a cui non ha ancora messo la testa (tipo la gestione dell’epidemia) – avrebbero preferito che la proroga fosse spostata al 5 di marzo, data in cui scadrà anche il sistema delle zone a colori (con relative chiusure) in base ai contagi: invece Draghi e i partiti che lo appoggiano – com’è giusto, ma come avrebbero preferito evitare – dovranno decidere entro dieci giorni se tener chiuso o aprire, non una scelta così ovvia date le posizioni eterogenee espresse finora.

L’altra grana riguarda una partita ancor più complicata, per così dire “di sistema”: l’esecutivo dovrà decidere se azionare o meno il golden power sull’offerta pubblica d’acquisto che i francesi di Crédit Agricole hanno presentato su Creval, il Credito Valtellinese. La battaglia finanziaria è in campo dall’autunno e non è un mistero che molti soci – ma non la Algebris di Davide Serra – abbiano storto il naso di fronte all’offerta (e s’intende alla sua entità) arrivata dalla sede centrale di Montrouge, vicino Parigi. Tanto più lo sono oggi, dopo la pubblicazione degli ottimi risultati del 2020. Il governo Conte sembrava orientato a lasciar risolvere la questione al mercato (cioè a non attivare il golden power) o almeno così suggeriva il Tesoro nel dossier preparato proprio in vista del Consiglio dei ministri di ieri, anticipato da Reuters lunedì: invece niente, l’esecutivo dimissionario ha deciso di lasciare la scelta al governo che verrà.

Una scelta, quella su Creval, che difficilmente vedrà tutti d’accordo: la Lega, per dire, è contrarissima alla vendita ai francesi. C’è l’allarme sulle mire d’Oltralpe lanciato dal Copasir (il comitato parlamentare di controllo sui servizi) presieduto dal leghista Raffaele Volpi e parole cristalline sul punto di Giulio Centemero: “Per Creval il percorso che il governo avrebbe dovuto facilitare sarebbe dovuto essere di carattere domestico perché quella che da molti è considerata una banchetta, in realtà è la banca italiana coi coefficienti di capitale più alti e una buona qualità del credito”. Insomma, “Crédit Agricole fa il suo lavoro, il governo no”. Ora dovrà solo convincere Draghi ad azionare il golden power.

Alitalia è vicina al collasso: in 10 mila appesi a Draghi

La circostanza è casuale nella sua drammaticità, ma avrà il pregio di fare chiarezza sulla narrazione che accompagna il governo Draghi in tema di sussidi alle imprese. La prima sfida dell’ex Bce sarà infatti il disastro occupazionale della Alitalia, simbolo dell’inutilità degli aiuti a pioggia se servono ogni volta a garantire ruberie ed errori privati. La compagnia è molto vicina al tracollo definitivo. L’amministrazione straordinaria – che dura da aprile 2017 (governo Gentiloni, ministro Carlo Calenda) – potrebbe non essere in grado di pagare gli stipendi a fine mese. Servono 20 milioni subito, nonostante 7 mila dipendenti su 10 mila siano in Cassa integrazione – e altri 50 a breve per far fronte alle spese indifferibili. Anche così, però, non ne avrà per molto.

Giovedì il commissario Giuseppe Leogrande ha scritto una lettera allarmata ai dipendenti: “La difficoltà estrema che stiamo affrontando – vi si legge – è sostanzialmente riconducibile al minore indennizzo sinora autorizzato (272 milioni di euro anziché i 350 previsti dal citato decreto) e ai tempi che si sono rivelati necessari per l’avvio degli adempimenti cui Ita è tenuta per legge, tuttora in corso”. Leogrande non dice se pagherà gli stipendi, ma se la prende con il governo e i vertici della nuova compagnia (“Ita”) che dovrebbe nascere dalle ceneri di quella vecchia.

La situazione è drammatica. A fine 2019 il governo ha fornito al commissario 400 milioni come ulteriore prestito-ponte (dopo i 900 messi da Calenda nel 2017) per tenere Alitalia in piedi e venderla via gara. Il Covid e il tracollo del settore hanno archiviato lo scenario. A maggio il governo ha deciso che Alitalia sarebbe risorta con una nuova società, Ita, a cui ha destinato 3 miliardi di euro. Subito però ha messo a bilancio altri 350 milioni per ristorare la compagnia dai mancati ricavi dovuti alla pandemia. L’Antitrust Ue, guidato da Margrethe Vestager, ne ha però autorizzati solo 270 milioni, mancano le tranche di novembre e dicembre, 77 milioni appunto (notificati questa settimana). Ieri da Bruxelles è stato fatto filtrare che l’Antitrust potrebbe autorizzarne solo una minima parte (20 milioni) perché ha deciso di valutare rotta per rotta i ricavi storici per vedere se davvero le perdite sono legate al calo di traffico attuale. Non solo. Contrarietà sarebbe stata espressa anche verso gli ulteriori 200 milioni che il governo si apprestava a dare a Leogrande per poter gestire la nuova gara.

I ministri Stefano Patuanelli (Sviluppo) e Paola De Micheli (Trasporti) speravano infatti di poter chiudere la partita semplicemente trasferendo gli asset necessari dalla vecchia alla nuova compagnia controllata dal Tesoro. Vestager ha bloccato il tentativo chiedendo una “vera discontinuità”, cioè una gara aperta a tutti e per singoli comparti (aviation, manutenzione, servizi di terra). Il Mise sembra essersi arreso, ma una nuova gara richiede 4-5 mesi e Alitalia brucia 50 milioni al mese. Per questo servivano i 200 milioni, ma non sembra aria. L’Antitrust ha aperto un’indagine sugli aiuti stanziati finora, circa 1,3 miliardi. Alitalia non è stata ristrutturata né ceduta e non ha restituito nemmeno i 150 milioni di interessi maturati dallo Stato sui prestiti. Se Bruxelles mantiene questa linea, Leogrande metterà gli aerei a terra.

L’alternativa è che trasferisca tutti gli asset al Tesoro per ripagarlo dei debiti e il ministero li girerebbe poi a Ita. Una linea finora esclusa dal ministero dello Sviluppo, ma formalizzata in un emendamento al decreto Milleproroghe alla Camera a firma Stefano Fassina (LeU). La fretta con cui il governo ha messo in piedi la newco è oggi quasi un problema, visto che la crisi del settore rende anti-economico partire adesso. I vertici di Ita hanno provato a guadagnare tempo, il piano industriale, fumoso, è stato ritardato. Ma ormai di tempo non sembra essercene più. La palla passa a Draghi.

“Così vigiliamo sui fondi Ue” “No, il M5S tradisce se stesso”

Il controverso voto su Rousseau con cui gli iscritti del Movimento hanno dato il via libera al governo Draghi ha suscitato reazioni contrastanti tra i nostri lettori, che ci hanno inviato centinaia di lettere ed email per farci sapere la loro posizione. Due, grossomodo, gli schieramenti: chi ritiene che il M5S abbia tradito la sua anima e, dall’altra parte, chi ritiene che andare al governo sia l’unico modo per difendere alcune battaglie del Movimento, a prescindere dalla compagnia. Ecco alcuni dei pareri dei nostri lettori.

Dignità Serve una prova

Dopo tutto quello che il Movimento ha dovuto sopportare e ingoiare prima con le Lega e poi con il Pd, tenuto conto di ciò che Conte è riuscito a ottenere con grande determinazione, il M5S dovrebbe lasciare tutto nelle grinfie di chi ha dissipato e rubato tutto negli ultimi decenni? No. Il Movimento 5 Stelle, con la dignità che si è guadagnato, deve entrare nel governo e dar prova che negli anni è riuscito a cambiare la politica. Questo è più che mai il momento di esserci.

Outing ho scelto in base al realismo politico

Faccio outing: sono parte di quei 6 iscritti al M5S su 10 che hanno votato Sì alla fiducia al governo Draghi. Non perché mi sia bevuto la supercazzola di Grillo sul superministero alla Transizione ecologica, ma per quello che una volta si definiva realismo politico. Non avremo mai il 51% per governare da soli. Quindi o si governa accettando compromessi o si sta perennemente all’opposizione abbaiando alla luna.

Ex elettore In tanti oggi si sentono traditi

Ho votato spesso M5S, oggi mi sento un po’ tradito e penso che come me siano tanti altri. Non è poco il 40% di contrari alla fiducia. Ho paura che il Movimento nel quale ho tanto creduto non avrà vita lunga, purtroppo. Peccato. “Io sono solo un povero cadetto di Guascogna, però non la sopporto la gente che non sogna”.

Via libera È bene esserci per togliere alibi agli altri

Perché tutto questo sconforto se il M5S sostiene il governo Draghi, la cui ammucchiata sarebbe comunque un voltastomaco? Dimostrandosi “maturi e responsabili”, tolgono un alibi a chi, strumentalmente, li ha sempre definiti incapaci e infantili.

Suicidio Plateale harakiri: un insulto a noi stessi

Sono una grillina dell’ultimo anno. Ho sempre simpatizzato col M5S e a gennaio ho deciso di iscrivermi. Ho votato No alla fiducia, No all’ammucchiata e a un governo con B., l’Innominabile, il Cazzaro e compagnia bella. Sono sconvolta che Di Maio, Grillo e Conte ci abbiano pregato di dire Sì. Per me è un insulto all’essenza stessa del Movimento. Con questo voto abbiamo fatto harakiri in maniera plateale.

Con B. Ho visto svanire un sogno a cui ho creduto

C’era una volta un sogno, il cambiamento che tanto speravo, le mille battaglie. Dopo il voto su Rousseau vedo questo sogno svanire, un M5S che perde la propria anima sedendosi al governo con Berlusconi. Dentro di me mi chiedo perché Grillo e la base abbiano disatteso così le nostre aspettative. Forse il Fatto sarà l’unica opposizione al governo Draghi. Anzi, tolgo il “forse”.

Controllo Bisogna evitare che spariscano gli aiuti Ue

In attesa di vedere Mario Draghi camminare sulle acque, è un bene che i 5 Stelle entrino nel suo governo per evitare che i soliti noti facciano sparire i 209 miliardi dell’Unione europea.

Deluso non sono un ultrà, non rinnovo la tessera

Non sono come quei tifosi che, pur sapendo che la propria squadra vende le partite, fanno la tessera ugualmente. Io il mio voto ai 5 Stelle lo butto nel cestino.

Di Battista, per i big 5S l’addio è un arrivederci

E pensare che il ministro della Transizione ecologica, o qualcosa di molto simile, poteva, essere proprio lui. Il descamisado che si è appena “fatto da parte”, ed è comunque diverso da un addio, definitivo. “Se avessimo varato il Conte ter, Alessandro Di Battista sarebbe stato il ministro all’Ambiente, era praticamente certo” confermano un paio di big il giorno dopo il sì a Mario Draghi, cioè dopo il voto su Rousseau che ha spinto Di Battista a salutare tutti: chissà fino a quando. “È stata una bellissima storia d’amore, ma d’ora in poi non parlerò più a nome del M5S” ha spiegato giovedì sera in un video. Sillabe che evocavano i titoli di coda.

Eppure la parola fine non l’ha calata, l’ex deputato. Invece ha voluto precisarlo: “Se poi un domani la mia strada dovesse incrociarsi di nuovo con quella del M5S, vedremo. Dipenderà da idee politiche, atteggiamenti e prese di posizioni”. A leggerlo oggi, è uno spiraglio. Tra qualche tempo, potrebbe essere di più.Nell’attesa, ieri i big del Movimento si sono messi in fila per teorizzare che in fondo è solo un arrivederci, mica un addio. Partendo con Nicola Morra: “Ci rivedremo”. Continuando con Stefano Buffagni: “Penso che il Movimento abbia ancora molto bisogno di lui”. Per arrivare a Luigi Di Maio: “Alessandro ha fatto una scelta che rispetto, ma spero e credo che non sarà un addio”. Dichiarazioni fatte anche per motivi diplomatici, certo, perché il Di Battista che ha detto no rappresenta quel 40 per cento di Movimento che si è rifiutato di accettare un governo Draghi. E magari anche un pezzo di quello che ha scelto di deglutirlo, per responsabilità e paura di guai. Quindi, bisogna tenerlo buono.

Anche per prevenire un’eventuale scissione, che l’ex deputato non ha mai voluto provocare e figurarsi capeggiare. Ma con 10-15 parlamentari pronti a votare no al governo Draghi, ai piani alti vogliono cautelarsi. Però c’è anche altro. Cioè la voglia di tutelare l’ultima carta, il grillino che si è tenuto fuori dai vari governi con dentro il M5S.

Immacolato, e se sia soprattutto un merito o una colpa è tema da disputa teologica. Di sicuro potrebbe essere la risorsa a cui aggrapparsi, se l’esecutivo guidato dal banchiere ex nemico durasse pochino. L’uomo da cui ripartire per evitare che l’ex utopia chiamata Movimento evapori tra patti di governo e ragion di Stato. Anche per questo, ieri tanti 5Stelle di vario ordine e grado hanno chiamato Di Battista. Un segnale chiaro, all’ex deputato che da mesi era tornato in rapporti stretti con tutti i big, in primis Di Maio. “Gli avevano chiesto di aiutarli a ripensare il futuro del Movimento, di ragionare su iniziative per rilanciarlo” spiega una fonte molto qualificata. Partecipava a riunioni, diceva la sua. Avrebbe voluto salvare Giuseppe Conte, tanto da essere pronto anche a sdoganare i Responsabili. Poi è andata com’è andata. Ieri mattina, troupe e cronisti cercavano Di Battista vicino casa sua, in un quartiere residenziale di Roma Nord. E lui non si è sottratto: “Se Draghi dovesse fare delle cose buone, io le sosterrò. A me interessa la classe media, sono molto preoccupato per tutto ciò che è piccolo: imprese, Comuni, le opere”. E il M5S? “Non ho nessun tipo di rancore”. Non vuole lasciarsi alle spalle macerie, Di Battista.

Ieri Davide Casaleggio, il patron della piattaforma Rousseau che è un avversario per tutti i maggiorenti, lo ha elogiato: “Alessandro è fondamentale per il Movimento, e ieri ha ribadito la sua onestà intellettuale”. E l’ex deputato lo ha ringraziato pubblicamente. Ma di più non farà. Almeno non con lui o con il M5S. Almeno non ora.