Credit Suisse, “lavati” 100 mld

Dal palazzo acquistato a Londra dal Vaticano, che nell’investimento ha perso 120 milioni, ai dittatori africani sino a finanzieri in odore di ‘ndrangheta: non c’è pace per il Credit Suisse. La seconda banca svizzera, che il 16 gennaio ha visto il presidente António Horta-Osório dimettersi per aver violato due volte la quarantena usando il jet della banca, già sotto processo a Bellinzona per riciclaggio di 140 milioni in contanti derivati dai traffici di cocaina di ‘ndrangheta e mafia bulgara dal 2004 al 2008, ora è nel mirino di “Suisse Secrets”, un’inchiesta coordinata dal quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung e dal consorzio di giornalismo investigativo Organized Crime and Corruption Reporting Project (Occrp), alla quale per l’Italia hanno partecipato La Stampa e IrpiMedia insieme a 163 giornalisti di 48 testate in 39 Paesi. L’indagine è sorta da una fuga di informazioni: sono emersi 18mila conti gestiti sino alla fine degli anni Dieci, per depositi totali superiori a 100 miliardi di dollari, relativi a 37mila clienti, sia persone fisiche che aziende, connessi con riciclaggio, corruzione, violazioni dei diritti umani.

Tra i personaggi coinvolti c’è Alaa Mubarak, figlio del deposto dittatore egiziano Hosni, che in Credit Suisse aveva oltre 200 milioni di franchi, Khaled Nazzar, capo della giunta militare algerina durante la guerra civile degli anni Novanta, accusato di crimini di guerra, alti funzionari venezuelani che sotto Chavez e Maduro hanno razziato le risorse del Paese. Ci sono anche 700 italiani, quasi tutti residenti o domiciliati all’estero e con interessi nel petrolio, nelle miniere o nel gaming in Asia.

Spicca il finanziere Antonio Velardo, sospettato di riciclaggio per conto della ‘ndrangheta (e poi assolto), titolare di sei conti sui quali ha depositato fino a 4 milioni. Velardo, 44enne con cittadinanza tunisina e frequentazioni ai Caraibi, era stato accusato di riciclaggio e complicità con la malavita organizzata nelle inchieste Metropolis e Black Money. Con un ex ufficiale dell’Esercito repubblicano irlandese (Ira), Henry Fitzimons, aveva partecipato alla costruzione di 450 appartamenti nel “Gioiello del Mare”, un villaggio turistico sulla Costa dei Gelsomini a Brancaleone (Reggio Calabria), ora fatiscente. Secondo il quotidiano Le Monde l’inchiesta dimostra che “a dispetto delle regole di vigilanza, la banca zurighese ha ospitato fondi legati alla criminalità e corruzione per diversi decenni”. L’istituto svizzero “nega fermamente” di essere coinvolto in attività criminali e sostiene che l’inchiesta “è basata su informazioni parziali, inaccurate o selettive che, estrapolate dal contesto, danno adito a interpretazioni tendenziose. Credit Suisse ha adottato le misure adeguate, in linea con direttive e requisiti regolamentari applicabili nei periodi in questione e di aver già preso i provvedimenti necessari”.

Gucci&C.: pure la n. 1 di YSL assunta col “trucco” svizzero

È “la donna da 1 miliardo di dollari”, come l’ha celebrata Le Monde, la manager che ha rilanciato Yves Saint Laurent. Da quando François-Henri Pinault l’ha scelta come amministratrice delegata, il marchio icona dell’alta moda francese ha quadruplicato il fatturato e moltiplicato per dieci volte i profitti. Per questo Francesca Bellettini, 51 anni, da Cesena – esperienze precedenti in Goldman Sachs, Deutsche Bank, Prada – è diventata una sorta di oracolo a Parigi. Nel luglio del 2019 è stata nominata presidente della Chambre syndicale de la mode féminine, l’ente che regola i calendari delle sfilate. Sei mesi più tardi ha ricevuto dal sindaco della Capitale il titolo di Cavaliere della legione d’onore: “Sei diventata il simbolo della parisienne”, le ha detto Anne Hidalgo consegnandole la medaglia.

Dal punto di vista fiscale, però, Bellettini ha tardato parecchio a diventare parigina. Quando ha preso il comando del marchio francese, la top manager italiana è stata infatti assunta da una società svizzera di Kering, la holding del lusso che fa capo a Pinault. Risultato: il gruppo ha evitato di pagarle i contributi in Francia, dove ha sede Yves Saint Laurent. Li ha versati invece in Svizzera, spendendo molto meno. Secondo le informazioni raccolte da Mediapart e condivise con Il Fatto Quotidiano e il consorzio di giornalismo investigativo Eic (European Investigative Collaborations), negli anni la stessa strategia è stata applicata su almeno una trentina di dirigenti del gruppo.

Come abbiamo raccontato nei giorni scorsi, Kering dal 2010 al 2017 ha evitato di pagare tasse in Italia per 1,5 miliardi di euro. Lo ha fatto spostando i profitti di borse, cinture e gioielli firmate Gucci in Svizzera, sul bilancio della società Lgi. Lo stesso schema è stato usato con Yves Saint Laurent e Balenciaga in Francia. Da qui è nata la necessità di assumere manager con contratto svizzero: per dare a Lgi i numeri di una società pienamente operativa, era necessario che avesse anche dei costi, non solo le entrate derivanti dalle vendite di prodotti nel mondo. Per questo intorno al 2010 Kering decide di trasferire top manager del gruppo in Svizzera, presso la Lgs. Il nome è molto simile all’altra scatola elvetica, e anche l’indirizzo in Canton Ticino è lo stesso. “Una società senza una sede effettiva di lavoro. Non ricordo avesse un management dedicato, né ho mai avuto referenti”: così l’ha descritta Cristiano Bortolotti, senior tax manager di Kering, davanti alla Guardia di Finanza. Lgs non fa altro che assumere personale in carico a Gucci e Bottega Veneta, pagarlo e poi rifatturare il costo a Lgi. Il castello di carte permette a Kering di risparmiare parecchio sugli stipendi. Secondo le statistiche ufficiali, nella Confederazione i contributi sociali rappresentano infatti il 20,5% dello stipendio, mentre in Italia valgono il 31,2%.

Un’email interna al gruppo Kering, datata 22 marzo 2013, fotografa la situazione del momento. C’è l’elenco di nove dirigenti italiani sotto contratto con la svizzera Lgs. Sono tutti manager oggi operativi, con incarichi importanti. Tra loro c’è anche Bellettini, che al momento lavorava in Bottega Veneta come responsabile del merchandising sotto l’allora numero uno Marco Bizzarri, oggi gran capo di Gucci. Dove ha versato le tasse fino al 2013 la top manager italiana? Alle domande di Eic, non ha risposto. Di sicuro, quattro mesi dopo quella email, nel luglio 2013, viene promossa ad di Yves Saint Laurent. Da Bottega Veneta al marchio simbolo della moda francese: “Un salto alla Sara Simeoni”, lo ricordano ancora gli addetti ai lavori. Bellettini si trasferisce a Parigi, ma mantiene il suo contratto di lavoro svizzero con Lgs. Ufficialmente viene distaccata temporaneamente in Francia. Nello stesso anno François Hollande introduce la tassa del 75% su chi ha un reddito annuo superiore a 1 milione. Nel settore risorse umane di Kering si cerca un modo per schivare il colpo. Il 26 giugno 2014 Florence Daudé, responsabile dell’ufficio paghe del gruppo, scrive a Belen Essioux-Trujillo, capa delle risorse umane, a proposito degli effetti dell’imposta sullo stipendio di Bellettini. “Si tratta necessariamente di somme sostanziali”, spiega, la tassa del 75% aumenterà il costo di Francesca “per SL (Yves Saint Laurent, ndr)Kering di circa 400mila euro”, “ma potrebbe esserci un modo per rivedere il flusso di rifatturazione per evitarlo”.

Non è chiaro alla fine che cosa sia stato deciso per ridurre l’impatto della super tassa (poi cancellata). Contattate, né Bellettini né Florence Daudé hanno risposto. Kering non ha voluto chiarire quando è terminato il contratto svizzero di Bellettini, limitandosi ad affermare che la manager è stata distaccata “durante il periodo legale” in Francia, dove è residente fiscale dal 2013. Di certo, grazie ai contratti svizzeri applicati a lei e ai manager del gruppo, Kering ha evitato di pagare i contributi sociali in Francia e Italia, risparmiando parecchio. Un altro affare a sei zeri per Pinault.

Exor-Fisco, troppi silenzi: lo sconto può superare i 3 mld

Iprotagonisti della vicenda tacciono. Ma se la ritrosia dei privati è comprensibile, lo è molto meno per il governo e le autorità fiscali italiani, che dovrebbero rendere note le cifre complete del contenzioso fiscale con Exor e l’ex accomandita Giovanni Agnelli. È un dovere di trasparenza verso milioni di contribuenti, spesso inseguiti dal fisco con cartelle stellari, specie se legata ad aziende che hanno beneficiato di fondi pubblici per decenni. Le cifre contestate dal fisco, infatti, potrebbero essere state molto più alte di quelle a cui si è chiusa la vertenza. Stando ai bilanci, potrebbero sfiorare i 4 miliardi solo per la holding presieduta da John Elkann, che controlla l’impero ex Fiat; molto di più, quindi, dei 750 milioni versati.

Per capire la vicenda serve un passo indietro. Come noto, venerdì, mentre il governo stanziava per decreto nuovi incentivi miliardari al settore auto – di cui beneficerà per larga parte Stellantis, dove è confluita Fiat-Chrysler – Exor comunicava di aver “concordato con l’Agenzia delle Entrate una complessa questione fiscale” legata al trasferimento della sede in Olanda, pagando 746 milioni (di cui 104 di interessi). Stessa cosa è avvenuta per la vecchia accomandita di famiglia, la scatola con cui gli Elkann/Agnelli controllano Exor, che ha pagato 203 milioni (28 di interessi). In totale, quasi un miliardo all’Erario.

La vicenda risale al 2016, quando Exor viene spostata nei Paesi Bassi con una fusione per incorporazione nella sua controllata olandese Exor Holding Nv. Anche l’accomandita si fa olandese, divenendo la Giovanni Agnelli BV. È un procedimento sostanzialmente uguale a quello con cui nel 2014 Fiat ha spostato la sede legale nei Paesi Bassi (quella fiscale è a Londra) al momento di fondersi con Chrysler dando vita al gruppo Fca.

E veniamo al problema. In entrambi i casi, i colossi hanno assai sottostimato il valore della “exit tax”, la tassa da pagare per chi sposta attività all’estero senza lasciare una stabile organizzazione in Italia e realizzando così una plusvalenza. Per la vicenda Fca, il Fisco chiese 1,3 miliardi e, dopo un contenzioso, nel 2019, Fca ha pagato 730 milioni, quindi con uno sconto del 50% senza interessi e sanzioni.

Nei giorni scorsi il Fatto ha sollevato il sospetto che per la vicenda Exor&C. lo sconto applicato dal fisco possa essere stato più alto (il solo patrimonio netto del gruppo è aumentato di 5,4 miliardi tra 2016 e 2017). I dubbi sono alimentati dai troppi silenzi. L’Agenzia delle Entrate guidata da Ernesto Maria Ruffini non ha commentato, le informazioni sono arrivate solo da Exor, che ha gestito tempi e modi: in una scarna nota ha spiegato venerdì di aver pagato pur “restando convinta di aver operato secondo le regole”. Secondo la holding, infatti, il 95% delle plusvalenze ottenute con il trasferimento in Olanda sono esenti da exit tax grazie a una norma nota come Partecipation exemption (Pex). Norma che l’Agenzia avrebbe stravolto con un “Principio giuridico” pubblicato a maggio 2021. Per l’Agenzia, invece, quel principio non faceva altro che ribadire una circolare del 2006, ancora in vigore.

Perché Exor decide di pagare oltre 700 milioni se ritiene di aver ragione? L’ipotesi è che rischiasse di pagare molto di più. Un’indicazione può arrivare dai bilanci. Nel 2016, anno del trasferimento in Olanda, Exor stimava di dover pagare 170 milioni di euro per la exit tax. Stima che viene aggiornata a 216 milioni nel 2017, al momento di pagare. Il pagamento effettivo è stato più basso, 145 milioni, perché Exor ha compensato la spesa con alcuni crediti fiscali per perdite pregresse. Se la holding riteneva che la plusvalenza fosse esente per il 95%, allora quei 200 milioni si riferiscono solo al 5%. Se così fosse, cioè se avesse ragione l’Agenzia, il conto totale del dovuto sarebbe stato vicino ai 4 miliardi, oltre 3 in più di quanto pagato dalla holding degli Agnelli. Se lo stesso ragionamento venisse esteso alla Giovanni Agnelli Bv, si supererebbero i 5 miliardi.

Il Fatto ha sottoposto a Exor il calcolo, chiedendo di smentirne l’entità e di fornire la cifra esatta della contestazione iniziale dell’Agenzia, quantomeno se fosse superiore ai 3 miliardi. La holding non ha voluto smentire né rispondere nel merito, rimandando semplicemente all’“unica cifra” del comunicato di venerdì, ribadendo che “Il Principio di Diritto emanato nel maggio del 2021 ha oggettivamente cambiato il quadro interpretativo della materia (applicazione della PEX per la determinazione della Exit Tax di una holding); che a tale proposito l’Agenzia delle Entrate non ha infatti comminato alcuna sanzione; e che l’accordo per Exor non costituisce accettazione – né tantomeno condivisione, neppure parziale – delle tesi sostenute a posteriori dall’Agenzia”. Dal canto suo, l’Agenzia fa sapere che non commenta mai vertenze fiscali. Il governo tace (il 20 gennaio Draghi ha incontrato Elkann a Palazzo Chigi).

Insomma, milioni di contribuenti non sapranno mai se vengono trattati meglio o peggio degli eredi Agnelli.

Caterpillar, da Imr l’ok a subentrare. Stop licenziamenti

Lo spiraglio per salvare la Caterpillar di Jesi passa attraverso la Imr, società partecipata dalla Cassa Depositi e Prestiti pronta a rilevare lo stabilimento e riassumere tutti i 189 lavoratori. Al tavolo di ieri al ministero c’è stato un accordo di massima. Caterpillar ha però acconsentito a rimandare i licenziamenti – annunciati mesi fa e che sarebbero scattati domani – solo di 15 giorni, mentre l’operazione richiederà verosimilmente alcuni mesi. “Quando abbiamo deciso di convocare il tavolo Caterpillar – ha detto la viceministro dello Sviluppo economico Alessandra Todde – ci eravamo posti come obiettivo quello di sospendere i licenziamenti e riportare la produzione industriale in Italia; questo di oggi è un primo passo importante”. “I prossimi quindici giorni – spiega la Uilm – dovranno servire ad approfondire il piano industriale e a verificare la solidità del progetto. Le cocenti delusioni degli ultimi anni in tema di reindustrializzazioni ci invitano alla massima prudenza”.

Mail Box

Ecco perché Mani Pulite era inevitabile

La fine della prima Repubblica era scritta nei conti dello Stato prima ancora che nelle sentenze. Il rapporto debito/Pil nel 1970 era al 37,1%; l’anno dopo è salito al 47,7%, mentre nel 1980 era già al 60%; nel 1983, col governo Spadolini, si sale al 70%; nell’87, con Craxi, al 92%; ne l’92 va al 118%. Il tutto, mentre la lira era in coma e lo Stato in bancarotta. Il Centro Einaudi stimò che dal 1980 in poi, ogni anno tra i 15 e i 25 miliardi della spesa pubblica finivano in tangenti. Il pool di Milano si limitò a redigere il certificato di morte, insomma.

Carmelo Sant’Angelo

 

Ormai il governo Draghi è arrivato agli sgoccioli

E per fortuna che i peones della politica volevano Mario Draghi al Quirinale! Ora capisco il perché: volevano togliersi dalle scatole il Supremo. Lo dimostra il fatto che alla Camera il governo è finito ben quattro volte sotto sul milleproroghe; la maggioranza non c’è più e il premier li minaccia, correndo poi a piangere da Mattarella. Del “governo dei migliori” se ne parla già al passato, e ora Draghi dovrà decidere se andare avanti o no, col rischio di raccogliere solo i cocci dalla sua maggioranza: altro che governo di tutti! Ora si accettano scommesse: questo governo è agli sgoccioli? L’aria che tira sembra questa.

Massimo Testa

 

Chiesa, soltanto “Il Fatto” fa inchieste sugli abusi

Complimenti per l’articolo di Marco Grasso e Maddalena Oliva sugli abusi della Chiesa. Mi auguro che un giorno il mio giornale preferito avrà i mezzi per poter fare indagini simili su fatti accaduti in Italia prima della Bbc, e che sarà poi la Bbc a menzionare gli articoli del Fatto.

Claudio Trevisan

 

Il Cazzaro verde colpisce ancora sulla “fine-vita”

I due emendamenti sulla cosiddetta “Fine vita”, presentati da Lega e Fratelli d’Italia che di fatto avrebbero affossato il ddl presentato alla Camera, sono stati fortunatamente cassati. Hanno votato contro 5 Stelle, Pd e Leu. Salvini, al solito, l’ha fatta fuori dal vaso, usando la solita frase a effetto: “Io la penso come il Santo Padre. Sono per la vita e la Lega oggi in Parlamento si comporterà di conseguenza e voterà per la vita”. Cioè, nella logica salviniana, chi vuole una legge che regoli il fine-vita è per la morte! Evidentemente il prode padano non si rende conto di quanto è ridicolo. Dice di essere d’accordo con il Papa, ma mi piacerebbe che lo fosse anche sulla questione dell’immigrazione. Anche coloro che fuggono dalla fame e dalle guerre sono esseri umani, e le loro sono vite da salvare. Quindi per Salvini la vita delle persone non ha lo stesso valore: gli ammalati gravi senza speranza, che non vogliono più soffrire, sono le vite da tutelare sempre; mentre gli immigrati che rischiano di morire scappando da situazioni drammatiche, non sono vite da proteggere. Per cui Salvini merita un nome biblico che è emblema della doppia morale: fariseo.

Anilo Castellarin

 

Referendum: Amato è un Azzeccagarbugli

Negli ultimi giorni mi sono venuti in mente i capponi di Renzo, quelli destinati a ottenergli la benevolenza del dottor Azzeccagarbugli e che durante il tragitto, appesi a testa in giù, si beccavano tra loro. La scena si presta molto bene a esprimere quanto accaduto di recente con la dichiarazione di inammissibilità dei referendum proposti dalla Coscioni e dagli specifici comitati referendari. Il nomignolo di colui che godrà dei nuovi capponi è simile a quello del personaggio manzoniano, dottor Sottile, le cui dichiarazioni hanno cercato di gettare ogni colpa sui proponenti, incapaci a suoi dire di scrivere i quesiti. Desidero esprimere tutta la mia riconoscenza all’associazione Coscioni, di cui ora ho l’onore di far parte, e ai comitati referendari, per l’impegno, la competenza, la chiarezza e la costante condivisione del loro operato. Preciso poi che è quesiti, peraltro conseguenti alla natura abrogativa dei referendum in Italia, non sono stati scritti dal capitan Cocoricò ma formulati con la costante consulenza di un pool giuridico comprensivo di illustri costituzionalisti. Ed esprimo tutta la mia riconoscenza ai firmatari e ai volontari che, dedicando la propria estate alla raccolta e alla spiegazione del quesito, hanno reso possibile un vero e temibile miracolo di partecipazione democratica. E concludo dicendo che senza capponi di Renzo, simboli di ossequio servile al potere, non ci sarebbero neanche gli Azzeccagarbugli.

Gloria Bardi

Morti sul lavoro. “Il silenzio complice e il tradimento dei giovani precari”

Buongiorno, sono una mamma lavoratrice, abito in provincia di Treviso. Ho deciso di scrivervi perché la tragica notizia della morte di un ragazzino di 16 anni durante uno stage in alternanza scuola-lavoro mi ha colpito come un pugno allo stomaco. Non è accettabile che i ragazzini muoiano in questo modo, non è davvero una cosa che si può accettare né capire. Non è ammissibile che in Italia i morti sul lavoro (1.404 nel 2021, 4 al giorno) siano una costante della cronaca e non è davvero possibile che nessuno alzi la testa per dire che è ora di finirla. Non è un Paese normale quello in cui i lavoratori, anche giovanissimi, devono rischiare infortuni o addirittura la vita sul lavoro, un Paese in cui il precariato è diventato la regola, un Paese in cui i giovani lavoratori non godono di diritti né di prospettive.

Ho due figli, di 6 e 14 anni, e cosa possiamo lasciare a loro noi adulti? Che mondo lasciamo? Come tanti genitori, io e mio marito crediamo nel valore enorme della scuola, della cultura; con grandi sacrifici tante famiglie italiane offrono ai loro figli la possibilità di studiare, cercando di trasmettere l’importanza di un’istruzione… e poi cosa succede? Se va bene i nostri laureati andranno a fare i camerieri o i lavoratori stagionali o le commesse nei centri commerciali, solo per fare esempi. Naturalmente non c’è nulla di male in questi lavori, anzi, l’importante è che vengano scelti consapevolmente e retribuiti equamente. Tutti i lavori onesti sono dignitosi è utili, ma è evidente che per molti giovani si tratta solo di un ripiego per poter sopravvivere. Ci lamentiamo che tanti giovani vanno all’estero, ma quali prospettive hanno in Italia? Questo precariato, questa mancanza di diritti, questa scarsa o assenza di sicurezza sul posto di lavoro tolgono ai giovani la speranza di poter costruirsi un futuro. Con le paghe che ci sono mediamente non possono nemmeno trovare una casa in affitto (anche per un semplice affitto viene richiesto un contratto di lavoro a tempo indeterminato e precise garanzie), e poi ci sorprendiamo se in Italia si assiste a un calo demografico pauroso? E tutti questi trentenni, quarantenni e cinquantenni precari che in questi anni vengono aiutati economicamente dai genitori anziani, che tipo di pensione avranno? Quando questi anziani e il loro risparmio non ci saranno più, di che cosa vivranno?

Ma davvero la cosa che sento più grave è questo stillicidio di infortuni e morti sul lavoro, e sul silenzio di noi italiani che mi pare sembriamo indifferenti a tutto. Piuttosto che litigare tra noi per il vaccino anti-Covid, dovremmo unirci tutti e dire un grande basta a chi non fa niente per la sicurezza dei lavoratori. Sembra che al centro di tutti gli interessi siano sempre e solo le imprese e sempre meno viene fatto per i semplici lavoratori.

Elisa Paludetto

Variante Omicron, bugie e pressioni

La notizia, in un Paese normale, sarebbe stata un boato. Invece è apparsa solo per qualche ora e poi si è dissolta. “Angelique Coetzee, la ricercatrice che per prima ha scoperto la variante Omicron del Covid-19, ha dichiarato, nel corso di un’intervista al quotidiano australiano Daily Telegraph, di aver subito pressioni da parte delle potenze europee e della comunità internazionale di scienziati dopo aver affermato che la nuova variante era di bassa gravità”. Le probabilità che ciò che ha affermato siano vere sono molte. Innanzitutto il Sudafrica non avrebbe avuto nessun vantaggio a sottovalutare la gravità della nuova variante. Probabilmente avrebbe persino ricevuto più aiuti e più vaccini.

Le sue dichiarazioni, poi, andavano contro quelle allarmistiche partite a poche ore dall’annuncio dell’isolamento del virus. Non dimentichiamoci quello che è accaduto a novembre scorso. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen aveva affermato: “Prendiamo questa variante Omicron molto seriamente e sappiamo che è una corsa contro il tempo. Perché? Perché non sappiamo tutto di questa variante, ma è una variante molto preoccupante”. Concludeva rinnovando l’invito ai cittadini a vaccinarsi, a proteggersi e a mantenere il distanziamento. Non poteva non mancare la dichiarazione dell’Oms che ha impiegato due mesi (forse più) per informarci della pandemia scoppiata in Cina e solo qualche ora per una variante sconosciuta. La conseguenza di queste “infondate” allarmistiche affermazioni si sono tradotte immediatamente in un crollo delle Borse e in ulteriori provvedimenti restrittivi, cioè ancora danno economico, sociale e psicologico. Mentre noi esperti (non tutti, i gufi resteranno gufi anche molto dopo la pandemia!) invitavamo alla calma, dichiarando che non avevamo sufficienti conoscenze per esprimere giudizi su Omicron, si continuava a usarla come strumento di terrore. Ci congratuliamo quindi con la cara collega Angelique Coetzee, ma adesso dovrebbe rivelare chi ha fatto quelle pressioni, con nomi e cognomi.

 

direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

Il filobus chiamato desiderio, la pipì e il padre tabagista

Filobus. “A Modena negli anni Settanta c’erano ancora i filobus, quelli collegati ai fili elettrici. C’erano quattro sui vent’anni, studenti, che dovevano andare in un posto in periferia dove c’era un picchetto. Essendo l’epoca degli espropri proletari, in pieno centro sono saliti sul filobus e hanno urlato all’autista: ‘Esproprio proletario! Portaci a Modena est’, l’autista gli ha risposto: ‘An’s’ pol menga. Al g’ha i fil’. Loro gli hanno detto: ‘Non ce ne frega un cazzo se non si può. È un esproprio proletario. Portaci a Modena est!’. L’autista gli ha di nuovo detto: ‘An’ g’ ariva menga a Modena est’. ‘Non ce ne frega un cazzo se non ci va. Portaci a Modena est’. Allora l’autista, che doveva essere uno calmo, ha preso uno di questi studenti a braccetto, l’ha portato dietro il filobus e gli ha detto: ‘Li vedi i fili?. ‘Sì’. ‘Non ci vanno fino a Modena est. È meglio che espropriate un taxi’”.

Fumare. Il padre che dopo la tubercolosi fumava soltanto due pacchetti al giorno col filtro invece che tre senza filtro.

Legale. Quella volta che una sua amica gli regalò una maglietta nera con stampata sul davanti una spirale bianca e dentro la spirale la scritta “Kein Mensch ist illegal”. “Io poi, che non so il tedesco, un po’ a naso mi ero tradotto ’sta frase come ‘ogni uomo è illegale’ messaggio che mi aveva subito appassionato e che trovavo pieno di intelligenza”. Poi andò a pranzo da un’altra sua amica prof di tedesco che gli disse che non voleva dire che tutti gli uomini sono illegali ma che nessun uomo è illegale, “cioè che tutti gli uomini sono legali, messaggio che immediatamente mi sembrava di un’idiozia completa da dire di una cosa viva”.

Pipì-1. “Fino a dodici anni ho fatto la pipì a letto. Poi il mio medico, il dottor Biolchini, ha consigliato ai miei di mettere un’asse di legno sotto il materasso e ho smesso”.

Pipì-2. “Io magari sto in giro per tre ore, e posso bere e non bere in queste tre ore, e comunque magari sono stato in giro da qualche parte per tre ore e per tre ore vai tranquillo, e eccetera eccetera, e tutto è naturale e va via liscio, poi arrivi a cento metri da casa e di colpo inizia a scapparti da pisciare, prima pochino, poi di passo in passo sempre di più, e entri dentro il palazzone in una situazione già difficilissima, ma se stavi in giro senza passare da casa per un’altra mezz’ora avresti passeggiato tranquillo per un’altra mezz’ora, senza stimolo, poi appena arrivavi vicino a casa di nuovo iniziava a scapparti sempre di più, e di passo in passo di più, ma ti scappa in un modo tale che le due o tre volte peggiori mentre ero da solo in ascensore iniziavo già a sbottonare o a tirar giù la cerniera, sperando che l’ascensore facesse in fretta, e mentre infilavo le chiavi nella toppa della porta, delle volte, non essendo io circonciso, con la mano mi tenevo chiusa la pelle del prepuzio e volavo in bagno senza neanche avere il tempo di chiudere la porta di casa e la porta del bagno; poi finalmente pisciavo, e appena pisciato me lo sentivo subito sulla faccia che dopo aver pisciato avevo quella stessa faccia, con quella sensazione soddisfatta”.

Sconti. A sei, sette anni accompagnava il padre in tipografia per stampare dei manifesti del partito socialista: “Il tipo che trattava con mio padre gli chiedeva ‘Quanti te ne faccio?’. Allora mio padre gli chiedeva ‘Dipende a quanto me li metti’. ‘Dipende da quanti ne vuoi, se ne vuoi 50 te li metto a 100 lire l’uno, se ne vuoi 100 te li metto a 80 lire, se ne vuoi 500 te li metto a 50 lire l’uno’. ‘E se ne voglio 3.000?’. ‘Te li metto a 20 lire l’uno’. ‘Allora facciamo così’ diceva mio padre ‘stampane fino a quando non costano più niente l’uno’. Poi si mettevano a ridere”.

Notizie tratte da Ugo Cornia, “La vita in ordine alfabetico”, La nave di Teseo, pag. 187, 16 euro

 

Così gli Agnelli hanno potuto far passare solo la loro versione

Accettereste, in un processo penale, che a comunicare la sentenza e poi le sue motivazioni non fossero i giudici, ma l’imputato? Non stupitevi, ma è accaduto così nei giorni scorsi: quando Exor ha spiegato, al “colto pubblico e all’inclita guarnigione”, il perché di un versamento al fisco di quasi un miliardo di euro. Pagati per chiudere un contenzioso (sorto un anno fa, su iniziativa dell’Agenzia delle Entrate) legato al trasferimento nel 2016 e in Olanda, della finanziaria della famiglia Agnelli: che allora controllava Fca e che oggi è azionista della francese Stellantis.

Così, nel completo silenzio del fisco italiano, la società guidata da John Elkann ha avuto modo di raccontare l’intera vicenda ad usum Delphini: e cioè nel modo più vantaggioso per la propria immagine. Ribadendo che “resta convinta di aver operato secondo le regole”, mentre il pagamento sarebbe avvenuto solo “al fine di evitare tempi e costi di un rilevante contenzioso fiscale”, senza che ciò comporti o possa essere interpretato “come un’accettazione – né tantomeno una condivisione, neppure parziale – delle tesi sostenute a posteriori dall’Agenzia delle Entrate”.

Un capolavoro comunicativo per gli eredi Agnelli e un totale fiasco invece per l’Agenzia delle Entrate che ha volontariamente rinunciato al proprio ruolo di unica autorità autorizzata a certificare, comunicandolo a tutti, quale fosse il reale valore delle somme dovute e i criteri con i quali è stata calcolata e poi accettata la transazione miliardaria: la seconda, per entità, nei 21 anni di storia della nostra struttura fiscale centralizzata.

Un riserbo colpevole e all’apparenza inspiegabile che ha consentito, a chi era dalla parte del torto fiscale, di accreditare la versione a sé più favorevole e soprattutto, come direbbero i giuristi, “inaudita altera parte”. Una versione subito rilanciata, con la consueta disponibilità verso la dinastia subalpina, dalla maggior parte dell’informazione italiana: soprattutto da quella “di famiglia”. Sino al punto di sostenere che sarebbe stato proprio il fisco italiano il più salvaguardato dall’accordo, poiché “l’Agenzia delle Entrate non era certissima che quell’interpretazione (sugli obblighi del 2016) fosse l’unica possibile”.

Come dire: quanto sono buoni gli Agnelli, pagano anche quando forse non dovrebbero. I quali Agnelli, a loro volta, si sono ben guardati dal ringraziare il nostro fisco per i suoi provvidenziali silenzi. Ma, come avrebbe detto Jean Paul Sartre, “ogni parola ha conseguenze, il silenzio anche”.

Mosca e Kiev, una battuta ci seppellirà

Nella premiata linea di arredamento Cremlino, dopo il lettone di Putin, furoreggia il tavolone di Putin, con l’ospite di turno fatto accomodare lontano un chilometro. Per simboleggiare l’immensa distanza tra l’autocrate padrone dei destini del mondo e i premier-fantoccio delle democrazie alla canna del gas, costretti a omaggiarlo dopo sfibranti anticamere (Macron, Scholz e forse prossimamente anche Draghi, e sarebbe una gara di ego niente male). Nella stagione televisiva del non so nulla ma discetto su tutto, dopo la virologia “secondo me” furoreggiano gli opinionisti Foreign Office. Che interpellati sulla imminente invasione russa dell’Ucraina trattano la materia con la stessa sicumera con cui disegnano gli scenari del Calenda day (che, come il birillo rosso del bar centrale di Foligno, si considera l’ombelico del pianeta). A parte Lucio Caracciolo e gli esperti dell’Istituto Affari Internazionali, che studiano la politica estera da una vita, nei talk si susseguono sussiegose rimasticature (mal digerite) degli articoli usciti il giorno prima. E ci litigano pure. Mentre sono i protagonisti a buttarla sul cazzeggio, a riprova che non esiste nulla di più tragicamente ridicolo della guerra. Dall’uomo di Kiev, Zelenski, che si aggira per le trincee in tuta mimetica e borraccia come in una gita fuori porta: non a caso un comico prestato alla politica e, purtroppo, non restituito. Allo zar Vladimir, a cui dobbiamo la migliore battuta quando dopo i ripetuti annunci americani che l’invasione sarebbe scattata mercoledì scorso, chiede con quel sorriso di traverso in stile Kgb “Gli Usa hanno detto a che ora inizia la guerra?”. Di un umorismo involontario invece non difetta Fabio Fazio (che infatti nasce imitatore) quando è stato sentito domandare al direttore del Foglio, Claudio Cerasa se mai accadrà che un giorno le guerre spariranno dalla faccia della terra, “come è accaduto con il cannibalismo”. Lo sventurato rispose.